15.
Qualcosa poi accadde, durante una di quelle giornate. Il dottore aveva finalmente ascoltato la voce della ragione e si era detto che, se voleva a ogni costo lasciarsi morire, poteva trovare un mezzo più efficace e meno penoso. Si propose di partire subito, non appena Anfìm Efìmovich fosse venuto a prenderlo.
Prima del tramonto, quando c’era ancora luce, udì un distinto scricchiolio di passi sulla neve. Qualcuno si dirigeva tranquillamente verso la casa, con passo sicuro e deciso.
Chi poteva essere? Anfìm Efìmovich sarebbe venuto a cavallo e nessun altro aveva motivo di venire a Varykino deserta. «Cercano me,» pensò, «mi vogliono in città, per arrestarmi. Ma come mi ci porterebbero? E, in tal caso, sarebbero in due. No, è Mikùlicyn, Averkij Stepànovich,» concluse rassicurato, credendo di riconoscere il passo. Lo sconosciuto rimase per un momento davanti alla porta col catenaccio rotto, non trovandovi la serratura che evidentemente si aspettava; poi proseguì con passo sicuro, con movimenti abituali, aprendo da padrone le porte che incontrava e richiudendole con cura dietro di sé.
Giunse così nella stanza dove Jurij Andrèevich era seduto alla scrivania con le spalle all’ingresso. Prima che il dottore si alzasse dalla sedia e si volgesse verso la porta per accogliere l’estraneo, costui era già sulla soglia, dove si fermò come inchiodato.
«Che volete?» sfuggì al dottore con una meccanicità che non impegnava a niente, e non si meravigliò di non ricevere risposta.
Lo sconosciuto era un uomo forte e aitante con un bel viso, vestito di un corto giubbotto e di pantaloni di pelliccia, caldi stivali di pelo di capra, e il fucile a tracolla. Solo l’istante scelto dall’uomo per la propria comparsa fu per il dottore una sorpresa, non il suo arrivo. Le scoperte fatte in casa e altri indizi lo avevano preparato a quell’incontro: era certo l’uomo a cui appartenevano le scorte rinvenute in casa. Gli sembrava di conoscerlo, di averlo già visto. Probabilmente anche il visitatore sapeva che la casa non era vuota, giacché non si stupì troppo di vederlo. Forse sapeva anche chi vi avrebbe trovato e forse lo conosceva.
«Chi è? Chi è?» cercava tormentosamente di ricordare. «Dio mio, dove l’ho visto? Possibile? Quel caldo mattino di maggio di chissà più quale anno! La stazione ferroviaria di Razvil’e. Il vagone del commissario, che non lasciava sperare nulla di buono. Idee chiare, linearità, rigore di principi, convinzione delle proprie ragioni, essere nel giusto, nel giusto: Strèl’nikov!»