20.

La casa dei fratelli Gromeko sorgeva all’angolo del Sivcev Vrazòk. con un altro vicolo. Aleksàndr e Nikolàj Aleksàndrovich Gromeko erano professori di chimica: il primo, all’Accademia Petròvskaja, il secondo all’università. Nikolàj Aleksàndrovich era celibe e Aleksàndr Aleksàndrovich ammogliato con Anna Ivànovna, nata Krueger, figlia di un industriale siderurgico, proprietario di miniere abbandonate come improduttive nel territorio di una sua immensa tenuta, in zona forestale, presso Jurjatin negli Urali.

La casa era a due piani. Quello superiore, con le camere da letto, la stanza per le lezioni, lo studio di Aleksàndr Aleksàndrovich e la biblioteca, il boudoir di Anna Ivànovna e le camere di Tonja e di Jura, era adibito ad abitazione; il pianterreno, di rappresentanza. Tende color pistacchio, i lucidi riflessi sul coperchio del pianoforte, i mobili color oliva e le piante ò ornamentali, simili ad alghe, davano alla parte inferiore della casa l’aspetto d’un verde fondo marino, sonnolento e ondeggiante.

I Gromeko erano persone colte, ospitali, grandi conoscitori e appassionati di musica. Avevano raccolto intorno a sé una cerchia di gente e organizzavano serate di musica da camera, durante le quali si eseguivano trii al pianoforte, sonate di violino e quartetti d’archi.

Nel gennaio del 1906, subito dopo la partenza di Nikolàj Nikolàevich per l’estero, al Sivcev doveva tenersi il consueto concerto da camera. Erano in programma una nuova sonata per violino di un allievo della scuola di Taneev e un trio di Ciajkovskij.

Fin dalla vigilia erano cominciati i preparativi. Dei mobili erano stati spostati per rendere più spaziosa la sala e per la centesima volta l’accordatore faceva echeggiare in un angolo la medesima nota o disseminava arpeggi a manciate di perline. In cucina si spennavano i polli, si puliva la verdura e si pestava la senape nell’olio di Provenza per le salse e le insalate.

Ad aumentare la confusione, sin dal mattino era venuta Shura Schlesinger, amica intima e confidente di Anna Ivànovna.

Era una donna alta e magra con lineamenti regolari in un volto piuttosto mascolino, per cui talvolta faceva pensare all’imperatore, specie nel suo berretto grigio di “karakùl”, portato di sghimbescio, che teneva anche in visita, limitandosi, magari, a sollevare un po’ la veletta che vi era appuntata.

Nei momenti di pena e di preoccupazione, conversare dava alle due amiche un reciproco sollievo. Sollievo tutto riposto nelle cattiverie che, in tono sempre più velenoso, Shura Schlesinger e Anna Ivànovna si scambiavano fra loro. Si svolgevano, allora, scene burrascose che terminavano presto con le lacrime e la riconciliazione. Queste liti regolari esercitavano su entrambe un’azione sedativa, come le sanguisughe contro le congestioni.

Shura Schlesinger si era sposata più volte, ma subito dopo il divorzio dimenticava i mariti e dava loro così poca importanza, da mantenere in tutti i suoi modi la fredda disinvoltura della donna sola.

Benché teosofa, conosceva così bene anche lo svolgimento del rito ortodosso, che pur “toute transportée”, in uno stato di estasi completa, non sapeva trattenersi dal suggerire agli officianti che cosa dovessero dire o cantare. «Ascoltami, Signore,» «in ogni momento,» «Cherubino purissimo,» per tutto il tempo si udiva la sua rauca e rotta voce concitata.

Conosceva inoltre la matematica, le dottrine esoteriche indiane, gli indirizzi dei più grandi professori del Conservatorio di Mosca, con chi andasse a letto questo o quella, e Dio solo sa cos’altro non sapesse. Per questo era chiamata a far da giudice e arbitro in ogni situazione difficile.

All’ora stabilita cominciarono a giungere gli invitati. Arrivarono Adelaida Filìpovna, Ginc, i Fufkov, il signore e la signora Basurmàn, i Verzickij, il colonnello Kavkazcev. Nevicava e ogni volta che si apriva il portone l’aria vi passava davanti aggrovigliata in mille nodi baluginanti di fiocchi di neve piccoli e grossi. Gli uomini entravano con alte soprascarpe larghe ciondolanti ai piedi e tutti prendevano l’aria di bamboloni distratti e impacciati, mentre le mogli, tutte rinfrescate dal gelo, nelle loro pellicce sbottonate sul collo, con le sciarpe di soffice lana sui capelli coperti di brina, si atteggiavano al contrario a consumate maliarde, tutte astuzia e perfidia, da starne alla larga. «Il nipote di Cui,»16 si udì sussurrare quando entrò il nuovo pianista, invitato in casa Gromeko per la prima volta.

Dalla sala, attraverso le porte laterali spalancate, si scorgeva nella stanza da pranzo la tavola imbandita, lunga come una strada d’inverno. Colpiva gli occhi il gioco di luci che la grappa di prugne lanciava dalle sfaccettature granulose delle bottiglie. L’immaginazione era rapita dalle ampolline d’olio e d’aceto posate su vassoi d’argento e dalla pittoresca varietà della selvaggina e degli antipasti, nonché dai tovaglioli piegati a piramide che coronavano ogni coperto, mentre le cinerarie viola e azzurre, odorose di mandorla e disposte in cestini, sembravano stuzzicare l’appetito. Per non ritardare il desiderato istante in cui avrebbero potuto assaporare il nutrimento terrestre, tutti si affrettarono a rivolgersi al più presto a quello spirituale. Si distribuirono nelle file di sedie disposte nella sala. «Il nipote di Cui,» si rinnovò il mormorio, non appena il pianista ebbe preso posto davanti allo strumento. Il concerto cominciò.

Si prevedeva già che la sonata fosse noiosa, lambiccata e cerebrale. Ma questa, oltre a confortare le previsioni, si rivelò anche terribilmente prolissa.

Ne discutevano, durante l’intervallo, il critico Kerimbekov e Aleksàndr Aleksàndrovich. Il primo stroncava la sonata, Aleksàndr Aleksàndrovich la difendeva. Intorno si fumava, si spostavano rumorosamente le sedie.

Poi di nuovo gli sguardi caddero sulla tovaglia stirata che splendeva nella stanza vicina e tutti proposero che il concerto continuasse senza indugio.

Il pianista sbirciò verso il pubblico e col capo fece cenno ai suoi accompagnatori di attaccare. Il violinista e Tyshkevich brandirono gli archetti. Il trio scoppiò in singhiozzi.

Jura, Tonja e Misha Gordon, che ora passava metà del suo tempo dai Gromeko, sedevano in terza fila.

«La Egòrovna vi fa dei segni,» sussurrò Jura ad Aleksàndr Aleksàndrovich, che sedeva proprio davanti a lui.

Sulla soglia della sala Agrafena Egòrovna, la vecchia, canuta cameriera dei Gromeko, con sguardi disperati in direzione di Jura e altrettanti cenni del capo verso Aleksàndr Aleksàndrovich, cercava di far capire al ragazzo che aveva bisogno urgente del padrone.

Aleksàndr Aleksàndrovich si volse, gettò uno sguardo pieno di rimprovero alla Egòrovna e si strinse nelle spalle. Ma la Egòrovna non desisteva. Ben presto, da un angolo all’altro della sala si intrecciò fra loro un dialogo come fra sordomuti. Tutti guardavano dalla loro parte. Anna Ivànovna lanciava al marito occhiate micidiali.

Aleksàndr Aleksàndrovich si alzò. Bisognava fare qualcosa. Arrossendo, fece silenziosamente il giro della sala e si avvicinò alla Egòrovna.

«Non vi vergognate, Egòrovna? Dite, che vi prende? Su, presto, che c’è?»

La Egòrovna gli mormorò qualcosa.

«Da quale Cernogorie?»

«L’albergo.»

«Bene, e allora?»

«Lo vogliono immediatamente. C’è qualcuno che muore.»

«Addirittura. Me lo immagino. Ma non si può, Egòrovna. Appena finisce di suonare glielo dirò. Prima non è possibile.»

«Quello dell’albergo aspetta. E anche il cocchiere. Vi dico che sta morendo una persona, capite? Una signora.»

«No e no. Cosa vuoi che contino cinque minuti, figurati!»

Col medesimo passo silenzioso, camminando lungo la parete, Aleksàndr Aleksàndrovich tornò al suo posto e si sedette accigliato, stropicciandosi la radice del naso.

Finita la prima parte, si avvicinò ai musicisti e, mentre echeggiavano gli applausi, disse a Fadèj Kazìmirovich che erano venuti a cercare di lui, una cosa spiacevole, ed era bene perciò interrompere il concerto. Poi, con un gesto delle palme rivolte verso la sala, fece cessare gli applausi e disse a voce alta:

«Signori. Bisogna interrompere il trio. Esprimiamo la nostra solidarietà a Fadèj Kazìmirovich. Gli capita una cosa molto dolorosa ed è costretto ad abbandonarci. Non vorrei lasciarlo solo in un momento simile: potrebbe aver bisogno di me. Andrò con lui. Jurochka, carissimo, vai a dire a Semën di aspettarti al portone, ha già attaccato i cavalli. Signori, io non mi accomiato, prego tutti di rimanere: tornerò al più presto.»

I ragazzi chiesero il permesso di accompagnare Aleksàndr Aleksàndrovich per fare quella corsa notturna nel gelo.

Il dottor Zivago
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