3.
«Grazie. Faccio da solo,» disse Jurij Andrèevich, rifiutando l’aiuto che gli offrivano. Si sporgevano, gli tendevano le mani per farlo salire. Puntando le braccia saltò su nel vagone, si rimise in piedi e abbracciò la moglie.
«Finalmente. Grazie a Dio, tutto è finito bene,» continuava a ripetere Antonina Aleksàndrovna. «Del resto lo sapevamo già ch’era andata per il meglio.»
«Come, lo sapevate già?»
«Ce l’avevano detto.»
«E chi?»
«Le sentinelle. Altrimenti, come avremmo potuto resistere in quell’incertezza? Anche così, il papà e io quasi impazzivamo. Eccolo, guarda, dorme d’un sonno di piombo. E’ crollato come un masso per l’emozione. Ci sono nuovi passeggeri. Te ne farò conoscere qualcuno. Ma prima sta’ a sentire cosa dicono in giro. Tutto il vagone si congratula con te, perché te la sei cavata felicemente. Eccolo qui!» disse a un tratto cambiando tono. Voltò la testa e, al disopra della spalla, presentò il marito a uno dei nuovi passeggeri, che stava dietro, in fondo al vagone, stretto fra gli altri.
«Samdevjatov,» si udì da quella parte. Sull’assembramento di teste si levò un cappello floscio e colui che si era presentato cominciò a farsi largo in mezzo al mucchio di corpi che lo premevano, dirigendosi verso il dottore.
«Samdevjatov,» rifletteva intanto Jurij Andrèevich. «M’immaginavo un personaggio della vecchia Russia, da “bylina”50, un barbone folto, “poddévka”51, un cinturone. E, invece, è un tipo da circolo artistico, riccioli canuti, baffi, pizzo a punta.»
«E così, vi ha fatto paura Strèl’nikov? Dite la verità.»
«No, perché? Abbiamo parlato seriamente. In ogni caso è un uomo forte, notevole.»
«E come no! Ho le mie idee su di lui. Non è di qui, dei nostri posti. E’ vostro, moscovita. Come, del resto, anche le novità degli ultimi tempi sono vostre, d’importazione. Col nostro cervello non ci saremmo arrivati.»
«Jùrochka, questo è Anfìm Efìmovich, uno che sa tutto ed è stato dappertutto, ha sentito parlare di te, di tuo padre, conosce mio nonno, tutti, tutti. Fate conoscenza.» E come casualmente, in tono inespressivo, Antonina Aleksàndrovna domandò:
«Forse conoscete anche la professoressa Antipov.» Al che Samdevjatov rispose, in modo altrettanto indifferente:
«Come mai mi chiedete della Antipov?»
Jurij Andrèevich si limitò ad ascoltare, senza intromettersi.
Antonina Aleksàndrovna riprese:
«Anfìm Efìmovich è un bolscevico, sta’ attento, Jùrochka. Tieni gli occhi aperti.»
«No, davvero? Non l’avrei mai pensato. All’aspetto, ha piuttosto l’aria di un artista.»
«Mio padre possedeva una locanda. Aveva sette troiche in giro. Io invece ho avuto un’istruzione superiore e, a dir la verità, sono socialdemocratico.»
«Senti, Jùrochka, che cosa dice Anfìm Efìmovich. Fra l’altro, sia detto senza offesa, avete un nome che sembra uno scioglilingua. E tu, Jùrochka, senti che ti devo dire. Meglio di così non poteva andare. Jurjatin non vuol saperne del nostro treno. In città ci sono incendi e il ponte è saltato, non si può passare. Faranno deviare il treno su un’altra linea, proprio quella che va bene per noi, sulla quale si trova Torfjanaja. Pensa un po’! Così non c’è, bisogno di trasbordare e di trascinarci con la roba attraverso tutta la città da una stazione all’altra. In compenso, prima di ripartire, ci sballotteranno ben bene da una parte all’altra: il treno farà una quantità di manovre. E’ stato Anfìm Efìmovich a spiegarmi tutte queste cose.»