6.
Si recarono alla stazione assai presto, all’alba. Gli inquilini della casa a quell’ora non erano alzati. Ma la Zevorotkin, che capeggiava sempre tutte le sortite collettive, fece il giro delle abitazioni, bussando alle porte e gridando: «Sveglia, compagni! A salutare! Su, svelti! Gli ex Garumekov41 se ne vanno.»
Uscirono tutti a salutare nel vestibolo e sul pianerottolo della scala di servizio (l’ingresso padronale restava ora inchiodato tutto l’anno), disponendosi ad anfiteatro come se dovessero farsi fotografare in gruppo.
Sbadigliavano e arcuavano le spalle perché i logori paltoncini sotto cui rabbrividivano non scivolassero di dosso, e battevano infreddoliti i piedi nudi, infilati alla svelta nei larghi stivali di feltro.
Markèl, che aveva già trovato modo di tracannare qualcosa di micidiale anche in quell’epoca senza alcool, si abbatté come falciato sulla ringhiera della scala, a rischio di farla crollare. Si offrì di portare la roba alla stazione e si offese perché rifiutavano il suo aiuto. A fatica riuscirono a liberarsene.
Fuori era ancora buio. Nell’aria senza vento la neve cadeva più fitta della vigilia. I grossi fiocchi lanuginosi scendevano pigramente e a poca distanza da terra restavano ancora esitanti se posarsi o no al suolo.
Quando dal vicolo uscirono sull’Arbàt, era già più chiaro. La nevicata velava tutta la strada d’una bianca cortina che scivolava giù agitando e impigliando nelle gambe dei passanti i suoi lembi frangiati, così da far perdere la sensazione di procedere, quasi che i piedi anziché avanzare, restassero a muoversi sempre nello stesso punto.
Per strada non c’era anima viva. I partenti del vicolo Sivcev non incontrarono nessuno. Presto però, tutto coperto di neve, come passato in pasta liquida, li raggiunse un vetturino con una rozza imbiancata allo stesso modo. Per una somma favolosa, ma che in quegli anni non valeva un soldo, li fece salire tutti con la roba in carrozza. Solo Jurij Andrèevich preferì raggiungere a piedi la stazione, libero da pesi e bagagli.