5.
Quando il dottore e Vasja arrivarono a Mosca, era la primavera del 1922, agli inizi della Nep. Le giornate erano tiepide e luminose. I raggi del sole, riflessi dalle cupole dorate del Tempio del Salvatore, cadevano sulla piazza lastricata di pietre quadrangolari con l’erba che cresceva fra gli interstizi.
I divieti all’iniziativa privata erano stati tolti: il libero commercio, pur entro severi limiti, era stato autorizzato. Gli unici affari consistevano in scambi di merci coi rigattieri al mercato, ed erano così ridotti che determinavano speculazioni e abusi. Quel meschino affaccendarsi di trafficanti non portava niente di nuovo, né ravvivava in alcun modo la desolazione della città. Ma c’era chi si faceva dei patrimoni col continuo rivendere cose già dieci volte vendute.
I possessori di modestissime biblioteche familiari svuotavano gli scaffali e accumulavano i libri tutti insieme. Presentavano poi al soviet cittadino una domanda di autorizzazione ad aprire una cooperativa di vendita di libri. A questo scopo chiedevano un locale e ottenevano una calzoleria abbandonata fin dai primi mesi della rivoluzione, o una serra, perché i floricoltori avevano cessato fin d’allora ogni attività. E sotto le ampie volte di quei locali vendevano fino a esaurimento le loro smilze e casuali raccolte di libri.
Signore, mogli di professori, che già prima, in tempi difficili, cuocevano e vendevano di nascosto panini bianchi, ora ne facevano aperto commercio in qualche negozio di biciclette, per tutti quegli anni rimasto sotto sigillo. Avevano mutato le loro abitudini, accettando ormai la rivoluzione, e dicevano «sta così», invece di dire «sì» oppure «bene»91.
A Mosca Jurij Andrèevich disse:
«Bisognerà trovarsi un’occupazione, Vasja.»
«E’ quello che intendo fare: vorrei studiare.
«Si capisce.»
«E poi un’altra cosa, vorrei dipingere il ritratto della mamma.»
«Benissimo. Ma per far questo bisogna saper disegnare. Hai mai provato?»
«Ad Apràksino, quando lo zio non mi vedeva, facevo qualcosa a carboncino.»
«Bene. Alla buon’ora. Ci penseremo.»
Vasja non rivelò grandi attitudini al disegno, ma tuttavia riuscì a farsi ammettere nella sezione di arti applicate. Per mezzo di una conoscenza di Jurij Andrèevich fu accettato ai corsi preparatori dell’ex istituto Stròganovskij, dai quali passò alla facoltà poligrafica, dove avrebbe appreso la tecnica litografica, il mestiere di tipografo-rilegatore e di decoratore di libri.
Vasja e il dottore univano i loro sforzi. Il dottore scriveva brevi lavori sui più svariati argomenti e Vasja li stampava all’Istituto, presentandoli come saggio d’esame. Poi, pubblicati in pochi esemplari, i volumetti venivano messi in vendita nei nuovi negozi di libri aperti da conoscenti.
Contenevano il pensiero di Jurij Andrèevich: l’esposizione delle sue teorie mediche, della sua concezione della salute e della malattia, riflessioni sul trasformismo e sull’evoluzione, sull’individualità come fondamento biologico dell’organismo, considerazioni sulla storia e la religione simili a quelle dello zio e di Sìmushka, saggi sui luoghi pugaceviani dove egli era stato, racconti, poesie. Tali operette erano scritte in un linguaggio accessibile, colloquiale, e tuttavia di carattere non divulgativo, perché le opinioni contenutevi erano spesso discutibili, arbitrarie, non abbastanza controllate, se pur vive e originali. Si vendevano fino all’ultima copia ed erano apprezzate.
In quell’epoca tutto assumeva carattere specialistico: la versificazione, l’arte del tradurre; su tutto si teorizzava, per ogni cosa si creavano istituti. Dappertutto sorgevano Palazzi del pensiero e Accademie d’estetica. E Jurij Andrèevich era dottore “ad honorem” di un gran numero di questi pletorici istituti.
Per lungo tempo lui e Vasja rimasero amici e vissero insieme, cambiando uno dopo l’altro un’infinità di camere e di ricoveri diroccati, tutti, per vari motivi, egualmente inabitabili e inospitali.
Subito dopo il suo arrivo a Mosca, Jurij Andrèevich s’era fatto vedere al vicolo Sivcev, nella vecchia casa, dove, come seppe, i suoi, di passaggio a Mosca, non si erano neppure recati. In seguito alla loro espulsione dalla Russia, quelle stanze erano state cedute ad altri, e tutti evitavano Jurij Andrèevich come si evita un conoscente pericoloso.
Markèl aveva fatto strada e non abitava più al vicolo Sivcev. Era stato trasferito in qualità di capocaseggiato al Muchnòj Gorodòk, dove gli spettava l’alloggio del direttore.. Aveva preferito, tuttavia, sistemarsi nella vecchia portineria col pavimento di terra battuta, l’acqua corrente e un’enorme stufa che occupava gran parte della stanza. D’inverno, in tutto lo stabile saltavano i tubi dell’acqua e del riscaldamento: solo nella portineria faceva caldo e l’acqua non gelava.
Cominciò in questo periodo un certo raffreddamento nei rapporti fra il dottore e Vasja. Questi si era straordinariamente evoluto e aveva cominciato a parlare e a pensare in modo del tutto diverso da quello dello scalzo e capelluto ragazzo dei fiume Pelgà a Veretènniki. La forza probante, l’evidenza delle verità proclamate dalla rivoluzione lo attraevano sempre più. Il linguaggio figurato e non sempre comprensibile dei dottore gli sembrava invece la voce dell’errore condannato, conscio della propria debolezza e quindi ambiguo.
Il dottore brigava negli uffici dietro due questioni diverse: ottenere la riabilitazione politica della sua famiglia, in modo che ne venisse autorizzato il ritorno in patria, e cercare di avere un passaporto per l’estero per sé e il permesso di raggiungere la moglie e i figli a Parigi.
Vasja si stupiva di quanto fossero freddi e fiacchi quei tentativi. Jurij Andrèevich, infatti, era troppo pronto ad ammettere l’insuccesso dei propri sforzi e con troppa convinzione, quasi con soddisfazione, dichiarava che ogni altro tentativo sarebbe stato inutile.
Sempre più spesso Vasja disapprovava il dottore che d’altra parte accettava le sue giuste critiche. Ma i loro rapporti andarono rapidamente peggiorando, finché la loro amicizia finì e i due si separarono. Il dottore lasciò a Vasja la stanza che occupavano e andò a stare al Muchnòj Gorodòk, dove l’onnipotente Markèl gli aveva procurato una parte di quello che un tempo era stato l’appartamento degli Sventickij. Situata a un’estremità dell’appartamento, questa parte si componeva del vecchio bagno fuori uso, di una stanza attigua con una sola finestra, e di una cucina sghemba, con l’uscita di servizio traballante e in procinto di crollare. Jurij Andrèevich vi si trasferì e, da allora, abbandonò la medicina, rinunciò a ogni cura della persona, smise di vedere i conoscenti e cominciò una vita di miseria.