4.
Alle soglie dell’inverno varie cause provocarono nell’accampamento un lungo periodo di inquietudini, dì incertezze sull’avvenire, di interrogativi angosciosi e confusi, di strane incongruenze.
I bianchi avevano portato a termine l’accerchiamento degli insorti. Alla testa dell’operazione ormai compiuta stavano i generali Vicyn, Kvadri e Basalygo, che avevano fama di fermezza e di decisione irremovibili. I loro soli nomi terrorizzavano le mogli dei partigiani e la popolazione civile che non aveva ancora abbandonato il luogo natio e rimaneva nei villaggi, oltre la catena dell’accerchiamento nemico.
Come si è detto, era difficile che l’accerchiamento potesse stringersi. Al riguardo, si poteva essere tranquilli. Ciò nonostante non era possibile restare passivi. Accettare supinamente la situazione significava rafforzare moralmente il nemico. Pure se la trappola non era pericolosa, bisognava sforzarsi di uscirne, anche solo a scopo dimostrativo.
A tale fine furono selezionate ingenti forze partigiane e concentrate contro l’arco occidentale dell’accerchiamento. I combattimenti si protrassero molti giorni: i partigiani batterono il nemico e, sfondando le linee in quel punto, penetrarono nelle retrovie.
Attraverso la breccia creata dallo sfondamento, si apriva l’accesso verso gli insorti nella “tajgà”. Nuove folle di profughi affluirono da quella parte per congiungersi all’unità partigiana, un torrente di pacifica gente di campagna, non costituito soltanto dalle famiglie dei combattenti. Tutti i contadini della zona si erano mossi, terrorizzati dalle repressioni dei bianchi; avevano abbandonato i loro focolari e gravitavano istintivamente verso l’esercito contadino dei boschi in cui vedevano la loro difesa.
Ma nel campo c’era già la tendenza a liberarsi dei propri parassiti. I partigiani non avevano intenzione di accoglierne di nuovi, per di più estranei. Andavano perciò incontro ai profughi fermandoli a metà strada e facendoli deviare verso un mulino sul fiumiciattolo Cilinka. La località - una radura coltivata, su cui erano sorti, intorno al mulino, vari casolari - si chiamava Dvory. Là pensavano di impiantare un accampamento, dove i profughi potessero svernare, e di allestire per loro un deposito di viveri.
Ma, nell’attesa, gli avvenimenti seguivano il loro corso e sfuggivano al controllo del comando.
La vittoria riportata sul nemico non era stata risolutiva. I bianchi avevano lasciato che i partigiani si inoltrassero nel loro territorio, e poi li avevano tagliati fuori richiudendo l’accerchiamento. Al reparto penetrato nelle retrovie e ormai isolato era perciò tagliata la via del ritorno nella “tajgà”.
La sorte di quel reparto d’avanguardia non destava preoccupazioni: quel pugno di truppe irregolari avrebbe sicuramente trovato il modo di congiungersi con le forze dell’armata rossa. Ma l’assenza di un notevole contingente di uomini scelti ebbe un effetto pernicioso su quelli rimasti nell’accampamento, minandone le possibilità difensive e combattive.
Anche con le profughe le cose non andavano. Nella fitta impenetrabile boscaglia era complicato ritrovarsi e i partigiani mandati loro incontro ne perdevano le tracce e tornavano indietro senza averne notizia. Le donne si inoltravano per loro conto nella “tajgà” come una fiumana, compiendo durante la marcia prodigi d’ingegnosità, abbattendo la boscaglia da ogni parte, costruendo ponti e camminamenti di fascine, tracciando intere strade.
Le cose si svolgevano in contrasto con le intenzioni dello stato maggiore dei boschi, e capovolgevano da cima a fondo i piani di Liverij e le sue previsioni.