9.
In quei giorni il fronte si era messo in movimento. Improvvisi mutamenti si erano prodotti. A sud della località dove si era recato Gordon, una delle nostre formazioni, con un fortunato attacco di singole unità, aveva infranto le posizioni fortificate del nemico. Sviluppando il proprio urto, il gruppo all’attacco era penetrato sempre più profondamente nelle linee avversarie; lo seguivano le unità di rinforzo, che allargavano la breccia. Rimaste però sempre più distanziate, queste avevano perso il contatto col gruppo di testa, erano state prese in una sacca e costrette alla resa. Fu in quell’occasione che Antipov cadde prigioniero, costretto a ciò dalla resa della sua compagnia.
Su di lui corsero voci prive di fondamento. Lo davano per morto, sepolto dall’esplosione di un obice, basandosi sulla testimonianza di un suo compagno, il tenente dello stesso reggimento, Galiullin, il quale dal posto di osservazione pareva lo avesse visto cadere mentre andava all’attacco con i suoi soldati.
Agli occhi di Galiullin si era presentato il solito spettacolo di un’unità in fase d’attacco. L’unità doveva percorrere a passo rapido, quasi di corsa, il campo che separava i due eserciti, ricoperto di arido assenzio ondeggiante al vento autunnale e di cardi irti e pungenti. Con impeto temerario gli attaccanti dovevano attirare gli austriaci rintanati nelle trincee per uno scontro alla baionetta, oppure ricoprirli di bombe a mano e distruggerli. A loro che correvano, il campo sembrava senza fine. La terra fuggiva sotto i piedi come un mosso terreno paludoso. Dapprima in testa, poi in mezzo ai ranghi, correva anche il loro sottotenente, agitando sopra la testa la pistola e gridando a bocca spalancata un «urrà» che né lui né i soldati intorno udivano. A intervalli regolari si gettavano a terra, si rialzavano d’un colpo e urlando riprendevano a correre. Ogni volta insieme a loro, ma così diversi, cadevano tutti d’un pezzo, come alti alberi abbattuti in un bosco, i soldati colpiti, per non rialzarsi più.
«Tiro lungo. Telefonate alla batteria,» disse allarmato Galiullin all’ufficiale d’artiglieria che gli stava vicino. «Ma no. Hanno fatto bene ad allungare il tiro.»
Nel frattempo gli attaccanti avevano preso contatto col nemico. Cessò il fuoco. Nel silenzio che seguì, quelli che stavano in osservazione sentirono il cuore accelerare i battiti, come fossero loro al posto di Antipov, come avessero condotto loro gli uomini fino alla trincea austriaca e da un momento all’altro dovessero far prodigi di prontezza e di valore. In quell’istante, davanti al gruppo, scoppiarono una dopo l’altra due granate tedesche di sedici pollici. Nere colonne di fumo e di terra nascosero tutto. «Per Allah! Fine! Finito lo spettacolo!» mormorò Galiullin con le labbra sbiancate, ormai dando il sottotenente e i soldati per morti. La terza granata cadde proprio accanto al posto di osservazione. Piegati a terra, tutti si affrettarono ad allontanarsi quanto più potevano.
Galiullin dormiva nello stesso ricovero di Antipov.
Quando nel reggimento si rassegnarono all’idea che era stato ucciso e che non sarebbe più tornato, Galiullin, come quello che lo conosceva meglio, fu incaricato di prendere in consegna i suoi oggetti personali per farli avere un giorno alla moglie della quale, fra le cose di Antipov, furono trovate molte fotografie.
Fino a poco tempo prima sottotenente volontario, Galiullin, di professione meccanico, figlio di quel Gimazetdin portiere della casa di Tiverzin, e in un lontano passato apprendista fabbro, maltrattato dal capo operaio Chudoleev, doveva la sua promozione all’antico persecutore.
Diventato sottotenente, Galiullin senza sapere come e indipendentemente dalla sua volontà, era capitato in un posto tranquillo e ritirato, in una delle sperdute guarnigioni della retrovia. Aveva al suo comando un plotone di mezzo invalidi, per i quali alcuni veterani istruttori, altrettanto debilitati, ogni mattina ripetevano le istruzioni anche da loro dimenticate. Oltre a ciò, Galiullin doveva controllare se gli istruttori mandavano regolarmente le sentinelle ai depositi dell’intendenza. Era una vita senza preoccupazioni; da lui non si pretendeva altro. Improvvisamente, con truppe di rinforzo formate da richiamati di classi anziane, trasferite da Mosca alla sua guarnigione, arrivò anche quel Pëtr Chudoleev, che lui ben conosceva.
«Chi si rivede!» esclamò sogghignando.
«Sì, vostra nobiltà,» rispose Chudoleev mettendosi sull’attenti e facendo il saluto.
Ma la cosa non poteva finir lì. Al primo sbaglio commesso durante l’istruzione, il sottotenente lo subissò di improperi e, poiché gli parve che il soldato non lo guardasse dritto negli occhi, ma come di traverso, lo colpì alla bocca e lo spedì in cella a pane e acqua per due giorni.
Ormai ogni gesto di Galiullin aveva il sapore di una vendetta. Ma pareggiare i conti in questa maniera, sfruttando una condizione di dispotica superiorità, era un gioco troppo facile e ignobile. Che fare? O l’uno o l’altro se ne doveva andare di lì. Ma con quale pretesto, e dove l’ufficiale avrebbe potuto far trasferire il soldato dall’unità a cui era destinato, se non mandandolo in una compagnia di disciplina? D’altra parte, quali motivi poteva escogitare Galiullin per sollecitare il proprio trasferimento? Adducendo la noia e l’inutilità del servizio di guarnigione, chiese di essere mandato al fronte. Ciò costituì la migliore delle raccomandazioni e quando, alla prima occasione, ebbe modo di mostrare altre qualità e di poter essere un ottimo ufficiale, fu rapidamente promosso tenente.
Galiullin conosceva Antipov fin dai tempi di Tiverzin. Nel 1905, quando Pasha Antipov aveva trascorso sei mesi presso i Tiverzin, Jusupka spesso andava a trovarlo e giocava con lui nei giorni di festa. Appunto allora aveva visto una o due volte anche Lara. Ma da quel tempo non aveva saputo più nulla di loro. Quando, da Jurjatin, Pavel Pàvlovich capitò al reggimento, Galiullin rimase colpito dal cambiamento avvenuto nell’amico d’una volta. Il giovinetto tutto ordinato e ilare, timido come una fanciulla, era diventato un ipocondriaco, un nervoso, un sapientone sprezzante. Era intelligente, pieno di coraggio, ironico e taciturno. A volte, guardandolo, Galiullin era pronto a giurare che nel suo sguardo appesantito, come nello sfondo di una finestra, si intravedeva qualcun altro, o un pensiero fisso: la nostalgia di sua figlia, o l’immagine di Lara. Sembrava preso da un incantesimo, come in una favola. E ora non c’era più; a Galiullin erano rimaste le sue carte e le sue fotografie, insieme al mistero di quel mutamento.
Presto o tardi gli sarebbero giunte le richieste di Lara e lui si preparava a rispondere. Ma erano brutti momenti. Non si sentiva in grado di scrivere come bisognava, e voleva prepararla al colpo che l’attendeva. Così continuava a rinviare la lunga lettera circostanziata che avrebbe desiderato mandarle, finché non intese che anche lei si trovava al fronte, come crocerossina. E non seppe più dove indirizzare la lettera.