5.
In autunno, il campo dei partigiani si trovava a Lisij Otòk, un boschetto in cima a un monte sotto cui correva un rapido fiume spumeggiante, che lo circondava da tre lati, erodendone le pendici.
Prima dei partigiani, avevano svernato nello stesso luogo le truppe di Kappel, che lo avevano fortificato con l’aiuto degli abitanti e in primavera l’avevano lasciato. Ora, nei fortini intatti, nelle trincee e nei camminamenti si erano allogati i partigiani.
Liverij Avèrkievich divideva il proprio riparo col dottore. Era la seconda notte che lo infastidiva coi suoi discorsi, senza lasciarlo dormire.
«Mi piacerebbe sapere che cosa sta facendo adesso il mio stimassimo genitore, il mio rispettabile “vater”, il mio “papachen”.»
«Dio mio, come è insopportabile questo tono da pagliaccio,» sospirava fra sé il dottore. «Eppure è tutto suo padre.»
«Da quanto ho capito dai nostri discorsi, voi avete conosciuto abbastanza bene Avèrkij Stepànovich. E a quel che mi sembra, non ne avete una cattiva opinione, è vero, egregio signore?»
«Liverij Avèrkievich, domani abbiamo un comizio elettorale sull’altura. Oltre a ciò, si sta preparando il processo al personale di sanità per l’affare dei “samogòn”. Io e Layos non abbiamo ancora pronto il materiale necessario. Per questo, anzi, volevamo riunirci domani. E sono due notti che non dormo. Rimandiamo la conversazione. Abbiate pietà di me.»
«No, torniamo ad Averkij Stepànovich. Che mi dite del vecchio?»
«Avete un padre ancora giovane, Liverij Avèrkievich. Perché ne parlate come se fosse un vecchio? Ma ecco cosa penso. Vi ho detto molte volte che io mi raccapezzo male nelle varie gradazioni del decotto socialista e non vedo una particolare differenza fra i bolscevichi e gli altri socialisti. Vostro padre appartiene a quella categoria di uomini alla quale la Russia deve i rivolgimenti e i disordini degli ultimi tempi. Avèrkij Stepànovich ha il tipo e il carattere dell’agitatore. Come voi, è un prodotto tipico del fermento rivoluzionario della Russia.»
«E’ un elogio o un biasimo?»
«Vi prego ancora una volta di rimandare la discussione a un momento più propizio. Inoltre, richiamo la vostra attenzione sulla cocaina che avete ripreso a fiutare senza misura, prelevandola arbitrariamente dalle riserve di cui io sono responsabile. Ci è necessaria per altri scopi, a parte il fatto che è un veleno e io rispondo della vostra salute.»
«Nemmeno ieri avete assistito all’istruzione politica. Voi avete un’atrofia del nervo sociale, come le contadine analfabete e l’ottuso piccolo borghese incallito. Eppure siete un medico, una persona istruita e, a quanto pare, vi dilettate anche a scrivere. Spiegatemi un po’ come si concilia tutto questo.»
«Non so. Probabilmente non si concilia affatto, ma è così. Compatitemi pure.»
«L’umiltà può essere peggiore dell’orgoglio. Ma, invece di sorridere così sarcasticamente, fareste meglio a mettervi al corrente del programma dei nostri corsi e riconoscerete allora che la vostra boria è fuori posto.»
«Dio vi protegga, Liverij Avèrkievich! Che c’entra qui la boria? Io ammiro il vostro lavoro educativo. Dei resto negli ordini del giorno si ripete sempre un riassunto delle varie questioni. E io lo leggo. Le vostre idee sullo sviluppo spirituale dei soldati mi sono note, ne sono addirittura entusiasta. Tutto ciò che voi avete detto sui rapporti del combattente dell’esercito popolare verso i suoi compagni, verso i deboli, gli indifesi, la donna, verso l’ideale della purezza e dell’onore, somiglia perfettamente ai principi cui s’è ispirata la comunità dei “Duchobory”74. E’ una specie di tolstoismo, il sogno di un’esistenza. Come volete che ne rida? Ma, prima cosa, le teorie del perfezionamento collettivo, come si è cominciato a intenderle dopo l’Ottobre, non mi entusiasmano. Secondo, tutto questo è ancora lontano dall’attuazione e solo per sentirne parlare si è pagato con tali mari di sangue che, davvero, il fine non giustifica i mezzi. Terzo, ed è quello che più conta, quando sento dire di rifare la vita, perdo il controllo di me stesso e mi prende la disperazione. Rifare la vita! Così può pensare solo gente che ne avrà anche viste di tutti i colori, ma che non ha mai conosciuto la vita, non ha mai sentito il suo spirito, la sua anima. Per costoro l’esistenza è un grumo di materiale grezzo, che il proprio contatto non ha ancora nobilitato e che perciò ha bisogno della loro rielaborazione. Ma la vita non è mai un materiale, una sostanza. La vita, se volete saperlo, è un elemento che continuamente si rinnova e rielabora da sé, che da sé si rifà e si ricrea incessantemente, sempre tanto più alta di tutte le nostre ottuse teorie.»
«Ciò nonostante penso che se frequentaste le riunioni dei nostri meravigliosi, ammirevoli uomini, il vostro morale sarebbe più alto, e non vi abbandonereste alla malinconia. So bene qual è la ragione. Siete preoccupato perché subiamo rovesci e non vedete nessuna schiarita. Ma, caro amico, non bisogna cedere al panico. Io so cose ben più terribili, che mi riguardano personalmente e che ora non posso dirvi, e tuttavia non mi perdo d’animo. I nostri insuccessi sono temporanei. La fine di Kolchak è inevitabile. Ricordate le mie parole. Vedrete, noi vinceremo. Consolatevi.»
«No, è davvero straordinario!» pensò il dottore. «Che puerilità! Che miopia! Non faccio che ripetergli che le nostre opinioni sono opposte; mi ha preso con la forza e con la forza mi trattiene presso di sé, e lui immagina che mi turbino i suoi insuccessi, e che i suoi calcoli e le sue speranze servano a rincuorarmi. Che cecità! Gli interessi della rivoluzione e l’esistenza del sistema solare sono tutt’uno per lui.»
Era indignato e, senza rispondere, si strinse nelle spalle non dissimulando che l’ingenuità di Liverij oltrepassava il limite della sua pazienza e che si conteneva a fatica. Liverij se ne accorse.
«Ti arrabbi, Jupiter. Vuol dire che hai torto,» disse.
«Ma cercate di capire una buona volta che tutto ciò non va per me, ‘Jupiter’, ‘non bisogna cedere al panico’, ‘chi ha detto «a», deve dire «b», ‘il Moro ha fatto il suo lavoro e ora può andarsene’, queste volgarità, queste espressioni non sono per me. Io dico «a», e non dico «b» nemmeno se mi fate in pezzi. Ammetto che voi siate i fari e i liberatori della Russia, che senza di voi la Russia sarebbe finita, sprofondando nella miseria e nell’ignoranza: però non m’interessate e me ne infischio di voi, non vi amo e andate pure tutti al diavolo. I signori dei vostri pensieri abbondano in proverbi, ma hanno dimenticato il più importante, e cioè che non si ama per forza, e hanno preso l’abitudine di liberare e di far felici proprio quelli che non lo chiedono. Probabilmente voi immaginate che per me non ci sia posto migliore al mondo del vostro accampamento e della vostra compagnia, e che dovrei benedirvi e ringraziarvi per la mia prigionia, per avermi liberato dalla famiglia, dal figlio, dalla casa, dal lavoro, da tutto ciò che mi è caro e di cui vivo. Ho sentito dire che Varykino è stata invasa da una formazione sconosciuta, non russa. Dicono che il villaggio sia stato saccheggiato e depredato. Kamennodvorskij non lo smentisce. Pare che i miei e i vostri siano riusciti a fuggire. Certa gente, leggendaria, dagli occhi a mandorla, coi berretti e i giubbotti imbottiti, avrebbero passato il fiume Ryn’va ghiacciato, in un momento di terribile gelo, e senza fare una parola, avrebbero ucciso ogni creatura vivente nel villaggio per poi scomparire altrettanto fantomaticamente. Che ne sapete? E’ vero?»
«Sciocchezze, invenzioni, fantasticherie incontrollate, alimentate a bella posta.»
«Se voi siete così buono e generoso come vi mostrate nei vostri discorsi sull’educazione dei soldati, lasciatemi andare dove mi pare. Mi metterò alla ricerca dei miei: non so neanche più se sono vivi, dove sono. Ma, se non volete farlo, per favore tacete e lasciatemi in pace, perché tutto il resto non m’interessa e io non rispondo di me. E, poi, avrò pure il diritto, maledizione!, il semplice diritto di dormire.»
Si sdraiò bocconi sulla cuccetta, la faccia sul cuscino. Con tutte le forze cercava di non ascoltare le giustificazioni di Liverij che continuava a tranquillizzarlo, dicendogli che, con la primavera, i bianchi sarebbero stati definitivamente battuti, la guerra civile sarebbe finita, sarebbero venuti la libertà, il benessere e la pace. Allora nessuno l’avrebbe più trattenuto. Ma, fino a quel giorno, bisognava aver pazienza. Dopo tutto quello che si era sopportato, tanti sacrifici e un’attesa così lunga, non c’era ormai più molto da aspettare. E poi, dove sarebbe andato ora? Per il suo stesso bene, ora, non si poteva lasciarlo partire solo.
«Ricomincia col suo organetto, diavolo! Apre la bocca e dà fiato! Come non si vergogna di ruminare per anni sempre le stesse cose?» sospirava fra sé Jurij Andrèevich indignato. «Non si stanca mai di sentirsi, questo San Crisostomo d’un cocainomane! Per lui la notte non è notte, con lui non si può né dormire né vivere, maledetto. Oh, come lo odio! Dio lo sa, un giorno o l’altro lo uccido. Oh, Tonja, povera bambina mia! Sei viva? Dove sei? A quest’ora, mio Dio, devi aver partorito da un pezzo! Come sarà andato il parto? E’ un bambino o una bambina? Miei cari tutti, che ne è di voi? Tonja, mio eterno rimorso, mia colpa! Lara, non oso nominarti per paura di sentirmi uscir l’anima, insieme al tuo nome, Dio mio! E questo qui continua a concionare, non la smette, quest’animale odioso, spietato! Un giorno o l’altro non ce la faccio più e lo uccido, lo uccido.»