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Città, villaggi, frazioni. La città di Krestovozdvilensk, la stazione di Omèl’chino, Pazinsk, Tysjackoe, la colonia di Jaglinskoe, il borgo Zvonàrskaja, la frazione di Vòl’noe, Gurtòvshchki, Kelèmskaja, la fattoria di Kazèevo, e poi Kutejnyj, e Malyj Ermolàj.
E tutti li attraversava la grande strada, vecchia, vecchissima strada, la più antica della Siberia, itinerario una volta dei servizi di posta. Tagliava in due la città, come si taglia il pane, col coltello della via centrale e volava attraverso i villaggi senza voltarsi, seminandosi dietro lontano, a far ala, la fila delle isbe, o curvandole con l’arco o l’uncino di una svolta improvvisa.
Nel remoto passato, prima della costruzione della linea ferroviaria attraverso Chodàtskoe, sulla strada correvano le troiche postali. In una direzione si allungavano le file di carri pieni di tè, di grano e di ferro lavorato, mentre nell’altra venivano sospinti a piedi, sotto scorta, di tappa in tappa, contingenti di deportati. Camminavano tenendo il passo, facendo tintinnare tutti insieme i ferri, anime perse, vite disperate, terribili come le saette del cielo. E le foreste intorno frusciavano, oscure, impenetrabili.
La strada viveva come una sola famiglia. Si conoscevano e si imparentavano città con città, paese con paese. A Chodàtskoe, dove la strada si incontrava con la linea ferroviaria, c’erano officine per la riparazione delle locomotive, officine meccaniche sussidiarie delle ferrovie e straccioni, pigiati nelle caserme, che facevano una vita di stenti, s’ammalavano, morivano. I «politici», scontata la pena, se possedevano cognizioni tecniche si facevano capomastri, restando sul posto.
Lungo tutta quella linea, i soviet, sorti in un primo momento, erano stati abbattuti. Per un certo tempo si era mantenuto al potere il Governo provvisorio della Siberia, poi era stato sostituito, in tutto il territorio, dall’autorità del reggente supremo Kolchàk.