19.
Vennero a sapere che la barricata era a tiro delle artiglierie e che la casa era in pericolo. Ma il loro quartiere risultava già circondato ed era troppo tardi per pensare a trasferirsi presso conoscenti in un’altra parte della città. Si doveva cercare rifugio nelle vicinanze, all’interno dell’accerchiamento. Si ricordarono del «Cernogorie».
Ma l’albergo era tutto occupato, perché molti altri che si erano trovati nella medesima situazione avevano avuto la stessa idea. Trattandosi, però, di vecchi clienti come loro, gli fu promessa una sistemazione nel guardaroba.
Raccolsero l’indispensabile in tre fagotti, per non attirare l’attenzione con delle valigie, poi di giorno in giorno cominciarono a rimandare il loro trasloco.
Date le abitudini patriarcali che regnavano nel laboratorio, il lavoro proseguì fino all’ultimo momento, nonostante lo sciopero. Ma una sera fredda, cupa, suonarono alla porta di strada: entrò un tale, con proteste e rimproveri. All’ingresso chiese della padrona. Faina Silànt’evna si recò in anticamera per cercare di calmare le acque. «Qui, ragazze!» e, chiamate le sartine, cominciò a presentarle tutte, una dopo l’altra, all’uomo che era entrato. Questi strinse la mano a ciascuna, goffo ma cordiale, e se ne andò via dopo essersi accordato su qualcosa con la Fétisov.
Tornate in sala, le sartine cominciarono ad avvolgersi negli scialli e ad alzare le braccia sopra la testa per infilarsi le strette pelliccette.
«Cos’è successo?» domandò Amàlija Kàrlovna accorsa nel frattempo.
«Ci mandano via, madame. Siamo in sciopero.»
«Ma io… che vi ho fatto di male, io?» e madame Guichard scoppiò a piangere.
«Non prendetevela, Amàlija Kàrlovna. Non ce l’abbiamo con voi, vi siamo molto grate, anzi. Ma non si tratta di voi o di noi. Adesso è così per tutti, in tutto il mondo. Che volete farci?»
Se ne andarono tutte fino all’ultima, persino Olja Demin e Faina Silànt’evna, la quale, accomiatandosi, sussurrò alla padrona che lei inscenava quello sciopero per il bene della proprietaria e dell’azienda. Ma la Guichard non si dava pace.
«Proprio l’ingratitudine più nera! Guarda come ci si può sbagliare con la gente! Quella ragazzetta, con tutto quello che ho fatto per lei! D’accordo, lei è una bambina, va bene… ma quella vecchia strega!»
«Cercate di capire, mammina, loro non possono fare eccezione per voi,» la consolava Lara. «Nessuno ce l’ha con voi. Al contrario, tutto quello che sta succedendo ora si fa in nome dell’umanità, in difesa dei deboli, per il bene delle donne e dei bambini. Si, si, non scuotete la testa con tanta diffidenza. E’ grazie a questo se un giorno la vita sarà migliore anche per me e per voi.»
Ma la madre non capiva. «E’ sempre la stessa cosa,» le diceva singhiozzando, «più le cose s’ingarbugliano per conto loro, e più tu ne dici di così grosse da far stralunare gli occhi. Mi fanno i loro bisogni in testa e secondo te questo sarebbe nel mio interesse. No, a quanto pare sono proprio rimbambita. Mi sento impazzire.»
Rodja era nei cadetti. Lara e la madre si trascinavano tutte sole da una camera all’altra della casa vuota. La via buia guardava dentro le stanze con occhi vuoti. Le stanze rispondevano con lo stesso sguardo.
«Andiamo all’albergo prima che faccia scuro. Sentite, mammina? Senza rimandare ancora, subito.»
«Fìlàt, Filàt,» chiamarono il portiere. «Filàt, caro, accompagnaci al ‘Cernogorie’.»
«Ai vostri ordini, signora.»
«Pendi i fagotti, e poi ancora una cosa, Filàt, bada a tutto qui, per piacere, finché le cose siano tornate tranquille. E non dimenticare di dar l’acqua e il mangime a Kiìll Modéstovich E chiudi tutto a chiave. E, per piacere, fatti vivo con noi.»
«Ai vostri ordini, signora.»
«Grazie, Filàt. Cristo ti salvi. Bene, sediamoci ora per il commiato, e Dio ci aiuti.»
Uscirono in strada e l’aria era diversa, come dopo una lunga malattia. La distesa gelata, levigata come per il gioco delle bilie, faceva rotolare in tutte le direzioni i suoni tondi, lisci, quasi lavorati al tornio. Scariche e spari schioccavano, biascicavano, sculacciavano, frantumando le lontananze in poltiglia.
Per quanto Filàt cercasse di persuaderle del contrario, Lara e Amàlija Kàrlovna erano convinte che fossero spari a salve.
«Sei uno stupidone, Filàt. Giudica tu stesso, come possono non essere a salve, quando non si vede neppure chi spara. Chi spara, secondo te, lo Spirito Santo? Si capisce che sono a salve.»
A uno degli incroci una pattuglia di ronda le fermò. Furono perquisite da cosacchi che le frugarono con insolenza da capo a piedi, sogghignando. Portavano spavaldamente di traverso su un orecchio i berretti senza visiera, col sottogola. Sembravano tutti orbi d’un occhio.
«Che fortuna!» pensava Lara: non avrebbe veduto Komarovskij per tutto il tempo che sarebbero rimaste tagliate fuori dal resto della città!
Se non poteva liberarsi di lui era per via di sua madre, a cui non poteva dire: mamma, non ricevetelo più. Si sarebbe scoperto tutto. E con questo? Perché poi aver paura? Ah, Dio mio, sia quel che sia, ma finisca una buona volta.. Signore, Signore! Ecco che adesso stava per svenire dal disgusto, lì in mezzo alla strada. Di che cosa s’era ricordata! Com’era il titolo di quell’orribile quadro con un grasso romano, in quel séparé, il primo, dove era cominciato tutto? “La donna ovvero il vaso”. E come no. Certo un quadro famoso. “La donna ovvero il vaso”. E lei allora non era ancora donna, da poter essere paragonata a quel prezioso oggetto. Questo era venuto dopo. La tavola era imbandita sontuosamente.
«Dove corri come una matta? Non ce la faccio a seguirti,» le piagnucolava dietro Amàlija Kàrlovna, ansando e senza riuscire a starle al passo. Lara andava sempre più in fretta. Come una forza la spingeva, quasi incedesse nell’aria, una forza fiera, esaltante.
«Oh, come schioccano allegri gli spari,» pensava. «Beati i perseguitati, beati gli ingannati. Dio vi benedica, spari! Spari, spari, voi volete quello che voglio io!»