16.

Jurij Andrèevich tornava a cavallo a Varykino. Percorreva quei luoghi per l’ennesima volta ed era così abituato alla strada che non la notava nemmeno più.

Stava avvicinandosi al bivio del bosco, dove dalla strada per Varykino si diramava una strada secondaria verso il sobborgo di pescatori Vasn’evskoe sul fiume Sakma. All’incrocio c’era un palo, il terzo dei paraggi, con la nota pubblicità agricola. Nei pressi del crocicchio, di solito lo sorprendeva il tramonto. Anche ora imbruniva.

Erano passati più di due mesi dal giorno in cui, in uno dei suoi viaggi in città, non era tornato a casa la sera, ed era rimasto presso Larisa Fëdorovna. Aveva detto che si era trattenuto in città per affari e che aveva pernottato nella locanda di Samdevjatov. Da tempo dava del tu alla Antipov e la chiamava Lara, mentre lei lo chiamava Zivago. Ingannava Tonja e quello che le nascondeva era sempre più serio e più grave.

Era inconcepibile. Amava Tonja fino alla venerazione. La pace della sua anima, la sua tranquillità gli erano più cari di ogni cosa al mondo. Il suo onore gli stava più a cuore che non a lei stessa o al padre. Per difendere l’orgoglio ferito di lei, avrebbe ucciso con le proprie mani l’offensore. Ed ecco, quell’offensore era lui, adesso.

A casa, tra i familiari si sentiva come un delinquente non ancora scoperto. Il fatto che essi non sapessero nulla, la loro consueta affettuosità lo straziavano. Durante una conversazione, d’un tratto si ricordava della propria colpa e impietriva, incapace di ascoltare e di capire quel che si diceva intorno.

Se gli accadeva a tavola, non riusciva più a inghiottire il boccone, posava il cucchiaio e allontanava il piatto. Le lacrime lo soffocavano. «Cos’hai?» si stupiva Tonja. «Certo hai sentito qualcosa di brutto in città. Hanno messo in prigione, fucilato qualcuno? Dimmelo, non aver paura di addolorarmi. Ti sentirai meglio anche tu.»

Aveva forse tradito Tonja, preferendole un’altra? No, egli non aveva scelto, non faceva paragoni. L’idea del «libero amore», espressioni come «i diritti e le esigenze del sentimento» gli erano estranee. Parlare e pensare così gli sembrava indegno. Nella vita non aveva colto «i fiori del piacere», non si era mai accomunato a superuomini e semidei, né aveva chiesto per sé privilegi e concessioni. Sotto il peso della coscienza inquieta si sentiva esausto.

«Che succederà poi?» si domandava a volte e, non trovando risposta, sperava in qualcosa d’impossibile, nell’intervento di una circostanza imprevista che avrebbe portato la soluzione.

Ma ormai era finita: aveva deciso di tagliare quel nodo. Tornava a casa con la ferma decisione di confessare tutto a Tonja, di chiederle perdono e non vedere più Lara.

Ma non era così semplice. Con Lara gli sembrava di non essere stato abbastanza chiaro, di non averle fatto capire che intendeva rompere definitivamente, per sempre. Quella mattina stessa le aveva confidato la sua decisione di confessare tutto a Tonja aggiungendo anche che sarebbe stato impossibile vedersi ancora in seguito, ma ora aveva la sensazione di averlo fatto in modo troppo blando, non abbastanza deciso.

Larisa Fëdorovna non aveva voluto amareggiarlo con scene penose. Capiva quanto egli soffrisse già per suo conto e aveva perciò cercato di accogliere quella decisione con la maggior calma possibile. Il loro colloquio si era svolto nella stanza vuota degli antichi proprietari, che dava sulla via Kupèceskaja, e che Larisa Fëdorovna non abitava. Lungo le guance di Lara scendevano lacrime silenziose, di cui ella non si accorgeva, come la pioggia che cadeva in quel momento sui volti di pietra delle statue nella casa di fronte. Ripeteva sinceramente, senza arie di generosità, con voce sommessa:

«Fa’ come credi. Non pensare a me. Io potrò farcela.»

Non sapeva di piangere e non si asciugava le lacrime.

Al pensiero che Larisa Fëdorovna potesse non aver capito bene e che forse l’aveva lasciata con un’illusione, una vana speranza, era pronto a tornare indietro, in città, per dirle quel che non le aveva detto, ma soprattutto per darle l’ultimo addio con maggior calore e tenerezza, così come richiede un vero distacco, per tutta la vita, per sempre. Si dominò a fatica e continuò la strada.

Man mano che il sole si abbassava, il bosco si riempiva di frescura, di ombra. Gli arrivava l’odore del fogliame umido, come dai fasci dei ramoscelli evaporanti nei vestiboli dei bagni pubblici.

Nell’aria, come galleggiando sull’acqua, si libravano immobili sciami di moscerini che ronzavano all’unisono, tutti sulla stessa nota acuta. Jurij Andrèevich se li schiacciava sulla fronte e sul collo e ai sonori colpi del palmo sul corpo sudato rispondevano gli altri suoni della cavalcata: il cigolio delle corregge della sella, i pesanti tonfi degli zoccoli nel fango e le secche scoppiettanti scariche delle viscere del cavallo. A un tratto, lontano, dove s’era impigliata la luce del tramonto, trillò un usignolo.

«“Och-nìs! Och-nìs!”» invitava suadente l’usignolo, ed era quasi come prima della Pasqua:

 

«Anima mia, anima mia, ridestati, perché dormi!»

 

Un’idea semplicissima balenò d’un tratto nella mente di Jurij Andrèevich. Perché tanta fretta? Non avrebbe rinunciato alla decisione, avrebbe confessato tutto. Ma perché doveva farlo proprio oggi? A Tonja non aveva lasciato intendere nulla, poteva benissimo rimandare la spiegazione a un altro momento. Nel frattempo, sarebbe andato ancora una volta in città e si sarebbe spiegato con Lara, a fondo e così intimamente da compensare tutto il dolore. Ma certo! Che cosa meravigliosa! Come mai non gli era venuto in mente prima?

Al pensiero di rivedere Lara, si sentì impazzire dalla felicità. Il cuore gli batteva forte e, immaginando l’incontro, ne viveva tutti i particolari.

Case di legno, marciapiedi di assi della periferia. Andava da lei. Nella via Novoslàvochnyj, gli spiazzi deserti e le costruzioni di legno finivano, cominciava la parte di pietra. Le casette del suburbio sfilavano, balenavano via come le pagine di un libro sfogliato in fretta, non come quando le volti con l’indice, ma come si fa col polpastrello del pollice sul taglio, quando le fai scorrere tutte insieme con un fruscio. Sembra che il cuore sia sospeso. Ecco, lei abita lì, all’angolo, sotto il bianco riflesso del cielo di pioggia, fattosi chiaro verso sera. Come le ama quelle casette lungo la strada che porta da lei! Vorrebbe raccoglierle da terra con la mano e baciarle! Quegli abbaini a un occhio solo, calcati sui tetti come berretti! I globi dei lumi e delle lampade riflessi nelle pozzanghere, sotto la pallida cortina del cielo piovoso! Là avrebbe di nuovo ricevuto in dono dalle mani del Creatore quella bianca grazia creata da Dio. Gli avrebbe aperto la porta una figura ravvolta di oscurità. E la promessa della sua intimità, contenuta, fredda come la luminosa notte dei nord, a nessuno dovuta e in possesso di nessuno, gli sarebbe corsa incontro come la prima onda del mare verso cui accorri nel buio sulla sabbia della riva.

Abbandonò le redini, si sporse sulla sella e abbracciò il collo del cavallo, nascondendo il volto nella criniera. Credendo quella manifestazione d’affetto un appello alla sua forza, il cavallo scattò a tutta corsa.

Nel volo radente del galoppo, nell’intervallo fra i rari e quasi impercettibili urti dei cavallo sul terreno che via via si staccava dai suoi zoccoli e volava indietro, Jurij Andrèevich, oltre ai colpi del cuore che tumultuava di gioia, udiva anche, come in sogno, grida lontane.

Improvviso, un colpo d’arma da fuoco lo assordò. Sollevò la testa e tirò le redini. Trascinato dallo slancio, il cavallo fece ancora alcuni balzi, di scarto, indietreggiò, e si piegò sulle zampe posteriori, pronto a impennarsi.

Davanti, la strada si biforcava: da un lato scintillava ai raggi del tramonto l’insegna «Moreau e Vetcinkin. Seminatrici. Trebbiatrici.» In mezzo, sbarrandola, stavano tre cavalieri armati. Un allievo dell’istituto tecnico col berretto d’uniforme e la “poddevka”, cinta alla vita da nastri di mitragliatrici, un cavaliere col cappotto da ufficiale e il copricapo del Kubàn, e uno strano uomo grasso, che sembrava mascherato, coi pantaloni imbottiti, una giacca ovattata e un cappello da prete a larghe falde, calcato sulla fronte.

«Non un passo, compagno dottore!» disse con voce ferma e tranquilla il più anziano dei tre, il cavaliere col copricapo del Kubàn. «In, caso d’obbedienza vi garantiamo l’incolumità assoluta. In caso contrario, non ve la prendete, vi spareremo. L’infermiere del nostro reparto è stato ucciso. Vi mobilitiamo d’autorità come lavoratore medico. Smontate, e passate le redini al compagno più giovane. Rammentate: al minimo tentativo di fuga, nessun complimento.»

«Siete il figlio di Mikùlicyn, Liverij, il compagno Lesnych?»

«No, il suo capocollegamento Kamennodvorskij.»

Il dottor Zivago
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