16.
Si erano affezionati alle rovine della stazione, come d’inverno si può amare un rifugio provvisorio durante un’escursione in montagna. La disposizione, l’aspetto esterno, certi particolari di danni e distruzioni s’impressero per sempre nelle loro menti.
Vi tornavano la sera al tramonto: come per una sua fedeltà al passato, il sole continuava a tramontare nello stesso posto d’un tempo, dietro una vecchia betulla, che cresceva davanti alla finestra della sala del telegrafo.
In quel punto il muro era crollato verso l’interno della stanza, ma l’angolo posteriore, di fronte alla finestra, era intatto e tutto era rimasto al suo posto: la tappezzeria color caffè, la stufa a piastrelle coi tubo di tiraggio dal coperchio di rame fermato da una catenella, l’inventario appeso alla parete in una cornice nera.
Calando verso terra, come prima del crollo, il sole sfiorava le piastrelle della stufa, accendeva d’uno splendore cupo la tappezzeria color caffè e appendeva alla parete l’ombra della betulla come uno scialle di donna.
Dall’altra parte dell’edificio, sulla porta inchiodata che immetteva nella sala d’aspetto, si leggeva la seguente scritta, redatta probabilmente all’inizio della rivoluzione di febbraio, o poco prima:
«Si pregano i signori malati di non preoccuparsi momentaneamente per le medicine e il materiale di medicazione. Per evidenti motivi sigillo la porta e di ciò porto a conoscenza. L’assistente capo di Ust’-Nemdà.»
Spalata l’ultima neve che era rimasta ammonticchiata fra i tratti ormai sgombri, s’aprì libera allo sguardo l’intera linea ferroviaria che fuggiva lontano come una freccia. Ai due lati si allineavano bianche montagne di neve spalata, incorniciate per tutta la lunghezza da pareti di nera boscaglia.
A perdita d’occhio, nei diversi punti della linea stavano gruppi di persone con le pale in mano. Era la prima volta che si vedevano tra loro e si stupirono di essere tanti.