11.

Nei pressi della legnaia la neve era segnata dalle tracce circolari della slitta che Jurij Andrèevich aveva lasciato nelle precedenti visite: davanti alla soglia era calpestata e sudicia per la legna trasportata il giorno avanti.

Il cielo era limpido, ripulito dalle nuvole che lo avevano coperto fin dal mattino. Gelava. Il parco di Varykino, che circondava il luogo a distanze diverse, in quel punto si avvicinava alla legnaia come per sbirciare in viso il dottore e ricordargli qualcosa. La neve quell’inverno si era ammucchiata assai alta, oltre la soglia della legnaia. L’architrave dell’ingresso sembrava essersi abbassato e la legnaia incurvata. Sul tetto, quasi sulla testa del dottore, era sospeso uno strato di neve che sembrava il cappello di un fungo gigantesco. Proprio sulla cima del tetto, come infissa con un’estremità nella neve, una giovane mezza luna, appena sorta, stava immobile nel cielo e ardeva d’una grigia brace.

Benché fosse ancora giorno chiaro, il dottore provava la sensazione di trovarsi, di tarda sera, nell’oscuro, fitto bosco della sua vita: tanto era il buio che aveva nell’anima, tanto fonda la sua tristezza. E la giovane luna splendeva davanti a lui, quasi al livello della sua faccia, come un presagio di addio, un’immagine di solitudine.

La stanchezza gli tagliava le gambe. Gettava la legna nella slitta oltre la soglia, ma riusciva a raccoglierne meno del solito. In quel freddo, con tutti i guanti, era una sofferenza prendere la legna gelata e coperta di neve. Neppure il movimento riusciva a riscaldarlo. Qualcosa dentro di lui si era fermato o rotto. Malediceva il proprio amaro destino e pregava Dio di conservare e proteggere la vita della sua donna, così bella, triste, dolce, semplice d’animo. E la luna stava sempre li, sopra la legnaia ad ardere senza scaldare, a risplendere senza illuminare.

A un tratto la cavalla, voltandosi dalla parte di dove erano venuti, sollevò la testa e nitrì, dapprima in modo timido e sommesso, poi forte e sicura.

«Cosa le piglia?» pensò. «Cos’è che la fa contenta? Per paura non può essere: per paura i cavalli non nitriscono, stupido che sono! Scema anche lei, però, a farsi sentire così dai lupi, se sono loro che ha fiutato. E come è allegra! Forse ha voglia di tornare a casa, e ha capito che si ritorna. Aspetta, aspetta, ora ce ne andiamo.»

Oltre alla legna già raccolta, prese nella legnaia un po’ di fuscelli e una grossa corteccia di betulla, accartocciata, a forma di gambale, staccatasi intera dal tronco. Gli sarebbe servita per accendere il fuoco. Legò poi con una corda il fascio di legna coperto da una stuoia e, camminando accanto alla slitta, portò il carico nella legnaia dei Mikùlicyn.

Di nuovo la cavalla nitrì, rispondendo a un chiaro nitrito che proveniva da lontano, dalla parte opposta. «Di chi può essere il cavallo?» pensò, trasalendo. «Credevamo che a Varykino non ci fosse nessuno, si vede che ci siamo sbagliati.» Non gli poteva venire in mente che avessero visite e che il nitrito del cavallo arrivasse dalla parte dell’ingresso dei Mikùlicyn, dal giardino. Stava conducendo Savraska lungo l’ala posteriore del fabbricato dove erano i servizi, e non poteva quindi vedere la parte anteriore della casa, nascosta dai mucchi di neve.

Senza affrettarsi (e che ragione c’era?), depositò la legna, staccò la cavalla, lasciò la slitta nella legnaia e condusse la bestia nella stalla vuota lì accanto, che intanto si era freddata. Sistemò Savraska davanti alla porta d’angolo, dove minore era la corrente d’aria e, portando dalla legnaia alcune bracciate del fieno rimasto. lo gettò dietro la rastrelliera della mangiatoia.

Si diresse quindi verso casa con animo inquieto. Davanti alla scalinata d’ingresso stava un morello ben pasciuto, attaccato a una slitta contadina di quelle molto larghe, con la cassa comoda. Un ragazzotto sconosciuto, che indossava una “poddevka” in buono stato, passeggiava intorno al cavallo, dandogli colpetti sui fianchi ed esaminandogli le zampe; anch’egli liscio e sazio, come la bestia.

Dalla casa veniva rumore. Non volendo orecchiare, e d’altronde nell’impossibilità di distinguere le parole, Jurij Andrèevich rallentò involontariamente il passo. Ma si fermò subito, come inchiodato. Aveva riconosciuto la voce di Komarovskij, di Lara e di Kàten’ka. Dovevano essere nella prima stanza, vicino all’ingresso. Koniarovskij discuteva con Lara che, a giudicare dal tono della sua voce, era agitata, piangeva, e a momenti gli rispondeva aspramente, a momenti gli dava ragione. Jurij Andrèevich ebbe la confusa sensazione che Komarovskij stesse in quel momento parlando proprio di lui, dicendo probabilmente che era una persona che non dava affidamento («un servo di due padroni» gli parve di sentire), che non si sapeva cosa gli fosse più caro, se la famiglia o Lara, e che Lara non ci poteva contare, perché, affidandosi a lui, «avrebbe inseguito due lepri e si sarebbe trovata in mezzo a due sedie». Jurij Andrèevich entrò in casa.

Nella prima stanza c’era realmente Komarovskij con una pelliccia lunga fino a terra. Lara cercava di allacciare a Kàten’ka il colletto della pelliccia e non riusciva a trovare il gancio. Rimproverava la bambina, gridandole di star ferma e di non muoversi, e Kàten’ka si lamentava: «Mammina, fai più piano, mi strozzi.» Tutti erano vestiti, pronti per partire. Quando comparve Jurij Andrèevich, Lara e Viktor Ippolìtovich gli corsero incontro.

«Dove sei scomparso? Abbiamo tanto bisogno di te!»

«Salve, Jurij Andrèevich. Nonostante le scortesie che ci siamo dette l’ultima volta, come vedete sono di nuovo da voi senza essere invitato.»

«Buongiorno, Viktor Ippolìtovich.»

«Dove sei stato per tanto tempo? Senti quello che ti vuol dire e decidi subito per te e per me. Non c’è tempo. Bisogna far presto.»

«Perché stiamo in piedi? Sedetevi, Viktor Ippolìtovich. Dove vuoi che sia scomparso, Làrochka? Sai bene che sono andato a prendere la legna, e poi ho sistemato il cavallo. Vi prego, Viktor Ippolìtovich, sedete.»

«Non sei stupito? Come mai non mostri nessuna sorpresa? Rimpiangevamo di essere partiti, senza aver accettato le sue proposte, e ora eccolo qui davanti a te, e non te ne meravigli. Ma le ultime novità sono ancora più sorprendenti. Ditegliele, Viktor Ippolìtovich.»

«Non so che cosa intenda Larisa Fëdorovna, ma ecco quel che devo dirvi. Ho diffuso ad arte la voce che ero partito, e sono rimasto invece qualche giorno per dare a voi e a Larisa Fëdorovna il tempo di riflettere ancora sulle proposte di cui avevamo parlato e, dopo un più maturo esame, di giungere forse a una decisione meno avventata.»

«Ormai però non si può più rimandare. Questa è l’occasione migliore per partire. Domani mattina… Ma è meglio che sia Viktor Ippolìtovich a spiegarti.»

«Un momento, Làrochka. Scusate, Viktor Ippolìtovich, ma perché stiamo qui con le pellicce addosso? Togliamocele e sediamoci. Sono cose serie. Non si può affrontarle su due piedi. Scusate, Viktor Ippolìtovich, ma le nostre controversie riguardano alcune sottigliezze morali, che sarebbe ridicolo e imbarazzante mettersi a discutere qui. Io non ho mai pensato di potervi seguire nel vostro viaggio, ma per Larisa Fëdorovna è un’altra cosa. In quei rari casi in cui ci ritrovavamo con delle preoccupazioni diverse, e ci ricordavamo di essere non una, ma due persone, con due destini diversi, io sono sempre stato del parere che, specialmente per Kàten’ka, Lara dovesse esaminare più attentamente le vostre proposte. E lei infatti non smette un momento di farlo, parlando in continuazione di questa eventualità.»

«Ma solo a condizione che parta anche tu.»

«Tanto per l’uno che per l’altro è penoso pensare a una separazione, ma, forse, bisognerà farsi forza e sacrificarsi. Perché di un mio viaggio non è nemmeno da parlarne.»

«Ma non sai ancora nulla. Prima ascolta. Domani mattina… Viktor Ippolìtovich!»

«Larisa Fëdorovna allude alle informazioni che ho portato e che le davo poco fa. Nella stazione di Jurjatin è in sosta, con la locomotiva sotto pressione, un treno di servizio del Governo dell’Estremo Oriente. E’ arrivato ieri da Mosca e proseguirà domani. E’ il treno del nostro ministero delle comunicazioni e metà del convoglio è formato da vagoni-letto internazionali. Io devo partire con questo treno. Mi sono stati riservati posti anche per le persone chiamate a far parte del gruppo dei miei collaboratori. Si viaggerebbe con tutte le comodità. Un’occasione simile non si presenterà più. So bene che voi non parlate tanto per parlare e non tornerete sulla vostra decisione di non partire con noi. Siete una persona di carattere, lo so. E tuttavia, ripensateci, per amore di Larisa Fëdorovna. Avete sentito, lei non partirà sola. Venite dunque con noi, se non a Vladivostòk, almeno fino a Jurjatin. E là vedremo. Ma bisogna affrettarsi. Non si può perdere nemmeno un minuto. Ho con me un uomo, perché io guido male. In quattro, più il conducente, non stiamo nella mia slitta, ma se non sbaglio, avete qui la cavalla di Samdevjatov. Avete detto che siete stato or ora a prender legna. La slitta è ancora attaccata?»

«No, l’ho staccata adesso.»

«Allora riattaccatela al più presto. Il mio cocchiere vi aiuterà. Del resto, al diavolo l’altra slitta. Arriveremo in qualche modo anche solo con la mia. Ma, per amor di Dio, facciamo presto. Prendete le cose indispensabili, quel che vi capita sotto mano. Anche se la casa rimane così, non importa. Bisogna salvare la vita di una bambina, non stare a preoccuparsi delle chiavi.»

«Non vi capisco, Viktor Ippolìtovich. Parlate come se avessi già acconsentito a partire. Andate pure, se Lara vuole così. E della casa non datevi pensiero. Io resterò e, dopo la vostra partenza, metterò tutto a posto e la chiuderò come si deve.»

«Ma che dici, Jura! Cosa sono queste assurdità a cui non credi neanche tu! Come puoi dire: ‘Se Lara ha deciso’, quando sai benissimo che senza di te non c’è nemmeno da parlare di una mia partenza e delle mie decisioni? E allora perché dire: ‘Io metterò a posto la casa e mi preoccuperò di tutto’?»

«Dunque siete irremovibile. In tal caso, ho un’altra preghiera. Col permesso di Larisa Fëdorovna vorrei dirvi due parole, possibilmente a tu per tu.»

«Va bene. Se è necessario, andiamo in cucina. Non ti spiace, Larisa?»

Il dottor Zivago
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