7.

La Kubàricha esorcizzava la mucca malata della Palicha, la moglie di Pamfìl, Agaf’ja Fòtievna, detta familiarmente Fàtevna. La mucca era stata allontanata dalla mandria, portata vicino a una macchia, e legata per le corna a un albero. Di fronte, presso le zampe davanti, seduta su un ceppo, stava la padrona; dietro, sullo sgabello che serviva alla mungitura, la fattucchiera.

Il resto della innumerevole mandria era pigiata nella piccola radura circondata tutt’intorno, come da una parete, dagli abeti cuspidati, alti come montagne, che sembrava sedessero sulla terra con le grosse terga dei larghi rami inferiori.

In Siberia si allevava una razza particolarmente pregiata di vacche svizzere, quasi tutte con lo stesso mantello, nero a macchie bianche. Le bestie non erano meno spossate degli uomini dalle privazioni, dalle lunghe marce, dall’insopportabile ressa. Era soprattutto per questo che si ammalavano. Addossate l’una all’altra, impazzivano dal pigia-pigia. Nel loro stordimento, dimenticavano quale fosse il proprio sesso e, muggendo, montavano come tori una sull’altra, sollevando a fatica le lunghe e pesanti mammelle. Le vitelle, così coperte, fuggivano rizzando la coda e, spezzando rami e arbusti, si rifugiavano nel bosco dove le inseguivano gridando vecchi pastori e giovani mandriani.

Così pure le nevose nuvole bianco-nere, rinchiuse nella stretta cerchia che le vette degli abeti tracciavano nel cielo invernale, si affollavano sopra la radura tempestose e disordinate, s’impennavano e si ammucchiavano una sull’altra.

Alcuni curiosi, raggruppati in disparte, disturbavano la fattucchiera. La Kubàricha li squadrava con uno sguardo ostile, ma ci avrebbe perduto in dignità ad ammettere che la infastidivano. Era il suo amor proprio di artista a impedirglielo e fingeva di non notarli. Il dottore la guardava dal gruppo, nascondendosi alla sua vista. Era la prima volta che poteva osservarla bene. La Kubàricha indossava il suo solito berretto inglese e il cappotto color pisello delle truppe alleate, negligentemente slacciato. Del resto, l’espressione altezzosa di cupa passionalità, gli occhi giovanilmente lampeggianti sotto le nere sopracciglia dipingevano chiaramente sul suo volto non più giovane quanto poco conto facesse di quello che portava addosso.

Ma fu l’aspetto della moglie di Pamfìl a meravigliare Jurij Andrèevich. Stentava a riconoscerla. In pochi giorni era spaventosamente invecchiata. Gli occhi stralunati sembrava stessero per uscire dalle orbite. Sul collo allungato come una stanga palpitava un muscolo contratto. Così l’avevano ridotta le sue segrete angosce.

«Non dà latte, cara,» diceva Agaf’ja. «Credevo che non fosse il suo periodo, invece no, l’avrebbe già dovuto dare ed è sempre senza latte.»

«Che c’entra il periodo? Non vedi che ha un foruncolo sul capezzolo? E’ l’antrace. Ti darò un’erba con lo strutto per ungerla e poi, naturalmente, farò gli scongiuri.»

«L’altra mia disgrazia è il marito.»

«Gli farò la fattura, perché non vada appresso ad altre. Si può. Si attaccherà a te, non te lo potrai più togliere di dosso. Dimmi la terza disgrazia.»

«Ma lui non va appresso a nessuna. Magari ci andasse. La disgrazia è proprio che fa il contrario, s’è attaccato a me, ai bambini, si consuma l’anima per noi. Io lo so che pensa. Pensa che divideranno l’accampamento e ci manderanno noi da una parte e lui dall’altra, che noi andremo a finire in mano a quei briganti e lui starà lontano, e non ci sarà nessuno a difenderci. Pensa che ci tortureranno, che si divertiranno ai nostri tormenti. Li conosco, io, i suoi pensieri. Purché non faccia qualche pazzia!»

«Ci penseremo. Gli toglieremo la malinconia. Dimmi la terza disgrazia.»

«Ma non ne ho una terza! Sono tutte qui, la mucca e il marito.»

«Ah, sei povera di sciagure, madre mia! Guarda come ti vuole bene, Iddio. Oggigiorno quelle come te si cercano col lanternino. Due pene per una povera testolina, e una sarebbe un marito troppo buono. Che mi dai per la mucca? Cominciamo a vedere.»

«E tu che vuoi?»

«Un filone di pane bianco e il marito.»

Intorno scoppiarono risate.

«Scherzi?»

«Be’, se proprio ci tieni, rinuncerò al pane. Ci accorderemo sul solo marito.»

Le risa si moltiplicarono.

«Come si chiama? No, non il marito, la mucca.»

«Krasava.»

«Qui, mezza mandria, son tutte Krasava. Be’, non importa. Benediciamo.» E cominciò a esorcizzare la mucca. Dapprima i suoi sortilegi si rivolsero effettivamente alla bestia, poi, presa dall’empito, recitò ad Agaf’ja una intera lezione sulla magia e le sue applicazioni. Jurìj Andrèevich ascoltava incantato quel delirante ghirigoro, come quando, giunto in Siberia dalla Russia europea, aveva ascoltato la variopinta chiacchiera del vetturino Vakch.

La donna diceva:

«Zia Morgos’ja, vienici a visitare. Martedì mercoledì, togli la fattura al foruncolo. Staccati, impiastro, dal capezzolo della vacca. Sta’ quieta, Krasava, non ribaltare il panchetto. Sta’ come un monte, dà latte come un fiume. Orco, demonio, scrosta la tignosa crosta, buttala alle ortiche. E’ salda come la parola dello zar, la parola della guaritrice. Tutto bisogna sapere, Agàf’jushka, scongiuri, ingiunzioni, parole che scacciano, parole che difendono. Ecco, tu guardi, e credi sia bosco. E questa invece è la forza impura che s’è scontrata coi guerrieri angelici, e combatte, come i vostri con quei briganti. Oppure guarda dove ti mostro io, per esempio. No, non da quella parte, cara. Con gli occhi guarda e non con la nuca, guarda là dove ti indico col dito. Ecco, ecco. Cosa credi che sia? Credi sia il vento che ha torto e attorto ramo con ramo? Credi sia un uccello che ha pensato di intrecciare il nido? Macché! E’ il più autentico intrigo di demoni. E’ una “rusalka”77 che stava intrecciando un serto per la sua figliola. Ha sentito venir gente e ha piantato lì. L’hanno spaventata. Finirà a notte, terminerà d’intrecciare, vedrai. Oppure, anche la vostra bandiera rossa. Cosa credi? Credi che sia una bandiera? No, sai, non è una bandiera: è il fazzoletto rosso incantato della fanciulla-che-dà-la-morte, che attira, dico, ma perché, che attira? Col fazzoletto attira e ammicca ai giovani ragazzi, attira i giovani ragazzi alla morte, per mandarli alla rovina. Voi credevate che fosse una bandiera, accorrete a me, poveri e proletari di tutti i paesi. Adesso bisogna sapere tutto, mamma Agaf’ja, tutto, tutto, tutto com’è. Quale uccello, quale pietra, quale erba. Adesso, per esempio, quell’uccello sarà uno stornello. La bestia sarà il tasso. Adesso, per esempio, pensa con chi vuoi divertirti, basta che me lo dici. Ti farò venir chiunque vuoi tu. Se lo vuoi, il capo di tutti voi, il vostro Lesnych, anche Kolchak se vuoi, anche Ivàn lo zarevich, se vuoi. Credi che mi vanti, che mentisca? No, non mento, io. Su, guarda, ascolta. L’inverno verrà, e verrà la tormenta ad affollare turbini nei campi e vortici d’aria. E in quel turbine di neve, in quella tromba di neve io infiggerò il coltello, pianterò il coltello nella neve fin proprio al manico, e lo tirerò fuori tutto rosso di sangue. L’hai visto? Eh? E credevi che mentissi. Ma di dove viene, dimmi, il sangue in un turbine di tempesta? Eppure è solo vento, aria, polvere di neve. Qui sta il punto, comare, che non è vento questo e tormenta, ma la strega senza marito che ha perduto il suo cucciolo stregoncino che si è tramutato, lo cerca nei campi, piange, non riesce a ritrovarlo. E’ in lei che il mio coltello affonderà. Per questo c’è il sangue. E io con questo coltello ti taglio, ritaglio l’orma di chi vuoi e di seta te la cucio alla gonna. E tanto che sia Kolchak, tanto che sia Strèl’nikov, tanto un nuovo zar, chiunque sia ti verrà alle calcagna, dove andrai tu, anche lui andrà. E tu credevi che mentissi, credevi, poveri e proletari di tutti i paesi accorrete a me. Oppure anche, per esempio, adesso cadono pietre dal cielo, come pioggia cadono. L’uomo esce sulla soglia di casa e gli piovono addosso pietre. O altri hanno visto cavalieri passare nel cielo, che gli zoccoli dei cavalli toccano i tetti. O certi stregoni anticamente dicevano: questa donna contiene in sé grano o miele o pelliccia di martora. E i guerrieri con la corazza le aprivano una spalla, come si apre un cofanetto, e con la spada dalla scapola toglievano a questa una misura di frumento, a quella uno scoiattolo, a quell’altra un favo.»

Talvolta al mondo ci si imbatte in un grande e forte sentimento. A esso si mescola sempre la pietà. L’oggetto della nostra adorazione tanto più ci sembra una vittima, quanto più l’amiamo. In certi la compassione per la donna supera ogni limite pensabile. Col pensiero collocano la donna in situazioni impossibili, che al mondo non si danno, esistenti solo nell’immaginazione, e sono gelosi dell’aria che la circonda, delle leggi della natura, dei millenni trascorsi prima di lei.

Jurij Andrèevich ne sapeva abbastanza per nutrire il sospetto che le ultime parole della fattucchiera fossero i passi iniziali di una cronaca, di Nòvgorod o di Ipat’ev78 che fosse, con sovrapposte correzioni e aggiunte apocrife. Per secoli maghi e novellatori hanno deformato le cronache, tramandate oralmente di generazione in generazione. E già prima le avevano manomesse e alterate gli amanuensi.

Perché era stato preso fino a quel punto dal fascino della tradizione? Perché ascoltava quell’incomprensibile farneticare, quella fantasia priva di senso, come si trattasse di cose reali?

A Lara avevano aperto la spalla sinistra. Con un mezzo giro di lama di spada le avevano scoperchiato la scapola, come s’introduce la chiave nello sportello segreto di un piccolo forziere celato nell’armadio. Dalla profonda aperta cavità della sua anima si svelavano i segreti lì racchiusi. Città straniere visitate, strade straniere, case straniere, spazi stranieri si allungavano a nastri, a matasse di nastri, a gomitoli di nastri che si sdipanavano e traboccavano.

Oh, come l’amava! Come era bella! Proprio come lui aveva sempre pensato e sognato, e come ne aveva bisogno! Ma cos’era che gliela rendeva così? Qualcosa che si poteva separare, scomporre come in un’analisi? Oh, no, no. Era quella linea inimitabilmente semplice e netta, con cui in un unico tratto, dall’alto al basso, l’aveva tracciata il creatore, e con quel divino disegno l’aveva consegnata alla sua anima, allo stesso modo in cui si avvolge stretto in un asciugamano un bimbo appena levato dal bagno.

Ma dov’era lui adesso e che accadeva? La foresta, la Siberia, i partigiani. Erano circondati, e lui avrebbe diviso la loro sorte. Che assurda diavoleria. Di nuovo si sentì confondere gli occhi e la mente. Tutto vacillava davanti a lui. In quel momento, invece della neve attesa, prese a cadere la pioggia. La forma di una meravigliosa adorata testa si protendeva nell’aria da un’estremità all’altra della radura, nebulosa, molto più grande del naturale, come uno striscione teso fra casa e casa in una strada cittadina. La testa piangeva e la pioggia, sempre più fitta, la baciava, inondandola.

«Vai,» disse la fattucchiera ad Agaf’ja, le ho fatto gli scongiuri alla tua mucca, adesso guarirà. Prega la madre di Dio. Poiché essa è torre di luce e libro della parola di vita.»

Il dottor Zivago
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