1.

Durante il viaggio, sedendo nello stretto scompartimento, sembrava che solo il treno procedesse, il tempo restasse immobile e fosse ancora mezzogiorno.

Ma già imbruniva quando la carrozza che portava il dottore si faceva strada faticosamente in mezzo alla folla strabocchevole che gremiva piazza Smolènsk.

Forse era stato proprio così, o forse sulle sue impressioni d’allora si sovrappose poi l’esperienza degli anni successivi: fatto sta che, nel ricordo, in seguito gli parve che già allora la gente si affollasse al mercato solo per abitudine, senza uno scopo reale, giacché le tettoie abbassate sui banchi vuoti non erano neppure chiuse col lucchetto, e nulla c’era da comprare sulla sudicia piazza da cui ormai non spazzavano più nemmeno i rifiuti e la sporcizia.

Gli sembrò in seguito di aver visto già allora, stretti sul marciapiede, vecchietti e vecchiette distintamente vestiti, emaciati, tacito rimprovero ai passanti, muti offrire in vendita qualcosa che nessuno voleva e che a nessuno serviva: fiori artificiali, tonde caffettiere a spirito col coperchio di vetro e col fischio, vestiti da sera di tulle nero, uniformi di dicasteri aboliti.

La gente più semplice contrattava cose più essenziali: ruvide fette di pane nero tesserato, subito raffermo, sudicie e umide zollette di zucchero e pacchetti da cinquanta grammi di tabacco scadente tagliati in due.

In tutto il mercato circolava una quantità di cianfrusaglie inverosimili che aumentavano di prezzo via via che passavano di mano in mano.

Il vetturino svoltò in uno dei vicoli che davano nella piazza. Sulle loro spalle batteva il sole ormai al tramonto: davanti sobbalzava rumorosamente un carro vuoto sollevando colonne di polvere che in quella luce prendevano un rossastro colore di bronzo.

Alla fine riuscirono a superare il carro che sbarrava la strada e proseguirono più rapidamente. Il dottore fu stupito di vedere, sparpagliati dappertutto per le strade e sui marciapiedi, mucchi di vecchi giornali e manifesti strappati dai muri e dalle stecconate. Il vento li trascinava in una direzione, e gli zoccoli dei cavalli, le ruote, i piedi dei passanti nell’altra.

Ben presto, dopo pochi incroci, all’angolo di due vicoli apparve la casa. La carrozza si fermò.

Jurij Andrèevich si sentì mancare il respiro e battere il cuore, quando, saltando giù dal predellino, si avvicinò all’ingresso e suonò il campanello. Ma la scampanellata non ebbe alcun risultato. Nessuno venne ad aprire. Suonò un’altra volta e poiché anche il secondo tentativo non diede alcun risultato, con crescente inquietudine prese a suonare a brevi intervalli, finché il portone non si spalancò davanti ad Antonina Aleksàndrovna. Dalla sorpresa, in un primo istante, rimasero come storditi tutti e due, e non si accorsero di gridare. Ma Antonina Aleksàndrovna teneva con le mani spalancate i battenti e le sue braccia parevano aperte per stringerlo a sé. Si sciolsero così dal loro imbambolamento e si gettarono come impazziti l’uno nelle braccia dell’altro. Dopo un istante presero a parlare contemporaneamente, interrompendosi a vicenda.

«Per prima cosa: state tutti bene?»

«Sì, sì, stai tranquillo. Tutto è a posto. Ti ho scritto delle sciocchezze. Scusami. Ma ne parleremo. Perché non hai telegrafato? Adesso Markèl ti porterà su la roba. Ah, capisco, ti sei preoccupato perché la Egòrovna non è venuta ad aprire. E’ in campagna.»

«Sei dimagrita. Ma come sei giovane e snella! Vado a pagare il vetturino.»

«La Egòrovna è andata a prendere la farina. Abbiamo licenziato gli altri. Adesso c’è solo una ragazza nuova, tu non la conosci, che bada a Shashen’ka, si chiama Njusha, e nessun altro. Abbiamo annunciato a tutti che dovevi arrivare, tutti sono impazienti. Gordon, Dudorov, tutti.»

«Shashen’ka come sta?»

«Non c’è male, grazie a Dio. S’è appena svegliato. Se non fosse che vieni dal treno, potresti vederlo subito.»

«Il papà è a casa?»

«Non te l’ho scritto? Dal mattino fino a notte sta alla Duma del rione. E’ presidente. Sì, pensa! Hai pagato il vetturino? Markèl! Markèl!»

Stavano in mezzo al marciapiede, con una cesta e una valigia, impedendo il passaggio, e i pedoni, scansandoli, li scrutavano dalla testa ai piedi, guardavano il vetturino che si allontanava e il portone spalancato, aspettando di vedere cosa sarebbe successo.

Intanto, dal portone già correva verso i giovani signori Markèl col panciotto infilato sopra una camicia di tela indiana e il berretto da portiere in mano. E correndo, gridava:

«Potenze del cielo, ma è proprio Jùrochka? E come no! E’ proprio lui, il nostro piccolo falco! Jurij Andrèevich, Jurij Andrèevich, luce nostra, non ci hai dimenticati, sei tornato al tuo focolare! E voi, che volete? Be’? Non c’è niente da vedere!» Si rivolse aggressivo verso i curiosi. «Andate, stimatissimi signori! Che c’è da strabuzzare gli occhi?»

«Salute, Markèl! Su, abbracciamoci. Ma mettiti il berretto, matto che sei. Cosa c’è di nuovo, cosa c’è di bello? Che fanno tua moglie, le bambine?»

«Che debbono fare? Crescono, grazie. Cosa c’è di nuovo? Mentre tu facevi l’eroe laggiù, anche noi, vedi, non stavamo mica con le mani in mano. S’è fatta tanta confusione che nemmeno il diavolo, caro mio, ci si raccapezza più! Non spazzano le strade, non riparano le case, le pance sono vuote come in tempo di digiuno, senza annessioni né contributi.»

«Mi devo lamentare di te, Markèl, con Jurij Andrèevich. E’ sempre così, sai, Jùrochka. Non posso sopportare questo suo tono strampalato. E certo lo fa per te, crede che ti piaccia. Ma la sa lunga, lui. Smettila, smettila, Markèl, non cercare di giustificarti. Sei un’acqua torbida, Markèl. E’ tempo che tu metta giudizio. Mica vivi presso dei mercanti.»

Quando ebbe portato la roba nel vestibolo e chiuso il portone, Markèl riprese a dire sottovoce e con un tono di complicità:

«Antonina Aleksàndrovna si arrabbia, l’hai sentita. E così fa sempre. Mi dice: tu, Markèl, sei tutto nero dentro, come la fuliggine nel camino. Oggi, dice, mica solo i bambini, ma anche i botoli, i cagnolini da salotto, oggi hanno messo giudizio. Questo è vero, naturale, chi lo discute, ma Jùrochka, credimi pure o non credermi, come vuoi, ma la gente che sa ha visto il libro, “Il massone venturo”, il libro che è stato centoquarant’anni sotto la pietra, e adesso ecco qual è la mia opinione: ci hanno venduti, Jùrochka; Jùrochka, capisci, venduti, venduti e non per un centesimo, non per un tozzo di pane o una presa di tabacco. Guarda, Antonina Aleksàndrovna non mi lascia dire nemmeno una parola. Vedi, mi fa di nuovo cenno con la mano.»

«Naturalmente. Su, ora. Posa la roba e grazie, va’, Markèl, va’. Se avrà bisogno, Jurij Andrèevich ti chiamerà.»

Il dottor Zivago
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