2.
«Che fiume è?»
«Non lo so. Non ho domandato. Probabilmente il Zusha.»
«No, non è il Zusha. Dev’essere un altro.»
«Allora non so.»
«E’ stato sul Zusha che è successo? Parlo di Christina.»
«Sì, ma in un altro punto. Più in basso. Pare che la Chiesa l’abbia canonizzata.»
«Là c’era una costruzione in pietra, chiamata ‘Le stalle’. Effettivamente si trattava della stalla di un sovchòz per l’allevamento degli equini. E’ un nome comune ma è diventato storico. Una costruzione antica, dalle mura spesse. I tedeschi l’avevano fortificata, facendone una fortezza imprendibile. Di là tenevano sotto tiro tutta la zona e fermavano la nostra avanzata. Bisognava prendere la stalla. Facendo prodigi di valore e di astuzia, Christina riuscì a penetrare nelle linee tedesche, fece saltare la stalla, fu presa e impiccata.»
«Perché si chiamava Christina Orlecòv, e non Dudorov?»
«Non eravamo ancora sposati. L’estate del ‘41 c’eravamo dati la parola di sposarci alla fine della guerra. Dopo, io sono andato qua e là con l’esercito. La mia unità veniva continuamente spostata, e, a causa di tutti quei trasferimenti, non ne ho più avuto notizie. Non l’ho rivista più. Della sua impresa e della sua morte eroica ho saputo dopo, come tutti, dai giornali e dagli ordini del giorno dell’esercito. Dicono che vogliono farle un monumento da queste parti e ho sentito che il fratello di Jurij, il generale Zivago, sta girando questi posti per raccogliere notizie su di lei.»
«Scusa se te ne ho fatto parlare. Dev’essere doloroso per te.»
«Non è questo. Ma ci siamo persi in chiacchiere. Non voglio disturbarti. Ora spogliati, buttati in acqua e occupati della tua roba. Io mi sdraio sulla riva con un filo d’erba tra i denti, a masticare e a pensare, forse a fare una dormitina.»
Dopo pochi minuti ripresero a conversare:
«Dove hai imparato a lavare?»
«La necessità è una grande maestra. Noi non abbiamo avuto fortuna. Siamo finiti nel più terribile di tutti i campi di punizione. Pochi sopravvivevano. Si incominciava dall’arrivo. Fecero uscire il contingente dal vagone. Un deserto di neve, un bosco in lontananza. La scorta, le canne dei fucili abbassate, cani lupi. Verso la stessa ora, a intervalli, ancora nuovi gruppi. Ci schierarono in un grande poligono, in mezzo alla campagna, voltati di spalle, perché non ci vedessimo l’uno con l’altro. Ci comandarono di inginocchiarci e, sotto minaccia di fucilazione, di non guardare in giro. Cominciò l’umiliante e interminabile procedura dell’appello, che si protrasse per ore. Sempre in ginocchio. Poi ci alzammo; gli altri gruppi vennero condotti via, mentre a noi annunciarono: ‘Ecco il vostro campo. Sistematevi come vi pare!’ Era un campo di neve a cielo scoperto, in mezzo un palo, sul palo la scritta: ‘Gulag95 92 Ja N 90’ e nient’altro.»
«No, a noi è andata meglio. Siamo stati fortunati. Io, capisci, stavo scontando il mio secondo periodo di detenzione, a cui si passa automaticamente dopo il primo. Per giunta, altro articolo del codice, altre condizioni. Quando mi liberarono, mi riabilitarono come la prima volta, e mi autorizzarono di nuovo a far lezioni all’università. E in guerra m’hanno richiamato col grado di maggiore, non in un reparto di disciplina come te.»
«Sì, un palo con la scritta ‘Gulag 92 Ja N 90’ e niente altro. Nei primi tempi spezzavamo a mani nude, nel gelo, i rami per le capanne. Ebbene, non ci crederesti, ma a poco a poco ci siamo sistemati da soli. Ci siamo fabbricate le celle, le palizzate, le carceri, le torrette di sorveglianza, tutto da soli. Poi cominciammo l’approvvigionamento di legname. Il taglio del bosco. Si abbattevano gli alberi, ci si attaccava in otto alla slitta, si portavano i tronchi a forza di spalle, affondando nella neve fino al petto. Per molto tempo non abbiamo saputo che era scoppiata la guerra. Ce lo tenevano nascosto. A un tratto, la proposta: chi voleva, poteva andare al fronte in una compagnia di disciplina, e se fosse rimasto vivo, avrebbe avuto la libertà. E allora, attacchi su attacchi, chilometri di filo spinato a corrente elettrica, mortai, granate, mesi e mesi di fuoco infernale. Non per nulla noi di quella compagnia ci chiamavano ‘i condannati a morte’. Venivamo falciati fino all’ultimo uomo. Come ce l’ho fatta a sopravvivere? Come ce l’ho fatta? E tuttavia, pensa tu, quell’inferno di sangue era una fortuna in confronto agli orrori del campo di concentramento, e non per le condizioni di vita spaventosa ma per ben altre cose.»
«Sì, caro, ne hai ingoiate!»
«Altro che lavare, là impari quello che vuoi.»
«E’ straordinario. Non solo riguardo alla tua sorte di deportato, ma pure rispetto a tutta la nostra vita degli anni trenta, anche in libertà, anche nel benessere dell’attività universitaria, dei libri, dell’agiatezza, delle comodità, la guerra è stata una tormenta purificatrice, un soffio d’aria fresca, un alito di salvezza. Io credo che la collettivizzazione sia stata una misura sbagliata, un fallimento, e che l’errore non si poteva riconoscere. Per nascondere il fallimento bisognava con tutti i mezzi dell’intimidazione far in modo che la gente disimparasse a giudicare e a pensare, costringendola a vedere ciò che non esisteva e dimostrare il contrario dell’evidenza. Di qui la crudeltà senza precedenti del periodo di Ezov96, la promulgazione di una costituzione che si sapeva già non sarebbe stata applicata, l’introduzione di elezioni non basate sul principio elettivo. E, quando scoppiò la guerra, i suoi orrori reali, il pericolo reale e la minaccia di una morte reale furono un bene rispetto al dominio disumano dell’astrazione, e portarono un sollievo, ponendo un limite alla magica potenza della lettera morta. Non solo quelli nella tua situazione, i deportati, ma tutti, all’interno e al fronte, respirarono più liberamente, a pieni polmoni, gettandosi come inebriati, con un senso di vera felicità, nel crogiuolo della lotta tremenda, mortale e salvatrice.»
«La guerra è stata un anello particolare nella catena dei decenni della rivoluzione. Finì allora l’azione delle cause direttamente legate alla natura di quel rivolgimento. E hanno cominciato a farsi sentire i risultati indiretti, i frutti dei frutti, le conseguenze delle conseguenze: la tempra dei caratteri provata nelle avversità, la semplicità dei costumi, l’eroismo, la disposizione a cose grandi, disperate, senza l’uguale. Sono qualità mitiche che riempiono di meraviglia e costituiscono il colorito morale della nuova generazione. Pensare a questo, mi dà un senso di felicità, nonostante il martirio e la morte di Christina, le mie ferite, le nostre perdite, nonostante tutto l’alto e sanguinoso prezzo della guerra. Mi aiuta a sopportare il peso della morte di Christina la luce di sacrificio che illumina la sua fine, come illumina la vita di ciascuno di noi. Proprio mentre tu, poveretto, stavi sopportando le tue infinite torture, io ritornavo in libertà. In quell’epoca la Orlecòv si iscrisse alla facoltà di storia. Il genere dei suoi interessi scientifici la portò all’istituto che io dirigevo. Già da molto tempo, dopo la prima detenzione in campo di concentramento, quando lei era ancora una bambina, l’avevo notata per le sue qualità eccezionali. Se ti ricordi, te ne parlai, quando era ancora vivo Jura. E così proprio lei capitò fra le mie allieve. Allora era appena cominciata la voga di far rieducare gli insegnanti da parte degli studenti. La Orlecòv vi si buttò con ardore. Dio solo sa per quale ragione mi aggrediva tanto accanitamente. I suoi attacchi erano così continui, bellicosi e ingiusti, che gli altri studenti della facoltà talvolta insorgevano e prendevano le mie difese. La Orlecòv era dotata di un vivissimo senso dell’umorismo. Sotto un cognome inventato, nel quale tutti però mi riconoscevano, mi metteva in ridicolo nel giornale murale, come meglio non si sarebbe potuto fare. A un tratto, del tutto casualmente, venne fuori che quell’avversione così implacabile altro non era che un modo di mascherare un giovane amore, saldo, segreto e antico. Io, l’avevo sempre amata. Nel 1941 avemmo una stupenda estate, proprio alla vigilia della guerra e subito dopo il suo inizio. Un gruppo di giovani, studenti e studentesse, fra cui lei, era alloggiato in una località di villeggiatura nei pressi di Mosca, dove era stata poi distaccata la mia unità. La nostra amicizia cominciò e si sviluppò durante la loro istruzione militare, la formazione di reparti volontari cittadini, gli allenamenti come paracadutista di Christina, e di notte la difesa, sopra i tetti, contro le prime incursioni aeree tedesche su Mosca. Come ti ho detto, lì scambiammo la nostra promessa: ma cominciarono i miei spostamenti e fummo separati. Non l’ho rivista più. Quando la guerra ha preso a volgere in nostro favore e i tedeschi hanno cominciato ad arrendersi a migliaia, dopo essere stato ferito due volte e dopo le due degenze all’ospedale, sono stato trasferito dall’artiglieria contraerea alla settima sezione dello stato maggiore, dove si richiedevano persone che conoscessero le lingue e dove ho insistito perché destinassero anche te, dopo che ti avevo ripescato dal fondo del mare.»
«Tanja, la lavandaia, conosceva bene la Orlecòv. Si erano incontrate al fronte, erano amiche, e parla spesso di Christina. Questa Tanja ha un modo di sorridere con tutta la faccia, come Jurij, hai osservato? Per un istante non si notano più il naso camuso, gli zigomi angolosi; diventa attraente, carina. E’ un tipo molto comune in Russia.»
«Ho capito quel che vuoi dire. Perché no? Non ci avevo fatto caso.
«Che barbaro, orrendo nome, Tan’ka Bezòceredeva97. Non è un cognome, ma una parola inventata, deformata. Che ne pensi?»
«Lo spiega così anche lei. E’ figlia di ignoti, è stata fra i “besprizòrnye”. Forse, nel cuore della Russia, in qualche punto dove la lingua è ancora pura e intatta, l’hanno chiamata “bezotch’ja”, nel senso che non aveva padre. La strada, cui questo soprannome riusciva incomprensibile, la strada che coglie tutto a orecchio e travisa tutto, l’avrà trasformato alla sua maniera, assimilandolo al proprio rozzo gergo di questi tempi.»