15.
Era sfinito dagli avvenimenti dell’ultima settimana, dalle emozioni e dai lunghi preparativi che avevano preceduto il viaggio, oltre che dalla fatica fatta al mattino per salire sul treno. Credeva di addormentarsi non appena si fosse disteso in un posto abbastanza comodo. Ma non fu così. L’eccessiva stanchezza gli aveva provocato l’insonnia, e solo verso l’alba riuscì ad assopirsi.
Per quanto caotico fosse il turbinio dei pensieri che sciamarono nella sua testa nel corso di quelle lunghe ore, essi finirono per dividersi come in due cerchi, o meglio in due gomitoli che s’arrotolavano e si srotolavano senza tregua. Uno era costituito dal pensiero di Tonja, della casa e della vita di un tempo, nella quale tutto, fino ai minimi particolari, era soffuso di poesia e pervaso di nobili affetti. Era in ansia per quella vita e si augurava di ritrovarla intatta e, correndo sul veloce treno notturno, non sognava che di ricominciarla dopo un’interruzione di più di due anni.
Anche la fedeltà alla rivoluzione con tutto il suo entusiasmo era in questo cerchio di pensieri. La rivoluzione nel senso in cui l’avevano accolta le classi medie, come l’aveva concepita la gioventù studiosa del 1905, ammiratrice di Blok.
In questo cerchio familiare e normale rientravano anche quei segni del nuovo, quelle promesse e quei presagi, che si erano mostrati all’orizzonte; prima della guerra tra il 1912 e il 1914, nel pensiero russo, nell’arte russa e nel destino russo, di tutta la Russia e suo proprio.
Ora che la guerra per lui era finita, sentiva il desiderio di tornare a quell’atmosfera, per rinnovarla e continuarla, così come sentiva il desiderio di tornare a casa dopo quella lunga assenza.
Il nuovo era oggetto anche del secondo cerchio di pensieri, ma un nuovo ormai così diverso, così particolare! Non era più il «suo» nuovo, abituale, preparato dal vecchio, ma un nuovo arbitrario, inevitabile, imposto dalla realtà, improvviso come una scossa.
Questo nuovo era la guerra, col suo sangue e i suoi orrori, la sua barbarie e la vita randagia che imponeva. Erano le esperienze maturate e la saggezza di, vita che la guerra insegnava. Erano le città lontane dove la guerra lo aveva sbattuto e gli uomini con i quali l’aveva fatto incontrare. Era la rivoluzione, non già la rivoluzione idealizzata nelle università, maniera 1905, ma l’attuale rivoluzione, nata dalla guerra, sanguinosa, la rivoluzione dei soldati, che se ne infischiava d’ogni altra cosa, diretta dai soli esperti di quella furia degli elementi, i bolscevichi.
Questo nuovo era la crocerossina Antipov, gettata dalla guerra chissà dove, con una vita a lui completamente ignota, che non rimproverava mai nessuno, che sembrava però lamentarsi col suo solo tacere, misteriosamente riservata, e pur così forte nel suo silenzio. Questo nuovo era l’onesto sforzo compiuto da lui, Jurij Andrèevich, per impedirsi di amarla, proprio come in tutta la sua vita si era sforzato di accostarsi con amore, oltre che alla famiglia e agli amici, a tutti gli uomini.
Il treno correva a tutto vapore. Il vento della corsa, entrando dal finestrino aperto, scompigliava e impolverava i capelli di Jurij Andrèevich. Nelle fermate di notte, succedeva lo stesso che in quelle durante il giorno: la folla che infuriava, i tigli che frusciavano.
Talvolta, dal fondo della notte, avanzava verso la stazione un rotolio di carri e calessi. Le voci e il frastuono delle ruote si confondevano con lo stormire degli alberi.
In quei momenti sembrava di poter capire perché frusciassero e si piegassero l’una sull’altra quelle ombre notturne, e che cosa si mormorassero con quel muovere appena le foglie, pesanti di sonno come lingue pastose. Era la stessa cosa a cui, ritornando alla sua cuccetta, pensava Jurij Andrèevich: la notizia delle agitazioni che andavano allargandosi a tutta la Russia, la notizia della rivoluzione, della sua ora fatale e difficile, della sua probabile grandezza finale.