11.
La casa in cui il dottore era stato chiamato sorgeva in fondo alla via Brèstskaja, presso la Barriera di Tver’.
Era un vecchissimo edificio di mattoni, tipo caserma, con un cortile interno e ballatoi di legno che circondavano su tre piani le costruzioni in fondo al cortile stesso.
Gli inquilini tenevano un’assemblea generale, fissata in precedenza, cui era intervenuta una rappresentante del soviet rionale, quando improvvisamente si era presentata la commissione militare di ronda, che controllava i permessi di detenzione d’armi da fuoco e sequestrava le armi non autorizzate. Il capo della ronda aveva pregato la delegata di non andarsene, assicurando che la perquisizione non avrebbe preso molto tempo, che gli inquilini, via via sbrigati, avrebbero potuto tornare a riunirsi, così che l’assemblea si sarebbe potuta riprendere al più presto.
Quando il dottore si avvicinò alla porta, la perquisizione volgeva infatti al termine, ed era appunto la volta dell’alloggio dove egli era atteso. Un soldato col fucile tenuto a tracolla da una cordicella e che stava di guardia a una delle scale che portavano ai ballatoi, si rifiutò recisamente di lasciarlo passare. Ma il capo della ronda intervenne perché non si facessero difficoltà al dottore, e consentì, anzi, a rimandare la perquisizione a dopo la visita. Il dottore venne accolto dal padrone di casa, un giovane gentilissimo, con un volto olivastro e malinconici occhi scuri. Era in preda all’agitazione per molti motivi: la malattia della moglie, la perquisizione imminente e un rispetto reverenziale verso la medicina e i suoi rappresentanti.
Per risparmiare tempo e fatica al dottore, cercava di parlare nel modo più stringato possibile, ma la concitazione finiva per rendere il suo discorso lungo e sconnesso.
L’appartamento era arredato con un misto di lusso e di roba a buon mercato, comprata in fretta per investire il denaro, che andava vertiginosamente svalutandosi. Pezzi spaiati completavano la mobilia scompagnata. Il padrone di casa riteneva che la moglie avesse una malattia di nervi contratta in seguito a uno spavento. Tra una serie di inutili particolari, raccontò d’aver acquistato a poco prezzo un antico carillon guasto, da tempo fuori uso. Lo avevano acquistato soltanto come una curiosità di oreficeria, come una rarità (e accompagnò il dottore nella stanza vicina per mostrarglielo), dubitando anche che potesse essere riparato. Ed ecco che improvvisamente l’orologio, che per anni non era stato caricato, s’era messo a funzionare, aveva suonato il suo complicato minuetto e poi si era fermato. La moglie ne era rimasta terrorizzata - raccontava - credendo che fosse suonata la sua ultima ora, e ora era a letto, in delirio, non mangiava, non beveva e non riconosceva nemmeno lui.
«E così, voi credete che sia uno choc nervoso?» chiese Jurij Andrèevich con tono di dubbio. «Accompagnatemi dall’ammalata.»
Entrarono nella camera accanto: al centro pendeva un lampadario di porcellana e due comodini di mogano fiancheggiavano il grande letto matrimoniale. Con la coperta tirata fin sopra il mento, quasi sull’orlo del letto, giaceva una piccola donna dai grandi occhi neri. Vedendoli entrare, accennò, come per scacciarli via, un gesto col braccio che sbucava di sotto la coperta, lasciando scivolare fino all’ascella l’ampia manica della vestaglia. Non riconosceva il marito e, come se nella stanza non ci fosse nessuno, con voce sommessa prese a cantare le prime strofe di una malinconica canzone che la commosse tanto da farla scoppiare in lacrime. Gemendo come una bambina, chiedeva di tornare a casa e da qualunque parte il dottore le si avvicinasse, non si faceva toccare e gli volgeva ogni volta le spalle.
«Bisognerebbe visitarla,» disse Jurij Andrèevich, «ma la cosa è già chiara così: si tratta di tifo petecchiale e in forma abbastanza grave. La poverina soffre molto. Qui non si tratta di comodità, che voi potreste offrirle anche in casa, ma di avere un controllo medico continuo, necessario nelle prime settimane della malattia. Potete procurarvi qualche veicolo, trovare un vetturino o, in caso estremo, un carretto, per trasportarla all’ospedale, naturalmente coprendola bene? Vi farò il certificato.»
«Posso farlo. Cercherò. Ma, aspettate. Possibile che sia davvero tifo? Che cosa terribile.»
«Purtroppo.»
«Se la lascio andar via, ho paura di perderla. Proprio non potreste curarla a casa, moltiplicando le vostre visite? Vi darei qualsiasi compenso.»
«Vi ho spiegato. L’importante è un controllo continuo. Ascoltatemi, vi ho dato un buon consiglio. Procuratevi a ogni costo un vetturino, e io redigerò il certificato per l’ospedale. La miglior cosa è presentarlo al vostro Comitato di caseggiato. Occorre, infatti, il timbro del caseggiato e qualche altra formalità.»