7.

Era una limpida giornata di sole, con un tempo calmo e asciutto, come tutta la settimana precedente.

Dal fondo del campo proveniva, confuso e simile a un lontano brontolio di mare, il rombo del grande accampamento. Di tanto in tanto si udivano i passi di chi bighellonava nel bosco, voci di gente, rumore d’asce, il battere delle incudini, nitriti di cavalli, latrati di cani e il canto dei, galli. Nel bosco vagava una folla di gente abbronzata, sorridente, dai denti bianchi. Alcuni conoscevano il dottore e lo salutavano, gli altri passavano oltre senza badargli.

I partigiani erano decisi a non muoversi da Lisij Otòk, finché non li avessero raggiunti le famiglie che sui carri si dirigevano alla loro volta; ma queste ormai erano a poche giornate di cammino e nel bosco fervevano i preparativi per togliere il campo e trasferirlo più avanti, verso est. Gli uomini pulivano, aggiustavano, inchiodavano casse, facevano l’inventario dei carri e ne verificavano l’efficienza.

In mezzo al bosco c’era una grande radura battuta, una specie di “kurgàn”75 o di necropoli, chiamata, secondo la designazione locale, “bùjvishce”, dove abitualmente venivano tenuti i comizi delle truppe. Anche quel giorno vi era stata fissata un’adunanza generale per alcune importanti comunicazioni.

Il bosco specialmente nel folto era ancora quasi tutto fresco e verdeggiante. Il sole del pomeriggio, calando, vi penetrava dal basso e le foglie lasciavano filtrare la luce e splendevano in trasparenza della luce verde come di un vetro di bottiglia.

Su uno spiazzo aperto, presso l’archivio, il capo collegamento Kamennodvorskij dava alle fiamme le scartoffie già esaminate e inutili, provenienti dal bottino di un reggimento di Kappel, e insieme bruciava mucchi di carte dell’unità partigiana. Il fuoco del falò ardeva controluce e il sole traspariva attraverso le fiamme come attraverso la verzura dei bosco. Non si vedeva il fuoco, e solo dall’ondeggiare, in uno sfavillio di pagliuzze di mica, dell’aria arroventata, si poteva capire che li qualcosa bruciava.

Qua e là il bosco era chiazzato da ogni sorta di bacche mature, degli eleganti grappoli della crocifera, dei floscio sambuco color bruno mattone, e di quelli bianco-cremisi del viburno. Facendo vibrare le aluzze vitree, navigavano lentamente nell’aria libellule screziate, trasparenti come il fuoco e il bosco.

Sin dall’infanzia Jurij Andrèevich amava i boschi al crepuscolo, quando filtra la luce del tramonto. Era come se sentisse passare attraverso di sé quelle lame di luce; come se il dono di uno spirito vitale gli entrasse a torrenti nel petto, attraversasse tutto il suo essere e ne uscisse sotto forma d’un paio d’ali sulle spalle. Quel prototipo giovanile che si forma in ciascuno per tutta la vita e poi per sempre assume i lineamenti del proprio volto interiore, della propria personalità, si risvegliava in lui con tutta la sua forza iniziale, e costringeva la natura, il bosco, il crepuscolo e ogni cosa visibile a rivestirsi con le sembianze altrettanto primordiali e universali di una fanciulla. «Lara!» mormorava, chiudendo gli occhi e rivolgendosi mentalmente alla propria vita, a tutta la terra di Dio, allo spazio illuminato dal sole che gli si apriva alla vista.

Ma la consueta, l’immediata realtà continuava. In Russia c’era la rivoluzione d’Ottobre, e lui era prigioniero dei partigiani, e, senza quasi rendersene conto, si accostò al falò di Kamennodvorskij.

«Distruggete i verbali? Non avete finito di bruciarli?»

«Macché! Ne avrò per un pezzo.»

Con la punta dello stivale il dottore rovesciò e scompigliò uno dei mucchi di carte. Era la corrispondenza telegrafica di uno stato maggiore dei bianchi. Gli balenò per un istante la confusa supposizione che in quelle carte avrebbe potuto leggere il nome di Rancevich. Ma era una raccolta, priva di interesse, di comunicati cifrati dell’anno precedente, redatti con abbreviazioni incomprensibili, come per esempio: «Omsk Gensup primo copia Omsk carta quaranta “verste” Enisèj non pervenuto.» Scompigliò col piede un altro mucchio. Ne saltarono fuori i verbali di vecchie riunioni partigiane. Sopra le altre stava una carta: «Urgentissimo. Oggetto: licenze. Rielezione dei membri della commissione di revisione. A causa della mancanza di prove d’accusa nei confronti della maestra del villaggio Ignatodvorcy, il soviet dell’armata ritiene…»

In quel momento Kamennodvorskij si tolse di tasca un foglio e glielo porse dicendo:

«Sono le istruzioni per il reparto medico in caso di partenza. I carri delle famiglie sono già vicini. Tutte le questioni sorte nel campo saranno appianate oggi. Possiamo attenderci di partire da un giorno all’altro.»

Il dottore gettò un’occhiata al foglio ed esclamò:

«E’ meno di quanto mi abbiano dato l’ultima volta! E ci sono tanti feriti in più! Quelli che possono camminare e hanno solo le bende andranno a piedi. Ma sono un numero trascurabile. Ma come faccio a trasportare quelli gravi? E le medicine, le brande, l’attrezzatura!?»

«In qualche modo vi arrangerete. Bisogna adattarsi alle circostanze. Adesso, un’altra cosa. Una preghiera da parte di tutti. Abbiamo qui un compagno, temprato, provato, devoto alla causa e magnifico combattente. Gli succede qualcosa che non va.»

«Palych? Me ne ha parlato Layos.»

«Sì. Andate da lui. Visitatelo.»

«Qualcosa di psichico?»

«Suppongo. Vede certi folletti, come dice lui. Evidentemente si tratta di allucinazioni. Insonnia. Dolori di testa.»

«Bene, andrò subito. Ora sono libero. Quando comincia il comizio?»

«Credo si stiano già riunendo. Ma che v’importa? Vedete che non ci vado neanche io. Faranno senza di noi.»

«Allora andrò da Pamfìl. Benché non mi regga in piedi dal sonno. Di notte a Liverij Avèrkievich gli va di filosofeggiare, e non la smette più. Come si fa ad andare da Pamfìl? Dov’è alloggiato?»

«Conoscete il boschetto dietro la fossa dei macigni? Il bosco di betulle.»

«Lo troverò.»

«Là, nella radura, ci sono le tende dei comandanti. Ne abbiamo assegnata una a Pamfìl, in attesa della famiglia. La moglie e i bambini devono arrivare col convoglio. Sì, abita in una delle tende dei comandanti, con gli stessi diritti di un comandante di battaglione. Per i suoi meriti rivoluzionari.»

Il dottor Zivago
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