9.
Era ormai sopraggiunto l’inverno. Il gelo era feroce. Nella nebbia gelata, senza un nesso apparente, apparivano suoni e forme spezzate, si fermavano immobili, si muovevano, scomparivano. Non brillava il sole cui si è abituati sulla terra, ma un altro sole, quasi artificiale, librato sul bosco come un globo scarlatto. Da dove, come da un sogno o da una fiaba, si spandevano lenti e a fatica raggi densi e d’una luce d’ambra come miele, che per via si gelavano nell’aria o si rapprendevano sugli alberi.
Sfiorando appena terra con le loro tonde suole e alzando a ogni passo sulla neve un infuriato scricchiolio, si muovevano in tutte le direzioni piedi invisibili calzati di “vàlenki”, mentre i corpi al di sopra, coperti di pellicciotti e di berretti caucasici, fluttuavano per conto proprio nell’aria come astri roteanti nelle sfere celesti.
Chi si conosceva si fermava e attaccava discorso. Si avvicinavano l’una all’altra facce paonazze, come ai bagni turchi, con i ghiaccioli delle barbe e dei baffi, e dalle bocche erompevano nuvole di vapore denso e viscido, tanto enormi da apparire sproporzionate alle avare parole, anch’esse gelide, della laconica conversazione.
Sul sentiero s’incontrarono Liverij e il dottore.
«Ah, siete voi? Quant’è che non ci si vede! Vi pregherei di venire questa sera nel mio rifugio. Dormite da me. Ricorderemo i bei tempi, parleremo un po’. Ho avuto notizie.»
«E’ tornato il corriere? Ci sono notizie di Varykino?»
«Nel rapporto non si fa cenno né dei miei, né dei vostri. Ma proprio questo mi pare un segno rassicurante. Significa che hanno fatto in tempo a mettersi in salvo. Altrimenti se ne parlerebbe. Del resto, discuteremo di tutto stasera. Dunque vi aspetto.»
Nel rifugio il dottore ripeté la domanda.
«Ditemi solo una cosa: che sapete delle nostre famiglie?»
«Di nuovo non volete vedere niente al di là del vostro naso. A quanto pare, sono vivi e al sicuro. Ma non si tratta di loro. Ci sono magnifiche notizie. Volete della carne? Arrosto di vitello freddo.»
«No, grazie. Non cambiate argomento. Voglio notizie più precise.»
«Fate male. Io mangio. Nel campo c’è lo scorbuto, la gente ha perfino dimenticato che cosa sia il pane, la verdura. In autunno, finché erano qui le profughe, avremmo dovuto fare una raccolta più organizzata di noci e di bacche. Stavo dicendo che le nostre cose vanno ottimamente. Quel che avevo predetto si è avverato. Il ghiaccio si è mosso. Kolchak è in ritirata su tutti i fronti. E’ una disfatta completa, inarrestabile. Vedete? Che cosa vi dicevo? E voi che piagnucolavate!»
«Quando piagnucolavo?»
«Continuamente. Soprattutto quando Vicyn ci dava addosso.»
Il dottore rammentò l’autunno precedente, la fucilazione dei congiurati, la strage di Palych, tutto quel sanguinoso massacro, quella carneficina di cui non si scorgeva la fine. Bianchi e rossi gareggiavano in efferatezze, continuamente moltiplicando le atrocità per rappresaglia e reazione. Il sangue faceva nausea, saliva alla gola e dava alla testa, pure gli occhi vi nuotavano dentro. Il suo non era stato certo un piagnisteo, ma qualcosa di ben diverso. Ma come spiegarlo a Liverij?
Nel rifugio c’era un pungente aroma di gas carbonico che si depositava sul palato, dava il pizzicorino al naso e alla gola. Il locale infatti era illuminato da fuscelli sottili che ardevano in un treppiedi di ferro. Quando un fuscello era consumato, la sua estremità carbonizzata cadeva in un recipiente pieno d’acqua e Liverij lo sostituiva con un altro appena acceso.
«Vedete che cosa brucio. L’olio è terminato. Ma questa legna è troppo secca, i fuscelli si consumano presto. Sì, nel campo c’è lo scorbuto. Non volete proprio accettare un po’ di questo vitello? Lo scorbuto. E voi, cosa ci state a fare, dottore? Perché non pensate a riunire il comando, a spiegare la situazione e a tenere ai dirigenti una conferenza sullo scorbuto e sulle misure da prendere?»
«Non torturatemi, per amor di Dio. Cosa sapete di preciso sui nostri cari?»
«Vi ho detto che di loro non ho nessuna notizia precisa. Ma non ho finito di dirvi quello che so dagli ultimi bollettini di guerra. La guerra civile è finita. Kolchak è completamente sconfitto. L’Esercito Rosso lo insegue lungo la linea ferroviaria verso est per buttarlo a mare. Un’altra unità dell’Esercito Rosso sta accorrendo per congiungersi a noi, in modo da annientare con le nostre forze unite le varie sacche nemiche sparse qua e là. Il sud della Russia è già ripulito. Ebbene, non vi rallegrate? Vi pare poco?»
«No. Sono contento. Ma dove sono le nostre famiglie?»
«Non sono a Varykino ed è una grande fortuna. Benché le voci di quest’estate, come supponevo, non abbiano avuto conferma - ricordate quelle stupide dicerie di una invasione di chissà quale popolo misterioso? - il villaggio è però interamente abbandonato. Qualcosa dev’essere successo ed è una gran fortuna che le nostre famiglie se ne siano andate in tempo. Dobbiamo pensare che siano salve. Questa è l’idea dei pochi rimasti, secondo il rapporto della ricognizione.»
«E Jurjatin? Che è successo laggiù? In mano di chi è?»
«Anche là qualcosa di strano. Ci dev’essere un errore.»
«E cioè?»
«Sembrerebbe che vi siano ancora i bianchi. Ma è impossibile, è un’assurdità. Ora ve lo dimostrerò coi fatti.»
Liverij mise nel treppiede un altro fuscello e svolse una logora carta militare più volte ripiegata. Aprendola nelle parti che lo interessavano, cominciò a indicare con la matita che teneva in mano.
«Guardate, in tutti questi settori i bianchi sono stati respinti. Ecco, qui, qui, e qui, lungo tutto quest’arco. Mi seguite?»
«Sì.»
«Non possono perciò trovarsi nel raggio di Jurjatin. Altrimenti, con le comunicazioni tagliate, cadrebbero inevitabilmente in una sacca. E i loro generali, per quanto ottusi, non possono non rendersene conto. Vi siete messo la pelliccia? Dove andate?»
«Scusate, un momento solo. Tornerò subito. Qui tra fumo di tabacco e puzzo di resina si soffoca. Non sto bene. Voglio prendere un po’ d’aria.»
Risalendo all’aperto dal rifugio, il dottore spazzò col guantone la neve dal grosso tronco, messo davanti all’ingresso come sedile. Vi si sedette, e rimase assorto, chino, con la testa fra le mani. Non esistevano più la “tajgà” invernale, l’accampamento nel bosco, i diciotto mesi passati fra i partigiani. Se n’era dimenticato. Nel suo pensiero c’erano soltanto i familiari, e Jurij faceva sulla loro sorte supposizioni su supposizioni, una più terribile dell’altra.
Ecco Tonja che cammina nella tormenta, in mezzo alla campagna, con Shùrochka in braccio, avvolto in una coperta. Le gambe le affondano nella neve, cammina a fatica, la tormenta la incalza furiosa, il vento la sospinge. Cade e si rialza, incapace ormai di reggersi sulle gambe indebolite, che cedono. Oh, ma perché continuava a dimenticarsene? Avevano non uno, ma due bambini, e Tonja ancora allattava il più piccolo. Aveva tutte e due le braccia impegnate, come le profughe sul fiume Cilinka che impazzivano dal dolore e dall’intollerabile fatica.
Tutte e due le mani impegnate, e nessuno accanto che possa aiutarla. Il papà di Shùrochka non si sa dove sia. E’ lontano, sempre lontano, tutta la vita lontano da loro. E che papà è mai quello, sono forse così i veri papà? Ma dov’è il padre di lei, dov’è Aleksàndr Aleksàndrovich? Dov’è Njusha? Dove sono gli altri? Oh, meglio non porsi tali domande, meglio non pensare, meglio non immaginare.
Si alzò dal tronco per scendere di nuovo nel rifugio. Ma a un tratto i suoi pensieri presero un’altra direzione e decise di non tornare da Liverij.
Da tempo aveva preparato gli sci, un sacco di gallette e l’occorrente per la fuga. Aveva sotterrato tutto nella neve oltre il limite del campo, sotto una grande pìcea, sulla quale, per maggior sicurezza, aveva inciso una tacca. Vi si diresse lungo il sentiero battuto tra i cumuli di neve.. Era una notte limpida, splendeva la luna piena. li dottore sapeva dove fossero disposte le sentinelle per la notte e riuscì a evitarle. Ma, vicino alla radura dove sorgeva il sorbo brinato, una sentinella gli diede da lontano il chi va là e, ritta sugli sci lanciati a tutta corsa, gli si avvicinò scivolando.
«Alt! O sparo. Chi sei? La parola d’ordine!»
«Sei ammattito, fratello? Sono dei nostri. Non m’hai riconosciuto? Sono il vostro dottore, Zivago.»
«Scusa, non prendertela, compagno Zelvàk. Non ti avevo riconosciuto. Ma, anche se sei Zelvàk, non ti lascio passare. Tutti devono rispettare il regolamento.»
«Ma sì, hai ragione. La parola è: ‘Siberia rossa’, risposta: ‘Abbasso gli interventisti!’»
«Allora è un altro discorso, va’ dove vuoi. Ma che diavolo hai da girare? Malati?»
«Non riesco a dormire e ho sete. Ho pensato di fare un giro e di succhiare un po’ di neve. Ho visto il sorbo con le bacche gelate, voglio assaggiarle.»
«Ecco le scemenze dei signori. Andare per bacche d’inverno. Sono tre anni che vi pestiamo e ripestiamo, ma non è servito a nulla. Nessuna coscienza di classe. Vai pure dal tuo sorbo, suonato! Per quel che me ne importa!» E preso lo slancio, la sentinella, ritta sui lunghi sci sibilanti, si staccò da Zivago scivolando vieppiù rapidamente sulla neve intatta, lontano, sempre più lontano, oltre i nudi cespugli invernali, esili come capelli radi.
Seguendo il sentiero il dottore raggiunse il sorbo.
L’albero affondava nella neve: ne emergeva solo con le foglie e le bacche gelate e protendeva verso di lui due rami carichi di neve. Gli balenarono dinanzi le lunghe bianche braccia di Lara, tonde, generose, e afferrandosi ai rami, attrasse l’albero a sé. Come con un consapevole movimento di risposta, il sorbo lo ricoprì di neve dalla testa ai piedi. Senza sapere che cosa dicesse, inconsciamente mormorò:
«Ti vedrò, mia stupenda bellezza, mia principessa, mio piccolo sorbo, mia cara, sangue del mio sangue!»
La notte era limpida, splendeva la luna. Si inoltrò ancora nella “tajgà” fino alla pìcea, dissotterrò le sue cose e lasciò l’accampamento.