18.

Jurij Andrèevich era tornato stanco dalla stazione. Era la sua giornata libera di ogni decade. Di solito, nei giorni di libertà, si rifaceva del sonno perduto durante la settimana. Stava abbandonato sul divano, appoggiandosi sul gomito o completamente sdraiato. Benché udisse Sima come in un dormiveglia, l’ascoltava con piacere. «Certo, tutto questo viene dallo zio Kolja,» pensava, «ma lei com’è brava e intelligente!»

Si alzò dal divano e si accostò alla finestra che dava sul cortile, come quella della stanza vicina, da cui le voci di Lara e Sìmushka giungevano ora come un bisbiglio confuso.

Il tempo si guastava. Cominciava ad annottare. Due gazze arrivarono nel cortile e presero a svolazzare cercando dove posarsi. Il vento arruffava e gonfiava le loro piume. Si posarono sul coperchio del cassone delle immondizie, passarono sullo steccato, scesero a terra e cominciarono a camminare nel cortile.

«Le gazze annunciano neve,» pensò. Nello stesso momento dietro la tenda sentì Sìma che diceva:

«Le gazze portano notizie. Visite o lettera.»

Dopo poco suonarono il campanello che Jurij Andrèevich aveva riparato. Da dietro la tenda uscì Larisa Fëdorovna e a passi rapidi andò in anticamera ad aprire. Dalle sue parole Jurij Andrèevich capì che era la sorella di Sima, Glafira Severìnovna.

«Venite a prendere vostra sorella?» domandò Larisa Fëdorovna, «Sìmushka è da noi.»

«No, non vengo a prenderla. Ma, del resto, perché no? Andremo via insieme, se deve tornare a casa. Ma non venivo per questo. C’è una lettera per il vostro amico. Deve ringraziare me e il fatto che una volta ho lavorato alla posta. E’ passata per tante mani e finalmente è arrivata a me, per via di conoscenze. Viene da Mosca. Ha girato per cinque mesi. Non riuscivano a trovare il destinatario. Ma io lo sapevo chi era. Una volta gli ho fatto anche la barba.»

La lettera, lunga molte pagine, sgualcita, unta, dentro una busta dal sigillo rotto e mezzo distrutto, era di Tonja. Jurij Andrèevich non riuscì poi più a ricordarsi di come se la trovò tra le mani, di quando Lara gliela consegnò. Cominciando a leggere sapeva ancora in quale città e in quale casa si trovasse, ma via via che leggeva ne perdeva coscienza. Sima se ne andò, congedandosi anche da lui; Jurij Andrèevich la salutò senza rendersene conto, meccanicamente. Andava dimenticando dove fosse e chi avesse intorno.

«Jura,» scriveva Antonina Aleksàndrovna, «sai che abbiamo una bambina? L’abbiamo chiamata Masha in ricordo della mamma Màrija Nikolàevna.

«Ora un’altra cosa: alcuni noti uomini politici, membri del partito dei cadetti e socialisti di destra, Miljukòv, Kizevetter, la Kuskòv e altri, fra cui lo zio Nikolàj Aleksàndrovich Gromeko sono stati espulsi dalla Russia. Così il papà, e anche noi, in quanto membri della sua famiglia.

«E’ una sciagura, specie in considerazione della tua assenza, ma bisogna rassegnarsi e ringraziare Dio per una forma così benigna d’espulsione, in un periodo tanto terribile. Avrebbe potuto essere peggio! Se tu fossi qui, partiresti insieme a noi. Ma dove sei in questo momento? Mando la lettera all’indirizzo della Antipov e lei te la farà avere, se ti troverà. Sono tormentata dall’incertezza. Non so se l’autorizzazione a partire, che abbiamo ottenuto tutti noi, verrà estesa anche a te, in quanto membro della nostra famiglia, in un secondo tempo, quando tornerai, se pure ciò avverrà. Io credo che tu sia vivo e che tornerai, me lo dice il mio cuore innamorato e io ho fiducia nella sua voce. Forse al tuo ritorno le condizioni di vita in Russia saranno meno rigide e tu stesso potrai richiedere un’autorizzazione personale per recarti all’estero, e ci troveremo nuovamente riuniti da qualche parte. Scrivo questo, senza credere io stessa che tanta felicità possa avverarsi.

«Tutto il guaio sta nel fatto che io ti amo e tu non mi ami. Mi sforzo di trovare la ragione di questa condanna, di coglierne il senso, di giustificarla; frugo, scavo in me stessa, riesamino tutta la nostra vita e quanto so di me e non vedo come sia cominciato e non riesco a ricordare cosa possa aver fatto e in che modo mi sia attirata questa infelicità. Sembra che tu mi veda in modo sbagliato, con occhi incomprensivi e sotto un aspetto alterato, come in uno specchio deformante.

«Ma io ti amo. Oh, se tu potessi soltanto immaginare come ti amo! Amo tutto ciò che c’è in te di particolare, tutto ciò che è positivo, e che non lo è, tutti i tuoi lati comuni, così cari nello straordinario complesso che ne risulta, il tuo viso nobilitato da una luce interiore, senza cui apparirebbe forse non bello, il tuo talento e la tua intelligenza che sopperiscono a un’assenza totale della volontà. Mi è caro tutto questo, e non conosco un uomo migliore di te.

«Ma senti. Sai che ti devo dire? Anche se tu non mi fossi caro, anche se tu non mi piacessi tanto, l’amara verità del mio disamore mi rimarrebbe lo stesso nascosta, e crederei d’amarti lo stesso. Solo per paura di quell’umiliante e distruttiva punizione che è il non amare, mi guarderei inconsciamente dal rendermi conto di non amarti. Né tu né io lo sapremmo mai. Il mio cuore me lo nasconderebbe, perché non amare è quasi un omicidio e io non avrei la forza di inferire un tal colpo a nessuno.

«Benché nulla ancora sia deciso, forse andremo a Parigi. Vedrò luoghi lontani, dove ti hanno portato da bambino e dove sono stati educati il papà e lo zio. Il papà ti saluta. Shura è cresciuto, non è bello, ma è un ragazzo grande e robusto e, quando si parla di te, piange amaramente e sconsolatamente. Non posso continuare. Mi si spezza il cuore. Addio. Lascia che ti faccia il segno della croce per tutta l’interminabile nostra separazione, i rischi, l’ignoto, per tutto il tuo lungo, oscuro cammino. Non ti accuso di nulla, non ti faccio nessun rimprovero, fai della tua vita quello che vuoi, purché sia bene per te.

«Prima di ripartire da codesti terribili Urali così fatali per noi, ho conosciuto abbastanza bene Larisa Fëdorovna. Le debbo molta gratitudine. Mi è stata sempre vicina quando mi trovavo in difficoltà e mi ha aiutata durante il parto. Devo sinceramente riconoscere che è una brava persona, ma non voglio fingere: è proprio il mio opposto. Io sono venuta al mondo per semplificare la vita e cercare il giusto cammino, lei per complicare la vita e far sbagliare strada.

«Addio, devo smettere. Sono entrati per prendere la lettera ed è ora di prepararsi. Oh, Jura, Jura, amore mio, mio caro, marito mio, padre dei miei bambini, che cosa è successo? Non ci rivedremo più, mai più! Ecco, ho scritto queste parole, ma ti rendi conto del loro significato? Lo comprendi, lo comprendi? Mi fanno fretta e mi sembra quasi il segnale che siano venuti a prendermi per portarmi al patibolo. Jura, Jura!»

Jurij Andrèevich sollevò dalla lettera gli occhi assenti e senza lacrime, ciechi e asciutti dalla sofferenza. Non vedeva nulla intorno, non s’accorgeva di nulla.

Fuori nevicava. Al vento, la neve scendeva obliquamente, sempre più rapida e fitta, come per riguadagnare il tempo perduto. Jurij Andrèevich guardava dinanzi a sé, fuori della finestra, come se non la vedesse cadere ma continuasse a leggere la lettera di Tonja, e non asciutte stelline di neve balenassero e volassero via, ma piccoli spazi bianchi tra i piccoli caratteri neri, bianchi, bianchi, senza fine, senza fine.

Gli sfuggì un gemito e si portò una mano al cuore. Sentì che stava per venire meno, fece alcuni passi incerti verso il divano e vi si abbatté privo di sensi.

Il dottor Zivago
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