5.
Per questo Liverij stava ora strepitando con Svirìd nei pressi della grande strada che per un breve tratto attraversava in quel punto la “tajgà”. Sulla strada, i suoi aiutanti diretti discutevano se si dovessero o no tagliare i cavi della linea telegrafica che ne seguiva il tracciato. L’ultima e decisiva parola spettava a Liverij, ma questi era occupato a parlare col cacciatore vagabondo e faceva segno con la mano agli altri che li avrebbe raggiunti subito, che lo aspettassero, non andassero via.
Per molto tempo Svirìd non aveva potuto mandar giù la condanna e la fucilazione di Vdovicenko, di nulla colpevole se non del fatto che la sua influenza, rivaleggiando con l’autorità di Liverij, provocava una scissione nel campo. Svirìd avrebbe voluto abbandonare i partigiani per vivere di nuovo a modo suo, in libertà, come un tempo. Ma non era più possibile. Una volta ingaggiato, ti sei venduto, diceva il proverbio. Se avesse lasciato ora i Fratelli del Bosco, gli sarebbe toccata la stessa sorte dei fucilati.
Faceva il tempo peggiore che si potesse immaginare. Un aspro vento impetuoso trascinava rasoterra laceri lembi di nuvole, neri come fiocchi di fuliggine. D’un tratto cominciò a cadere la neve, con la febbrile fretta di una sorta di bianca follia.
In un istante, l’aria si velò di un lenzuolo bianco, la terra si coprì d’una coperta bianca. Ma, altrettanto rapidamente, la coperta si consumò, scomparve ed emerse nuovamente la terra, nera come il carbone, il cielo nero, chiazzato in alto dalle tumide nubi degli acquazzoni che cadevano in lontananza. La terra non sopportava più altra acqua. Nei momenti di schiarita, le nubi si aprivano come se in alto, per ventilare il cielo, spalancassero finestre da cui traspariva un freddo, vitreo biancore. Dalla terra, l’acqua immobile, non assorbita dal suolo, rispondeva con le finestre spalancate delle pozzanghere e degli acquitrini, lucenti della stessa fredda luminosità.
Il maltempo fluttuava come un fumo sul bosco di conifere, odoroso di pece e trementina, e non vi penetrava, come non penetra l’acqua in un’incerata. Le gocce di pioggia restavano appese fitte fitte, una vicina all’altra, senza staccarsi, ai cavi del telegrafo e li facevano somigliare a tanti fili di perline.
Svirìd era tra coloro che erano andati nell’interno della “tajgà”, incontro alle profughe. Voleva raccontare al capo quello a cui aveva assistito, la confusione provocata dall’accavallarsi di ordini opposti, tutti egualmente irrealizzabili. Voleva raccontargli le atrocità a cui si erano abbandonate le più deboli delle donne, dei tutto sfiduciate, negli accampamenti provvisori. Le giovani madri, che marciavano a piedi coi fagotti, i sacchi e i lattanti, perdevano il latte, crollavano per la stanchezza e, prese da una sorta di follia, abbandonavano i bambini per strada, vuotavano i sacchi di farina e tornavano indietro. Meglio finire subito che attendere la lunga morte per fame, meglio darsi in mano al nemico che esser preda dei lupi.
Altre, le più forti, avevano dimostrato una resistenza e un coraggio, sconosciuti perfino a molti uomini. Svirìd aveva molte altre notizie. Avrebbe voluto avvisare il capo del pericolo di una nuova rivolta che incombeva sul campo, più grave di quella già soffocata, ma non trovava le parole a causa dell’impazienza di Liverij che gli faceva rabbiosamente fretta, impedendogli di portare a termine il discorso. D’altronde Liverij lo interrompeva di continuo, non solo perché lo aspettavano sulla strada e gli facevano segno e lo chiamavano, ma anche perché nelle due ultime settimane non avevano fatto altro che raccontargli quei fatti e ormai li sapeva a memoria.
«Non farmi fretta, compagno capo. Già non ho la parola facile. A me le parole mi restano fra i denti, mi vanno per traverso. Che cosa ti stavo dicendo? Vai al convoglio di profughi e di’ a quelle contadine una parola che faccia legge. Vedessi che confusione c’è in mezzo a loro. Ti domando che cosa sta succedendo qui da noi: ‘Tutti contro Kolchak!’, oppure una strage di donne?»
«Spicciati, Svirìd. Vedi che mi chiamano. Falla breve.»
«Adesso, anche questa maga guaritrice Zlydàricha, chissà chi è questa donna. Vuole essere registrata come “vetrinaria” delle bestie…»
«Veterinaria, Svìrìd.»
«Che sto dicendo? Dico bene “vetrinaria”, che cura le epidemie delle bestie. Ma altro che occuparsi delle bestie, s’è trasformata in una popessa, s’è fatta idolatra, s’è messa a celebrare messe nere, e a traviare le nuove mogli profughe. Ecco, gli dice, pigliatevela con voi stesse. Vedete che succede ad alzarsi le sottane per correr dietro alla bandiera rossa? Così, un’altra volta non le correte più dietro!»
«Ma di quali profughe stai parlando? Delle nostre, partigiane, o di altre?»
«Delle altre, si capisce. Delle nuove, le estranee.»
«E’ stato disposto che andassero nella frazione di Dvory, al mulino sulla Cilinka. Come mai si trovano qui?»
«Già, la frazione Dvory. Del tuo Dvory ci sono rimaste le ceneri. Il mulino e tutto il campo coltivato sono bruciati. Quando sono arrivate sulla Cilinka, le donne hanno visto che lì era tutto un deserto nudo. Molte sono impazzite, si sono messe a urlare e sono tornate indietro verso i bianchi. Le altre hanno voltato le stanghe e si sono dirette qui con tutte le loro masserizie.»
«Attraverso la foresta e le paludi?»
«E le asce e le scuri dove le metti? Gli hanno mandato incontro i nostri uomini per proteggerle, e loro le hanno aiutate. Dicono che hanno fatto trenta “verste” aprendosi la via nel bosco con le asce. E hanno fatto i ponti, roba da pazzi! E poi, di’ che sono donne! Hanno fatto cose, quelle lì, che in tre giorni non si riuscirebbero neanche a pensare.»
«Razza d’idiota! E ti ci diverti pure che hanno fatto trenta verste di strada, pezzo d’asino! Un bel regalo per Vicyn e Kvadri. Hanno aperto un passaggio nella “tajgà”. Adesso ci passa anche l’artiglieria.»
«Pensa ai fianchi, ai fianchi. Proteggi le ali e siamo a posto.»
«Avevo proprio bisogno che me lo dicessi tu.»