4.
In base alla convenzione internazionale della Croce Rossa, i medici militari e il personale dei reparti sanitari non hanno il diritto di prender parte armati a operazioni di guerra. Ma, una volta, il dottore, contro la propria volontà, fu costretto a violare la regola. Lo scontro improvviso l’aveva colto sul campo e costretto a condividere la sorte dei combattenti, a sparare anche lui.
La formazione partigiana insieme alla quale era stato sorpreso si trovava in una radura del bosco. Alle loro spalle c’era la “tajgà”; davanti un pianoro aperto, uno spazio nudo e indifeso sul quale avanzavano i bianchi. Il dottore si buttò a terra a fianco del telefonista del reparto.
I bianchi si avvicinavano, erano già a breve distanza. Li vedeva bene, ne distingueva le facce. Erano ragazzi e giovani degli strati borghesi delle città e uomini più anziani, della riserva. Ma la maggioranza era formata dai primi, i giovani, studenti del primo anno d’università e ginnasiali dell’ottava classe, da poco arruolati volontari.
Il dottore non ne conosceva nessuno, ma molti visi gli sembravano noti, consueti, già visti. Alcuni gli ricordavano antichi compagni di scuola: avrebbero potuto essere i suoi fratelli minori. Altri gli sembrava di averli incontrati anni prima nella folla di un teatro o per strada. I loro volti espressivi e attraenti avevano come un’aria familiare, intima.
La loro idea del dovere li animava di una baldanza entusiasta, inutilmente provocatoria. Avanzavano in formazione rada e sparsa, eretti in tutta la persona, con un portamento più marziale degli ufficiali della guardia, e, ostentatamente, incuranti dei pericolo, non si adattavano a compiere piccoli tratti di corsa per poi buttarsi a terra, benché dietro le asperità, i monticelli e gli avvallamenti della radura ci fosse la possibilità di appiattarsi. I proiettili dei partigiani li falciavano in massa.
In mezzo all’ampio campo spoglio, sul quale i bianchi avanzavano, c’era un albero bruciato, morto. Era stato carbonizzato da un fulmine o dalle fiamme di un falò, o spaccato e arso in precedenti combattimenti. Ognuno dei giovani, avanzando, gli gettava un’occhiata, preso dalla tentazione di appostarsi dietro il tronco, per prendere la mira al sicuro in modo infallibile, ma vinceva la tentazione e passava oltre.
I partigiani avevano una scorta limitata di munizioni. Dovevano risparmiarle. C’era l’ordine, convalidato dal comune accordo, di sparare da brevi distanze e solo contro bersagli visibili.
Il dottore giaceva disarmato nell’erba e osservava lo svolgimento del combattimento. Tutta la sua simpatia era per quei ragazzi che morivano eroicamente, e di tutto cuore si augurava che vincessero. Erano rampolli di famiglie probabilmente vicine a lui per spirito, educazione, mondo morale e concezioni.
Gli balenò l’idea di correre verso di loro attraverso la radura, di arrendersi e mettersi così in salvo. Ma era un passo rischioso, seminato di pericoli.
Prima di raggiungere il centro della radura e presentarsi con le mani in alto, avrebbe potuto essere abbattuto da entrambe le parti, con un colpo al petto o nella schiena. Dai suoi, per il tradimento; dagli altri, che potevano non aver capito le sue intenzioni. Più di una volta si era trovato in circostanze analoghe, aveva riflettuto su tutte le possibilità e da un pezzo ormai considerava inattuabili tali progetti di fuga. Rassegnandosi ai propri sentimenti contraddittori, continuò a giacere sul ventre, col viso rivolto alla radura, e a seguire disarmato, dall’erba, l’andamento della battaglia.
Tuttavia era impossibile, superiore alle forze umane, rimanere passivi in mezzo alla lotta per la vita o per la morte che ribolliva intorno, limitandosi a contemplarla. Non si trattava di fedeltà alla parte cui l’aveva inchiodato la prigionia, non della propria difesa, bensì di adattarsi all’ordine delle cose, di accettare l’ineluttabilità di quanto avveniva davanti e intorno pi lui. Era contro ogni legge restare inattivi, bisognava fare quello che facevano gli altri. Si svolgeva una battaglia. Sparavano contro di lui e contro i compagni, bisognava rispondere e sparare.
E quando il telefonista accanto a lui si contrasse in una convulsione e si immobilizzò, allungato e inerte sul terreno, Jurij Andrèevich strisciò fino a lui, gli tolse la bisaccia e il fucile, e, tornato al posto di prima, cominciò a scaricarlo colpo su colpo.
La pietà non gli consentiva di mirare sui giovani che ammirava e compativa. D’altra parte, era un’occupazione stupida e vana, contraria alle sue intenzioni, sparare in aria a vuoto. Scegliendo i momenti in cui tra lui e il suo bersaglio non si trovava nessuno degli attaccanti, cominciò a sparare sull’albero bruciato. E, nel farlo, seguiva un sistema preciso.
Mirava e aumentava la pressione sul grilletto impercettibilmente e mai in modo definitivo, man mano che precisava la mira, quasi non fosse sua intenzione sparare, fino a che l’abbassamento del grilletto e lo sparo avvenivano da soli, come inaspettati; prese così a far cadere, con la sua abituale precisione, i rami secchi tutto attorno all’albero.
Ma per quanto badasse a non colpire nessuno, ora uno ora l’altro degli attaccanti, proprio nel momento decisivo, si frapponeva tra lui e l’albero, attraversando la linea di mira. Ne colpì e ferì due, mentre un terzo si abbatté senza vita non lontano dall’albero.
Finalmente, il comando dei bianchi, persuaso dell’inutilità dell’attacco, diede l’ordine di ritirata.
I partigiani erano pochi. Parte del grosso delle forze si trovava in marcia, parte aveva effettuato una deviazione e dato battaglia a truppe più ingenti. Perciò non inseguirono i bianchi in ritirata, per non rivelare l’esiguità del proprio numero.
L’assistente Angeljar avanzò nella radura insieme a due portantini con le barelle. Il dottore ordinò loro di occuparsi dei feriti e si recò presso il telefonista che giaceva immobile. Sperava confusamente che respirasse ancora e che si potesse far qualcosa per lui. Era, invece, già morto. Per maggior sicurezza, gli sbottonò la camicia sul petto per ascoltare il cuore: ma non batteva più.
Al collo aveva appeso con un cordoncino a mo’ di amuleto, un pezzo di stoffa, in cui era cucito un foglio logoro e consumato nelle piegature. Ne spiegò i lembi che si staccavano e si sbriciolavano. Vi erano trascritti alcuni passi del Salmo novantesimo con quelle varianti e contaminazioni che il popolo introduce nelle preghiere, ridotte così, a forza di passare di bocca in bocca, ad altra cosa dall’originale. I frammenti del testo in slavo ecclesiastico erano riportati secondo l’ortografia russa. Nel Salmo si dice: «Colui che riposa nell’aiuto dell’Altissimo.» Nello scritto il passo era diventato il titolo dello scongiuro: «In aiuto ai vivi.» Il verso del Salmo: «Non temerai… di giorno la saetta volante» s’era trasformato in parole d’incoraggiamento: «Non temere la saetta della volante guerra.» «Perché ha conosciuto il mio nome,» dice il Salmo. E lo scritto: «E’ tardo il mio nome,» «Con lui son io nella tribolazione, ne lo trarrò…» nello scritto era diventato: «Presto nell’inverno»73.
Il testo di quel Salmo era ritenuto miracoloso per tener lontani i proiettili. Già i combattenti della guerra imperialistica lo portavano addosso come un talismano. Passarono i decenni e molto più tardi cominciarono a portarlo, cucito nell’abito, gli arrestati, mentre lo ripetevano a memoria i reclusi, quando venivano chiamati dai giudici istruttori per gli interrogatori notturni.
Jurij Andrèevich si avvicinò poi attraverso la radura al corpo del bianco ucciso da lui. Il bel viso del giovane era improntato a una purezza e a una sofferenza distesa, senza risentimento. «Perché l’ho ucciso?» pensò.
Gli slacciò il cappotto. Sulla fodera una mano piena di cura amorosa, probabilmente la mano materna, aveva ricamato in bei caratteri tondi, il nome e il cognome: «Serëza Rancevich.»
Dallo scollo della camicia usciva una catenina con attaccati una crocetta, un medaglione e una specie di piatto astuccino d’oro col coperchio ammaccato come da un chiodo. Era semiaperto e ne spuntava un pezzo di carta piegato. Lo aprì e non credette ai suoi occhi: era ancora il salmo novantesimo, ma questa volta stampato e trascritto nella autentica forma slava.
In quel momento Serëza emise un gemito e si mosse. Era vivo. Come poi si seppe, era rimasto stordito in seguito a una leggera contusione interna. La pallottola aveva colpito di striscio il coperchio dell’amuleto materno che gli aveva, così, salvato la vita. Ma che fare di quell’uomo privo di sensi?
La ferocia dei combattenti superava allora ogni limite. I prigionieri non venivano portati vivi al luogo di destinazione, ma finiti sul posto. Data la composizione fluida dell’esercito, cui si aggregavano continuamente nuovi elementi mentre altri fuggivano per unirsi al nemico, Rancevich avrebbe potuto passare per uno che aveva aderito all’ultimo momento. Purché il segreto fosse rigorosamente mantenuto.
Jurij Andrèevich spogliò il telefonista morto della divisa e, con l’aiuto di Angeljar, che mise al corrente, ne rivestì il giovane sempre privo di sensi.
Dottore e assistente curarono il ragazzo e quando questi fu rimesso del tutto, lo lasciarono andare, benché non avesse nascosto che sarebbe tornato nelle file di Kolchak e avrebbe continuato a combattere contro i rossi.