29.
Si scorgeva da quella parte un tratto di binario e, su una collina, la stazione di Razvil’e e il villaggio dello stesso nome.
Un viadotto di legno greggio a tre rampe di scalini portava dai binari alla stazione.
Da quella parte i binari avevano l’aspetto di un vero cimitero di locomotive. Vecchie macchine usate senza tender, coi camini a forma di tazze e di stivali, erano ferme l’una di fronte all’altra in mezzo ad ammassi di vagoni fracassati.
Quel cimitero di locomotive e più su il villaggio, quest’altro cimitero, il ferro contorto sui binari, i tetti e le insegne arrugginite dell’abitato si fondevano in uno spettacolo di abbandono e di disfacimento sotto un cielo bianco, arroventato dalla precoce calura mattutina.
A Mosca, Jurij Andrèevich aveva dimenticato quante insegne vi fossero nelle città e quanta parte delle facciate coprissero. Quelle insegne glielo fecero tornare in mente. La maggior parte, a grandi caratteri, potevano leggersi dal treno, e incombevano talmente sulle finestre di quelle tozze costruzioni a un piano che vi scomparivano sotto, come teste di bambini di campagna dentro i berretti paterni calzati fin sugli occhi.
Intanto la nebbia si era completamente diradata. Ne erano rimaste alcune tracce solo a sinistra, nel cielo lontano, verso oriente. E anche queste si agitarono, si mossero e s’aprirono come lembi di un sipario.
Là, in fondo, a tre “verste” da Razvil’e, su una collina più alta dei villaggio apparve una grande città, un capoluogo di distretto o di provincia. Il sole la illuminava di una luce giallognola, la distanza ne semplificava le linee. Si modellava a scaglioni sull’altura, casa su casa, strade su. strade e con una gran cattedrale nel mezzo, sulla cima, come in una stampa popolare un eremo o il monte Afon.
«Jurjatin!» pensò il dottore con emozione. «L’argomento di tutti i racconti di Anna Ivànovna, la città che così spesso nominava anche la crocerossina Antipov! Quanto ne ho sentito parlare da loro e in quali circostanze la vedo per la prima volta!»
In quel momento l’attenzione dei militari chini sulla macchina da scrivere fu attratta da qualcosa fuori della finestra. Volsero la testa in quella direzione e il dottore seguì il loro sguardo.
Per la scala venivano condotti alla stazione alcuni prigionieri, o arrestati, fra cui un liceale ferito alla testa. Lo avevano fasciato, ma il sangue filtrava attraverso la benda e il ragazzo lo tergeva passando il palmo della mano sul volto abbronzato e coperto di sudore.
Fra i due soldati rossi, che chiudevano la fila, lo studente colpiva per la decisione a cui era improntato il suo bel viso e, nello stesso tempo, muoveva a pietà per la sua giovinezza. Ma tutti e tre attiravano l’attenzione per l’assurdità dei loro atti: facevano infatti tutto il contrario di quello che avrebbero dovuto fare.
Al giovinetto scivolava continuamente il berretto dalla testa bendata e, invece di toglierselo e tenerlo in mano, continuava a rimetterselo a posto calzandoselo meglio malgrado la ferita, aiutato in questo sollecitamente dai due soldati.
In quell’assurdità, contraria a ogni buon senso, vi era qualcosa di simbolico. Intuendone di colpo il significato riposto, il dottore avrebbe voluto correr fuori e impedire che lo studente continuasse, dicendogli qualcosa che, nell’impeto del sentimento, già gli veniva alle labbra. Avrebbe voluto gridare al ragazzo e a coloro che stavano a guardarlo che la salvezza non consisteva nella fedeltà alle forme, ma nel sapersene liberare.
Riportò lo sguardo all’interno del vagone; a passi rapidi e decisi era entrato Strèl’nikov.
Come era stato possibile fino ad allora, fra tanta folla di conoscenze incolori, non farne una così significativa come con quell’uomo? Perché la vita non li aveva fatti incontrare? Come mai le loro strade non s’erano incrociate?
Senza sapersene dire il perché, gli appariva subito chiaro che quell’uomo incarnava una compiuta espressione della volontà. A tal punto era ciò che voleva essere, che ogni cosa in lui e addosso a lui sembrava esemplare: la sua testa armonicamente costruita e atteggiata, la rapidità del suo passo, le sue lunghe gambe negli alti stivali, forse anche sporchi ma che apparivano lucidi, la camicia militare di panno grigio, forse anche sgualcita, ma che dava l’impressione d’essere di tela e ben stirata.
Così si manifestava la presenza del talento, di un talento naturale, che non conosceva sforzo, che si sentiva a suo agio in qualunque situazione della vita, e per questo soggiogava.
Quell’uomo doveva possedere un dono, non necessariamente originale: questo dono, che traspariva da ogni suo movimento, poteva anche essere il dono dell’imitazione. Tutti allora si foggiavano su qualcuno: un celebre eroe della storia; una persona ammirata al fronte o nelle sommosse di città; una figura che aveva colpito l’immaginazione; le autorità più riconosciute, i compagni più in alto; o, semplicemente, un altro qualunque.
Per cortesia, Strèl’nikov non mostrò di essere stupito o disturbato dalla presenza dell’estraneo. Si rivolse anzi ai presenti come comprendendovi anche lui e disse:
«Congratulazioni. Li abbiamo respinti. Sembra di giocare alla guerra con quelli lì, non di stare a fare una cosa seria: è perché anche loro sono russi, non meno di noi, solo con una dose di stupidità in più a cui non vogliono rinunciare. Perciò ci tocca cavargliela di testa con la forza. Il comandante era mio amico. E’ di origine anche più proletaria di me. Siamo cresciuti nello stesso cortile. Nella vita ha fatto molto per me e gli sono debitore. Eppure sono contento d’averlo respinto oltre il fiume e, forse, anche più in là. Ripristinate al più presto il collegamento, Gur’jàn. Non possiamo contentarci delle ordinanze e del telegrafo. Avete sentito che caldo? Comunque, sono riuscito a dormire un’ora e mezzo! Ah, sì…» parve ricordare e si volse verso il dottore. Gli era venuta in mente la ragione per cui l’avevano svegliato: una sciocchezza, col risultato che ecco qui quest’uomo davanti a me.
«Questo qui?» pensò Strèl’nikov, squadrando Zivago dalla testa ai piedi con sguardo scrutatore. «Nessuna somiglianza. Che stupidi!» Scoppiò a ridere e si rivolse a Jurij Andrèevich:
«Scusate, compagno. Vi hanno preso per un altro. Le mie sentinelle hanno sbagliato. Siete libero. Dov’è il libretto di lavoro del compagno? Ah, ecco i vostri documenti. Scusate l’indiscrezione, mi permetto di darci un’occhiata. Zivago… Zivago… Il dottor Zivago… moscovita, no? Passiamo un momento nel mio ufficio. Questa è la segreteria, il mio vagone è qui accanto. Prego. Non vi tratterrò a lungo.»