9.
Si seppe che le profughe coi figli erano ormai a due sole tappe dal campo. Al Lisij Otòk si preparavano all’imminente incontro con i familiari e all’abbandono del campo, fissato per subito dopo. Jurij Andrèevich si recò da Pamfìl Palych.
Lo trovò all’ingresso della tenda con un’ascia in mano. Davanti alla tenda stavano accatastate in un alto mucchio le giovani betulle tagliate per farne pali e che Pamfìl doveva ancora sgrossare. Alcune piante erano state abbattute proprio in quel punto e, crollando con tutto il loro peso, si erano infisse nel terreno umido con le punte dei rami spezzati. Altre, tagliate poco distante, erano state trascinate e accatastate sulle prime dallo stesso Pamfìl. Tremando e ondeggiando sui rami elastici, arcuati, le betulle non aderivano al terreno, né l’una all’altra. Sembrava che con le braccia si schermissero da Pamfìl che le aveva abbattute, e che con un’intera boscaglia di vivente verzura gli sbarrassero l’ingresso alla tenda.
«In attesa dei cari ospiti,» disse Pamfìl spiegando a che cosa era intento. «Per mia moglie e i bambini la tenda sarà stretta, e, quando piove, si allaga. Voglio puntellarla.»
«Sbagli, Pamfìl, a credere che lasceranno abitare la tua famiglia con te. Dove mai s’è visto che i civili, le donne e i bambini stiano in mezzo a un esercito? Li sistemeranno altrove, in disparte. Durante le ore libere potrai andare a trovarli. Difficile, però, che possano alloggiare in una tenda militare. Ma non si tratta di questo. Mi hanno detto che sei dimagrito, che hai smesso di mangiare e di bere, che non dormi: è vero? Ma l’aspetto non è male. Sei solo un po’ più barbuto dei solito.»
Pamfìl Palych era un robusto contadino coi capelli neri e arruffati, la barba e una fronte bernoccoluta, come doppia per la protuberanza dell’osso frontale che stringeva le tempie come un anello. Ciò gli conferiva l’aspetto cattivo e infido di chi ha l’occhio sfuggente e guarda di traverso.
Al principio della rivoluzione, quando, in base alle esperienze del 1905, si era temuto che anche questa volta la rivoluzione fosse un fatto di breve durata ristretto ai ceti superiori illuminati, senza toccare e affondare le radici negli strati popolari, era stato compiuto ogni sforzo per agitare il popolo, metterlo in moto, allarmarlo, coinvolgendolo nell’eccitazione dei momento.
In quei primi giorni, uomini come il soldato Pamfìl Palych, i quali, senza bisogno di alcuna propaganda, odiavano d’un odio feroce e bestia le gli intellettuali, i signori e gli ufficiali, sembrarono preziose scoperte, agli entusiasti intellettuali di sinistra e furono tenuti in gran conto. La loro mancanza di umanità appariva come un prodigio di coscienza di classe, la loro crudeltà un modello di fermezza proletaria e d’istinto rivoluzionario. Di tal genere era la gloria di Pamfìl, che godeva della massima stima presso i capi partigiani e i dirigenti del partito.
A Jurij Andrèevich quell’omaccione cupo e chiuso in se stesso sembrava non del tutto normale, a causa della completa assenza di umanità, della elementarità e povertà dei suoi interessi.
«Entriamo nella tenda,» lo invitò Pamfìl.
«No, perché? Non ci si entra neppure. Si sta meglio all’aria aperta.»
«Bene. Come vuoi tu. E’ vero, è una tana. Sediamoci su queste ‘stanghe’.» Così chiamava gli alberi allungati al suolo.
Si sedettero sui tronchi delle betulle, che cedevano elastici sotto il loro peso.
«Dicono che una cosa si fa più presto a raccontarla che a farla. Ma, anche a dirla, la mia storia è lunga. In tre anni non potrei raccontarla tutta. Non so da che cominciare. Dunque. Abitavamo insieme io e la mia massaia, eravamo giovani. Lei lavorava a casa, io non mi lagnavo, facevo il contadino. Avemmo dei bambini. Poi mi presero soldato, mi mandarono in guerra. Già, la guerra. Che devo dirti della guerra? Tu l’hai vista, compagno medico. Poi, la rivoluzione. Ho cominciato a vederci chiaro, allora. Ai soldati si sono aperti gli occhi. Il ‘tedesco’ per noi non era mica il tedesco, quello straniero, ma il nostro. Soldati della rivoluzione mondiale, conficcate le baionette in terra, via dal fronte, a casa, contro i borghesi! E roba simile. Le sai bene anche tu queste cose, compagno medico militare. E così via. La guerra civile. Entro nei partigiani. Adesso salto molte cose, se no, non finirei mai. E adesso, da poco o molto che sia, cosa vedo che sta succedendo? Quel parassita ha tolto dal fronte russo il primo e il secondo reggimento di Stavropol’ e il primo di Orenburg, cosacco. Che sono un bambino, che non capisco? Non sono forse stato nell’esercito, io? Vanno male le cose per noi, dottore militare, siamo rovinati. Che cosa vuole quella canaglia? Vuole darci addosso con tutte le sue forze, prenderci in una sacca. Adesso, in questo momento, io ho la moglie e i bambini. Se lui ci batte, dove andranno a rifugiarsi loro? Credi che lui tenga conto che loro non c’entrano per niente, che sono innocenti? Mica ci farà caso, lui. Per colpa mia legherà le mani a mia moglie, la torturerà, per colpa mia torturerà la moglie e i bambini, li picchierà sulle giunture, sulle costole, e io dovrei dormire e mangiare? Hai voglia a essere di ferro, c’è da ammattire.»
«Sei un tipo strano, Pamfìl. Davvero non ti capisco. Sei stato senza di loro per anni, non ne sapevi niente e non te la prendevi. E adesso che oggi o domani li rivedrai, invece di rallegrarti, canti il funerale.»
«Fra prima e adesso c’è una grande differenza. La carogna con le mostrine bianche ci batte. Ma non è per me. Io sono fottuto. Si vede che me lo son meritato. Ma i miei mica posso prenderli con me all’altro mondo. Resteranno nelle grinfie di quel maledetto e lui gli farà uscire tutto il sangue goccia a goccia.»
«E’ per questo che vedi i folletti? Ho saputo che ti appaiono certi folletti.»
«Ma sì, certo, dottore. Non ti ho detto ancora tutto. Non ti ho detto la cosa principale. Sì, certo, senti la mia verità nuda e cruda, non avertene a male. Ti dirò tutto in faccia. Ho mandato un sacco di voialtri all’altro mondo io, ho versato molto sangue di signori, di ufficiali, e non me ne importa nulla.. Non ricordo più il numero, né i nomi, è passato tutto come l’acqua. C’è solo un ragazzo che non mi esce di testa, un ragazzo che ho fatto fuori e non riesco a dimenticare. Perché ho ammazzato quel ragazzo? M’aveva fatto tanto ridere, morire dal ridere. Gli ho sparato dal gran ridere, stupidamente. Senza nessun motivo. E’ stato dopo la rivoluzione di febbraio, sotto Kèrenskij. Eravamo in rivolta, noi. Sulla ferrovia. Ci avevano mandato un giovane agitatore, perché ci rispedisse al fronte con le chiacchiere, a combattere sino alla vittoria. Era un cadetto che doveva domarci con le chiacchiere. Un tipo mingherlino. La sua parola d’ordine era ‘fino alla vittoria!’. E con quella parola d’ordine saltò sopra un bidone dei pompieri, un bidone per spegnere gli incendi, che c’era nella stazione. Saltò dunque su quel bidone per stare più in alto mentre c’invitava a combattere, quand’ecco che il coperchio gli si rivolta sotto i piedi e lui casca nell’acqua. Era sdrucciolato. Oh, che ridere! Ma in mano avevo il fucile. E ridi che ti rido, mi sembrava di non potermi più fermare. Era come se lui mi facesse il solletico. Bene, ho mirato e l’ho spiaccicato sul posto. Non so neanch’io perché lo feci. Come se qualcuno mi avesse preso la mano. E così, ecco i folletti. Di notte mi sogno quella stazione. Allora era buffo, adesso fa pena.»
«E’ stato a Meljuzeev, alla stazione di Birjuci?»
«Non ricordo.»
«Eravate in rivolta insieme agli abitanti di Zybùshino»?
«Non ricordo.»
«Ma che fronte era? Su quale fronte, quello occidentale?»
«Doveva essere l’occidentale. Può essere. Non ricordo.»