10.
Nel suo delirio poco prima aveva rimproverato il cielo di non ascoltarlo e il cielo in tutta la sua ampiezza si era chinato sul suo letto: due grandi braccia femminili, bianche fino alle spalle, si protendevano verso di lui. Gli si annebbiò la vista dalla gioia e, come si cade in deliquio, precipitò in un mare di beatitudine.
Tutta la vita aveva fatto qualcosa: era stato ininterrottamente occupato, aveva lavorato in casa, curato, pensato, studiato, prodotto. Com’era bello smettere di agire, affaticarsi, pensare di lasciare per un po’ questa fatica alla natura, farsi cosa, proposito, prodotto nelle sue clementi, incantevoli mani, prodighe di bellezza!
Jurij Andrèevich sì ristabiliva rapidamente. Lo nutriva e lo curava Lara, con la sua grazia di bianco cigno, con il mormorio morbido e caldo delle sue domande e delle sue risposte.
Le loro conversazioni a bassa voce, perfino le più inconsistenti, erano colme di significato, come i dialoghi di Platone.
Anche più dell’affinità delle loro anime, li univa l’abisso che li divideva dal resto del mondo. Tutti e due provavano la stessa avversione per quanto è fatalmente tipico dell’uomo d’oggi, per la sua artificiosa esaltazione, per la sua enfasi chiassosa, per quella mortificante inerzia della fantasia che innumerevoli lavoratori dell’arte e della scienza si preoccupano di alimentare, perché la genialità resti un’eccezione.
Il loro era un grande amore. Ma tutti amano senza accorgersi della straordinarietà del loro sentimento. Per loro invece, e in questo erano una rarità, gli istanti in cui, come un alito d’eternità, nella loro condannata esistenza umana sopravveniva il fremito della passione, costituivano momenti di rivelazione e di un nuovo approfondimento di se stessi e della vita.