12.

Gli inquilini che avevano superato l’interrogatorio e la perquisizione tornavano uno dopo l’altro, coperti di scialli e pellicce, nel locale non riscaldato dell’ex magazzino di uova, ora occupato dal Comitato di caseggiato.

In un angolo c’era un tavolo da ufficio e alcune sedie, insufficienti tuttavia per tanta gente. Perciò erano state sistemate intorno, come sgabelli, le casse delle uova capovolte. All’estremità opposta, una montagna di casse toccava il soffitto. In un angolo erano stati ammucchiati i trucioli, che le uova rotte, gelando, avevano trasformato in blocchi compatti. In quel mucchio scorrazzavano rumorosamente i topi, spingendosi talvolta nello spazio libero del pavimento di pietra, e tornando poi subito a nascondersi in mezzo ai trucioli.

A ogni sortita, un’inquilina grassissima, seduta su una delle cassette, saltava su e lanciava uno strillo, e, ritirando un lembo della gonna con le dita leziosamente protese, batteva rapidamente i piedi calzati di stivaletti alla moda e con voce volutamente rauca, come fosse brilla, gridava:

«Ol’ka, Ol’ka, ma qui ci sono i topi! Ah, eccolo qui, maledetto! Ahi-ahi-ahi! Mi ha capito, canaglia! S’è arrabbiato. Ahi-ahi, si arrampica sulla cassetta. Ci mancherebbe pure che s’infilasse sotto la gonna! Oh, ho paura, ho paura! Voltatevi, signori uomini! Scusate, ho dimenticato che ora non si dice più uomini, ma compagni cittadini.»

La donna che faceva tutto quel chiasso indossava un mantello di “karakùl” aperto, sotto cui oscillavano, come strati di viscida gelatina, il doppio mento, il petto rigoglioso e il ventre ricoperto da una veste di seta aderente. Si capiva che un tempo doveva essere stata considerata una bellezza fra i mercanti di terz’ordine e i loro commessi. Le fessure dei suoi occhi porcini si aprivano appena tra le palpebre gonfie. Una rivale, in tempi immemorabili, le aveva gettato in faccia dell’acido, ma aveva sbagliato mira e solo due o tre spruzzi avevano colpito la gota sinistra e l’angolo della bocca, lasciando due tracce leggere, tanto inavvertibili da esser quasi vezzose.

«Non strillare, Chrapùgina. Non si può lavorare,» disse la donna che stava al tavolo, rappresentante del soviet rionale, eletta a presiedere l’assemblea.

I vecchi inquilini della casa la conoscevano da tempo e anche lei li conosceva bene. Prima che l’assemblea cominciasse, aveva parlato confidenzialmente a bassa voce con la zia Fatima, la vecchia portinaia della casa, che una volta abitava col marito e i figli nella sudicia cantina e ora, insieme alla figlia, era stata trasferita al primo piano in due stanze piene di luce.

«E così, Fatima?» le aveva chiesto.

Fatima si lagnava di non potersela sbrigare da sola in un caseggiato così grande e pieno di gente, senza l’aiuto di nessuno, poiché non c’era chi rispettasse la corvée assegnata ai vari alloggi per la pulizia del cortile e della strada.

«Non prendertela, Fatima, gli romperemo noi le corna, sta’ tranquilla. Che Comitato è questo? Come è possibile una cosa simile? Qui si nascondono dei criminali, gente di dubbia moralità che vive senza esser registrata. Scioglieremo il Comitato e ne eleggeremo un altro. E io ti farò diventare amministratrice della casa. Tu, però, non tirarti indietro.

La portinaia l’aveva implorata di non farlo, ma quella non l’ascoltava. Si guardò attorno e, giudicando che si fosse radunata abbastanza gente, ordinò il silenzio e con poche parole introduttive apri la riunione. Dopo aver stigmatizzato la passività del precedente Comitato di caseggiato, propose di indicare i candidati per eleggerne uno nuovo e passò alle altre questioni. Esaurite anche queste, disse:

«Dunque, compagni, parliamoci francamente. La vostra casa è spaziosa e adatta per un alloggio collettivo. Capita che da tutte le parti arrivino i delegati per un convegno e non si sa dove ficcarli. E’ stato quindi deciso di mettere la vostra casa a disposizione del soviet rionale, come alloggio per i delegati che vengono in città, e di darle il nome del compagno Tiverzin, il quale, come tutti sanno, abitava in questa casa prima d’essere deportato. Non ci sono obiezioni? E adesso passiamo a discutere lo sgombero della casa. Non è una misura urgente, avrete ancora un anno di tempo. Metteremo a disposizione degli inquilini lavoratori un altro alloggio, mentre avvertiamo gli inquilini non lavoratori che se lo cerchino da sé. Diamo loro dodici mesi di tempo.»

«E chi non è lavoratore qui? Da noi non ci sono inquilini che non lavorino! Siamo tutti lavoratori,» si gridò da ogni parte e una voce si alzò sopra le altre.

«Questo è sciovinismo grande-russo bell’e buono. Tutte le nazionalità adesso sono uguali. Io so a che cosa alludete!»

«Non tutti insieme! Non so nemmeno a chi rispondere. Che nazionalità? Cosa c’entrano adesso le nazionalità, cittadino Valdyrkin! Per esempio, la Chrapùgina è russa, non è affatto d’un’altra nazionalità, eppure sloggiamo anche lei.»

«Sloggiarmi?! Vedremo un po’ come mi sloggerai! Divano sfondato! Accumulatrice di cariche!» prese a gridare la Chrapùgina lanciando contro la delegata, nell’impeto dell’ira, una serie di imprecazioni senza senso.

«Che vipera! Che demonio! Non ti vergogni?» la rimproverò la portinaia.

«Non immischiarti, Fatima. Ci penso io a difendermi. Smettila, Chrapùgina. A te basta darti un dito che ti prendi tutto il braccio! Zitta, ti dico, o ti denuncio immediatamente agli organi competenti, senza aspettare che ti scoprano loro coi tuo “samogòn”40 e col losco covo che tieni.»

Il baccano divenne generale. Nessuno riusciva a farsi ascoltare. In quel momento, entrò il dottore. Al primo che vide accanto alla porta chiese di indicargli qualcuno del Comitato di caseggiato. Costui chiuse le mani a imbuto e, al di sopra del frastuono, gridò scandendo:

«Ga-li-iii-lin! Vieni qui. Ti vogliono.»

Il dottore non credeva ai suoi orecchi. La portinaia si avvicinò: era una donna magra, leggermente gobba. Fu colpito dalla somiglianza della madre col figlio. Ma senza farsi riconoscere, le disse:

«Qui da voi un’inquilina è ammalata di tifo (e ne fece il nome). Occorrono delle cautele per non diffondere il contagio. Inoltre, bisogna trasportarla all’ospedale. Io le rilascerò un certificato, che il Comitato deve vidimare. Come si può fare? E dove?

La portinaia credé che si trattasse del trasporto dell’ammalata e non della compilazione del certificato.

«Viene una carrozza del soviet rionale. E’ per prendere la compagna Demin,» rispose. «La compagna Demin è una brava persona, io parlo, lei fa usare la carrozza. Non preoccuparti, compagno dottore, trasporteremo la tua ammalata.»

«Oh, non dicevo questo! Parlavo soltanto di un angoletto dove poter scrivere il certificato. Ma, se c’è anche la carrozza… Scusate, ma voi non siete la madre del sottotenente Galiullin Osip Gimazètdinovic? Ero al fronte con lui.»

La portinaia ebbe un violento sussulto e impallidì. Afferrò il dottore per un braccio e disse:

«Andiamo fuori. Parleremo in cortile.»

Appena fuori della porta, cominciò a dire rapidamente:

«Piano, Dio non voglia che qualcuno ti senta. Non mi rovinare. Jusupka ha preso una brutta strada. Giudica tu stesso: chi è Jusupka? Jusupka era un apprendista, un operaio. Jusùp lo doveva capire che per il popolo semplice ora va molto meglio, anche un cieco lo vede. Non c’è nemmeno da discutere. Io non so come la pensi tu, forse per te va bene, ma per Jusupka è un peccato, Dio non lo perdonerà. Il padre di Jusùp è morto da soldato, l’hanno ucciso, e in che modo… non gli hanno lasciato nemmeno la faccia, né le mani, né le gambe.»

Non ebbe la forza di continuare e, facendo un gesto vago con la mano, attese che l’agitazione le passasse. Poi riprese:

«Andiamo. Ora ti procurerò la carrozza. So chi sei. Lui è stato qui due giorni e me l’ha detto. Mi ha detto che conosci Lara Guichard. Era una brava ragazza. Veniva qui da noi, mi ricordo. E, adesso, chissà come sarà, chi vi conosce più? E’ possibile che i signori vadano contro i signori? Ma per Jusupka è un peccato. Andiamo a chiedere la carrozza. Ce la procurerà la compagna Demin. Sai chi è la compagna Demin? Olja Demin, che faceva la sartina dalla mamma di Lara Guichard. Ecco chi è. E’ anche lei di qui. Di questa casa. Andiamo.»

Il dottor Zivago
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