4.

«Davvero io ce n’ho da raccontare. Non sarei del popolo, io, dicono. Non so se me l’hanno detto gli altri o se sono stata io a conservarmelo nel cuore, ma mi sembra d’aver sentito che la mia mamma, Raìsa Komaròv, era moglie di un ministro russo che si nascondeva nella Mongolia bianca, il compagno Komaròv. Ma questo Komaròv, pare, non era mio padre e nemmeno mio parente. Be’, si capisce, io sono una ragazza ignorante, sono cresciuta orfana, senza padre, né madre. A voi, forse, quello che dico sembrerà ridicolo, ma io dico quello che so, bisogna mettersi nella mia situazione.

«Sì, e così tutto questo che vi racconterò è successo oltre Krushicy, all’altro capo della Siberia, di là della regione dei cosacchi, vicino al confine con la Cina. Quando noi, cioè i nostri rossi cominciarono ad avvicinarsi alla loro capitale, la capitale dei bianchi, quello stesso Komaròv, che era ministro, imbarcò la mamma e tutta la famiglia in un treno speciale riservato e ordinò di portarla via, perché la mamma era spaventata e senza di lui non osava fare un passo.

«Ma di me non sapeva niente, Komaròv. Non sapeva nemmeno che io ero al mondo. La mamma mi aveva messo al mondo segretamente e moriva dalla paura che qualcuno gli andasse a dire qualcosa. Lui non poteva soffrire che ci fossero bambini e gridava e pestava i piedi, diceva che fanno solo sporcizia in casa e confusione. ‘Io,’ gridava, ‘non li posso sopportare!’

«E così, dunque, quando cominciarono ad avvicinarsi i rossi, la mamma mandò a chiamare una certa guardiana Marfa del casello di Nagòrnaja, che si trovava a tre tratte da quella città. Adesso vi spiego. Prima c’è la stazione di Nizovaja, poi il casello Nagòrnaja, poi il valico Samsònovskij. Adesso io mi domando, come faceva la mamma a conoscere quella guardiana? Credo che Marfa andasse a vendere in città la verdura e il latte. Sì.

«Ed ecco, adesso vi spiego. Si capisce che qui c’è qualcosa che io non so. Penso che la mamma sia stata imbrogliata, che qualcosa non le sia stato detto. Devono averle raccontato chissà che cosa, dicendole che sarebbe stato per due giorni, provvisoriamente, intanto che le cose si sistemavano. Certo che lei non mi voleva consegnare ad altre mani per sempre. Darmi da educare agli altri per sempre. La mamma non avrebbe mai potuto abbandonare così la sua creatura.

«Bene, si capisce, è il solito trucco che si fa ai bambini: adesso vai dalla zia, ti darà il biscotto, la zia è buona, non devi aver paura della zia. Ma come ho pianto poi, che angoscia avevo nel mio cuore di bambina, meglio non ricordare queste cose. Volevo impiccarmi, per poco non sono impazzita, ancora bambina. Ero ancora piccola, infatti. Certo che avevano dato dei soldi, alla zia Marfa, per il mio mantenimento, molti soldi.

«La casa della ferrovia, dove noi si abitava, era ricca: una mucca e un cavallo e, si capisce, galline e oche; terra, quanta ne volevi per l’orto, e, s’intende, un alloggio gratis, il casello presso i binari. Quando risaliva su dalle parti nostre il treno ce la faceva appena, superava a stento la salita, mentre quando veniva via da voialtri, dalla Russia, rotolava giù allegro, doveva frenare. In autunno, quando il bosco si diradava, si vedeva in basso la stazione di Nagòrnaja come su un piattino.

«Lo zio Vasilij io lo chiamavo ‘tata’, alla maniera contadina. Era un brav’uomo e allegro, solo troppo fiducioso e quand’era ubriaco faceva un tale baccano, strillava tanto che tutta la città lo sentiva. Raccontava tutto al primo venuto.

«Ma la guardiana non sono mai riuscita a chiamarla mamma. Io non potevo dimenticare la mia vera mamma; forse era per questo, o forse perché quella zia Marfa mi faceva tanto paura. Sì. E dunque io le dicevo sempre zia.

«Bene, e così passò il tempo. Passarono gli anni. Quanti, non ricordo. Io avevo già imparato a correre al treno con la bandierina in mano. Un’altra cosa che facevo era staccare il cavallo e accudire alla mucca. La zia Marfa mi aveva insegnato anche a filare. E, quanto all’isbà, non se ne parla. Spazzare, rassettare o cucinare, fare la pasta, per me era uno scherzo, tutte cose che sapevo fare. Sì, e ho dimenticato di dire che curavo anche Pèten’ka. Il nostro Pèten’ka aveva le gambette che non lo reggevano, aveva tre anni ma non poteva camminare. Ed ecco, son passati tanti anni, ma mi vengono ancora i brividi a ricordare come la zia Marfa guardava le mie gambe sane, come a dire, perché non ce l’ha come Pèten’ka, perché non le ha lei così malate e Pèten’ka invece sane, come se avesse in mente che io avevo rovinato Pèten’ka col malocchio, pensate un po’ che cattiveria e che ignoranza c’è al mondo.

«Adesso sentite, perché, come si dice, queste sono ancora rose e fiori. Resterete sbalorditi a sentire il seguito.

«Allora c’era la Nep, allora mille rubli valevano una copeca. Vasilij Afanàs’evich vendette la mucca e ne ricavò due sacchi di soldi. Si chiamavano “kerenki”, no, scusate, ‘limoni’, si chiamavano ‘limoni’. Ci fece su una bevuta e andò a raccontare per tutta Nagòrnaja della ricchezza che aveva.

«Mi ricordo che era una giornata d’autunno, ventosa. Il vento strappava il tetto e buttava a terra, le locomotive non prendevano la salita perché il vento soffiava contrario. Ed ecco che vedo venire verso la nostra casa una vecchia pellegrina, il vento le scompigliava la gonna e lo scialle.

«Arrivò a casa nostra e gemeva, si teneva la pancia, chiedeva di entrare. La mettemmo sulla panca: ‘Oh,’ gridava, ‘non ne posso più, la pancia mi brucia, sento che devo morire.’ E chiese che, per amor di Cristo, la portassimo all’ospedale, che lei pagava, non badava ai soldi. Lo zio attaccò Udalòj, il cavallo, mise la vecchia sopra il carro e la portò all’ospedale, che distava da noi, dalla linea, un quindici “verste”.

«C’eravamo già messi a letto noi con la zia Marfa, non ricordo da quanto tempo, quando sentimmo Udalòj che nitrisce sotto la finestra e il carro che entra nel cortile. Era troppo presto, però. La zia Marfa attizzò il fuoco, si buttò addosso la blusa, e, senza aspettare che lo zio bussasse alla porta, va a levare il catenaccio.

«Leva il catenaccio, ma sulla soglia non c’è per niente lo zio, c’è un omaccio sconosciuto, nero e terribile, che dice: ‘Fammi vedere dove sono i soldi della mucca. Io ho ammazzato il tuo uomo nel bosco, avrò compassione di te che sei donna, se mi dici dove sono i soldi. Ma, se non me lo dici, lo sai da te quello che ti capita, inutile chiedere pietà. Poche storie con me. Non ho tempo da perdere.’

«Oh, poveri noi, cari compagni, cosa sentimmo allora, mettetevi nei nostri panni! Tremavamo, più morte che vive, senza più voce dalla paura, che spavento! Prima cosa, quello aveva ammazzato Vasilij Afanàs’evich, lo aveva detto lui stesso d’averlo scannato con l’ascia. E il secondo guaio era che ci trovavamo sole col bandito al casello, in casa un bandito, era chiaro che era un brigante.

«A questo punto si vede che la zia Marfa perse a un tratto il lume della ragione, le si spezzò il cuore per suo marito. Invece bisognava farsi forza, non bisognava far vedere d’aver paura.

«Prima gli si buttò ai piedi. ‘Abbi pietà,’ dice, ‘non rovinarci, io non ne so niente, non ho mai sentito parlare dei soldi che dici tu, è la prima volta che lo sento dire.’ Ma forse che era così ingenuo lui, quel maledetto, da accontentarsi delle parole? E a un tratto le salta in mente un’idea per imbrogliarlo. ‘Va bene,’ dice, ‘sia come dici tu. L’incasso è sotto il pavimento. Io ti aprirò la botola e tu scendi.’ Ma lui, quel diavolo, fiuta subito l’imbroglio. ‘No,’ dice, ‘per te, padrona, è più facile. Scendi tu,’ le dice. ‘Vai sotto il pavimento o arrampicati sul tetto, per me fa lo stesso, purché abbia i soldi. Solo,’ le dice, ‘ricordati di non far la furba con me, gli scherzi con me vanno a finir male.’

«E lei gli fa: ‘Il Signore sia con te, cos’hai da dubitare? Ci andrei io stessa, ma non ce la faccio. E’ meglio che io ti faccia luce dal primo scalino. Non devi aver paura, per tua garanzia farò scendere insieme a te mia figlia, dunque è come se scendessi io.’

«Oh, cari compagni, potete pensare come mi sono sentita! Bene, ho pensato, è la fine. Mi si annebbiò la vista, le gambe non mi reggevano, stavo per cadere.

«Ma quel criminale, mica era scemo, ci fissa con un occhio solo, li socchiude tutti e due e sogghigna con le labbra di sbieco come a dire: vuoi farmela, eh, ma ci vuol altro. Aveva visto che lei non aveva compassione di me, dunque non ero parente, ero sangue estraneo, e così prende Pèten’ka per un braccio, con l’altra mano afferra l’anello, apre la botola, e dice: ‘Fammi luce,’ e giù con Pèten’ka per la scaletta sotto terra.

«Io penso che alla zia Marfa già allora le avesse dato di volta il cervello, perché non capiva nulla, come se fosse ammattita. Appena quello scompare con Pèten’ka sotto il pavimento, lei rimette subito la botola, sì, insomma il coperchio nella bocca della botola, chiude a chiave il lucchetto e ci trascina sopra un baule pesantissimo. E mi faceva cenno: aiutami, su, da sola non ci riesco, è pesante. Appena il baule fu messo sopra, quella stupida ci si sedette tutta contenta. Ma si era appena seduta, che da sotto il brigante si mise a urlare e a battere contro il pavimento, come a dire: meglio che tu mi faccia uscire con le buone, se no la faccio finita col tuo Pèten’ka. Le parole attraverso le grosse assi non si sentivano ma il senso era questo. Lui urlava con un vocione peggio di un lupo, da far paura. ‘Sì,’ gridava, ‘ora la faccio finita col tuo Pèten’ka!’ E lei non capiva nulla. Stava lì seduta, rideva, mi ammiccava. Fa’ quel che ti pare, pareva dicesse, intanto io sono sopra il baule e le chiavi ce le ho io. E io a darmi da fare con la zia Marfa. Le gridavo nelle orecchie, la spingevo via dal baule, volevo farla ruzzolare giù. Bisognava aprire la botola, salvare Pèten’ka. Ma che potevo fare? Potevo farcela con quella lì?

«E lui continuava a battere contro il pavimento, batteva e intanto il tempo passava, e lei, sempre seduta sul baule, girava gli occhi, non sentiva nulla.

«Oh, compagni miei, compagni miei, per quanto ne abbia viste e passate tante nella mia vita, non mi ricordo una cosa altrettanto terribile, vivessi un secolo, risentirei sempre la vocina di Pèten’ka, quando cominciò a gridare e a lamentarsi sotto terra, povera anima, perché quello, maledetto, lo stava ammazzando.

«Che devo fare, che devo fare adesso, pensavo, che devo fare con questa vecchia mezza matta e questo brigante assassino? E intanto passava il tempo. Avevo appena pensato questo, che sento Udalòj nitrire sotto la finestra; infatti era sempre rimasto attaccato al carro. Sì, Udalòj nitriva come se volesse dirmi: ‘su, Tanja, corriamo presto dalla buona gente, chiediamo aiuto.’ Mi guardo in giro e vedo che era vicina l’alba. Facciamo così, penso, bravo Udalòj, m’hai dato una buona idea, hai ragione tu, presto, corriamo. E avevo appena pensato così, quando, ecco là, mi sembrò di sentire di nuovo qualcuno che mi diceva ‘aspetta, non affrettarti, Tanja, accomoderemo la cosa in un altro modo.’ Ancora una volta non ero sola nel bosco. Come se un gallo avesse cantato con la sua voce familiare, da giù, la locomotiva che conoscevo bene mi fece sentire il suo fischio. Lo conoscevo bene quel fischio, perché quella locomotiva stava sempre sotto pressione a Nagòrnaja, si chiamava locomotiva di spinta, per spingere i treni merci sulla salita, e ora era in manovra, perché ogni notte a quell’ora passava quel treno misto. E così, dunque, sentii la locomotiva di mia conoscenza che mi chiamava. La sentii e il cuore mi fece un balzo. Possibile, pensai, che io sia diventata matta come la zia Marfa, che ogni creatura viva, ogni macchina che non ha la parola adesso mi parli chiaro chiaro in russo?

«Ma altro che stare a pensare, il treno era già vicino, non c’era tempo di pensare. Afferrai la lanterna, perché ancora non s’era fatta luce, e giù a correre, come una pazza, sui binari, proprio in mezzo, stavo in mezzo ai binari e agitavo la lanterna avanti e indietro.

«Bene, che altro? Fermai il treno, meno male che c’era il vento e andava piano piano, quasi a passo d’uomo. Fermai il treno, il macchinista che conoscevo si affacciò al finestrino, mi domandò qualcosa, ma io non sentivo che cosa domandava, perché c’era il vento. Io gridavo al macchinista che c’era un assalto al casello ferroviario, un assassinio, una rapina, un brigante in casa. Difendeteci, compagno ziuccio, presto, aiutateci. E intanto che dicevo questo, dalle tradotte saltavano giù uno dopo l’altro i soldati rossi. Era un treno militare, sì, i soldati saltarono giù e domandarono: ‘Di che si tratta?’ e si meravigliavano, che storia era quella di fermare di notte, in mezzo al bosco, un treno in piena salita.

«E così seppero tutto, tirarono fuori il brigante dalla cantina, e quello gemeva con una vocetta sottile, più sottile di quella di Pèten’ka: ‘Fatemi grazia,’ diceva, ‘buona gente, non ammazzatemi, non lo farò più.’ Lo trascinarono sulle rotaie, gli legarono le braccia e le gambe alle rotaie e gli passarono sopra col treno: giustizia sommaria.

«A casa non ci tornai più, nemmeno per prendere la mia roba, tanto mi faceva paura. Chiesi: ‘Prendetemi sul vostro treno, ziucci.’ E loro mi presero sul treno, mi portarono via. Io poi, dico sul serio, ho girato mezzo mondo, all’estero e qui, insieme ai “besprizòrnye”. Dove mai non sono stata! E così ho conosciuto la libertà, la felicità, dopo la mia triste infanzia! Anche ogni sorta di disgrazie e di brutture, è vero. Ma tutto questo è stato dopo e lo racconterò un’altra volta. Allora, un impiegato delle ferrovie scese dal treno e si recò al nostro casello, a prendere in consegna la proprietà della ferrovia e a dare disposizioni sul conto della zia Marfa, per sistemarla. Dicono che poi sia morta pazza in un manicomio. Altri invece hanno detto che guarì, che si riprese.»

Finito il racconto, Gordon e Dudorov passeggiarono a lungo e in silenzio per il prato. Poi arrivò l’autocarro e dalla strada svoltò sul prato in modo maldestro, pesantemente. Cominciarono a caricare le casse. Gordon allora disse:

«Hai capito chi è la lavandaia Tanja?»

«Oh, certo.»

«Evgràf si prenderà cura di lei.» Poi, dopo una pausa, soggiunse: «E’ successo più volte nella storia. Quello che era stato concepito in modo nobile e alto, è diventato rozza materia. Così la Grecia è divenuta Roma, così l’illuminismo russo è diventato la rivoluzione russa. Se pensi all’espressione di Blok: ‘Noi, i figli degli anni terribili della Russia’, vedrai subito la differenza fra quell’epoca e la nostra. Quando Blok diceva questo, bisognava intenderlo in senso metaforico, figurato. I figli allora non erano i figli, ma le creature, il fiore, l’“intelligèncija”; e i terrori non erano terribili, ma provvidenziali, apocalittici, il che è un’altra cosa. Ma adesso tutto quel che era traslato s’è fatto letterale: i figli sono veramente i figli, e i terrori sono terribili, ecco la differenza.»

Il dottor Zivago
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