Una casa di melograni
Il Giovane Re
Era la notte precedente al giorno fissato per l’incoronazione, e il Giovane Re era seduto, solo, nella sua splendida camera. I suoi cortigiani avevano tutti preso congedo da lui, inchinandosi fin quasi al pavimento secondo le usanze del tempo e si erano radunati nella Sala Grande del Palazzo per ricevere le ultime istruzioni dal Maestro di Cerimonie: qualcuno tra loro aveva modi ancora abbastanza naturali, la qual cosa in un cortigiano è – sono costretto a dirlo – una pecca molto grave.
Il fanciullo – poiché tale egli era, aveva solo sedici anni – non era affatto dispiaciuto che se ne fossero andati, e s’era lasciato cadere con un gran sospiro di sollievo sui morbidi cuscini del suo giaciglio ricoperto di ricche coltri; ora giaceva lì, gli occhi selvaggi e la bocca dischiusa, simile a un bruno Fauno dei boschi o a un giovane animale della foresta insidiato dai cacciatori.
E in verità erano stati proprio dei cacciatori a trovarlo, incontrandolo quasi per caso mentre lui, seminudo e con la zampogna in mano, guidava il gregge del povero capraio che lo aveva allevato e di cui s’era sempre creduto figlio. Il figlio dell’unica figlia del Re, nato da un matrimonio segreto con un uomo di ceto inferiore – uno straniero, secondo alcuni, che aveva fatto innamorare la figlia del Re per la sua straordinaria bravura nel suonare il liuto; secondo altri un artista di Rimini, a cui la Principessa aveva concesso molto, forse troppo onore, e che successivamente era scomparso dalla città lasciando incompiuto il suo lavoro alla Cattedrale – era stato sottratto alla madre, ancora in fasce, mentre lei dormiva, e affidato alle cure di un umile pastore e di sua moglie, una coppia senza figli che viveva in un angolo remoto della foresta, distante dalla città più di un giorno di viaggio. Un paio d’ore dopo il risveglio, la candida fanciulla che gli aveva dato la vita era morta; non si seppe mai se di dolore, di peste – come asserì il Medico di Corte – o, come insinuarono altri, a opera di un possente veleno italiano disciolto in una coppa di vino speziato. Di fatto, nello stesso momento in cui il fido scudiero che portava il bimbo in arcione smontava di sella dal suo cavallo esausto per bussare alla rustica porta della capanna del capraio, il corpo della Principessa veniva calato in una tomba aperta che era stata scavata in un camposanto deserto, oltre le porte della città, una tomba dove si diceva giacesse un altro corpo, quello di un giovane di meravigliosa ed esotica bellezza, dalle mani legate dietro la schiena con una corda annodata, e dal petto trafitto di molte rosse ferite di pugnale.
Questa, almeno, era la storia che si sussurravano l’un l’altro gli uomini della contea. Di fatto, il vecchio Re, sul suo letto di morte, o spinto dal rimorso per la sua grave colpa o semplicemente desideroso che il regno fosse conservato a un membro della sua famiglia, aveva mandato a chiamare il fanciullo e, alla presenza del Consiglio, lo aveva nominato suo erede.
Fin dal primo istante del suo riconoscimento egli parve rivelare i segni di un singolare amore per la bellezza, una passione che avrebbe influito molto su tutta la sua vita. Coloro che l’avevano scortato agli appartamenti messi a sua disposizione parlarono spesso del grido di piacere che gli proruppe dalle labbra alla vista degli abiti leggiadri e dei preziosi gioielli preparati per lui, e della gioia quasi feroce con cui gettò via da sé la sua rozza tunica di cuoio e il grossolano mantello di pelle di pecora. È vero che talvolta rimpiangeva la bella libertà della sua vita nella foresta, e si spazientiva subito alle tediose cerimonie che occupavano tanta parte del giorno; ma la meravigliosa dimora – la «Casa Gioiosa», come la chiamavano – di cui egli era adesso il signore appariva ai suoi occhi un nuovo mondo creato apposta per deliziarlo; e non appena poteva evadere dalle sedute del Consiglio o dalla sala delle udienze, scendeva di corsa il grande scalone, coi suoi leoni di bronzo dorato e i gradini di acceso porfido, e vagava di stanza in stanza, di corridoio in corridoio, come chi cercasse nella bellezza un antidoto alla sofferenza, una sorta di ristoro al disgusto.
In questi viaggi di esplorazione, come egli stesso li chiamava – e in verità per lui erano autentiche spedizioni in un paese meraviglioso – si faceva talvolta accompagnare dagli snelli, biondi paggi di Corte, dalle mantelline svolazzanti e dai nastri fluenti; ma più spesso era solo, poiché sentiva, per un certo vigile istinto – quasi una divinazione – che i segreti dell’arte si apprendono meglio in segreto, e che la Bellezza, come la Sapienza, ama l’adoratore solitario.
Molte storie curiose si narravano, in questo periodo, sul conto del Giovane Re. Si diceva che un corpulento Borgomastro, venuto a pronunciare una fiorita orazione a beneficio dei cittadini della capitale, lo aveva sorpreso in ginocchio in atto di autentica adorazione di un grande dipinto appena portato da Venezia: era l’annunciazione del culto di nuove divinità? In un’altra occasione egli era scomparso per parecchie ore e dopo lunghe ricerche lo avevano scoperto in una piccola stanza in cima a una delle torrette settentrionali del palazzo in assorta, quasi estatica contemplazione di una gemma greca su cui era incisa la figura di Adone. Era stato visto, si mormorava, premere le labbra ardenti sulla fronte marmorea di una statua antica, scoperta nel letto del fiume durante la costruzione del ponte, sulla quale era inciso il nome dello schiavo bitinio di Adriano. E aveva trascorso una notte intera a osservare l’effetto della luce lunare su un’effigie argentea di Endimione.
Tutte le cose rare e preziose esercitavano un grande fascino su di lui, e nella sua smania di procurarsene aveva mandato molti mercanti in lande remote, alcuni a trafficare ambra coi rozzi pescatori dei mari nordici, altri in Egitto, alla ricerca della mitica turchese verde che si trova solo nelle tombe dei re e si dice sia dotata di proprietà magiche, altri in Persia ad acquistare tappeti serici e vasellame dipinto, altri ancora in India per tornarne carichi di avorio istoriato, pietre di luna e bracciali di giada, legno di sandalo e smalti azzurri, veli e scialli di lana pregiata.
Ma la cura che lo aveva tenuto più d’ogni altra occupato era stata la preparazione del vestito di gala da indossare per l’incoronazione, il manto laminato d’oro, e la corona tempestata di rubini, e lo scettro con le sue perle intrecciate a file e a cerchi. Principalmente a questo stava egli pensando quella notte, mentre guardava il grosso ceppo di pino ardere sotto la cappa del camino. I disegni, di mano dei più famosi artisti del tempo, gli erano stati sottoposti molti mesi prima, e aveva dato ordine che gli artigiani lavorassero giorno e notte per riprodurli, e che tutto il mondo fosse perlustrato alla ricerca delle gemme degne di tale opera. Con la fantasia si vedeva eretto sull’altar maggiore della cattedrale avvolto dal manto sfavillante, e un sorriso giocava e indugiava sulla sua bocca fanciullesca, e accendeva di un vivido bagliore i suoi scuri occhi di bosco.
Infine si levò dal suo sedile, e appoggiandosi alla mensola scolpita del camino, guardò intorno nella stanza in penombra. Le pareti erano rivestite di arazzi preziosi raffiguranti il Trionfo della Bellezza. Un grande scaffale decorato ad agate e lapislazzuli occupava un angolo, mentre davanti alla finestra era uno stipo bizzarramente intarsiato con pannelli laccati spruzzati d’oro e adorni di mosaici, sul quale erano allineati fragili calici di vetro veneziano, e una coppa di onice venata di scuro. Sulla serica sovraccoperta del letto erano dipinti pallidi papaveri, come caduti dalle stanche mani del Sonno, e alti giunchi d’avorio scanalato sostenevano il baldacchino di velluto, dal quale si levavano, simili a bianca spuma, grandi ciuffi di piume di struzzo a lambire il soffitto cesellato di pallido argento. Un Narciso ridente, di bronzo verde, sorreggeva sul capo uno specchio limpidissimo e sulla tavola era una piatta ciotola d’ametista.
Fuori, egli poteva scorgere l’immensa cupola della cattedrale, che appariva indistinta, come una bolla sospesa sulle case avvolte nell’ombra, e le sentinelle stanche che andavano su e giù lungo la terrazza sul fiume. Lontano, in un frutteto, cantava un usignolo. Dalla finestra aperta entrava un sottile profumo di gelsomini. Il giovane gettò indietro dalla fronte i riccioli scuri e, preso un liuto, fece scorrere le dita sulle corde. Le sue palpebre grevi si abbassarono, e uno strano languore lo invase. Mai prima d’allora egli aveva sentito così acutamente, e con gioia altrettanto squisita, la magia e il mistero delle cose belle.
Quando dall’orologio della torre risuonò la mezzanotte, egli toccò un campanello, e i suoi paggi entrarono e lo svestirono con molte cerimonie, spruzzandogli acqua di rosa sulle mani e cospargendo di fiori i guanciali. Poco dopo che ebbero lasciato la stanza, il fanciullo si addormentò.
E mentre dormiva fu visitato in sogno da visioni. E queste furono le sue visioni.
Si vide in una soffitta lunga e bassa, in mezzo al ronzio e allo strepito di molti telai. La luce del giorno trapelava scialba dalle inferriate delle finestre, mostrandogli le sagome magre dei tessitori chini sulle loro trame. Bimbi pallidi, dall’aria sofferente, stavano rannicchiati sulle enormi travi del soffitto. Quando le spole saettavano attraverso l’ordito, i tessitori sollevavano i pesanti battenti di legno, e quando le spole si arrestavano li lasciavano cadere e comprimevano i fili. I loro volti erano scavati dal digiuno e le loro mani scarne tremavano convulsamente. Alcune donne sparute sedevano dinanzi a un tavolo a cucire. Un atroce fetore riempiva il locale. L’aria era putrida e greve; le pareti gocciolavano trasudando umidità.
Il Giovane Re si accostò a uno dei tessitori, sostò accanto a lui e lo osservò.
E il tessitore gli rivolse uno sguardo bieco e disse: «Perché stai qui a fissarmi? Sei una spia mandata dal nostro padrone?».
«Chi è il tuo padrone?», chiese il Giovane Re.
«Il nostro padrone!», esclamò amaramente il tessitore «È un uomo come me. Fra noi c’è una sola differenza – che lui indossa vesti pregiate e io vado in giro coperto di stracci, che io sono debole per la fame e lui soffre invece per eccesso di nutrizione.»
«Questo è un paese libero», disse il Giovane Re, «e tu non sei schiavo di nessuno.»
«In guerra», rispose il tessitore, «i più forti fanno schiavi i più deboli, e in pace i ricchi fanno schiavi i poveri. Dobbiamo lavorare per vivere, e il nostro salario è così misero che moriamo. Noi fatichiamo tutto il giorno per loro, ed essi ammucchiano l’oro nei forzieri, i nostri figli avvizziscono prima del tempo, e i visi di coloro che amiamo diventano duri e cattivi. Noi pigiamo l’uva, e un altro beve il vino. Noi seminiamo il grano, e la nostra madia è vuota. Noi portiamo catene, anche se nessun occhio le vede; e siamo schiavi, anche se gli uomini ci chiamano liberi.»
«È così per tutti?», chiese il Giovane Re.
«È così per tutti», rispose il tessitore, «per i giovani come per i vecchi, per le donne come per gli uomini, per i bimbi come per coloro che sono oppressi dagli anni. I mercanti ci sfruttano, e noi siamo costretti dalla necessità a piegarci ai loro ordini. Il prete ci sorpassa a cavallo e sgrana il suo rosario, e nessuno si dà cura di noi. Per i nostri vicoli senza sole striscia la Povertà coi suoi occhi famelici, e la segue dappresso la Colpa dal volto terreo. Al mattino è la Miseria che ci sveglia e di notte ci fa compagnia la Vergogna. Ma a te cosa possono importare queste tristezze? Tu non sei uno di noi. Il tuo viso è troppo felice.» E si volse dall’altra parte accigliato, e gettò la spola nell’ordito, e il Giovane Re vide che i fili della trama erano d’oro.
E un grande terrore lo afferrò, e chiese al tessitore: «Che vestito è quello che stai tessendo?».
«È il vestito per l’incoronazione del Giovane Re», rispose il tessitore, «ma a te che importa?»
E il Giovane Re gettò un grido acuto e si destò, ed ecco, era nella sua stanza, e dalla finestra gli apparve la luna color miele, sospesa nell’aria del crepuscolo.
E si riaddormentò e di nuovo fu visitato da visioni, e queste furono le sue visioni.
Si vide disteso sul ponte di una enorme galea, che avanzava spinta dai remi di cento schiavi. Su un tappeto accanto a lui sedeva il capitano della galea. Era nero come l’ebano, e il suo turbante era di seta cremisi. Grandi anelli d’argento pendevano dagli spessi lobi delle orecchie, e nelle mani reggeva una bilancia d’avorio.
Gli schiavi erano nudi, avevano solo uno straccio intorno ai lombi, e ognuno era incatenato al suo vicino. Il sole picchiava rovente, e i negri correndo su e giù lungo il ponte li sferzavano con scudisci di cuoio. Le braccia scarnite si tendevano affondando i remi pesanti nell’acqua. Spruzzi salati volavano dalle pale.
Infine giunsero in una piccola baia, e cominciarono a scandagliarla. Dalla sponda soffiava un vento leggero, che copriva di una fine polvere rossa la tolda e la gran vela latina. Tre Arabi in groppa ad asini selvatici scagliarono lance contro di loro. Il capitano afferrò un arco dipinto e colpì uno degli Arabi alla gola. Quello cadde pesantemente nella spuma, e i suoi compagni fuggirono al galoppo. Una donna avvolta in un velo giallo li seguì lentamente su un cammello, volgendosi ogni poco a guardare il corpo esanime.
A mezzogiorno avevano gettato l’ancora e ammainato la vela. I negri entrarono nella stiva e ne estrassero una lunga scala di corda, appesantita da grossi pezzi di piombo. Il capitano la gettò su un fianco della nave, fissandone l’estremità a due uncini di ferro. Poi i negri agguantarono il più giovane degli schiavi e dopo averlo liberato dalle catene, gli riempirono di cera narici e orecchie, e gli attaccarono una grossa pietra alla cintola. Egli si lasciò scivolare faticosamente giù per la scala, e scomparve nel mare. Poche bollicine salirono a fior d’acqua là dove s’era immerso. Dal parapetto della galea altri schiavi sogguardavano incuriositi. A prua sedeva un incantatore di squali che percuoteva monotono un tamburo.
Dopo qualche tempo il tuffatore riemerse, e si aggrappò ansimante alla scala con una perla nella mano destra. I negri gliela strapparono e lo respinsero di nuovo in acqua. Gli schiavi si assopirono sui remi.
Più e più volte il tuffatore riapparve a fior d’acqua, e ogni volta recava nella mano una bellissima perla. Il capitano le pesava e le riponeva in un sacchetto di cuoio verde.
Il Giovane Re avrebbe voluto parlare, ma la sua lingua sembrava aderire al palato, e le labbra si rifiutavano di muoversi. I negri parlottavano fra loro, e cominciarono a litigare per una collana di perline colorate. Due cicogne continuavano a volare intorno al vascello.
Allora il tuffatore riemerse per l’ultima volta, e la perla che recava nella mano era più bella di tutte le perle di Ormuz, poiché aveva la forma della luna piena ed era più bianca della stella del mattino. Ma il volto dello schiavo s’era fatto stranamente pallido, e quando s’abbatté sulla tolda il sangue gli sgorgò da nari e orecchie. Per un poco fu squassato da brividi convulsi, poi rimase immobile. I negri alzarono le spalle, e gettarono il corpo in mare.
E il capitano della galea rise, e la sua mano avida afferrò la perla e dopo averla osservata se la premette contro la fronte e s’inchinò. «È destinata», disse, «allo scettro del Giovane Re», e fece cenno ai negri di sollevare l’ancora.
E quando il Giovane Re udì quelle parole gettò un grido acuto, e si svegliò, e dalla finestra vide le lunghe dita grigie dell’alba ghermire le stelle che si dileguavano.
E si riaddormentò e di nuovo fu visitato da visioni, e queste furono le sue visioni.
Si vide errare in un bosco tenebroso, pieno di strani frutti e di bellissimi fiori velenosi. Al suo passaggio sibilavano vipere, e variopinti pappagalli volavano stridendo di ramo in ramo. Enormi tartarughe giacevano attonite sul fango bollente. Gli alberi erano popolati di scimmie e di pavoni.
Ed egli procedeva innanzi, finché giunse all’estremo lembo del bosco, e qui vide un’immensa moltitudine di uomini che si agitavano sul letto di un fiume prosciugato. Formicolando nei crepacci, essi scavavano pozzi profondi e vi scendevano dentro. Alcuni spaccavano la roccia con grandi scuri; altri frugavano nella sabbia. Sradicavano i cactus e ne calpestavano i fiori scarlatti. Correvano qua e là, lanciandosi richiami, e nessuno stava in ozio.
Dalle tenebre di una caverna Morte e Avarizia li scrutavano, e Morte disse: «Io sono stanca; dammi un terzo di quella gente e lasciami andare».
Ma Avarizia scosse il capo. «Sono i miei servi», rispose.
E Morte le chiese: «Che hai in mano?».
«Ho tre chicchi di grano», rispose quella. «Ma a te che importa?»
«Dammene uno», pregò Morte, «per piantarlo nel mio giardino; uno solo, e me ne andrò.»
«Non ti darò nulla», disse Avarizia, e si nascose la mano nel lembo della veste.
E Morte rise, e prese una coppa, e la immerse nell’acqua di una pozza, e dalla coppa si levò Malaria. Costei passò in mezzo alla grande moltitudine, e un terzo di questa giacque morta. Una nebbia fredda la seguiva, e bisce acquatiche le facevano corteo.
E quando Avarizia vide che un terzo della moltitudine era morta, si picchiò il petto e pianse. Si picchiò il petto nudo, e urlava: «Hai ucciso un terzo dei miei servi. Va’ via di qui! C’è la guerra sui monti della Tartaria, e i re di entrambe le parti ti invocano. Gli Afgani hanno ucciso il bue nero, e marciano in battaglia. Hanno picchiato con le lance sugli scudi e si sono messi gli elmetti di ferro. Che te ne fai della mia vallata, perché vi indugi? Vattene, e non tornare più».
«No», rispose Morte, «finché non mi avrai dato un chicco di grano non me ne andrò.»
Ma Avarizia chiuse la mano, e serrò i denti. «Non ti darò nulla», mormorò.
E Morte rise, e raccolse una pietra nera, e la scagliò nella foresta, e da un cespuglio di cicuta selvatica balzò fuori Febbre avvolta in una veste di fuoco. Passò attraverso la moltitudine, e toccò gli uomini, e ogni uomo da lei toccato cadeva morto. L’erba avvizziva sotto il suo passo.
E Avarizia rabbrividì, e si coprì il capo di cenere. «Sei crudele», gridò, «sei crudele! C’è la carestia nelle città dell’India recinte di mura, e le cisterne di Samarcanda sono asciutte. Il Nilo non è straripato dagli argini, e i sacerdoti hanno maledetto Iside e Osiride. Vattene da chi ha bisogno di te, e lasciami i miei servi.»
«No», rispose Morte, «finché non mi avrai dato un chicco di grano non me ne andrò.»
«Non ti darò nulla», disse Avarizia.
E Morte rise nuovamente, e fischiò fra le dita, e volando attraverso l’aria venne una donna. Sulla fronte aveva scritto Peste, e intorno le vorticava uno stormo di macilenti avvoltoi. Essa spiegò le ali a coprire la vallata, e nessuno rimase vivo.
E Avarizia fuggì urlando attraverso la foresta, e Morte balzò sul suo cavallo rosso e galoppò via, e il suo galoppo era più veloce del vento.
E dalla melma del fondovalle uscirono strisciando draghi e orribili mostri squamosi, e gli sciacalli giunsero al trotto sulla sabbia, fiutando l’aria con le narici.
E il Giovane Re proruppe in pianto, e chiese: «Chi erano quegli uomini, e cosa andavano cercando?».
«Cercavano rubini per la corona di un re», rispose uno che gli stava alle spalle.
E il Giovane Re trasalì, e, voltandosi, vide un uomo in abito da pellegrino, con uno specchio d’argento in mano.
E impallidì, e chiese: «Di quale re?».
E il pellegrino rispose: «Guarda in questo specchio, e lo vedrai».
Ed egli guardò nello specchio, e, vedendo il proprio volto, gettò un grido acuto e si svegliò, e la fulgida luce del giorno invadeva già la stanza, e dagli alberi del giardino incantato gorgheggiavano gli uccelli.
E il Ciambellano e gli altri dignitari di Stato entrarono a rendergli omaggio, e i paggi gli recarono la veste di gala laminata d’oro e gli porsero la corona e lo scettro.
E il Giovane Re, posandovi lo sguardo, li vide più belli che mai, più splendidi di qualsiasi cosa avesse mai visto. Ma egli si ricordò dei suoi sogni, e disse ai nobili: «Portate via queste cose, perché io non le metterò».
E i cortigiani rimasero stupefatti, e alcuni di loro risero, pensando ch’egli facesse per celia.
Ma egli parlò di nuovo seriamente, e disse: «Portate via queste cose, e nascondetele al mio sguardo. Anche se è il giorno della mia incoronazione, io non le metterò. Poiché sul telaio del Dolore, e dalle bianche mani della Sofferenza, questa mia veste è stata intessuta. C’è Sangue nel cuore del rubino e Morte nel cuore della perla». E narrò loro dei suoi tre sogni.
E quando i cortigiani ebbero ascoltato, si guardarono l’un l’altro e mormorarono: «Di certo è pazzo; perché cos’è mai un sogno se non un sogno, e cos’è una visione se non una visione? Non sono cose reali, per cui ci si debba preoccupare. E che abbiamo mai a che fare, noi, con la vita di quelli che lavorano per noi? Non si dovrà mangiar pane, allora, finché non si è veduto il seminatore, né bere vino finché non si è parlato col vignaiolo?».
E il Ciambellano si rivolse al Giovane Re: «Mio Signore, ti prego di stornare da te questi pensieri cupi, e di indossare questa splendida veste, e porre sul tuo capo la corona. Infatti, come potrà il popolo sapere che sei il re, se non indosserai le vesti regali?».
E il Giovane Re lo guardò. «È così dunque?», gli chiese. «Non mi riconosceranno come re, se non indosserò le vesti regali?»
«Non ti riconosceranno, mio signore», ribadì il Ciambellano.
«Io credevo che vi fossero uomini regali», rispose, «ma sarà come tu dici. Comunque, io non indosserò queste vesti, né mi porrò in capo questa corona, e come sono entrato al palazzo, così ne uscirò.»
E ordinò a tutti di lasciarlo, a eccezione di un paggio che tenne come compagno, un giovinetto di un anno minore di lui. Costui scelse come suo personale valletto, e quando si fu deterso le membra in acqua chiara, aprì una cassapanca dipinta e ne estrasse la tunica di cuoio e il rozzo mantello di pelle di pecora che portava quando custodiva le irsute capre del capraio. Queste vesti indossò, e nella mano strinse il suo rude bastone da pastore.
E il piccolo paggio spalancò i suoi grandi occhi azzurri, e disse sorridendogli: «O mio signore, vedo il tuo manto e il tuo scettro, ma dov’è la tua corona?».
E il Giovane Re spiccò un ramo di edera selvatica che si arrampicava sul balcone e, piegandolo, ne fece un serto e se lo pose in capo.
«Questa sarà la mia corona», rispose.
E così vestito passò dalla sua camera alla Gran Sala, dove i nobili lo attendevano.
E i nobili scoppiarono a ridere, e uno di loro gli gridò: «Mio signore, il popolo aspetta il suo re, e tu gli mostri un mendicante». E altri si adirarono e dissero: «Porta la vergogna nel nostro Stato, non è degno d’essere il nostro sovrano». Ma lui non rispose nulla, e procedette oltre, e discese la lucente scalea di porfido, e uscì dalle porte di bronzo, e balzò sul suo cavallo, e si avviò verso la cattedrale, col suo piccolo valletto che gli correva al fianco.
E il popolo rise, e disse: «È il buffone del Re che passa a cavallo», e si fece beffe di lui.
E lui tirò le redini e disse: «No, io sono il Re». E narrò al popolo i suoi tre sogni.
E un uomo si fece strada fra la folla e gli parlò amaramente, dicendo: «Signore, non sai che dal lusso dei ricchi viene la vita dei poveri? Noi siamo tutti nutriti dal vostro sfarzo, e i vostri vizi ci danno il pane. Faticare per un padrone cattivo è triste, ma non avere un padrone per cui faticare è ancora più triste. Pensi forse che ci sfameranno i corvi? E che rimedio proponi? Dirai al compratore: “Tu devi comprare per tanto”, e al venditore: “Tu devi vendere a questo prezzo”? Non credo. Perciò torna al tuo Palazzo e indossa la porpora e il lino pregiato, e rallegrati. Che hai tu a che vedere con noi, e con il nostro dolore?».
«I ricchi e i poveri non sono dunque fratelli?», chiese il Giovane Re.
«Sì», rispose l’uomo, «e il nome del fratello ricco è Caino.»
E gli occhi del Giovane Re si riempirono di lacrime, ed egli procedette oltre fra i mormorii del popolo, e il valletto si spaurì e lo lasciò.
E quando giunse alle soglie maestose della cattedrale, i soldati gli puntarono contro le alabarde e dissero: «Che cosa vuoi tu qui? Da questa porta nessuno può entrare eccetto il Re».
E il suo volto si accese di collera, e disse loro: «Io sono il Re», e scostò le alabarde e passò.
E quando il vecchio Vescovo lo vide entrare vestito da capraio, si levò sbalordito dal suo trono, e gli andò incontro, e disse: «Figlio mio, è forse questo l’abbigliamento di un re? E con quale corona ti incoronerò, e quale scettro metterò nella tua mano? In verità questo dovrebbe essere per te un giorno di gioia, non di avvilimento».
«E dovrà dunque Gioia indossare il vestito che ha foggiato Dolore?», disse il Giovane Re. E gli narrò dei suoi tre sogni.
E quando il Vescovo l’ebbe ascoltato aggrottò la fronte, e disse: «Figliolo, io sono vecchio, e nell’inverno dei miei giorni, e so che nel vasto mondo c’è tanta malvagità. Feroci briganti scendono dalle montagne a rapire i bambini, e li vendono ai Mori. I leoni stanno in agguato, spiando le carovane, e si avventano sui cammelli. Il cinghiale sradica il grano nella valle, e le volpi rodono le viti sul colle. I pirati devastano le rive del mare, e bruciano le barche dei pescatori, e si portano via le reti. Nelle paludi salate vivono i lebbrosi; hanno case intrecciate di giunchi, e nessuno vi si può avvicinare. I mendicanti vagano per le città, e mangiano insieme ai cani. In che modo potrai impedire che queste cose accadano? Prenderai nel tuo letto il lebbroso e accoglierai alla tua mensa il mendicante? Il leone ubbidirà al tuo cenno, e il cinghiale ti asseconderà? Non è più saggio di te Colui che ha creato la miseria? Perciò io non ti lodo per quel che hai fatto, ma ti prego di tornare al tuo Palazzo e rallegrarti in volto, e mettere la veste che si addice a un Re, e con la corona d’oro io ti incoronerò, e lo scettro di perle porrò nella tua mano. Quanto ai tuoi sogni, non pensarci più. Il fardello di questo mondo è troppo pesante perché un uomo possa reggerlo, e il dolore del mondo troppo grande perché il cuore di un uomo possa sopportarlo».
«E tu dici ciò in questa casa?», chiese il Giovane Re; e passò oltre il Vescovo, e salì i gradini dell’altare, e si fermò di fronte all’immagine di Cristo.
Si fermò di fronte all’immagine di Cristo, e alla sua destra e alla sua sinistra erano i meravigliosi vasi d’oro, il calice del vino dorato, e la fiala con l’olio santo. Egli s’inginocchiò dinnanzi all’immagine di Cristo, e le grandi candele ardevano luminose presso il reliquiario ingemmato, e il fumo dell’incenso si attorcigliava in arabeschi azzurrini sulla volta. Chinò il capo in preghiera, e i sacerdoti nelle loro cappe rigide sgusciarono via dall’altare.
E d’un tratto un tumulto selvaggio si scatenò dalla strada, e i nobili irruppero nella chiesa con le spade sguainate e le piume ondeggianti e gli scudi di lucido acciaio. «Dov’è questo sognatore di sogni?», gridarono. «Dov’è questo Re che si è abbigliato di stracci, questo ragazzo che disonora il nostro Stato? Ora lo uccideremo, perché è indegno di governarci!»
E il Giovane Re chinò di nuovo il capo, e pregò, e quando ebbe finito la sua preghiera si levò, e voltandosi li guardò intristito.
Ed ecco che dalle vetrate dipinte la luce del sole si riversò a fiotti su di lui, e i raggi lo ravvolsero in una veste assai più splendida di quella che era stata foggiata per il suo piacere. Il bastone morto fiorì, e diede gigli più bianchi delle perle. Il rovo secco fiorì, e diede rose più rosse dei rubini. Più bianchi delle perle preziose erano i gigli, e i loro steli erano di fulgido argento. Più rosse dei rubini maschi erano le rose, e le loro foglie erano d’oro massiccio.
In veste regale egli restava sull’altare, e gli sportelli del reliquiario ingemmato si dischiusero, e dal cristallo dell’ostensorio sfavillante rifulse una meravigliosa, mistica luce. In veste regale egli restava sull’altare, e la Gloria di Dio riempiva il luogo, e i santi nelle loro nicchie scolpite parvero muoversi. Nello splendido abito di un re egli stava dinnanzi a loro, e l’organo proruppe in musica, e i trombettieri fecero squillare le loro trombe, e i fanciulli della cantoria sciolsero i loro canti.
E il popolo cadde in ginocchio adorante, e i nobili rinfoderarono le loro spade, e fecero atto di omaggio, e il volto del Vescovo impallidì, e le sue mani tremarono. «Uno più grande di me ti ha incoronato!», gridò, e s’inginocchiò dinnanzi a lui.
E il Giovane Re scese dall’altar maggiore, e si diresse verso la sua casa, passando in mezzo al popolo. Ma nessuno osò guardarlo in volto, perché il suo volto era quello di un angelo.
Il compleanno dell’Infanta
Era il compleanno dell’Infanta. Quel giorno ella compiva dodici anni e il sole splendeva sul giardino del palazzo.
Sebbene ella fosse una vera Principessa e l’Infanta di Spagna, aveva un solo compleanno da festeggiare nel corso di un anno, proprio come i figli della povera gente, ed era veramente una cosa di grande importanza per tutto il paese che in quell’occasione ella passasse una giornata bellissima. E in verità era proprio una bellissima giornata. Gli alti tulipani screziati si ergevano impettiti sugli steli, come lunghe file di soldati, e gettavano sguardi di sfida alle rose del prato, come a dire: «Siamo splendidi quanto voi, ora». Le farfalle purpuree volteggiavano qua e là con le ali spruzzate di polvere d’oro facendo visita a un fiore dopo l’altro; le piccole lucertole guizzavano fuori dai crepacci del muro e restavano a crogiolarsi nel bianco bagliore; e le melagrane si spaccavano e si screpolavano nel torrido calore mostrando i loro rossi cuori sanguinanti. Anche i pallidi limoni gialli, che pendevano a profusione dai graticci a brandelli e lungo le arcate in penombra, sembrava avessero assorbito dalla meravigliosa luce solare una tinta più vitale, e le piante della magnolia aprivano i loro grandi fiori simili a globi d’avorio rastremato infondendo all’aria tutt’intorno un dolce, penetrante profumo.
La piccola Principessa passeggiava su e giù per la terrazza con le sue compagne, e giocava a rimpiattino dietro i vasi di pietra e le vecchie statue coperte di muschio. Di solito, le era permesso di giocare solo con ragazzi del suo rango, e pertanto doveva sempre giocare da sola, ma il giorno del suo compleanno si poteva fare un’eccezione, e infatti il Re aveva permesso che invitasse tutti i piccoli amici che desiderava a giocare con lei. Quegli snelli bambini spagnoli avevano una grazia maestosa nelle movenze, i ragazzi coi loro ampi cappelli piumati e le mantelline corte e svolazzanti, le ragazzine in atto di reggere lo strascico delle loro lunghe vesti di broccato, e ripararsi gli occhi dal sole con immensi ventagli neri e argento. Ma l’Infanta era la più graziosa di tutte, e quella abbigliata con gusto più squisito, secondo la foggia un po’ sfarzosa del tempo. La sua veste era di raso grigio, con la sottana e le maniche rigonfie pesantemente ricamate d’argento e il corsetto rigido tempestato di pietre preziose. Mentre camminava, spuntavano di sotto il suo abito due minuscole babbucce adorne di grandi coccarde rosa. Pure rosa, tendente al perlaceo, era il suo ventaglio di garza, e sulla chioma, che simile a un’aureola d’oro sporgeva rigida all’infuori, troneggiava una splendida rosa bianca.
Da una finestra del palazzo il Re osservava i fanciulli con aria cupa e malinconica. Alle sue spalle era suo fratello, Don Pedro d’Aragona, che egli odiava, e al suo fianco sedeva il suo confessore, il Grande Inquisitore di Granata. Il Re era più triste del solito perché, mentre guardava l’Infanta salutare i cortigiani adunati o ridere, dietro il ventaglio, dell’arcigna Duchessa di Albuquerque che non la lasciava mai, tornava col pensiero alla giovane Regina, madre della bimba, venuta solo da poco – così almeno a lui sembrava – dalla gaia terra di Francia e appassita nel tetro splendore della Corte di Spagna per morire appunto sei mesi dopo la nascita della figlioletta, senza aver visto fiorire due volte i mandorli nel giardino né aver colto i frutti del secondo anno del vecchio fico nodoso al centro del cortile ora coperto d’erba nuova. A tal punto egli l’aveva amata da non tollerare nemmeno che la tomba la sottraesse al suo sguardo: era stata imbalsamata da un giovane medico moresco, che in cambio dei suoi servigi aveva ottenuto la grazia della vita – essendo stato condannato per eresia e sospetto di pratiche magiche da parte del Santo Uffizio – e il suo corpo giaceva tuttora nella bara rivestita di stoffa nella cappella di marmo nero del Palazzo, così come i monaci l’avevano trasportata in quel ventoso giorno di marzo, quasi dodici anni prima. Una volta al mese il Re, avvolto in un mantello nero e con una lanterna cieca in mano, entrava nella cappella e s’inginocchiava accanto a lei chiamandola «Mi reina! Mi reina!» e a volte, infrangendo la rigorosa etichetta che in Spagna governa ogni singola azione ponendo limiti perfino al cordoglio di un Re, in un accesso irrefrenabile di dolore si aggrappava alle pallide mani ingemmate e tentava di ridestare coi suoi folli baci il freddo viso dipinto.
Oggi egli provava l’ingannevole impressione di riaverla dinnanzi agli occhi come l’aveva vista la prima volta al Castello di Fontainebleau quand’era solo un fanciullo di quindici anni, e lei quasi ancora una bambina. Erano stati fidanzati in quell’occasione dal Nunzio Pontificio alla presenza del Re di Francia e di tutta la Corte, ed egli era tornato all’Escurial portando una ciocca dei capelli biondo oro di lei e il ricordo di due labbra infantili che si chinavano a baciargli la mano quand’era salito in carrozza. Più tardi erano seguiti il matrimonio, celebrato affrettatamente a Burgos, sul confine tra le due nazioni, e la grandiosa entrata in pubblico a Madrid, con la tradizionale funzione della Messa cantata nella chiesa di La Atocha, e un auto da fé particolarmente sontuoso, in cui quasi trecento eretici, fra i quali molti inglesi, erano stati consegnati al Potere Secolare per essere arsi sul rogo.
Certo, egli l’aveva amata follemente, e, come pensavano molti, a discapito del suo paese, allora in guerra con l’Inghilterra per il possesso dell’impero del Nuovo Mondo. Non le aveva quasi mai permesso di allontanarsi da lui; per lei aveva dimenticato, a quanto pareva, i grandi affari di Stato; e, con la spaventosa cecità che la passione genera nei suoi servi, non si era accorto di quanto le elaborate cerimonie con cui cercava di darle piacere in realtà le nuocessero, aggravando la strana malattia di cui soffriva. Alla morte di lei rimase, per non breve tempo, come privo di senno. Molto probabilmente avrebbe abdicato ufficialmente per ritirarsi nel grande monastero trappista di Granata di cui era già priore, se non avesse temuto di lasciare la piccola Infanta alla mercé del proprio fratello, la cui crudeltà era nota a tutti anche in Spagna, e che molti addirittura sospettavano di aver procurato la morte alla Regina con il dono di un paio di guanti avvelenati in occasione della visita di lei al castello di Aragona. Anche dopo lo scadere dei tre anni di lutto pubblico ordinato dal sovrano per tutte le terre con editto reale, non permetteva ai suoi ministri di parlargli mai di un nuovo matrimonio, e quando l’Imperatore in persona gli offrì in sposa la bellissima Arciduchessa di Boemia sua nipote, egli pregò gli ambasciatori di riferire al loro signore che il Re di Spagna era già sposato all’Afflizione e che, sebbene essa fosse una sposa sterile, l’amava più della Bellezza; risposta che gli costò il dominio sulle ricche province dei Paesi Bassi, giacché questi poco dopo si rivoltarono contro di lui per istigazione dell’Imperatore, capitanati da alcuni fanatici della Chiesa Protestante.
Tutta la sua vita coniugale, con gli sfrenati ardori delle sue gioie e la terribile pena della fine improvvisa, sembrava far ritorno a lui oggi, mentre guardava l’Infanta giocare sulla terrazza. In lei c’era tutta la vezzosità della Regina, lo stesso piglio volitivo nel gettare indietro il capo, la stessa bocca altera, lo stesso disarmante sorriso – vrai sourire de France davvero – nel lanciare di tanto in tanto sguardi in direzione della finestra, o nel porgere la piccola mano da baciare ai sussiegosi gentiluomini spagnoli. Ma le risate squillanti dei ragazzi gli laceravano le orecchie, e la fulgida spietata luce del sole si faceva beffe del suo dolore, e un fosco aroma come di spezie esotiche, del genere di quelle usate dagli imbalsamatori, sembrava inquinare – o era immaginazione? – l’aria limpida del mattino. Egli si nascose il volto fra le mani, e quando l’Infanta guardò di nuovo su, le cortine erano state abbassate, e il Re si era ritirato.
Ella fece una piccola smorfia di disapprovazione, e scrollò le spalle. Avrebbe potuto stare un po’ con lei, suo padre, almeno il giorno del suo compleanno. Che cosa mai gl’importava degli stupidi affari di Stato? O forse era andato in quella tetra cappella, in cui ardevano ceri perenni, e dove lei non aveva il permesso di entrare? Che sciocchezza, da parte sua, ora che il sole splendeva così luminoso e tutti erano felici! Ecco, ora si sarebbe perso il finto combattimento dei tori, annunciato da squilli di tromba, la rappresentazione dei burattini e le altre cose meravigliose. Lo zio e il Grande Inquisitore si comportavano in modo molto più ragionevole: erano venuti sulla terrazza, e le facevano dei simpatici complimenti. Gettando indietro la leggiadra piccola testa, prese Don Pedro per mano e discese i gradini, avviandosi verso il lungo padiglione di seta purpurea eretto in fondo al giardino, mentre gli altri fanciulli seguivano in stretto ordine di precedenza, venendo per primi quelli dai nomi più lunghi.
Una schiera di fanciulli nobili, meravigliosamente abbigliati da toreador, le si fece incontro, e il giovinetto Conte di Tierra-Nueva, un ragazzo straordinariamente bello di circa quattordici anni, scoprendosi il capo con tutta la grazia di un hidalgo nato e di un grande di Spagna, la condusse solennemente a un piccolo trono d’avorio e oro posto su un’impalcatura prospiciente l’arena. I ragazzi si raggrupparono all’intorno, le bimbe agitando i grandi ventagli e bisbigliando tra loro, mentre Don Pedro e il Grande Inquisitore se ne stavano all’ingresso con aria compiaciuta. Perfino la Duchessa – la Camerera-Mayor, come la chiamavano –, donna magra, dai lineamenti duri, con una gorgiera gialla, non aveva la sua solita espressione arcigna, e qualcosa di simile a un sorriso aleggiava come un brivido sul volto grinzoso contraendo le labbra esangui.
Era davvero uno stupendo combattimento di tori, molto più piacevole, pensava l’Infanta, della vera corrida che l’avevano condotta a vedere a Siviglia in occasione della visita del Duca di Parma a suo padre. Alcuni ragazzi caracollavano qua e là su cavallini di legno dalle ricche gualdrappe, brandendo lunghi giavellotti con allegri pennoncelli di nastri colorati; altri, a piedi, agitavano i bei mantelli scarlatti dinnanzi al toro, scavalcando agilmente la barriera quando quello si avventava su loro; l’animale sembrava proprio vivo, benché fosse fatto di trucioli e di cuoio e si ostinasse di tanto in tanto a correre per l’arena sulle zampe posteriori, cosa che nessun toro vivo si sognerebbe mai di fare. Si batté, a ogni modo, magnificamente, e i bambini si entusiasmarono tanto da balzare in piedi sulle panche e agitare i fazzoletti gridando: «Bravo toro! Bravo toro!», con la coerenza, né più né meno, di persone adulte. Alla fine, dopo un combattimento di ragionevole lunghezza, durante il quale parecchi cavalli di legno furono trapassati ripetutamente dalle corna taurine e i cavalieri sbalzati di sella, il giovane Conte di Tierra-Nueva impose al toro di inginocchiarsi e, ottenuto dall’Infanta il permesso di dargli il coup de grace, immerse la sua spada di legno nel collo dell’animale con tanta violenza che la testa schizzò via di colpo, scoprendo il volto ridente del piccolo Monsieur de Lorraine, il figlioletto dell’Ambasciatore francese a Madrid.
Fra uno scrosciare ininterrotto di applausi fu sgombrata l’arena, e i cavalli di legno defunti vennero solennemente trascinati via da due paggi moreschi in livrea gialla e nera; dopo un breve interludio, durante il quale un acrobata francese si esibì sulla fune, apparvero, sul palco di un piccolo teatro allestito per l’occasione, alcune marionette italiane, e la tragedia semiclassica di «Sofonisba» fu recitata con tale straordinaria naturalezza da offuscare di lacrime, alla fine della rappresentazione, gli occhi dell’Infanta e quelli di molti fanciulli, che furono poi consolati con ogni sorta di dolciumi, e persino il Grande Inquisitore era così commosso che non poté far a meno di dire a Don Pedro quanto trovasse intollerabile l’infelicità e l’umiliante sacrificio di creature fatte semplicemente di legno e di cera colorata e azionate meccanicamente da fili.
Fu quindi la volta di un giocoliere africano, che pose nel centro dell’arena un ampio paniere piatto, coperto da un drappo rosso, si tolse dal turbante una strana zampogna pastorale e iniziò a suonarla. Quasi subito il drappo fu agitato da sinuosi movimenti e, mentre il suono della zampogna si faceva più stridulo, due serpi verdi e dorate disvilupparono le loro teste cuneiformi protendendole lentamente qua e là secondo la musica, come una pianta si dondola nell’acqua. I loro cappucci maculati e le loro lingue saettanti di scatto spaventarono un poco i ragazzi, che furono assai contenti quando il giocoliere fece spuntar fuori dalla sabbia un minuscolo albero d’arancio che si coprì di leggiadri fiori bianchi e poi apparve carico di frutti veri; e quando il ventaglio della figlia della Marchesa di Las Torres fu trasformato in un uccellino azzurro che volò cantando tutt’intorno al padiglione, la loro letizia e il loro incantato stupore superarono ogni limite. Anche il sontuoso minuetto eseguito dai giovani danzatori della chiesa di Nostra Señora del Pilar fu di una grazia straordinaria. Era la prima volta che l’Infanta assisteva alla meravigliosa cerimonia che ha luogo tuttora ogni anno dinnanzi all’altar maggiore della Vergine; e in verità nessuno della famiglia reale di Spagna era entrato nella grande cattedrale di Saragozza da quando un prete folle, sospettato da molti di essere al soldo di Elisabetta d’Inghilterra, aveva tentato di somministrare un’ostia avvelenata al Principe delle Asturie. Sicché la piccola Infanta conosceva solo per sentito dire la «Danza di Nostra Signora», come la chiamavano: uno spettacolo davvero stupefacente. I ragazzi indossavano vesti da cerimonia di foggia antiquata, di velluto bianco, con capelli a tricorno frangiati d’argento e sormontati da folti pennacchi di piume di struzzo; e l’abbacinante splendore degli abiti, mentre si muovevano nel sole, era ulteriormente accentuato dai volti olivastri e dai lunghi capelli neri. Tutti erano ammaliati dalla dignitosa gravità con cui venivano eseguite le intricate figure della danza, dalla grazia elaborata dei gesti lenti e dei maestosi inchini; e quando alla fine dello spettacolo i fanciulli si tolsero i grandi cappelli piumati dinnanzi all’Infanta, essa accolse il loro omaggio con squisita cortesia, e fece voto di inviare un grande cero per il reliquiario di Nostra Señora del Pilar in contraccambio del piacere che le era stato procurato.
Un gruppo di bellissime Egiziane – come si chiamavano a quel tempo le zingare – avanzò poi sull’arena; accoccolandosi a gambe incrociate, cominciarono a suonare dolcemente sulle loro cetre, seguendo il ritmo con la persona e canticchiando a bocca chiusa un’aria lenta e sognante. Nello scorgere Don Pedro assunsero un’espressione accigliata, quasi di terrore, perché solo poche settimane prima egli aveva fatto impiccare due donne della loro tribù sotto accusa di stregoneria sulla piazza del mercato di Siviglia; ma la deliziosa Infanta le incantò, abbandonandosi languidamente all’indietro e guardandole al di sopra del ventaglio con tale dolcezza nei grandi occhi azzurri che esse si convinsero dell’impossibilità di patire qualsivoglia crudeltà da una creatura tanto leggiadra. Così seguitarono a suonare dolcemente, sfiorando appena le corde delle cetre con le loro lunghe unghie appuntite, e le loro teste ciondolavano come se stessero per prender sonno; a un tratto, con un grido così acuto che i ragazzi trasalirono e la mano di Don Pedro si serrò istintivamente sull’impugnatura d’agata della sua daga, le zingare balzarono in piedi e si misero a turbinare follemente intorno al recinto, battendo sui loro tamburelli e canticchiando una selvaggia canzone d’amore nel loro curioso linguaggio gutturale. Poi, a un segnale, si buttarono tutte a terra per rimanervi perfettamente immobili mentre il monotono vibrare delle cetre era l’unico suono a rompere il silenzio. Ripetuta la scena più volte, sparvero poi per un attimo, per ritornare trascinando alla catena un irsuto orso bruno e portando sulle spalle alcune scimmiette di Barberìa. L’orso si mise col capo all’ingiù con la massima gravità, e le scimmie grinzose eseguirono ogni sorta di esercizi insieme a due ragazzi zingari, che a quanto pareva erano i loro padroni: mimarono combattimenti con minuscole spade, spararono colpi di fucile e sfilarono in una vera e propria parata militare, in nulla dissimili dai soldati della Guardia del Corpo del Re. Gli zingari fecero davvero furore.
Ma senza alcun dubbio la rappresentazione più buffa dell’intero spettacolo di quel mattino fu la danza del piccolo Nano. Quando egli avanzò incespicando sull’arena, dondolando sulle sue gambe storte e ciondolando la sua enorme testa deforme, i ragazzi esplosero in fragorose grida di gioia, e anche l’Infanta rise così di gusto che la Camerera fu costretta a ricordarle come in Spagna, benché vi fosse qualche precedente di figlia di Re che avesse pianto in mezzo alle sue pari, non ve n’era alcuno di una Principessa che si fosse mostrata tanto sconvenientemente allegra dinnanzi a gente di ceto inferiore. Il Nano, però, era davvero irresistibile, un piccolo mostro così grottesco come non se n’erano mai visti. Era, inoltre, la sua prima apparizione. Era stato scoperto soltanto la vigilia, da due nobili che si trovavano a caccia in un angolo remoto del grande bosco di sughero che circondava la città, e l’avevano veduto correre all’impazzata, decidendo subito di portarlo all’Infanta come sorpresa; il padre, che era un povero carbonaio – di quelli che fabbricano il carbone di legna nei boschi – era stato ben contento di sbarazzarsi di un figlio così brutto e inutile. Forse la cosa più divertente, in lui, era l’assoluta inconsapevolezza della propria apparenza grottesca: sembrava realmente felice, allegro e animato dal più profondo entusiasmo. Alle risate dei ragazzi egli faceva echeggiare le proprie, altrettanto liberamente e gioiosamente che se fosse stato uno di loro, e alla fine di ogni danza seguiva il più buffo inchino a ciascuno degli spettatori, proprio come fosse stato uno di loro e non un piccolo essere deforme che la Natura, in un momento d’umore faceto, aveva foggiato perché la gente si burlasse di lui. Quanto all’Infanta, esercitò su di lui un fascino indicibile. Egli non riusciva a staccare gli occhi da lei; e quando, alla fine della rappresentazione – ricordando d’aver visto le dame di corte lanciare mazzi di fiori a Caffarelli, il famoso cantore italiano mandato dalla Cappella Papale a Madrid per curare con la soavità della sua voce la malinconia del Re – l’Infanta si tolse dai capelli la bellissima rosa bianca e, un po’ per celia, un po’ per far dispetto alla Camerera, gliela lanciò sull’arena col più incantevole sorriso, egli prese l’atto proprio sul serio, e premendo il fiore sulle sue grosse ruvide labbra, si pose una mano sul cuore e piegò un ginocchio dinnanzi a lei, con una smorfia che avrebbe voluto essere un sorriso e che gli allargava la bocca da un’orecchia all’altra, mentre gli occhietti vivaci scintillavano di piacere.
Questo scombinò tanto la compostezza dell’Infanta che essa seguitò a ridere ancora per un bel po’ dopo che il piccolo Nano se ne fu andato via di corsa dall’arena, ed espresse allo zio il desiderio che la danza venisse subito replicata. La Camerera però, col pretesto che il sole era troppo caldo, optò per il ritorno di Sua Altezza senza indugi al Palazzo, dove era già stata preparata per lei una meravigliosa festa, e l’attendeva una splendida torta di compleanno con sopra le sue iniziali scritte in zucchero colorato e in cima una graziosa bandierina d’argento sventolante. L’Infanta si levò dunque con molta dignità, e dopo aver ordinato che il piccolo Nano danzasse ancora per lei, trascorsa l’ora della siesta e fatti i debiti ringraziamenti al giovane Conte di Tierra-Nueva per il suo delizioso trattenimento, se ne tornò nelle sue stanze, seguita dai fanciulli disposti nello stesso identico ordine in cui avevano fatto il loro ingresso.
Quando il piccolo Nano seppe che avrebbe dovuto danzare ancora per la gioia dell’Infanta, e per suo espresso ordine, fu invaso da tale gioia e fierezza che si lanciò fuori in giardino, baciando la rosa bianca in un’assurda appassionata esaltazione, e si abbandonò ai più incomposti e goffi atti di entusiasmo.
I Fiori erano veramente indignati che egli avesse osato fare irruzione nella loro incantata dimora, e quando lo videro far capriole su e giù per i viali dimenando le braccia sopra il capo in maniera così ridicola, non poterono trattenersi dall’esprimere il proprio risentimento:
«È proprio troppo brutto per permettergli di giocare nel luogo dove stiamo noi», esclamarono i Tulipani.
«Dovrebbe bere succo di papavero, e addormentarsi per almeno mille anni», dissero i Gigli scarlatti, che l’ira scurì come brace.
«È un vero orrore!», strillò il Cactus. «Guardatelo, è tutto storto e sciancato, e la sua testa è assolutamente sproporzionata rispetto alle gambe. Mi sento orripilare, e se mi viene vicino lo pungerò con le mie spine.»
«E perdipiù si è preso uno dei miei fiori più belli», osservò il Rosaio Bianco. «L’avevo donato io stesso all’Infanta per il suo compleanno, e lui gliel’ha rubato.» E gli gridò: «Ladro! Ladro! Ladro!», con quanto fiato aveva.
Anche i Gerani Rossi, che di solito non si davano arie e come era noto a tutti avevano parenti poveri, si raggrinzirono per il disgusto al solo vederlo; e quando le Mammole osservarono in tono mite che per quanto egli fosse così brutto non poteva farci nulla, essi replicarono con una certa speciale equanimità che proprio quello era il suo maggior difetto, e che non v’era ragione di ammirare una persona per il fatto di essere incurabile; e infatti anche alcune Mammole concordarono che la bruttezza del piccolo Nano era quasi un’ostentazione, e che sarebbe stato assai più fine avere, nelle sue condizioni, un’aria mesta, o almeno pensosa, anziché saltellare qua e là buffonescamente e assumere atteggiamenti così sciocchi e grotteschi.
Persino la Meridiana, una personalità del tutto eccezionale, che una volta aveva segnato il tempo nientemeno che all’Imperatore Carlo V, rimase letteralmente esterrefatta alla vista del piccolo Nano, tanto che si scordò di segnare due minuti col suo lungo dito d’ombra; e non poté fare a meno di dire al grande Pavone dalle piume color bianco latte fermo ad abbronzarsi sulla balaustra che tutti sapevano come i figli di Re fossero figli di Re e i figli di carbonai carbonai, dichiarazione con la quale il Pavone fu pienamente d’accordo, mettendosi a strillare: «Mi va! Mi va! Mi va!», con una voce così aspra e acuta che i pesci d’oro dalla conca della fontana del fresco zampillo guizzarono fuori a chiedere ai Tritoni che mai fosse accaduto.
Gli Uccelli, invece, provavano simpatia per lui. Lo avevano visto spesso nella foresta danzare qua e là come un elfo inseguendo le foglie turbinanti o spartire le noci con gli scoiattoli accoccolato nel tronco cavo di qualche vecchia quercia. A loro non dava fastidio la sua bruttezza. Per nulla. Anche l’Usignolo, che di notte nell’aranceto cantava così dolcemente da far chinare all’ingiù la Luna per ascoltarlo, dopotutto non era una gran bellezza; e poi il piccolo Nano era stato sempre buono con loro, e in quell’inverno terribilmente rigido, senza nemmeno una bacca sulle piante, il suolo duro come ferro e i lupi scesi fino alle porte della città in cerca di cibo, non si era mai dimenticato di loro rinunciando a molte briciole di pane nero e dividendo con loro la sua modesta colazione.
Così essi gli volarono e rivolarono intorno, sfiorandogli le guance con le ali, e ciangottando tra loro; e il piccolo Nano era così contento che non poté fare a meno di mostrar loro la meravigliosa rosa bianca, dicendo a gran voce che l’Infanta in persona gliel’aveva donata, perché lo amava.
Gli Uccelli non capirono una sola parola, ma non importava; di fatto chinarono le testoline da un lato e assunsero un’aria compunta, il che equivale a capire, ed è molto più facile.
Le Lucertole pure si erano singolarmente invaghite di lui, e quando si stancò di correre qua e là e si buttò sull’erba a riposare, incominciarono a strisciare all’impazzata su e giù per tutta la sua persona, cercando di farlo divertire per quanto potevano.
«Certo, non tutti possono essere belli come le Lucertole», osservarono, «questo sarebbe pretendere troppo. E benché sembri assurdo dirlo, non è poi così orribile alla fin fine, purché si chiudano gli occhi e non lo si guardi.» Le Lucertole erano filosofe per natura, spesso si riunivano a meditare per lunghe ore, quando non avevano altro da fare o il tempo era troppo piovoso per andare a spasso.
I Fiori, comunque, erano estremamente infastiditi dal modo di comportarsi delle Lucertole e degli Uccelli. «Questo dimostra solamente», affermarono, «che effetto deleterio e degradante abbia tutto quel correre e svolazzare qua e là. La gente per bene se ne sta sempre ferma allo stesso posto, come facciamo noi. Nessuno ci ha mai visti vorticare su e giù per i viali o cavalcare come pazzi nell’erba inseguendo libellule. Quando desideriamo cambiare aria, mandiamo a chiamare il giardiniere per farci trasportare in un’altra aiola. Questo sì che è un comportamento dignitoso e decoroso. Ma gli uccelli e le lucertole non hanno alcun senso del decoro, e gli uccelli sono perfino sprovvisti di un indirizzo permanente. Sono vagabondi come gli zingari, e alla stessa stregua di zingari dovrebbero esser trattati.» Così dicendo drizzarono il naso in aria assumendo un’espressione assai altezzosa, e provarono un grande sollievo quando dopo un po’ videro il piccolo Nano tirarsi su dall’erba e arrancando avviarsi verso la terrazza del palazzo.
«Bisognerebbe davvero tenerlo chiuso in casa vita natural durante», dissero. «Guardate che gobba, e che gambe storte», e furono scossi da un riso beffardo.
Ma il piccolo Nano non sapeva nulla di tutto ciò. A lui piacevano immensamente gli uccelli e le lucertole, e pensava che i fiori erano la cosa più stupenda del creato, eccettuando l’Infanta naturalmente, ma già, essa gli aveva donato la bellissima rosa bianca e lo amava, e questo costituiva una differenza non da poco. Come avrebbe desiderato tornare al palazzo insieme a lei! Ella lo avrebbe preso e impalmato sulla sua mano destra sorridendogli, e lui non si sarebbe mai staccato dal suo fianco, ed ella sarebbe stata la sua compagna di giochi, a cui insegnare ogni sorta di deliziosi scherzi. Infatti, benché non fosse mai stato prima d’allora in una corte, egli sapeva tante cose meravigliose. Era capace di costruire gabbie di vimini per grilli canterini e di foggiare con canne di bambù intrecciate la zampogna tanto amata da Pan. Riconosceva la voce di ogni uccello, e sapeva chiamare le starne dalla cima degli alberi, o l’airone dallo stagno. Conosceva le orme di tutte le creature selvatiche, identificava le tracce della lepre dalle delicate impronte delle sue zampe, e il cinghiale dalle foglie calpestate. Conosceva tutte le danze della natura selvaggia, la folle danza in veste scarlatta con l’autunno, la lieve danza in sandali turchini sopra il grano, la danza con candide ghirlande di fiocchi di neve nell’inverno, e la danza dei fiori nei frutteti a primavera. Sapeva dove i colombi silvestri facevano il nido, e una volta che un uccellatore aveva catturato mamma e papà colombo aveva allevato lui i piccoli, fabbricando per loro una colombaia nel cavo di un olmo scapitozzato. Li aveva abituati a venire a prendere il cibo dalle sue mani ogni mattina. A lei sarebbero certo piaciuti i colombi, e così pure i conigli che scorrazzavano fra le alte felci, e le ghiandaie dalle piume color acciaio e dal becco nero, e i ricci capaci di raggomitolarsi a forma di palla irta di punte, e le grandi tartarughe sagge che strisciavano lente al suolo tentennando la testa e mordicchiando foglie fresche. Certo, lei doveva venire nella foresta a giocare con lui. Le avrebbe volentieri ceduto il suo lettino, e sarebbe rimasto di guardia fuori, sotto la finestra, fino all’alba, per vegliare che i cervi selvaggi dalle lunghe corna non le facessero del male o i lupi famelici non si avvicinassero troppo alla capanna. All’alba, bussando con le nocche sulle imposte, l’avrebbe svegliata, e sarebbero usciti, slanciandosi in ebbre danze per tutto il giorno. Non era davvero solitaria, la foresta. A volte poteva capitare che l’attraversasse un Vescovo in sella a una mula bianca, leggendo un gran libro dipinto. Altre volte passavano di lì falconieri con berretti di velluto verde e giustacuori di pelle di daino bruna, tenendo sul pugno falchi incappucciati. Al tempo della vendemmia venivano i vignaioli con mani e piedi tinti di mosto violaceo e il capo inghirlandato di edera lucente, recando otri di pelle gocciolanti di vino; e i carbonai sedevano intorno ai loro enormi bracieri, la notte, fissando i tronchi che si carbonizzavano lentamente al fuoco e facendo arrostire castagne nella cenere; dai loro covi uscivano allora i briganti, e schiamazzavano allegramente tutti insieme. Un giorno, aveva avuto la fortuna di assistere a una magnifica processione che risaliva la lunga strada polverosa verso Toledo. Per primi venivano i monaci, cantando dolcemente e portando stendardi brillanti e croci dorate; dietro di loro, in armature d’argento, con archibugi e picche, avanzavano i soldati; in mezzo a questi camminavano a piedi nudi tre uomini, abbigliati con strane vesti gialle tutte dipinte di figure scintillanti, che tenevano nelle mani tre ceri accesi. C’erano innumerevoli cose da guardare, nella foresta, e quando ella fosse stata stanca lui le avrebbe trovato un soffice tappeto di musco e l’avrebbe portata fra le sue braccia, giacché era molto forte benché sapesse di non essere alto di statura. Le avrebbe fatto una collana di rosse bacche di brionia, bella al pari delle bacche bianche della sua veste, e quando le fosse venuta a noia poteva buttarla via e ne avrebbe avuto subito in cambio una nuova. Le avrebbe portato delle ghiande foggiate a coppa, e anemoni stillanti di rugiada, e minuscole lucciole perché brillassero come stelle nell’oro pallido dei suoi capelli.
Ma lei dov’era? Lo domandò alla bianca rosa, ma non ricevette risposta. Tutto il palazzo sembrava addormentato, e anche là dove le imposte non erano serrate, pesanti cortinaggi erano stati tirati per tener lontani i barbagli della luce. Vagò tutt’intorno in cerca di un varco dove poter entrare, e alla fine scorse una piccola porta privata rimasta aperta. Scivolò dentro e si trovò in uno splendido vestibolo, assai più splendido, temeva, perfino della foresta: era tutto rilucente di dorature, e l’impiantito era fatto di pietre colorate, combinate in una sorta di disegno geometrico. Ma la piccola Infanta non c’era, c’erano solo alcune statue che lo fissavano dall’alto dei loro piedestalli di diaspro, con malinconici occhi scuri e labbra atteggiate a uno strano sorriso.
Attraversò la sala, senza far rumore, si avvicinò alla cortina, e la scostò. No: dietro v’era solo un’altra stanza, ancora più bella di quella che aveva appena lasciato. Alle pareti un arazzo verde popolato di figure lavorate ad ago rappresentava una caccia, opera di un artista fiammingo che aveva impiegato sette anni a crearlo. Quella era stata un tempo la stanza di Jean le Fou, come lo chiamavano, quel re pazzo, tanto appassionato della caccia che spesso, nel delirio, aveva tentato di balzare in sella agli enormi cavalli impennati e abbattere il cervo su cui i grossi veltri si avventavano, soffiando nel corno da caccia e trapassando con la daga i pallidi daini in fuga. Ora la stanza fungeva da Camera del Consiglio, e sulla tavola al centro giacevano i portafogli rossi dei ministri, fregiati dei tulipani d’oro di Spagna, con gli stemmi e gli emblemi della casa di Hapsburg.
Il piccolo Nano si guardava intorno stupefatto, e quasi aveva paura di camminare. Gli strani cavalieri silenziosi, che galoppavano così rapidi senza il minimo rumore per quelle lunghe radure gli sembravano simili a quei fantasmi spaventosi di cui spesso parlavano i carbonai – i Comprachos, che vanno a caccia solo di notte, e se incontrano un uomo lo trasformano in cervo e lo inseguono. Ma poi pensò alla piccola Infanta, e riprese coraggio. Ardeva dal desiderio di trovarla, da sola, per dirle che anche lui l’amava. Forse era nella stanza successiva.
Attraversò la sala correndo sui folti tappeti moreschi, e aprì la porta. No. Non era neppure lì. La stanza era completamente vuota.
Era una sala del trono, che si usava per ricevere gli ambasciatori stranieri, quando il Re – per la verità negli ultimi anni molto, molto di rado – accondiscendeva a riceverli in udienza privata; la stessa sala in cui erano apparsi parecchi anni prima i messi inglesi mandati a prendere accordi per le nozze della loro Regina, allora una delle sovrane cattoliche d’Europa, col primogenito dell’Imperatore. La tappezzeria era di cuoio dorato di Cordova, e dal soffitto bianco e nero pendeva un sontuoso lampadario dorato, con braccia per trecento candele di cera. Sotto un enorme baldacchino di stoffa laminata d’oro, su cui erano ricamati in perline coltivate i leoni e le torri di Castiglia, faceva mostra di sé il trono, coperto da uno splendido drappo di velluto nero cosparso di tulipani d’argento e frangiato d’argento e perle in abbondanza. Sul secondo gradino del trono era posto l’inginocchiatoio dell’Infanta, col suo cuscino di tessuto trapunto d’argento, e dietro, oltre il limite del baldacchino, sfavillava il seggio per il Nunzio Pontificio, l’unico che avesse il diritto di star seduto alla presenza del Re in qualsivoglia cerimonia pubblica, e il cui cappello cardinalizio, con le sue nappine scarlatte ingarbugliate, posava su uno sgabello violaceo lì accanto. Alla parete prospiciente il trono era appeso un enorme ritratto di Carlo V, in abito da caccia, con un grosso mastino al fianco, e un quadro raffigurante Filippo II in atto di ricevere l’omaggio dei Paesi Bassi occupava il centro dell’altra parete. Tra le finestre, uno stipo di nero ebano intarsiato di placche d’avorio recava effigiate le figure della Danza della Morte di Holbein, alcune delle quali, si diceva, incise dalla mano del celebre maestro in persona.
Ma al piccolo Nano tutto questo splendore non faceva alcun effetto. Non avrebbe dato la sua rosa per tutte le perle del baldacchino, né un solo petalo per il trono stesso. Ciò che desiderava era di vedere l’Infanta prima che scendesse giù al padiglione, per chiederle di venir via con lui quando avesse terminato la sua danza. Qui, nel Palazzo, l’aria era greve e stagnante, ma nella foresta il vento spirava libero, e il sole con le sue ondeggianti mani d’oro scuoteva le tremule foglie. Anche nella foresta c’erano splendidi fiori, forse non splendidi come i fiori di giardino ma, in compenso, più dolcemente profumati: giacinti, che agli albori della primavera inondavano di porpora fluente le fresche vallette e i poggi erbosi; primule gialle annidate a piccoli ciuffi intorno alle nodose radici delle querce; ranuncoli lucenti, e veroniche azzurre, e giaggioli lilla e oro. Sui noccioli spiccavano grigie inflorescenze, e le digitali si piegavano sotto il peso delle loro corolle chiazzate, assediate dalle api. Il castagno aveva le sue corone di stelle bianche, e il biancospino le sue pallide lune di bellezza. Sì, senza dubbio ella sarebbe venuta con lui, se fosse riuscito a trovarla! Sarebbe venuta con lui nella foresta, e tutto il giorno lui avrebbe ballato per lei, per darle gioia. Un sorriso accese i suoi occhi a quel pensiero, ed entrò nella stanza successiva.
Era la più ridente di tutte le stanze, e la più bella. Le pareti erano rivestite di damasco di Lucca fiorato di rosa, fregiato di uccelli e punteggiato di delicati boccioli d’argento; il mobilio era d’argento massiccio, tutto percorso da festoni di floride ghirlande e Cupidi librati in volo; di fronte a due ampi camini si ergevano grandi paraventi, su cui erano ricamati pappagalli e pavoni, e l’impiantito d’onice verderame sembrava perdersi a vista d’occhio in distanze illimitate. Ma il piccolo Nano non era solo. In piedi, nella penombra, sulla soglia della porta all’estremità della stanza, scorse una minuscola figura che lo guardava. Il suo cuore tremò, dalle sue labbra eruppe un grido di gioia, ed egli avanzò alla luce del sole. Nello stesso identico modo, la figura si mosse anch’essa in avanti, ed egli la vide chiaramente.
L’Infanta! Era un mostro, il mostro più grottesco che avesse mai visto. Non ben proporzionato, come le altre persone, ma gobbo, storto, con un’enorme testa ciondolante e una criniera di capelli neri. Il piccolo Nano si accigliò, e il mostro si accigliò anch’esso. Rise, e quello rise con lui, e si pose le mani sui fianchi, tale e quale come se le era poste lui. Fece un inchino beffardo, e quello ricambiò con una profonda riverenza. Avanzò verso di lui, e quello gli venne incontro, ripetendo ogni suo passo e fermandosi quando lui si fermava. Emise un trillo scherzoso e corse innanzi stendendo la mano, e la mano del mostro toccò la sua, ed era fredda come ghiaccio. Si spaventò allora, e mosse la mano di traverso, e la mano del mostro subito la seguì. Tentò di stringerla, ma qualcosa di liscio e duro l’arrestò. Ora il viso del mostro era vicino al suo e sembrava impietrito dal terrore. Si scostò via i capelli dagli occhi. L’altro lo imitò. Sferrò un pugno all’avversario; e quello glielo rese. Lo provocava, gli faceva smorfie, e quello gliele restituiva ugualmente odiose. Arretrò, quello fece lo stesso.
Che cos’era? Per un momento rifletté, sogguardando intorno il resto della stanza. Era strano, tutto sembrava avere il suo doppio in quell’invisibile muro d’acqua chiara. Quadro per quadro tutto era ripetuto, giaciglio per giaciglio duplicato. Il Fauno dormiente, steso nell’alcova presso la porta, aveva il suo gemello che sonnecchiava, e la Venere argentea che si levava nel sole tendeva le braccia a una identica Venere altrettanto bella.
Che si trattasse di... Eco? L’aveva chiamata una volta, nella valle, e lei gli aveva risposto parola per parola. Poteva farsi beffe degli occhi come della voce? Creare un mondo doppio, del tutto simile al mondo reale? Potevano le ombre delle cose aver colore e vita e movimento? Poteva essere questo...?
Il piccolo Nano trasalì, e togliendosi dal petto la bellissima rosa bianca, si voltò, e la baciò. Il mostro aveva una rosa identica, petalo per petalo. La baciava con gli stessi baci, e la premeva al cuore con orrendi gesti.
Quando la verità inconfutabile lo abbagliò, proruppe in un selvaggio grido di disperazione, e cadde al suolo singhiozzando. Dunque era lui che era deforme e gobbo, orribile a guardarsi e grottesco! Era lui il mostro, ed era di lui che tutti i ragazzi avevano riso, e la piccola Principessa che si era illuso lo amasse – anch’ella si era semplicemente beffata della sua bruttezza, provando un crudele piacere alla vista delle sue gambe contorte. Perché non lo avevano lasciato nella foresta, dove non c’erano specchi a dirgli quanto odioso egli fosse? Perché suo padre non lo aveva ucciso, piuttosto che venderlo a sua suprema vergogna? Le lacrime brucianti gli scorrevano a fiotti giù per le guance, e lacerò la rosa bianca. Il mostro, tutto convulsioni, fece lo stesso, e sparpagliò nell’aria i petali avvizziti. Il piccolo Nano si contorse sul pavimento, e, quando lo guardò, l’altro lo fissava con il volto contratto dalla sofferenza. Per non vederlo, egli arretrò, e si coprì gli occhi con le mani. Strisciò nell’ombra, come una creatura ferita, e là giacque sfinito dai singhiozzi.
In quel momento l’Infanta in persona entrò coi suoi compagni dalla finestra aperta sul balcone, e quando essi videro il brutto nanerottolo che giaceva bocconi e batteva il pavimento con le mani convulse e rattrappite nel modo più ridicolo e goffo, scoppiarono in fragorose risate, gli si fecero intorno e si misero a osservarlo.
«Il suo modo di danzare era buffo», disse l’Infanta, «ma vederlo recitare è ancora più divertente. È bravo quasi quanto le marionette, anche se, s’intende, non altrettanto naturale.» E agitò il suo grande ventaglio, e applaudì.
Ma il piccolo Nano non sollevò il suo sguardo, e i suoi singhiozzi si fecero sempre più fievoli, e all’improvviso ebbe uno strano singulto, e si toccò il fianco. Poi ricadde all’indietro, e rimase immobile.
«Questo è veramente superlativo», disse l’Infanta, dopo una breve pausa, «ma ora devi ballare per me.»
«Sì», gridarono i bambini, «devi alzarti e ballare, perché sei bravo come le scimmie di Barberìa, e molto più ridicolo.»
Ma il piccolo Nano non diede risposta.
L’Infanta pestò i piedi e chiamò lo zio, che stava passeggiando sulla terrazza col Ciambellano e leggeva certi dispacci giunti proprio allora dal Messico, dove il Santo Uffizio era stato appena instaurato.
«Il mio piccolo Nano fa i capricci», gridò, «dovete farlo rialzare in piedi e dirgli che deve ballare per me.»
I due si sorrisero l’un l’altro, ed entrarono, e Don Pedro si chinò, battendo il suo guanto ricamato sulla guancia del Nano.
«Ehi, petit monstre», gli disse, «alzati, devi ballare. L’Infanta di Spagna e delle Indie vuole divertirsi.»
Ma il piccolo Nano non si mosse.
«Bisognerebbe chiamare un fustigatore», disse Don Pedro infastidito, e tornò sulla terrazza.
Ma il Ciambellano aveva l’aria grave, e s’inginocchiò vicino al piccolo Nano, e gli posò la mano sul cuore. E dopo qualche minuto scrollò le spalle, si levò e fece un profondo inchino all’Infanta e le disse:
«Mi bella Princesa, il vostro piccolo Nano buffo non ballerà mai più. È un peccato, perché è talmente brutto che forse avrebbe potuto far sorridere il Re».
«Ma perché non ballerà più?», chiese l’Infanta tra le risa.
«Perché il suo cuore si è spezzato», rispose il Ciambellano.
E l’Infanta aggrottò la fronte, e le sue graziose labbra dorate si incresparono in segno di leggiadro disdegno.
«In futuro, quelli che vengono a giocare con me non abbiano cuore», gridò, e corse fuori in giardino.
Il Pescatore e la sua Anima
Ogni sera il giovane Pescatore andava al largo, sul mare, e gettava le sue reti nell’acqua.
Quando il vento soffiava da terra egli non prendeva nulla, o ben poco nel migliore dei casi, poiché quello era un vento aspro e dalle nere ali, e le onde si agitavano per andargli incontro. Ma quando il vento soffiava verso la spiaggia, i pesci salivano dal profondo a nuotare dentro le maglie delle reti, ed egli li portava al mercato e li vendeva.
Ogni sera egli andava al largo, sul mare, e una sera la rete era così pesante che quasi non riusciva a tirarla sulla barca. E il Pescatore rise, e si disse: «Di certo avrò catturato tutti i pesci che nuotano o qualche mostro degli abissi che spaventerà gli uomini, o qualcosa di orribile che la Regina bramerà per sé», e tirò sulle ruvide funi con tutte le sue forze, finché, simili a righe di smalto turchese in un vaso di bronzo, le lunghe vene si gonfiarono sulle sue braccia. Tirò poi sulle corde sottili, e il cerchio di sugheri piatti si faceva sempre più vicino, e la rete alfine affiorò alla superficie dell’acqua.
Ma in essa non v’era alcun pesce, né alcun mostro o creatura orribile, soltanto una piccola Sirena immersa in un sonno profondo.
La sua chioma era come un vello d’oro bagnato, e ogni capello come un filo d’oro fino in una coppa di vetro. La sua persona era come avorio bianco, e la sua coda d’argento e di perla. Argento e perla era la sua coda, e le verdi alghe marine le si attorcigliavano intorno; e simili a conchiglie marine erano le sue orecchie, e le sue labbra a coralli marini. Le fredde ombre lambivano i suoi seni freddi, e sulle sue palpebre riluceva il sale.
Era talmente bella che al vederla il giovane Pescatore fu sopraffatto dalla meraviglia e protendendo una mano per trarre a sé la rete si sporse sul fianco della barca e prese la Sirena fra le braccia. E quando la toccò, ella emise il grido di un gabbiano spaurito, e si destò, e lo guardò coi suoi occhi d’ametista viola pieni di terrore, dibattendosi per liberarsi. Ma egli la stringeva forte a sé, e non l’avrebbe mai lasciata andare.
E quand’ella vide che non poteva in alcun modo sfuggirgli, si sciolse in pianto, e disse: «Lasciami andare, ti prego, sono l’ultima figlia di un Re, e mio padre è vecchio e solo».
Ma il giovane Pescatore rispose: «Non ti lascerò andare, a meno che tu non mi prometta che ogniqualvolta ti chiamerò verrai a cantare per me, poiché i pesci si deliziano ad ascoltare le Creature Marine, e così le mie reti si riempiranno».
«Davvero mi lascerai andare, se ti prometterò ciò che chiedi?», domandò lei.
«Ti lascerò andare», disse il giovane Pescatore.
Così ella promise ciò che egli desiderava, e giurò col giuramento delle Creature Marine. Ed egli allentò la stretta delle braccia, ed ella scivolò in acqua, tremante di una strana paura.
Ogni sera il giovane Pescatore andava al largo, sul mare, e chiamava la Sirena, ed ella appariva a fior d’acqua e cantava per lui. Intorno a lei nuotavano i delfini, e i gabbiani selvaggi danzavano sul suo capo.
Ed ella cantava un canto meraviglioso. Perché cantava delle Creature Marine che conducono le loro mandrie di grotta in grotta, e portano i vitellini sulle spalle; dei Tritoni con le lunghe barbe verdi e i petti villosi, che soffiano dentro ritorte conchiglie al passare del Re; del palazzo del Re, tutto d’ambra, con un tetto di limpido smeraldo e il pavimento di pietra lucente; e dei giardini del mare, dove i grandi ventagli di corallo fanno ondeggiare tutto il giorno le loro filigrane, e i pesci guizzano qua e là come uccelli d’argento, e le anemoni aderiscono tenaci agli scogli, e i garofani sbocciano nella rena gialla ondulata. Ella cantava delle enormi balene che vengono dai Mari del Nord e hanno ghiaccioli acuminati appesi alle pinne; delle Sirene, che narrano cose di una tale meraviglia che i mercanti devono otturarsi le orecchie con la cera per non udirle, altrimenti si getterebbero in acqua e annegherebbero; di vascelli affondati con tutte le loro alberature, coi marinai gelati aggrappati alle sartie e lo sgombro che nuota dentro e fuori dalle cannoniere aperte, delle minute ostriche da carena che viaggiano abbarbicate alle chiglie delle navi e girano tutto il mondo; delle seppie che dai fianchi delle rupi protendono le lunghe braccia nere e possono far venir notte quando vogliono. Ella cantava del nautilus con la sua barca scavata nell’opale e portata da una vela d’argento; delle felici Creature Marine che suonano l’arpa e sanno incantare il grosso Granchio fino a farlo addormentare; dei bimbi che agguantano i viscidi marsovini e cavalcano ridendo il loro dorso; delle Sirene adagiate nella bianca spuma che tendono le braccia ai naviganti; e dei leoni di mare dalle zanne ricurve, e dei cavalli marini dalle criniere fluttuanti.
E mentre ella cantava, tutti i tonni salivano dal profondo per ascoltarla, e il giovane Pescatore gettava le sue reti intorno a loro e li catturava, e altri ne prendeva con un arpione. E quando la barca era ben carica, la Sirena, sorridendogli, sprofondava giù nel mare.
Tuttavia, non gli si avvicinava mai tanto che egli potesse toccarla. Spesso egli la chiamava e la pregava, ma ella non voleva; e quando cercava di afferrarla, si tuffava in acqua come una foca, e per quel giorno non si faceva più vedere. E ogni giorno che passava il suono della sua voce si faceva più dolce. Tanto dolce era il canto di quella voce che egli dimenticava le sue reti e le sue insidie, e non si curava più della pesca. Tonni dalle pinne vermiglie, con occhi simili a borchie d’oro, passavano a frotte, ma egli non vi badava. Il suo arpione gli giaceva al fianco, inerte, e i panieri di vimini intrecciati erano vuoti. Le labbra socchiuse e gli occhi offuscati dalla meraviglia, egli se ne stava seduto languidamente nella barca e ascoltava, ascoltava finché le brume marine lo avvolgevano, e la luna errante tingeva d’argento le sue membra brune.
E una sera egli chiamò la Sirena e le disse: «Piccola Sirena, piccola Sirena, io ti amo. Accettami per tuo sposo, perché ti amo».
Ma la Sirena scosse il capo. «Tu hai un’anima umana», rispose. «Soltanto se ti separerai dalla tua anima, io potrò amarti.»
E il giovane Pescatore si disse: «Che cosa me ne faccio della mia anima? Non posso vederla. Non posso toccarla. Non la conosco. Certo che me ne separerò, e ne trarrò molta gioia». E un grido di gioia proruppe dalle sue labbra, e levandosi in piedi nella barca dipinta, tese le braccia alla Sirena. «Manderò via la mia anima», esclamò, «tu sarai la mia sposa, e io sarò il tuo sposo, e dimoreremo per sempre in fondo al mare, e tutto quel che hai cantato me lo mostrerai, e tutto ciò che desidererai io farò, e nulla mai potrà dividere le nostre vite.»
E la piccola Sirena rise di piacere, e si nascose il viso fra le mani.
«Ma come farò a separarmi dalla mia anima», chiese il giovane Pescatore, «dimmi come posso fare, e lo farò!»
«Ahimè, non so», disse la piccola Sirena. «Le Creature Marine non hanno anima.» E scivolò giù nel profondo, guardandolo pensosa.
Ed ecco che la mattina del giorno dopo, prima che il sole fosse a una spanna sopra il colle, il giovane Pescatore si recò alla casa del Sacerdote e bussò tre volte alla porta.
Il novizio guardò attraverso il pertugio e quando vide chi era tirò a sé il saliscendi e gli disse: «Entra».
E il giovane Pescatore entrò, e s’inginocchiò sulla stuoia distesa sul pavimento, e chiamò il Sacerdote, che stava leggendo i sacri testi, e gli disse: «Padre, mi sono innamorato di una Creatura Marina, e la mia anima mi impedisce di realizzare il mio desiderio. Dimmi come posso fare per mandarla via da me, poiché invero non ne ho alcuna necessità. A che mi serve la mia anima? Non posso vederla. Non posso toccarla. Non la conosco».
E il Sacerdote, battendosi il petto, rispose: «Ahimè, ahimè, tu sei impazzito; o hai mangiato qualche erba velenosa; poiché l’anima è la parte più nobile dell’uomo, e ci è stata data da Dio perché nobilmente ne facciamo uso. Non c’è cosa più preziosa di un’anima umana, né alcuna cosa terrestre può esserle paragonata. Essa vale più di tutto l’oro del mondo, ed è più preziosa dei rubini dei re. Dunque, figliolo mio, scaccia da te codesto pensiero, poiché è un peccato che non si può perdonare. Le Creature Marine sono esseri perduti, e così quelli che hanno rapporti con loro. Sono come le bestie selvagge che non distinguono il bene dal male, e il Signore non è morto per loro».
Gli occhi del giovane Pescatore, alle amare parole del Sacerdote, si riempirono di lacrime, ed egli si levò in piedi e disse: «Padre, i Fauni vivono nella foresta e sono felici; sugli scogli stanno i Tritoni, con le loro arpe d’oro porpora. Lascia che io sia come loro, ti supplico, perché i loro giorni sono come i giorni dei fiori. E quanto alla mia anima, a che mi serve, se mi allontana dall’essere che amo?».
«L’amore profano è vile», proclamò il Sacerdote accigliato, «e vili e perverse sono le creature pagane a cui Dio permette di vagare attraverso il Suo mondo. Maledetti i Fauni dei boschi e le cantatrici dei mari! Le ho udite, in certe notti, e cercavano di affascinarmi stornandomi dal mio rosario. Tamburellano con le dita alle finestre, e ridono. Mi sussurrano all’orecchio la storia delle loro insidiose gioie. Mi lusingano con le tentazioni, e quando vorrei pregare mi fanno smorfie odiose. Sono esseri perduti, ti dico. Perduti. Per loro non v’è Paradiso né Inferno, non loderanno il nome di Dio né nell’uno né nell’altro.»
«Padre», gridò il giovane Pescatore, «tu non sai quel che dici. Una volta nella mia rete ho catturato la figlia di un Re. È più bella della stella del mattino, e più bianca della luna. Per il suo corpo io darei la mia anima, e per il suo amore rinuncerei al cielo. Concedimi quel che ti chiedo, e lasciami andare in pace.»
«Via! Vattene!», gridò il Sacerdote. «La tua Sirena è perduta, e tu ti perderai con lei.» E non gli diede benedizione alcuna, e lo cacciò fuori.
E il giovane Pescatore andò verso la piazza del mercato, e camminava lentamente, a capo chino, come un’anima in pena.
E quando i mercanti lo videro, cominciarono a mormorare fra loro, e uno gli si fece incontro, e chiamandolo per nome gli chiese:
«Che cos’hai da vendere?».
«Ho da vendere la mia anima», rispose lui. «Ti prego, compramela, non la sopporto più. A che mi serve la mia anima? Non posso vederla. Non posso toccarla. Non la conosco.»
Ma i mercanti si fecero beffe di lui, e dissero: «Ah sì? E noi che ce ne faremmo di un’anima umana? Non vale nemmeno mezza piastra d’argento. Vendici piuttosto il tuo corpo come schiavo, e ti vestiremo di porpora marina, per farti diventare il protetto della Regina Madre. Ma non cianciare della tua anima, perché per noi non vale proprio nulla».
E il giovane Pescatore si disse: «Che strano! Il Sacerdote mi dice che l’anima vale più di tutto l’oro del mondo, e i mercanti dicono che non vale mezza piastra d’argento». E lasciò la piazza del mercato per scendere sulla riva del mare, e si pose a riflettere su come dovesse agire.
E a mezzogiorno gli venne in mente che un suo compagno, un raccoglitore di critamo, gli aveva parlato di una certa giovane Strega molto abile in arti magiche che viveva in una grotta sulla baia. Quivi diresse il passo, e andava di corsa, tant’era ansioso di sbarazzarsi della sua anima, e una nube di polvere lo seguiva mentre si affrettava sulla sabbia della costa. Dal prurito del palmo della sua mano la giovane Strega capì che stava arrivando, e rise e disciolse la rossa chioma. E con la rossa chioma sciolta sulle spalle si fece sulla soglia della grotta, e nella mano aveva un ramoscello di cicuta selvatica in fiore.
«Che vuoi da me? Che vuoi?», gridò, mentre egli giungeva ansante al sommo dell’erta, e si inchinava a lei. «Del pesce per la tua rete, quando il vento è contrario? Ho una piccola zampogna, e quando vi soffio dentro i muggini accorrono nuotando nella baia. Ma la zampogna costa, bel ragazzo, costa. Che vuoi da me? Che vuoi? Una tempesta che faccia naufragare le navi e getti sulla spiaggia le casse dei loro tesori? Ho ai miei ordini più tempeste di quante ne abbia il vento, perché io sono più forte del vento e con un setaccio e una brocca d’acqua posso far colare a picco grandi vascelli in fondo al mare. Ma questo costa, bel ragazzo, costa. Che vuoi da me? Che vuoi? C’è un fiore che sboccia nella valle, che nessuno conosce all’infuori di me. Ha petali purpurei, e una stella nel cuore, e il suo nettare è bianco come latte. Se con quel fiore tu toccassi le labbra crudeli della Regina, ella ti seguirebbe per tutto il mondo. Ma il fiore costa, bel ragazzo, costa. Che vuoi da me? che vuoi? Posso pestare un rospo in un mortaio, e farne un intruglio, e rimestarlo con la mano di un uomo morto. Posso spruzzarlo sul tuo nemico mentre dorme e tramutarlo in una vipera nera, che la sua stessa madre ucciderà. Con una ruota posso tirar giù la Luna dal cielo, e mostrarti la Morte in uno specchio. Che vuoi da me? che vuoi? Dimmi il tuo desiderio, e io te lo esaudirò, se mi pagherai il prezzo, il prezzo che vale.»
«Il mio desiderio non è che una piccola cosa», disse il giovane Pescatore, «eppure il Sacerdote si è adirato con me, e mi ha scacciato. Non è che una piccola cosa, eppure i mercanti si sono beffati di me, e me l’hanno negata. Perciò sono venuto da te, benché tutti ti dicano malvagia, e qualsiasi prezzo tu mi chieda io lo pagherò.»
«Che cosa vorresti?», gli chiese la Strega, andandogli vicino.
«Vorrei separarmi dalla mia anima», rispose il giovane Pescatore.
La Strega si fece pallida, rabbrividì, e si nascose il volto nel manto azzurro. «Bel ragazzo, bel ragazzo», mormorò, «questa è una cosa terribile da farsi.»
Egli scosse i riccioli bruni, ridendo. «La mia anima non è nulla, per me», rispose. «Non posso vederla. Non posso toccarla. Non la conosco.»
«Che cosa mi darai se ti esaudirò?», chiese la Strega, guardandolo coi suoi occhi stupendi.
«Cinque piastre d’oro», egli disse, «e le mie reti, e la capanna di canne intrecciate dove vivo, e la barca dipinta su cui navigo. Dimmi solo come posso allontanare da me la mia anima, e ti darò tutto ciò che possiedo.»
Ella rise beffarda, e lo colpì col ramoscello di cicuta. «Io posso trasformare le foglie d’autunno in oro», gli rispose, «e posso filare i pallidi raggi della luna in fili d’argento, se lo voglio. Colui di cui sono ancella è il più ricco di tutti i re del mondo, ed è in possesso di tutti i loro domini.»
«Che cosa posso darti», egli disse, «se non vuoi compenso, né oro né argento?»
La Strega gli accarezzò i capelli con la sottile mano bianca. «Devi danzare con me, bel ragazzo», mormorò con un sorriso.
«Nient’altro che questo?», chiese il giovane Pescatore, stupito, e si levò in piedi.
«Nient’altro che questo», rispose lei, e gli sorrise di nuovo.
«Dunque al tramonto io e te danzeremo insieme in un luogo segreto», egli disse, «e dopo che avremo danzato tu mi dirai ciò che voglio sapere.»
Ella scosse il capo. «Quando la luna sarà piena, quando la luna sarà piena», mormorò. Poi si guardò intorno, e rimase in ascolto.
Un uccellino azzurro si librò in volo dal nido stridendo, e descrisse un cerchio sopra le dune, e tre uccelli screziati emisero brevi gridi nell’erba rigida e grigia chiamandosi l’un l’altro. L’unico suono che si udiva era la risacca che lambiva, giù in basso, i ciottoli levigati. La Strega protese la mano, e attirato il giovane a sé, gli accostò le labbra aride all’orecchio.
«Stanotte devi venire in vetta alla montagna», gli bisbigliò. «C’è un Sabba, e ci sarà anche Lui.»
Il giovane Pescatore trasalì e la guardò, ed ella rise mostrandogli i bianchi denti. «Chi è colui di cui parli?», egli chiese.
«Non ha importanza», rispose lei. «Stasera aspettami sotto i rami del carpine. Se un cane nero corre verso di te, colpiscilo con una verga di salice, e se ne andrà. Se un gufo ti parla, non rispondergli. Quando la luna sarà piena io verrò da te, e danzeremo insieme sull’erba.»
«Ma mi giuri che mi dirai come posso liberarmi della mia anima?», egli chiese.
Ella uscì alla luce del sole, e attraverso la sua chioma rossa folleggiava il vento. «Sugli zoccoli della capra lo giuro», rispose.
«Tu sei la migliore delle streghe», gridò il giovane Pescatore, «e senz’altro danzerò con te stanotte in vetta alla montagna. Mi sarei aspettato che mi chiedessi oro e argento, ma il compenso che mi chiedi è davvero piccola cosa, e l’avrai.» E agitò il berretto verso di lei in segno di saluto, e chinò il capo, e tornò di corsa in città, colmo di gioia.
E la Strega lo seguì con lo sguardo finché non fu scomparso, poi rientrò nella sua grotta e, tratto uno specchio da una scatola di legno di cedro scolpito, lo mise su di un sostegno, e bruciò della verbena sopra carboni ardenti davanti a esso, e scrutò attraverso le spire del fumo. E dopo pochi minuti si torse le mani in un impeto d’ira. «Doveva essere mio!», mormorò. «Io sono bella quanto lei!»
E quella sera, quando la luna si levò, il giovane Pescatore salì sulla vetta della montagna, e si fermò sotto i rami del carpine. Simile a una lastra di metallo lucente, si stendeva il vasto mare, e le ombre delle barche da pesca si muovevano nella piccola baia. Un grosso gufo dai gialli occhi fosforescenti lo chiamò a nome, ma egli non rispose. Un cane nero corse verso di lui ringhiando. Lo colpì con una verga di salice, e quello se ne andò uggiolando.
A mezzanotte giunsero le streghe: a volo, per l’aria, come pipistrelli. «Uuuh!», gridarono toccando terra. «C’è qualcuno che non conosciamo!» E fiutarono all’intorno, e bisbigliarono fra loro, e si fecero dei segni. Per ultima arrivò la giovane Strega, con la sua chioma rossa fluttuante al vento. Indossava una veste di tessuto d’oro ricamato con occhi di pavone, e in capo aveva un piccolo berretto di velluto verde.
«Dov’è? Dov’è?», strillarono le streghe appena la videro; ma lei rise senza rispondere, e corse al carpine, e prendendo per mano il giovane Pescatore lo condusse con sé nel chiarore lunare e incominciò a danzare.
Come in un vortice roteavano, e la giovane Strega balzava così in alto che si potevano vedere i tacchi scarlatti delle sue scarpe. Poi, in direzione dei danzatori si udì il galoppo di un cavallo, ma nessun cavallo apparve, e il giovane Pescatore provò un oscuro sgomento.
«Più veloce!», gridò la Strega, cingendogli il collo con le braccia e alitandogli in volto il suo respiro ardente. «Più veloce! Più veloce!», e la terra pareva girare sotto i loro piedi, e la mente di lui si ottenebrava, e un gran terrore lo dominò, come se qualcosa di orribile stesse guardandolo, e finalmente egli si avvide che all’ombra di una rupe c’era qualcuno, una figura d’uomo che indossava un vestito di velluto nero, di foggia spagnola. Il suo volto era stranamente pallido, ma le sue labbra erano simili a un superbo fiore vermiglio. Sembrava annoiato, e si appoggiava all’indietro, giocherellando come noncurante col pomo della sua daga. Poco distanti da lui, sull’erba, giacevano un cappello piumato e un paio di guanti da cavaliere con manopole di merletto d’oro, ricamati da perle iridescenti che disegnavano uno stemma bizzarro. Dalla spalla gli pendeva una mantellina foderata di zibellino, e le sue delicate mani bianche sfavillavano di anelli. Grevi palpebre velavano i suoi occhi.
Il giovane Pescatore lo fissava, come irretito da un sortilegio. Alla fine i loro occhi s’incontrarono, e ovunque la danza lo portasse gli sembrava che gli occhi di quell’uomo gli fossero addosso. Udì la Strega ridere, e le cinse la vita per roteare ancora e ancora con lei nel vortice folle.
D’un tratto un cane latrò nel bosco, e i danzatori si fermarono, si accostarono all’uomo e, inginocchiatisi, gli baciarono le mani. Un breve sorriso sfiorò le sue labbra altere, come l’ala di un uccello sfiora l’acqua e la fa ridere. Ma in quel sorriso c’era del disprezzo. Egli seguitava a fissare il giovane Pescatore.
«Vieni! Adoriamo», gli sussurrò la Strega spingendolo innanzi a sé; e un ardente desiderio di sottomettersi al suo ordine lo afferrò, e la seguì. Ma quando fu vicino allo sconosciuto, senza sapere perché, si fece il segno della croce, e invocò il nome santo.
Immediatamente le Streghe stridettero come falchi e volarono via, e il volto pallido che lo aveva fissato fu contratto da uno spasimo di pena. L’uomo si avviò verso un piccolo bosco, ed emise un fischio. Una puledra bardata d’argento corse incontro a lui. Nel balzare in sella egli si volse, e guardò con aria triste il giovane Pescatore.
E la Strega dalla chioma rossa cercò anch’ella di fuggire, ma il Pescatore la afferrò ai polsi tenendola stretta.
«Lasciami!», gridò lei, «lasciami andare! Hai nominato ciò che non doveva essere nominato, e fatto il segno che non bisogna guardare.»
«No», rispose lui, «non ti lascerò andare se non mi sveli il segreto.»
«Quale segreto?», disse la Strega, graffiandolo come una gatta selvatica e mordendosi le labbra chiazzate di bava.
«Lo sai», rispose lui.
Gli occhi verdi come l’erba le si offuscarono di lacrime, mentre gridava: «Chiedimi tutto, tutto ma non questo!».
Egli rise e la strinse più forte.
E quand’ella vide che non poteva liberarsi, gli sussurrò: «Guardami: non sono bella come la figlia del mare, e come le creature che dimorano nelle acque azzurre?». E con languore insinuante avvicinò il suo volto a quello di lui.
Ma egli la respinse, accigliandosi, e le disse: «Se non mantieni la tua promessa, ti ucciderò come falsa strega».
Ella divenne grigia come un fiore dell’albero di Giuda, e rabbrividì. «E sia», mormorò. «È la tua anima, non la mia. Fanne quello che vuoi», e si tolse dalla cintura un piccolo coltello dal manico in pelle di vipera verde, e glielo diede.
«A che mi serve questo oggetto?», chiese lui, stupito.
Ella restò in silenzio per qualche minuto, e il suo volto fu come percorso dal terrore. Poi si gettò indietro i capelli, e con uno strano sorriso gli disse: «Ciò che gli uomini chiamano ombra del corpo non è l’ombra del corpo, ma è il corpo dell’anima. Sulla riva del mare, con le spalle alla luna, devi ritagliare intorno ai tuoi piedi la tua ombra, che è il corpo della tua anima, e pregare la tua anima di lasciarti, ed essa lo farà».
Il giovane Pescatore fu scosso da un tremito violento. «È vero?», mormorò.
«È vero, e vorrei non avertelo detto», gemette lei, e gli abbracciò le ginocchia sciogliendosi in lacrime.
Egli l’allontanò da sé e la lasciò sull’erba folta, e avviandosi verso il ciglio del monte si pose il coltello alla cintola, e scese giù per il declivio.
E la sua Anima, che era dentro di lui, lo chiamò e gli disse: «Ahimè! Sono stata con te per tutti questi anni, per tutti questi anni tua ancella fedele. Non mandarmi via, ora! Che male ti ho mai fatto?».
E il giovane Pescatore rise. «Non mi hai fatto alcun male, ma non ho bisogno di te», rispose. «Il mondo è vasto, e c’è anche il Paradiso, e l’Inferno, e quella opaca dimora crepuscolare fra l’uno e l’altro. Va’ dove ti pare, ma non disturbarmi, ché il mio amore mi chiama.»
E la sua Anima lo implorò pietosamente, ma egli non le badò, e saltando di balza in balza con piede sicuro come una capra selvatica, giunse infine alla pianura e alla spiaggia gialla del mare.
Con le sue membra bronzee e ben modellate, simile a una statua scolpita da un Greco, egli stava sulla sabbia, con le spalle rivolte alla luna, e fuori dalle spume si levarono candide braccia che si protesero verso di lui, e fuori dalle onde sorsero forme evanescenti che s’inchinarono in atto d’ossequio. Dinnanzi a lui si stendeva la sua ombra, che era il corpo della sua anima, e dietro di lui la luna stava sospesa nell’aria color miele.
E la sua Anima gli disse: «Se proprio devi scacciarmi da te, non mandarmi via senza un cuore. Il mondo è crudele, dammi il tuo cuore da portare con me».
Egli scosse la testa e sorrise. «Come potrò amare il mio amore se mi privo del cuore per darlo a te?»
«Ti prego, abbi pietà», implorò l’Anima, «dammi il tuo cuore, il mondo è troppo crudele, e io ho paura.»
«Il mio cuore appartiene al mio amore», rispose lui, «perciò non insistere, e vattene.»
«E non dovrei amare anch’io?», chiese l’Anima.
«Vattene, non ho nessun bisogno di te», gridò il giovane Pescatore, e afferrò il piccolo coltello dal manico di pelle di vipera verde, e tagliò via la sua ombra intorno ai piedi, e quella si levò e rimase diritta dinnanzi a lui, e lo guardò, ed era identica a lui.
Egli arretrò, e ripose il coltello nella cintola, e un senso di sgomento s’impadronì di lui. «Vattene», mormorò, «e non farmi vedere mai più il tuo viso.»
«No, noi ci incontreremo di nuovo, invece», disse l’Anima. La sua voce era bassa e flautata, le sue labbra si muovevano appena.
«Come ci incontreremo?», gridò il giovane Pescatore. «Non vorrai seguirmi nelle profondità del mare?»
«Una volta l’anno io verrò qui, e ti chiamerò», disse l’Anima. «Può darsi che tu abbia bisogno di me.»
«Che bisogno di te potrei mai avere?», gridò il giovane Pescatore. «Ma se lo vuoi, sia pure», e si tuffò in acqua, e i Tritoni soffiarono nei loro corni, e la piccola Sirena gli nuotò incontro, e gli cinse il collo con le braccia e lo baciò sulla bocca.
E l’Anima rimase sulla spiaggia solitaria, a guardarli. E quando si immersero nel mare scomparendo alla vista, si allontanò piangendo attraverso le paludi.
E quando un anno fu trascorso, l’Anima scese sulla spiaggia e chiamò il giovane Pescatore, ed egli salì su dal profondo, e disse: «Perché mi chiami?».
E l’Anima gli disse: «Vieni più vicino, perché io possa parlare con te delle stupende cose che ho veduto».
Ed egli si fece più vicino, e si sdraiò nell’acqua bassa, e appoggiato il capo alla mano stette ad ascoltare.
E l’Anima gli disse: «Quando ti lasciai, volsi il viso verso Oriente e mi misi in viaggio. Dall’Oriente ha origine ogni saggezza. Sei giorni viaggiai, e al mattino del settimo giorno giunsi a una collina che domina il paese dei Tartari. Sedetti all’ombra di un tamerisco per ripararmi dal sole. La terra era arida, e il caldo torrido. Gli uomini andavano su e giù come mosche striscianti su un disco di rame rovente.
A mezzogiorno una nube di polvere rossastra si sollevò dall’orlo piatto della landa. Quando i Tartari la videro, incoccarono i loro archi dipinti e balzando in sella ai loro piccoli cavalli galopparono in quella direzione. Poi, fiutando l’aria, si slanciarono dall’altra parte.
Quando sorse la luna, vidi i fuochi di un accampamento ardere nella pianura, e di nuovo m’incamminai. Trovai un gruppo di mercanti seduti su tappeti. I cammelli erano legati a pali dietro a loro, e i servi negri stavano piantando nella rena tende di pelle lavorata ed ergendo una gran barriera di fico d’India.
Ero a pochi passi da loro, quando il capo dei mercanti si alzò e, sguainando la spada, mi chiese che cosa facessi lì.
Risposi che ero il Principe sul mio legittimo territorio, e che ero scampato ai Tartari, i quali volevano farmi loro schiavo. Il capo sorrise, e mi mostrò cinque teste infilzate su lunghe canne di bambù.
Poi mi chiese chi era il profeta di Dio, e io risposi che era Maometto.
Quando egli udì il nome del falso profeta, si inchinò e mi prese per mano, e mi fece sedere al suo fianco. Un negro mi portò del latte di cavalla in una ciotola di legno, e carne d’agnello arrostita.
Quando spuntò il giorno, ci mettemmo in viaggio. Io cavalcavo un cammello dal pelo rosso, a fianco del capo, e un araldo ci precedeva correndo e portando una lancia. Ai lati cavalcavano gli uomini di guerra, e le mule seguivano con le mercanzie. C’erano quaranta cammelli, nella carovana, e le mule erano due volte quaranta.
Dal paese dei Tartari ci recammo al paese di quelli che maledicono la Luna. Vedemmo i Grifoni a guardia dell’oro sulle bianche rupi, e i Draghi squamosi addormentati nelle loro caverne. Passando sui monti trattenemmo il respiro per timore che le nevi scendessero su noi, e ci proteggemmo gli occhi con veli di garza. Passando attraverso le valli, fummo bersagliati dalle frecce dei Pigmei nascosti nei cavi degli alberi, e a notte udimmo i selvaggi picchiare forte sui loro tamburi. Passando davanti alla Torre delle Scimmie deponemmo frutti dinnanzi a loro, ed esse non ci fecero alcun male. Passando davanti alla Torre dei Serpenti offrimmo loro latte caldo in tazze di stagno, ed essi ci lasciarono proseguire. Tre volte durante il nostro viaggio giungemmo sulle rive dell’Oxus. Lo attraversammo su zattere di legno con grandi vesciche di cuoio gonfiato. Gli ippopotami ci si avventarono addosso e volevano ucciderci. Al vederli, i cammelli tremarono.
I re di ogni città ci imponevano di pagare dei pedaggi, senza permetterci di oltrepassare le loro porte. Dalle mura, ci gettavano pane e focacce di mais cotte nel miele e dolci di farina bianca infarciti di datteri. Per ogni centinaio di panini davamo loro un chicco d’ambra.
Quando gli abitanti dei villaggi ci vedevano giungere, avvelenavano le fonti e fuggivano sugli altipiani. Combattemmo coi Magadi, che nascono vecchi e diventano ogni anno più giovani, e muoiono bambini; e coi Laktroi, che si dichiarano figli delle tigri, e son tutti dipinti di giallo e di nero; e con gli Auranti, che seppelliscono i loro morti in cima agli alberi, e vivono in grotte buie per timore che il Sole, loro Dio, li uccida; e coi Krimmiani, che venerano un coccodrillo e gli donano orecchini di vetro verde e lo nutrono di burro e di teneri uccelli; e con gli Agazombi dalla faccia di cane; e coi Sibani dai piedi di cavallo, che corrono più veloci di qualsiasi destriero. Un terzo della nostra carovana morì in battaglia, e un terzo di stenti. I superstiti mormoravano contro di me, dicendo che ero stato io a portar loro sfortuna. Allora presi un aspide cornuto di sotto una pietra e mi feci mordere. Quando videro che il veleno non aveva su me nessun effetto, furono colti dallo sgomento.
Dopo quattro mesi giungemmo alla città di Illel. Era notte quando arrivammo al boschetto che si stende fuori delle mura, e l’aria era afosa, poiché la Luna andava verso lo Scorpione. Cogliemmo le melagrane mature dagli alberi, e le spaccammo per bere i loro dolci succhi. Poi ci stendemmo sui nostri tappeti e aspettammo l’alba.
E all’alba ci levammo e bussammo alle porte della città. Era fatta di rame rosso, e istoriata di draghi marini e draghi alati. Le guardie, dall’alto, ci chiesero cosa volessimo. L’interprete della carovana rispose che venivamo dall’isola di Siria per vendere molte mercanzie. Essi presero degli ostaggi, e dicendo che ci avrebbero aperto le porte a mezzogiorno, ci invitarono ad aspettare fino a quell’ora.
A mezzogiorno aprirono le porte, e quando entrammo la gente uscì a frotte dalle case per guardarci, e un banditore girava per la città gridando dentro una conchiglia. Sostammo nella piazza del mercato, e i negri slegarono le balle di stoffa dipinta e aprirono le casse di sicomoro scolpite. Compiute queste operazioni, i mercanti sciorinarono le loro bizzarre mercanzie, le tele di lino incerato dell’Egitto e le tele di lino dipinto del paese degli Etiopi, le spugne purpuree di Tiro e i cortinaggi turchini di Sidone, le coppe d’ambra fredda e gli esili calici di vetro insieme a quelli d’argilla bruciata curiosamente intagliati. Alcune donne ci osservavano dal tetto di una casa. Una di loro portava una maschera di pelle dorata.
E il primo giorno vennero i sacerdoti e contrattarono con noi, e il secondo giorno vennero i nobili, e il terzo i negozianti e gli schiavi. È questa la loro usanza con tutti i mercanti finché dimorano nella città.
E noi vi dimorammo per una luna, e quando la luna stava calando, non sapendo che fare e annoiandomi, vagai per le vie della città e giunsi al giardino del suo dio. I sacerdoti in vesti gialle si muovevano silenziosi fra i verdi alberi, e su un pavimento di marmo nero si ergeva la casa, rossa come una rosa, dove dimorava il dio. Le soglie erano di lacca punteggiata, e tori e pavoni d’oro zecchino vi erano effigiati in rilievo. Il tetto a tegole era di porcellana verdemare e le gronde sporgenti avevano agli orli dei campanellini. Passando di lì in volo, le colombe bianche sfioravano con le ali i campanellini e li facevano tintinnare.
Di fronte al tempio c’era una conca d’acqua chiara pavimentata d’onice. Mi distesi accanto a essa, e con le mie dita pallide toccavo le ampie foglie. Uno dei sacerdoti mi si avvicinò e si fermò dietro di me. Aveva ai piedi dei sandali, uno in morbida pelle di serpente e l’altro in piume d’uccello. Sul suo capo una mitria di feltro nero era decorata di argentee lune crescenti. Sulla sua veste erano intessuti sette soli gialli, e i suoi capelli crespi erano tinti d’antimonio. Dopo un po’ egli mi rivolse la parola e mi chiese quali fossero i miei desideri.
Gli risposi che il mio desiderio era di vedere il dio.
“Il dio è a caccia”, disse il sacerdote, con uno sguardo curioso ammiccante negli occhi piccoli e obliqui.
“Dimmi in quale foresta, e andrò a cacciare con lui”, replicai.
Egli allisciò con le unghie appuntite le molli frange della sua tunica.
“Il dio dorme”, mormorò.
“Dimmi in quale giaciglio, e io veglierò accanto a lui”, insistetti.
“Il dio è al banchetto”, gridò il sacerdote.
“Se il vino è dolce, lo berrò con lui, e se è amaro, ugualmente lo berrò con lui”, fu la mia risposta.
Egli chinò la testa, molto stupito, e prendendomi per mano mi sollevò e mi condusse al tempio.
E nella prima stanza vidi un idolo seduto su un trono di diaspro orlato di enormi perle orientali. Era scolpito in ebano, e la sua statura era quella di un uomo. Un rubino adornava la sua fronte, e olio denso stillava dai capelli sulle ginocchia. I piedi erano rossi del sangue di un fanciullo ucciso da poco, e i lombi serrati da una cintura di rame in cui erano incastonati sette berilli.
E io chiesi al sacerdote: “È questo il dio?”. Ed egli mi rispose: “Questo è il dio”.
“Mostrami il dio!”, gridai, “altrimenti ti giuro che ti ucciderò!” E gli toccai la mano, che subito avvizzì.
E il sacerdote mi supplicò: “Che il mio signore risani il suo servo, e io gli mostrerò il dio”.
Così alitai sulla sua mano, che subito si risanò, ed egli ancora tremante mi condusse nella seconda stanza, e io vidi un idolo seduto su un trono di giada tempestato di enormi smeraldi. Era scolpito in avorio e la sua statura era quella di un uomo. Un crisolito adornava la sua fronte, e mirra e cinnamomo cospargevano i suoi seni. In una mano teneva uno scettro ricurvo di giada e nell’altra un globo di cristallo. Portava coturni d’ottone, e il collo robusto era cinto da un cerchio di pietre lunari.
E io chiesi al sacerdote: “È questo il dio?”. Ed egli mi rispose: “Questo è il dio”.
“Mostrami il dio!”, gridai, “altrimenti ti giuro che ti ucciderò!” E gli toccai gli occhi, che subito divennero ciechi.
E il sacerdote mi supplicò: “Che il mio signore risani il suo servo, e io gli mostrerò il dio”.
Così alitai sui suoi occhi, che subito riacquistarono la vista, ed egli di nuovo tremante mi condusse nella terza stanza, e qui non v’era idolo di sorta, ma solo uno specchio rotondo di metallo sopra un altare di pietra.
E io chiesi al sacerdote: “Dov’è il dio?”. Ed egli mi rispose: “Non v’è altro dio se non lo specchio che vedi: esso è lo Specchio della Saggezza, poiché riflette tutte le cose del cielo e della terra fuorché il volto di chi vi si guarda. Questo non lo riflette, così che chi guarda possa essere sapiente. Esistono molti altri specchi, ma sono specchi dell’Opinione. Solo questo è lo Specchio della Saggezza. E chi possiede questo specchio sa tutto, e nulla può restargli nascosto. Perciò esso è il dio, e noi lo veneriamo”. E io guardai dentro lo specchio, ed era come egli diceva.
E feci una cosa strana, ma che cosa feci esattamente non importa, perché in una valle che è a solo un giorno di viaggio da qui ho nascosto lo Specchio della Saggezza. Basta che tu mi faccia rientrare in te e mi riaccolga come ancella, e diverrai più saggio di tutti i saggi, e la Saggezza ti apparterrà. Concedimi di rientrare in te, e nessuno sarà saggio al pari di te».
Ma il giovane Pescatore rise. «L’Amore è meglio della Saggezza», gridò, «e la piccola Serena mi ama.»
«No, non c’è nulla che sia meglio della Saggezza», disse l’Anima.
«L’Amore è meglio», rispose il giovane Pescatore, e si tuffò nel profondo, e l’Anima s’allontanò piangendo attraverso le paludi.
E quando il secondo anno fu trascorso, l’Anima scese sulla spiaggia, e chiamò il giovane Pescatore, ed egli salì su dal profondo, e disse: «Perché mi chiami?».
E l’Anima gli disse: «Vieni più vicino, perché io possa parlare con te delle stupende cose che ho veduto».
Ed egli si fece più vicino, e si sdraiò nell’acqua bassa, e appoggiato il capo alla mano stette ad ascoltare.
E l’Anima gli disse: «Quando ti lasciai, volsi il viso verso Sud e mi misi in viaggio. Dal Sud proviene ogni cosa preziosa. Sei giorni viaggiai lungo le strade maestre che conducono alla città di Ashter, lungo le polverose strade maestre tinte di rosso su cui vanno i pellegrini, viaggiai, e al mattino del settimo giorno sollevai gli occhi, ed ecco, la città si stendeva ai miei piedi, poiché giace in una valle.
Vi sono nove porte che racchiudono quella città, e davanti a ciascuna porta è ritto un cavallo di bronzo che nitrisce quando i Beduini scendono dalle montagne. Le mura sono rivestite di rame, e le torri di vedetta sono ricoperte al sommo di ottone. In ogni torre sta immobile un arciere con un arco nella mano. Al sorgere del sole scaglia una freccia su un gong, e al tramonto soffia in un corno d’osso.
Quando cercai di entrare, le guardie mi fermarono e mi chiesero chi fossi. Risposi che ero un Derviscio in viaggio verso la Mecca, dove si trovava un velo verde su cui gli angeli avevano ricamato in lettere d’argento il testo del Corano. Invase da reverente meraviglia, le guardie mi pregarono di entrare.
All’interno, era come trovarsi in un bazar. Davvero avresti dovuto essere con me. Attraverso le strade anguste le gaie lanterne di carta ondeggiano come grandi farfalle. Al soffio del vento sui tetti si sollevano e ricadono come bolle colorate. Di fronte alle loro baracche, sopra tappeti di seta, stanno accoccolati i mercanti. Hanno barbe lisce, nere, e turbanti ricoperti di zecchini d’oro, e fra le loro dita fresche si sgranano lunghe collane d’ambra e noccioli di pesca scolpiti. Alcuni di loro vendono gelbano e nardo, e strani aromi di isole del Mare Indiano, e l’olio denso delle rose rosse, e mirra e piccoli chiodi di garofano a forma d’unghia. Mentre si parla con loro, ogni tanto gettano un pizzico d’incenso su un braciere e profumano l’aria. Vidi un Siriano che teneva fra le mani una bacchettina sottile come uno stelo. Grigie spire di fumo si levavano da essa e il suo aroma, mentre ardeva, era quello del mandorlo rosa a primavera. Altri vendono braccialetti d’argento tempestati di turchesi di un azzurro dorato, e anelli per le caviglie in filo d’ottone, frangiati di perline, e unghie di tigre incastonate d’oro, e le unghie di quel gatto scintillante, il leopardo, anch’esse incastonate d’oro, e orecchini di smeraldo forato, e anelli di giada intagliata. Dalle case da tè giunge il suono delle chitarre, e i fumatori d’oppio coi loro esangui volti sorridenti guardano fuori, ai passanti.
Davvero avresti dovuto essere con me. I venditori di vino si fanno strada a gomitate attraverso la folla, con grandi pelli nere sulle spalle. Per lo più vendono vino di Sciraz, dolce come il miele. Lo versano in minuscole coppe di metallo e vi spargono sopra foglie di rosa. Sulla piazza stanno i fruttivendoli, con ogni sorta di frutta: fichi maturi dalla polpa porporina, meloni odorosi di musco e gialli come topazi, cedri e mele rosate e grappoli d’uva bianca, tonde arance d’oro vermiglio, e limoni ovali d’oro verde. Una volta vidi passare un elefante. La sua proboscide era dipinta di curcuma e cinabro, e sulle orecchie aveva una rete di cordoncino di seta cremisi. Fermatosi dinnanzi a una delle baracche, cominciò a mangiare le arance, e l’uomo non fece altro che ridere. Non puoi immaginare che strana gente è quella. Quando sono di buon umore vanno dai venditori d’uccelli e comperano un uccello in gabbia, e lo lasciano libero perché la loro gioia sia più grande, e quando sono tristi si flagellano con dei rovi perché il loro dolore non diminuisca.
Una volta incontrai alcuni negri che portavano una pesante lettiga attraverso il bazar. Era fatta di canne di bambù dorate, e le stanghe erano di lacca vermiglia punteggiata di pavoni d’ottone. Alle finestre pendevano tendine di mussola ricamate con ali di scarabei e piccole perle, e dall’interno una Circassa pallida in volto guardò fuori e mi sorrise. Io seguii la portantina, e i negri affrettarono il passo lanciandomi sguardi torvi. Ma la curiosità che m’invadeva era tale che non me ne curai.
Alla fine si fermarono davanti a una casa bianca quadrata. Non c’erano finestre, solo una piccola porta simile alla porta di una tomba. I negri deposero a terra la lettiga e bussarono tre volte con un martello di rame. Un Armeno in caftano di pelle verde sbirciò dallo spioncino, e quando li vide aprì, e stese al suolo un tappeto, su cui passò la donna. Prima di entrare, si volse e mi sorrise con dolcezza. Non avevo mai veduto un essere così pallido.
Quando sorse la luna, tornai in quel luogo e cercai la casa, ma non c’era più. Vedendo ciò, capii chi era la donna, e perché mi aveva sorriso.
Davvero avresti dovuto essere con me. Per la festa della Luna Nuova il giovane Imperatore uscì dal suo palazzo e si recò alla moschea per pregare. I suoi capelli e la sua barba erano tinti con foglie di rosa, e le guance incipriate con fine polvere d’oro. Le piante dei suoi piedi e le palme delle sue mani erano colorate di giallo zafferano.
Al sorgere del sole egli lasciò il palazzo in una veste d’argento, e al tramonto vi ritornò in una veste d’oro. Tutti si prostravano al suolo nascondendosi il viso, ma io non volli farlo. Io stavo ritto, in attesa, davanti alla bottega di un venditore di datteri. Quando l’Imperatore mi vide, aggrottò le sopracciglia dipinte e si fermò. Rimasi assolutamente immobile, senza rendergli omaggio di obbedienza. Tutti si stupirono della mia audacia, e mi consigliarono di fuggire dalla città. Non ascoltai quel consiglio, e andai a sedermi presso i venditori di strane divinità, che per il loro mestiere sono esecrati. Quando riferii ciò che avevo fatto, ognuno di loro mi regalò un dio, pregandomi di fuggire subito.
Quella stessa notte, mentre giacevo sui cuscini nella casa da tè della Strada dei Melograni, entrarono le guardie dell’Imperatore e mi condussero al palazzo. Qui chiusero tutte le porte alle mie spalle mettendo una catena a ogni serratura. Mi trovavo in un vasto cortile cinto tutt’intorno da un porticato. I muri erano d’alabastro bianco, con piastrelle turchine e verdi. Le colonne erano di marmo verde, e l’impiantito di marmo fior di pesco. Non avevo mai veduto nulla di simile.
Mentre attraversavo il cortile, due donne velate, guardandomi da un balcone, mi maledissero. Le guardie affrettarono il passo, battendo con la punta delle lance sul pavimento lucente. Da una porta d’avorio scolpito entrai in un giardino ricco d’acque, con sette terrazze traboccanti di tulipani e fiori di luna, e aloe color argento. Come un esile stelo di cristallo, una fontana zampillava nell’aria crepuscolare. I cipressi sembravano torce bruciate. Da uno di essi cantava un usignolo.
All’estremità del giardino sorgeva un piccolo padiglione. Due eunuchi ne uscirono per venirci incontro. I loro corpi flaccidi ballonzolavano nel camminare, e i loro occhi ci guardavano curiosamente di sotto le palpebre giallastre. Uno di loro scortò il capitano delle guardie, l’altro seguitò a masticare pasticche aromatiche, che prendeva con gesti affettati da una scatola ovale di smalto lilla.
Dopo pochi minuti il capitano delle guardie congedò i soldati. Essi ritornarono al palazzo, con gli eunuchi che li seguivano indolenti, fermandosi a cogliere le more dai cespugli. Il più vecchio si volse anche a guardarmi con un sorriso malvagio.
Poi il capitano delle guardie mi indicò l’entrata al padiglione. Senza tremare mi avviai e, scostando la pesante cortina, entrai.
Il giovane Imperatore era disteso su un divano coperto di pelli di leone dipinte, e un girifalco era appollaiato sul suo pugno. Dietro di lui era un Nubiano nudo fino alla cintola, con le orecchie perforate da pesanti orecchini. Su una tavola a lato del divano era posata una scimitarra d’acciaio.
Appena mi vide l’Imperatore si accigliò, e mi disse: “Come ti chiami? Non sai che io sono l’Imperatore di questa città?”. Ma io non gli diedi risposta.
Egli puntò il dito verso la scimitarra, e il Nubiano l’afferrò, per slanciarsi contro di me, e mi colpì con grande violenza. La lama mi trapassò silbilando, ma non mi ferì. L’uomo stramazzò al suolo, e quando si rialzò batteva i denti per il terrore, e si nascose dietro il divano.
L’Imperatore, balzato in piedi, prese una lancia dall’armeria e la scagliò contro di me. L’afferrai al volo e la spezzai in due tronconi. Mi tirò una freccia, ma io levai le mani e quella si fermò a mezz’aria. Allora egli trasse una daga da una cintura di pelle nera e tagliò la gola al Nubiano, perché lo schiavo non potesse riferire a nessuno il disonore di cui era stato testimone. L’uomo si contorse come una serpe calpestata, e una bava rossa gorgogliò fuori dalle sue labbra.
Appena egli fu morto, l’Imperatore si voltò verso di me, e asciugatosi il sudore stillante dalle tempie con una pezzuola di purpurea seta ricamata, mi disse: “Dimmi, sei tu un profeta, che non posso in alcun modo ferirti, o il figlio di un profeta, che non posso oltraggiarti? Ti prego, lascia la città questa stessa notte, perché finché tu sei qui io non posso esserne il signore”.
E io gli risposi: “Me ne andrò per metà del tuo tesoro. Dammi metà del tuo tesoro, e me ne andrò via”.
Egli mi prese per mano e mi condusse in giardino. Quando il capitano delle guardie mi vide, restò stupefatto. Quando gli eunuchi mi videro, le loro ginocchia tremarono ed essi caddero a terra tramortiti.
C’è una camera, nel palazzo, che ha otto pareti di porfido rosso, e un soffitto di ottone scanalato cui stanno appese delle lampade. L’Imperatore toccò una delle pareti ed essa si aprì, e noi passammo attraverso un corridoio illuminato da numerose torce. In due nicchie laterali, erano grandi giare colme fino all’orlo di monete d’argento. Quando fummo al centro del corridoio l’Imperatore pronunciò la parola che non deve essere pronunciata, e una porta di granito si spalancò, mossa da un congegno segreto, ed egli si coprì con le mani gli occhi per timore che rimanessero abbacinati.
Non puoi immaginare che luogo stupendo era quello. C’erano enormi gusci di tartaruga pieni di perle, e pietre di luna scavate colme di rubini rossi. In cofani di pelle d’elefante era ammucchiato l’oro, e la polvere d’oro in anfore panciute. Entro coppe di cristallo e di giada scintillavano opali e zaffiri. Verdi smeraldi rotondi erano allineati su piatti d’avorio, e in un angolo turchesi e berilli riempivano grosse borse di seta. Dentro corni d’avorio erano ammassate ametiste violacee, e dentro corni d’ottone calcedonie e sarde. Alle colonne di cedro erano appese file di pietre chiamate occhio di lince. Entro scudi piatti e ovali c’erano carbonchi color vino e color erba. E non ti sto dicendo che una minima parte di ciò che vidi.
Toltesi le mani dal viso, l’Imperatore mi disse: “Questa è la mia stanza del tesoro, e metà di quello che vedi è tuo, come ti ho promesso. Ti darò inoltre cammelli e cammellieri, pronti ai tuoi cenni, che porteranno la tua parte del tesoro in qualsiasi angolo della terra tu desideri andare. E questo deve accadere stanotte, perché non voglio che mio padre, il Sole, si accorga che nella mia città c’è un uomo che io non posso uccidere”.
Ma io risposi: “L’oro che giace in questa stanza è tuo, e così pure l’argento, e tutte le altre gemme preziose. Quanto a me, io non ne ho bisogno. Io non ti chiedo nient’altro che quel piccolo anello che porti al dito”.
E l’Imperatore trasalì. “È solo un piccolo anello di piombo”, esclamò. “Non ha nessun valore. Prenditi la metà del tesoro e vattene dalla mia città.”
“No”, replicai, “io non prenderò altro che quell’anello di piombo, perché so cosa reca scritto dentro, e a cosa serve.”
E l’Imperatore tremò, e mi supplicò: “Prendi tutto il tesoro e lascia la mia città. Anche la mia metà sarà tua”.
E feci una cosa strana, ma che cosa feci esattamente non importa, perché in una grotta che è a solo un giorno di viaggio da qui ho nascosto l’Anello della Ricchezza. Non è che a un giorno di viaggio da qui, e aspetta solo il tuo arrivo. Colui che possiede quell’anello è più ricco di tutti i re del mondo. Vieni dunque e prendilo, e tutte le ricchezze del mondo saranno tue».
Ma il giovane Pescatore rise. «L’Amore è meglio della Ricchezza», gridò, «e la piccola Sirena mi ama.»
«No, non c’è nulla che sia meglio della Ricchezza», disse l’Anima.
«L’Amore è meglio», rispose il giovane Pescatore, e si tuffò nel profondo, e l’Anima s’allontanò piangendo attraverso le paludi.
E quando il terzo anno fu trascorso, l’Anima scese sulla spiaggia, e chiamò il giovane Pescatore, ed egli salì su dal profondo, e disse: «Perché mi chiami?».
E l’Anima gli disse: «Vieni più vicino, perché io possa parlare con te delle stupende cose che ho veduto».
Ed egli si fece più vicino, e si sdraiò nell’acqua bassa, e appoggiato il capo alla mano stette ad ascoltare.
E l’Anima gli disse: «In una città che conosco c’è una locanda, proprio in riva a un fiume. Io me ne stavo là con dei marinai che bevevano vino di vario colore, e mangiavano pane d’orzo e piccoli pesci salati serviti entro foglie d’alloro con aceto. E mentre ce ne stavamo lì seduti in allegria, entrò un vecchio che portava un tappeto di pelle e un liuto con due corni d’ambra. E quand’egli ebbe disteso il tappeto sul pavimento, toccò con un plettro le corde metalliche del suo liuto, e una fanciulla dal volto velato entrò correndo e incominciò a danzare per noi. Un velo di garza velava il suo volto, ma i suoi piedi erano nudi. Nudi erano i suoi piedi, e si muovevano sul tappeto come minuscoli piccioni bianchi. Mai ho veduto qualcosa di così stupendo, e la città in cui ella danza è a solo un giorno di viaggio da qui».
Quando il giovane Pescatore udì queste ultime parole della sua Anima, si ricordò che la piccola Sirena non aveva piedi e non poteva danzare. E un grande desiderio lo invase, ed egli si disse: «È a solo un giorno di viaggio, e tornerò subito dal mio amore», e rise, e si levò in piedi nell’acqua bassa, e s’incamminò verso la spiaggia.
E quando fu sulla spiaggia asciutta rise nuovamente, e tese le braccia alla sua Anima. E la sua Anima gettò un gran grido di gioia e gli corse incontro, ed entrò in lui, e il giovane Pescatore vide allungata dinnanzi a lui sopra la sabbia quell’ombra del corpo che è il corpo dell’Anima.
E la sua Anima gli disse: «Non indugiamo, ma andiamo subito là, perché gli Dèi del mare sono gelosi, e hanno mostri al loro servizio».
Così si affrettarono, e per tutta la notte viaggiarono sotto la luna, e tutto il giorno viaggiarono sotto il sole, e a sera giunsero alle porte di una città.
E il giovane Pescatore chiese alla sua Anima: «È questa la città dove danza colei di cui mi hai parlato?».
E la sua Anima gli rispose: «Non è questa la città, è un’altra. Ma entriamo ugualmente».
Così entrarono, e passarono per molte strade, e quando passarono per la Strada dei Gioiellieri il giovane Pescatore vide una coppa d’argento esposta in una bottega. E l’Anima gli disse: «Prendi quella coppa d’argento e nascondila».
Ed egli prese la coppa e la nascose nelle pieghe della tunica, e uscirono in fretta dalla città.
E quando furono a una lega di distanza dalla città, il giovane Pescatore si adombrò e scagliò via la coppa, domandando all’Anima: «Perché mi hai detto di prendere quella coppa e di nasconderla? Non era una cattiva azione?».
Ma l’Anima gli rispose: «Non darti pena, sta’ in pace».
E la sera del secondo giorno giunsero a una città, e il giovane Pescatore chiese alla sua Anima: «È questa la città dove danza colei di cui mi hai parlato?».
E l’Anima gli rispose: «Non è questa la città, è un’altra. Ma entriamo ugualmente».
Così entrarono, e passarono per molte strade, e quando passarono per la Strada dei Venditori di Sandali, il giovane Pescatore vide un fanciullo ritto accanto a una giara d’acqua.
E l’Anima gli disse: «Colpisci quel fanciullo».
Ed egli colpì il fanciullo finché questi non si mise a piangere, e uscirono in fretta dalla città.
E quando furono a una lega di distanza dalla città, il giovane Pescatore si adirò, e chiese all’Anima: «Perché mi hai detto di colpire quel fanciullo? Non era una cattiva azione?».
Ma l’Anima gli rispose: «Non darti pena, sta’ in pace».
E la sera del terzo giorno, giunsero a una città, e il giovane Pescatore chiese alla sua Anima: «È questa la città dove danza colei di cui mi hai parlato?».
E l’Anima gli rispose: «Può darsi che sia questa, quindi entriamo».
Così entrarono, e passarono per molte strade, ma in nessun luogo il giovane Pescatore riuscì a trovare né il fiume né la locanda sulla sua riva. E la gente della città lo guardava incuriosita, ed egli ebbe paura e disse alla sua Anima: «Andiamo via di qui, poiché non troviamo la danzatrice dai piedi d’argento».
Ma l’Anima gli rispose: «No, fermiamoci, perché la notte è buia, e sulla strada saranno appostati i banditi».
E lo fece sedere sulla piazza del mercato, e poco dopo passò di lì un mercante incappucciato che indossava un mantello di panno di Tartaria e un bastone nodoso con una lanterna di corno appesa in cima. E il mercante gli chiese: «Perché te ne stai lì seduto sulla piazza del mercato, se tutte le botteghe sono chiuse e le casse legate?».
E il giovane Pescatore gli rispose: «Non riesco a trovare una locanda, e non ho parenti che possano ospitarmi».
«Non siamo forse tutti parenti?», disse il mercante. «Non ci ha creati tutti un solo Dio? Vieni con me, dunque, perché ho una camera in cui ospitarti.»
Così il giovane Pescatore si levò e seguì il mercante a casa sua. E quando ebbe attraversato un giardino di melograni e fu entrato in casa, il mercante gli versò in un piatto di rame dell’acqua di rosa perché potesse lavarsi le mani, e meloni maturi per dissetarsi, e gli pose davanti una ciotola di riso e una porzione di capretto arrostito.
E dopo che si fu rifocillato, il mercante lo condusse nella camera degli ospiti, e lo invitò a dormire e a riposarsi. E il giovane Pescatore lo ringraziò, e baciò l’anello che l’uomo portava al dito, e si sdraiò sui tappeti di pelo di capra dipinto. Infine, copertosi con una coltre di lana d’agnello nera, si addormentò.
E tre ore prima dell’alba, quando ancora era notte, l’Anima lo svegliò e gli disse: «Alzati e va’ nella camera del mercante, quella dove dorme, e uccidilo, e portagli via tutto il suo oro, perché ne abbiamo bisogno».
E il giovane Pescatore si alzò e sgusciò furtivo nella camera del mercante; ai piedi di lui che dormiva era posata una sciabola, e su un vassoio a fianco del letto nove borse piene d’oro. Ed egli allungò la mano verso la sciabola, ma l’aveva appena sfiorata che il mercante sussultò e si svegliò e, balzato in piedi, afferrò lui la sciabola e gridò al giovane Pescatore: «Ricambi tu dunque il bene con il male, e con lo spargimento di sangue la mia generosità?».
E l’Anima disse al giovane Pescatore: «Colpiscilo!».
Ed egli lo colpì fino a farlo venir meno, poi afferrò le nove borse d’oro e fuggì rapido attraverso il giardino dei melograni, e volse il viso verso la stella che chiamano la stella del mattino.
E quando furono a una lega di distanza dalla città, il giovane Pescatore si batté il petto, e disse all’Anima: «Perché mi hai detto di uccidere il mercante e rubargli l’oro? Di certo tu sei malvagia».
Ma l’Anima gli rispose: «Non darti pena, sta’ in pace».
«No», rispose il giovane Pescatore, «non posso stare in pace, perché odio tutto ciò che mi hai fatto fare. Odio anche te, e ti ordino di dirmi perché mi hai costretto ad agire in questo modo.»
E l’Anima gli rispose: «Quando tu mi cacciasti via da te mi mandasti per il mondo senza darmi il cuore, e così ho imparato a fare tutte queste cose e ad amarle».
«Che vai dicendo?», mormorò il giovane Pescatore.
«Tu sai quel che dico», rispose l’Anima, «lo sai bene. Hai scordato che non mi desti il cuore? Penso di no. Quindi non darti pena né per te né per me, ma sta’ in pace, giacché non c’è pena che tu non arrecherai, né piacere che non riceverai.»
E quando il giovane Pescatore udì queste ultime parole della sua Anima, tremò e le disse: «Ah, tu sei davvero malvagia, e mi hai fatto dimenticare il mio amore, e mi hai lusingato di tentazioni e hai diretto i miei passi sulla via del peccato».
E l’Anima gli rispose: «Hai scordato che quando mi mandasti per il mondo non mi desti il cuore. Vieni, andiamo in un’altra città, e divertiamoci, poiché abbiamo nove borse d’oro».
Ma il giovane Pescatore prese le nove borse d’oro e le scaraventò a terra, e le calpestò. «No!», gridò. «Io non voglio aver più nulla a che fare con te, e non voglio andare con te da nessuna parte, ma come ti ho mandata via una volta ti manderò via ora, perché con me sei stata crudele.» E volta la schiena alla luna, col piccolo coltello dal manico in pelle di vipera verde si diede a tagliar via dai suoi piedi l’ombra del corpo che è il corpo dell’Anima.
Ma l’Anima non si scostò dal suo fianco, né si curò del suo comando, e gli disse: «Il sortilegio della Strega non può più giovarti, perché io non posso separarmi da te, e tu non puoi cacciarmi via. Una sola volta nella vita un uomo può mandar via la sua Anima, ma colui che l’accoglie di nuovo dovrà tenerla per sempre con sé, e questa è la sua punizione e la sua ricompensa».
Il giovane Pescatore impallidì e, torcendosi le mani, disse: «Falsa fu dunque la Strega, a non dirmi questo».
«No», rispose l’Anima, «fu fedele a Colui che adora, e che sempre servirà.»
E quando il giovane Pescatore capì che non avrebbe potuto più liberarsi della sua Anima, e che era un’Anima malvagia e avrebbe dimorato per sempre con lui, si abbandonò al suolo in un pianto disperato.
E quando spuntò il giorno il giovane Pescatore si levò e disse alla sua Anima: «Mi legherò le mani per non fare ciò che vuoi farmi fare, e chiuderò strette le labbra per non pronunciare le tue parole, e tornerò al luogo dove vive colei che amo. Al mare tornerò, e alla piccola baia dove lei va a cantare, la chiamerò e le dirò sia il male che ho fatto io sia quello che mi hai arrecato tu».
E l’Anima lo tentò e gli disse: «Chi è mai il tuo amore, che tu debba tornare a lei? Al mondo ce ne sono di molto più belle. Ci sono le danzatrici di Samarìa, che danzano al modo degli uccelli e delle bestie. Hanno i piedi dipinti di henné, e nelle mani campanellini di rame. Mentre danzano ridono di un riso chiaro come la spuma dell’acqua. Vieni con me, e te le mostrerò. Che senso ha questa tua preoccupazione per ciò che si chiama peccato? Le cose gradevoli al palato non son fatte per chi mangia? C’è forse del veleno in ciò che è dolce da bere? Non darti pena, e vieni con me in un’altra città. C’è una piccola città qui vicino, con un giardino di tulipani meraviglioso, in cui si aggirano pavoni bianchi e pavoni dal petto turchino. Le loro code, quando le dispiegano al sole, sono simili a dischi d’avorio dorato. Colei che li nutre danza per il loro piacere, talvolta sulle mani e talvolta sui piedi. I suoi occhi sono tinti di nero antimonio, e le nari han la forma di ali di rondine. Da una di esse pende un fiore intagliato in una perla. La danzatrice ride mentre muove i suoi passi, e gli anelli d’argento intorno alle sue caviglie tintinnano come campanelli. Dunque non darti pena, e vieni con me in quella città».
Ma il giovane Pescatore non rispose alla sua Anima, si chiuse le labbra col suggello del silenzio e con una corda si legò le mani, e s’incamminò per tornare donde era venuto, là alla piccola baia dove la sua amata soleva cantare. E la sua Anima non cessò di tentarlo lungo la via, ma egli non le diede risposta, e si rifiutò di fare tutte le malvagità cui ella tentava di piegarlo, tanto grande era la forza dell’amore che egli aveva dentro di sé.
E quando giunse sulla spiaggia, sciolse la corda che gli legava i polsi e si tolse dalle labbra il suggello del silenzio, e chiamò la piccola Sirena. Ma ella non venne al suo richiamo, per quanto egli la chiamasse e la supplicasse per tutto il giorno.
E l’Anima lo schernì e gli disse: «Davvero è ben misera cosa la gioia che tu hai da questo amore. Sei come uno che in tempo di carestia versi dell’acqua in una brocca infranta. Hai dato via ciò che avevi, e nulla ti è stato dato in cambio. È molto più vantaggioso per te seguirmi, perché io so dove si stende la Valle del Piacere, e tutto ciò che vi accade».
Ma il giovane Pescatore non rispose alla sua Anima, e nel cavo di una rupe si fabbricò una capanna di giunchi, e vi abitò per un anno intero. Ogni mattina chiamava la Sirena, e ogni mezzogiorno di nuovo la chiamava, e a notte invocava il suo nome. Ma lei non affiorò mai dal mare per andargli incontro, ed egli non la trovò in alcun punto del mare, benché la cercasse nelle grotte e nell’acqua verde, nelle pozze lasciate dall’alta marea e nelle sorgenti in fondo agli abissi.
E sempre l’Anima lo tentava con la sua perfidia, e gli sussurrava terribili cose. Ma non riusciva a vincerlo, tanto grande era la forza dell’amore.
E quando l’anno fu trascorso, l’Anima pensò fra sé: «Ho tentato il mio signore con la perfidia, e il suo amore è più forte. Ora lo tenterò con la bontà, e può essere che venga con me».
Così si rivolse al giovane Pescatore e disse: «Ti ho narrato dei piaceri del mondo, e sei rimasto sordo alle mie parole. Permetti che ti narri del dolore del mondo, e può essere che tu mi dia ascolto. Poiché in verità è solo il dolore il Signore di questo mondo, e non c’è proprio nessuno che possa sfuggire alla sua rete. Ad alcuni mancano le vesti, ad altri il pane. Ci sono vedove con vesti di porpora, e vedove con vesti a brandelli. Su e giù per le paludi errano i lebbrosi, pieni di malanimo. I mendicanti vanno su e giù per le strade maestre, con le bisacce vuote. Per le vie della città vaga la Fame, e la Peste siede sulle porte. Vieni, andiamo ad alleviare questi mali, a impedire che avvengano. Tu indugi a richiamare la tua amata, e lei non risponde al tuo richiamo, ma cos’è mai l’amore per essere anteposto a una così alta missione?».
Ma il giovane Pescatore non rispose nulla, tanto grande era la forza del suo amore. E ogni mattina chiamava la Sirena, e ogni mezzogiorno di nuovo la chiamava, e a notte invocava il suo nome. Ma lei non affiorò mai dal mare per andargli incontro, ed egli non la trovò in alcun punto del mare, benché la cercasse nei fiumi del mare, e nelle valli sotto le onde, nel mare che la notte fa violaceo, e nel mare che l’alba lascia grigio.
E quando il secondo anno fu trascorso, l’Anima disse al giovane Pescatore, una notte che egli se ne stava come sempre solo nella sua capanna di giunchi: «Ahimè, ti ho tentato con la perfidia e con la bontà, e il tuo amore è più forte di me. Perciò ora non ti tenterò più, ma ti prego di farmi rientrare nel tuo cuore, che io possa essere una cosa sola con te, come prima».
«Certo che puoi rientrare», disse il giovane Pescatore, «perché nei giorni in cui vagavi senza cuore per il mondo devi aver molto sofferto.»
«Ahimè!», gemette l’Anima. «Non riesco a entrare, tanto questo tuo cuore è recinto dalla morsa dell’amore.»
«Eppure vorrei poterti aiutare», disse il giovane Pescatore.
A quel punto un alto grido di dolore si levò dal mare, il grido che gli uomini odono quando una delle Creature Marine incontra la morte. E il giovane Pescatore balzò in piedi e uscì dalla sua capanna di giunchi e corse alla spiaggia. E le onde tenebrose si precipitarono sul lido recando con sé un fardello più bianco dell’argento. Bianco come la spuma era, e come un fiore fluttuava sulle onde. E la risacca lo tolse alle onde, e la spuma alla risacca, e la spiaggia lo accolse, e il giovane Pescatore vide ai suoi piedi il corpo della piccola Sirena. Morto ai suoi piedi esso giaceva.
Piangendo come chi è distrutto dalla pena, egli si lasciò cadere accanto a lei, e baciò il freddo scarlatto della bocca, e accarezzò l’ambra bagnata della chioma. Si lasciò cadere accanto a lei sulla sabbia, piangendo come chi trema di gioia, e fra le braccia brune la strinse al petto. Fredde erano le sue labbra, eppure egli le baciava. Sale era il miele dei capelli, eppure egli lo gustava con amara gioia. Baciava le palpebre chiuse, e le gocce stillanti sulle loro coppe erano meno salate delle sue lacrime.
E alla morta creatura egli si confessò. Nelle conchiglie delle sue orecchie versò l’aspro vino della sua storia. Pose le fragili mani intorno al collo, e con le dita toccò lo stelo sottile della gola. Amara, amara era la sua gioia, e piena di strano godimento la sua pena.
Il mare color della tenebra si faceva più vicino, e la candida spuma gemeva come un lebbroso. Bianchi artigli di spuma il mare allungava sul lido. Dal palazzo del Re del Mare di nuovo risuonò il grido di dolore, e lontano, al largo, i grossi Tritoni soffiarono cupamente nei loro corni.
«Fuggi», incitò l’Anima, «perché sempre più vicino si fa il mare, e se tu resti ti ucciderà. Fuggi lontano, perché ho paura, vedendo il tuo cuore chiuso a me per la forza smisurata del tuo amore. Fuggi lontano, in un luogo sicuro. Non vorrai mandarmi senza cuore anche nell’altro mondo?»
Ma il giovane Pescatore non ascoltava la sua Anima, invocava la piccola Sirena e le diceva: «L’Amore è migliore della saggezza, e più prezioso della ricchezza, e più bello dei piedi delle figlie dell’uomo. Non possono distruggerlo i fuochi, né spegnerlo le acque. Ti ho chiamata all’alba, e non sei venuta al mio richiamo. La Luna udiva il tuo nome, eppure tu non mi davi risposta. Perché perfidamente ti avevo lasciata e a mio danno ero andato vagando lontano. Eppure sempre il tuo amore è resistito in me, è sempre stato forte, e nulla l’ha mai potuto abbattere, sia che io mi volgessi al male sia che mi volgessi al bene. E ora che sei morta, voglio morire anch’io con te».
E l’Anima lo supplicò di fuggire di lì, ma egli non voleva, tanto grande era il suo amore. E il mare si faceva più vicino, e cercava di coprirlo con le sue onde, e quando egli capì che stava giungendo la fine baciò con folli baci le fredde labbra della Sirena, e il cuore che era in lui si spezzò. Ed ecco, nell’istante in cui il suo cuore per l’empito del suo amore si spezzava, l’Anima trovò un accesso ed entrò, e fu una cosa sola con lui come prima. E il mare coprì con le sue onde il corpo del giovane Pescatore.
E al mattino il Sacerdote uscì per benedire il mare, che era stato agitato. E lo seguivano monaci e musici, portatori di ceri e agitatori di turiboli, e molta altra gente.
E quando il Sacerdote giunse sulla spiaggia vide il giovane Pescatore che giaceva morto nella risacca stringendo fra le braccia il corpo della piccola Sirena. Ed egli si ritrasse turbato, e fattosi il segno della croce, gridò forte: «Non benedirò il mare né alcuna cosa che lo abiti. Maledette siano le Creature Marine, e maledetti tutti coloro che hanno rapporti con quella stirpe. E quanto a lui che per amore rinnegò Dio, e ora giace qui con la sua amata uccisa per decreto di Dio, prendete il suo corpo e quello della sua amata, e seppelliteli nell’angolo del Campo dei Pagani, e non mettetevi alcuna croce sopra, né alcun segno di sorta, che nessuno sappia il luogo della loro sepoltura. Poiché maledetti furono in vita, e maledetti saranno pure in morte».
E i suoi uomini fecero come egli ordinava, e in un angolo del Campo dei Pagani dove non crescevano erbe odorose scavarono una fossa profonda, e vi deposero le morte creature.
E quando il terzo anno fu trascorso, in un giorno che era un giorno santo, il Sacerdote si recò alla cappella, per mostrare alla gente le piaghe del Signore e parlare dell’ira di Dio.
E quando ebbe indossato i paramenti sacri e fu entrato, inginocchiatosi davanti all’altare lo trovò ricoperto di strani fiori che non s’erano mai veduti prima d’allora. Strani erano a vedersi, e di una singolare bellezza, e la loro bellezza lo turbò e il loro profumo lo stordì di dolcezza. Ed egli si sentì invadere da una gioia di cui non sapeva darsi ragione.
E dopo che ebbe aperto il tabernacolo e cosparso d’incenso l’ostensorio che vi era dentro e mostrata ai fedeli la bianca ostia, nascostala di nuovo dietro il velo dei veli, iniziò il suo sermone, con l’intento di parlare dell’ira di Dio. Ma la bellezza dei candidi fiori lo turbava, e il loro profumo lo stordiva di dolcezza, e altre parole vennero alle sue labbra, e non parlò dell’ira di Dio, ma del Dio il cui nome è Amore. E perché così parlasse non sapeva.
E quand’ebbe finito il suo sermone la gente piangeva, e il Sacerdote tornò alla sacrestia con gli occhi gonfi di lacrime. E i diaconi entrarono a togliergli i paramenti, e gli levarono il camice e la fascia, il manipolo e la stola. Ed egli era immobile e trasognato.
E quando gli ebbero tolti i paramenti, egli li guardò e disse: «Che fiori sono quelli che stanno sull’altare, e da dove vengono?».
Ed essi gli risposero: «Che fiori siano non sappiamo dirlo, ma vengono dall’angolo del Campo dei Pagani». E il Sacerdote tremò, e tornò a casa e s’inginocchiò in preghiera.
E al mattino, mentre albeggiava ancora, egli uscì seguito da monaci e musici, portatori di ceri e agitatori di turiboli, e con molta altra gente andò sulla spiaggia, e benedisse il mare e tutti gli esseri selvaggi che vi si trovano. Anche i Fauni benedisse, e le piccole creature che danzano nella foresta, e quelle dagli occhi luminosi che ammiccano tra le foglie. Tutte le cose del mondo di Dio benedisse, e la gente era colma di gioia e di meraviglia. Eppure mai più nell’angolo del Campo dei Pagani spuntarono fiori di sorta, e il campo rimase arido com’era sempre stato. Né vennero le Creature Marine nella baia, come in passato solevano, perché se ne andarono in un’altra parte del mare.
Il Bimbo-Stella
Una volta, tanto tempo fa, due poveri taglialegna stavano tornando a casa attraverso una grande foresta di pini. Era una notte d’inverno molto fredda. Uno spesso strato di neve ricopriva il suolo e i rami degli alberi; il gelo schiantava di continuo ramoscelli al loro passare; e quando essi giunsero alla Cascata della Montagna, la trovarono sospesa immobile nell’aria perché il Re del Ghiaccio l’aveva baciata.
Faceva così freddo che nemmeno gli animali e gli uccelli del bosco sapevano come porvi rimedio.
«Ugh!», mugolava il Lupo, andando zoppicante fra i cespugli, la coda fra le gambe. «Questo è un tempo assolutamente mostruoso. Com’è possibile che il Governo non prenda dei provvedimenti?»
«Viit! Viit! Viiit!», cinguettavano i Fanelli verdi, «la vecchia Terra è morta, e l’hanno adagiata nel suo bianco sudario.»
«La Terra sta per sposarsi, e ha indossato la sua veste nuziale», si sussurravano le Tortore fra loro. Le loro zampine rosse erano assiderate, ma si sentivano in dovere di considerare la questione da un punto di vista romantico.
«Sciocchezze», berciò il Lupo. «Vi dico che è tutta colpa del Governo, e se non mi credete vi sbranerò.» Il Lupo aveva una mentalità estremamente pratica, e non difettava mai di argomenti validi.
«Bene, dal mio punto di vista», disse il Picchio Verde, che era un filosofo nato, «in certi casi le spiegazioni non hanno nessuna importanza. Se una cosa è così, è così, e al presente fa spaventosamente freddo.»
Faceva spaventosamente freddo davvero. Gli Scoiattoli, che vivevano dentro l’alto abete, continuavano a strofinarsi il muso l’un l’altro per riscaldarsi, e i Conigli si raggomitolavano nelle loro tane, senza arrischiare neppure di guardar fuori. A godere del freddo sembravano solamente i grossi Gufi con le corna. Le loro piume erano tutte irrigidite dalla brina, ma ciò non li disturbava, e si chiamavano l’un l’altro attraverso la foresta roteando i grandi occhi gialli.
«Tu-uit! Tu-uit! Tu-uit! Che tempo delizioso!»
I due taglialegna camminavano camminavano, soffiandosi con veemenza sulle dita e calpestando con gli stivali di ferro la neve indurita. Una volta sprofondarono in una buca e ne riemersero bianchi come mugnai alla fine della macina; una volta scivolarono sul ghiaccio liscio e duro, dove l’acqua della palude era gelata, e la legna delle fascine si sparpagliò, e dovettero raccattarla e legarla di nuovo; e un’altra volta ancora pensarono di aver smarrito la strada, e un gran terrore li invase, perché sapevano bene quant’è crudele la Neve con chi dorme fra le sue braccia. Ma si affidarono al buon San Martino, che veglia su tutti i viandanti, e ritornati sui propri passi procedettero cauti, e finalmente giunsero ai margini della foresta e videro lontano, nella valle distesa ai loro piedi, la luce del villaggio dove abitavano.
Nel vedersi salvi, si sentirono invasi da una tale gioia che scoppiarono in alte risa, e la Terra apparve loro come un fiore d’argento, e la Luna come un fiore d’oro.
Ma dopo aver riso tanto, ritornarono tristi, perché si rammentarono della loro povertà, e l’uno disse all’altro: «Che senso ha esserci rallegrati, se la vita è per i ricchi, e non per gente come noi? Sarebbe stato meglio morire di freddo nella foresta, o essere sbranati da qualche belva».
«È vero», rispose il suo compagno, «alcuni hanno molto, altri ben poco. È l’Ingiustizia a decidere le parti, in questo mondo, e non c’è nulla che venga diviso equamente se non il dolore.»
Così, mentre si lamentavano della propria sorte miserabile, avvenne una strana cosa. Dal firmamento cadde all’improvviso una luminosissima, splendida stella. Scivolò giù da un lato del cielo, passando accanto alle altre stelle, e sparì alla vista dei due attoniti spettatori sprofondando, o così parve, dietro una macchia di salici nei pressi di un piccolo ovile lì vicino.
«Oh, c’è un vaso d’oro per chi la trova!», gridarono, e si misero a correre, tanto avidi erano dell’oro.
E uno dei due correva più veloce del compagno, e lo superò, spingendosi nel fitto dei salici e sbucando poi dalla parte opposta, e – oh! – c’era veramente una cosa d’oro che giaceva sulla neve bianca. Ed egli s’affrettò verso quella cosa, e chinandosi vi pose sopra le mani, ed era un manto di tessuto aureo, curiosamente variegato di stelle e arrotolato in molte pieghe. Ed egli gridò al suo compagno che aveva trovato il tesoro caduto dal cielo, e quando il compagno lo raggiunse, sedettero entrambi nella neve, e aprirono le pieghe del mantello, per potersi spartire le monete d’oro. Ma, ahimè, all’interno non v’era né oro né argento né tesoro di sorta: solo un piccolo bambino addormentato.
E uno dei due disse all’altro: «Questa è proprio una fine amara per la nostra speranza, e la fortuna ci è davvero nemica; quale vantaggio, infatti, può portare un bambino a un uomo? Lasciamolo qui, e proseguiamo per il nostro cammino, dato che siamo povera gente e abbiamo già i nostri figli, a cui non possiamo togliere il pane per darlo a un altro».
Ma il suo compagno gli rispose: «No, sarebbe un atto crudele lasciar qui il bambino a morire nella neve, e sebbene io sia povero come te e abbia molte bocche da sfamare e ben poco che bolle in pentola, pure lo porterò con me a casa mia, e mia moglie avrà cura di lui».
Così sollevò il bimbo con molta tenerezza, e lo ravvolse ben bene nel manto per proteggerlo dal freddo crudele, e si avviò giù per la collina verso il villaggio, mentre il compagno si stupiva di tanta follia e debolezza di cuore.
E quando giunsero al villaggio, gli disse: «Tu hai il bambino, quindi lascia a me il mantello, perché è giusto che si divida tra noi ciò che abbiamo trovato».
Ma quello gli rispose: «No, il mantello non appartiene né a te né a me, ma solo al bambino», e disse al compagno di andarsene con Dio, e si avviò verso casa e bussò.
E quando sua moglie aprì la porta e vide che egli era ritornato a casa sano e salvo, gli gettò le braccia al collo e lo baciò, e gli tolse il carico di fascine dalle spalle, e gli spazzò via la neve dagli scarponi, e lo invitò a entrare.
Ma egli le disse: «Ho trovato una cosa nella foresta, e l’ho portata a te perché tu ne abbia cura». Disse queste parole senza muoversi dalla soglia.
«Che cos’è?», domandò lei. «Fammela vedere, la nostra casa è tanto povera, e bisognosa di tante cose.» Ed egli scostò il lembo del mantello, e le mostrò il bimbo addormentato.
«O povera me, marito mio!», si lagnò lei. «Abbiamo già i nostri figli a cui badare, ci mancava proprio che mi portassi a casa un trovatello! E se ci porterà disgrazia? Se non riusciremo a curarcene?» Ed era adirata con lui.
«Sai, è un Bimbo-Stella», la informò il marito, e le narrò lo strano modo in cui l’aveva trovato.
Ma lei non voleva darsi pace, e lo scherniva, parlando irosamente contro di lui: «Ai nostri bambini manca il pane, e dovremmo dar da mangiare a un bambino d’altri? Chi si dà pensiero di noi? E chi ci procurerà il cibo?».
«Dio si dà pensiero anche dei passeri, e procura loro il cibo», rispose lui.
«Forse che i passeri, in inverno, non muoiono di fame?», ribatté lei. «E adesso non è inverno?» Ma l’uomo non rispose nulla, e non si mosse dalla soglia.
E una folata di vento gelido che veniva dalla foresta fece tremare la donna, che con un brivido disse al marito: «Perché non chiudi la porta? Entra in casa un vento gelido, e ho freddo».
«In una casa dove c’è un cuore duro non entra sempre un vento gelido?», chiese lui. E la donna non gli rispose nulla, ma si fece più vicina al fuoco.
E dopo pochi minuti si volse a guardarlo, e aveva gli occhi pieni di lacrime. Ed egli entrò in fretta, e le pose il bimbo fra le braccia, e lei lo baciò, e lo mise a giacere nel lettino in cui giaceva il più piccolo dei loro bambini. E l’indomani il taglialegna prese lo strano mantello d’oro e lo ripose entro un ampio baule, e sua moglie prese una collana d’ambra che cingeva il collo del bimbo e ripose anche quella nel baule.
Così il Bimbo-Stella fu allevato insieme ai figli del taglialegna, e sedeva alla stessa tavola, ed era loro compagno di giochi. E ogni anno diventava più bello, tanto che tutti gli abitanti del villaggio erano invasi dalla più grande meraviglia, poiché egli era, anziché bruno di pelle e nero di capelli come loro, delicato e candido come avorio, e i suoi riccioli erano simili agli anelli della giunchiglia. Le sue labbra erano anch’esse simili ai petali di un fiore vermiglio, e i suoi occhi alle mammole che sbocciano in riva a un limpido ruscello, e il suo corpo al narciso del campo dove non passa il mietitore.
Ma la sua bellezza si rivelò un male per lui. Infatti egli divenne presto superbo, crudele ed egoista. Disprezzava i figli del taglialegna e gli altri bambini del villaggio, dicendo che erano di origini volgari, mentre lui era nobile, essendo nato da una Stella, e li trattava da padrone, chiamandoli suoi servi. Non aveva alcuna pietà per i poveri, o per quelli che erano ciechi o storpi o afflitti da qualche infermità, e scagliava pietre contro di loro, e li scacciava sulla via maestra, gridando loro di andare a mendicare altrove, sicché nessuno, eccetto i fuorilegge, ritornava mai due volte in quel villaggio a chiedere l’elemosina. In verità, egli era curiosamente innamorato della bellezza, e i deboli e i deformi suscitavano in lui un sommo disgusto, e il desiderio di schernirli; amava solo se stesso, e d’estate, quando i venti tacevano immobili, aveva l’abitudine di sdraiarsi presso la fontana nell’orto della sacrestia e osservava a lungo il suo splendido volto riflesso nell’acqua, ridendo per la gioia che la sua bellezza gli procurava.
Spesso il taglialegna e sua moglie lo rimproveravano, dicendogli: «Noi non ti abbiamo trattato come tu tratti quelli che sono abbandonati e indifesi, senza nessuno che li aiuti nella loro miseria. Perché sei così crudele con chi ha bisogno di compassione?».
Spesso il vecchio prete lo mandava a chiamare, e gli parlava cercando di insegnargli l’amore per gli esseri viventi. «La mosca è tua sorella», gli diceva. «Non farle del male. Gli uccelli selvatici che volano nella foresta hanno diritto alla loro libertà. Non tender loro insidie per tuo piacere. Dio ha creato il lombrico cieco e la talpa, e ciascuno ha il suo posto. Chi sei tu per portare la sofferenza nel mondo di Dio? Anche gli armenti nei campi levano lodi a Lui.»
Ma il Bimbo-Stella non dava il minimo peso a quelle parole, e si accigliava e si faceva beffa di tutto ciò che gli veniva detto, e tornava dai suoi compagni e li tiranneggiava. E i suoi compagni lo seguivano, perché era bello, e veloce nella corsa, e impareggiabile a ballare, cantare e suonare. E ovunque il Bimbo-Stella li guidava essi lo seguivano, e qualunque cosa il Bimbo-Stella dicesse loro di fare la facevano. E quando, con una cannuccia appuntita, egli trafiggeva gli occhi torpidi della talpa, essi ridevano, e quando egli scagliava sassi contro il lebbroso, anche allora ridevano. In tutto egli li dominava, ed essi diventavano duri di cuore come lui.
Ora avvenne che un giorno passò dal villaggio una povera mendicante. Lacere e cenciose erano le sue vesti, e i piedi sanguinanti per l’ardua via che avevano battuto, e il suo aspetto era in tutto miserabile. Sentendosi sfinita, s’era seduta sotto un castagno a riposare.
Ma quando il Bimbo-Stella la vide, disse ai suoi compagni: «Guardate! C’è un’orrenda mendicante seduta sotto quella bella pianta dalle foglie verdi. Andiamo a cacciarla via, ché è troppo brutta e storpia».
E le si avvicinò, le gettò dei sassi e la schernì, mentre lei lo guardava con occhi terrorizzati senza staccare lo sguardo da lui. E quando il taglialegna, che stava spaccando dei ceppi in un recinto poco distante, vide ciò che il Bimbo-Stella stava facendo, accorse per rimproverarlo, e gli disse: «Sei proprio senza cuore e senza pietà? Che ti ha fatto di male questa povera donna perché tu la tratti così?».
E il Bimbo-Stella si fece rosso di collera, e pestando i piedi per terra ribadì: «Chi sei tu per giudicare ciò che faccio? Non sei mio padre e io non ti devo ubbidienza».
«Tu dici il vero», rispose il taglialegna, «ma quando ti trovai nel bosco ebbi compassione di te.»
Nell’udire queste ultime parole, la donna lanciò un grido acuto, e cadde al suolo priva di sensi. E il taglialegna la portò a casa, e sua moglie si prese cura di lei, e quando rinvenne, le furono offerti cibo e bevande e fu esortata a farsi coraggio.
Ma la donna non volle né mangiare né bere, e domandò al taglialegna: «Davvero quel bambino, come hai detto, è stato trovato nel bosco? È forse accaduto dieci anni fa?».
E il taglialegna rispose: «Sì, è stato nel bosco che l’ho trovato, e fanno esattamente oggi dieci anni».
«E che segni gli hai trovato indosso?», chiese di nuovo lei. «Non aveva al collo una collana d’ambra? Non era avvolto da un mantello di tessuto d’oro ricamato a stelle?»
«Infatti», rispose il taglialegna. «È proprio come tu dici.» E andò a prendere mantello e collana dalla cassapanca in cui erano stati riposti, e glieli mostrò.
E al vederli la donna scoppiò in lacrime, tanta fu la sua gioia. «Quello è il mio bambino, che ho perduto nella foresta. Ti prego, chiamalo, perché ho vagato per tutto il mondo in cerca di lui.»
Allora il taglialegna e sua moglie uscirono e chiamarono il Bimbo-Stella, e gli dissero: «Entra in casa, e lì troverai tua madre, che ti sta aspettando».
Ed egli corse all’interno, raggiante di gioia e di meraviglia. Ma quando vide chi era la donna seduta ad aspettarlo, si mise a ridere sprezzante e disse: «Ebbene, dov’è mia madre? Non vedo nessuno qui fuorché questa miserabile mendicante».
E la donna gli disse: «Sono io la tua mamma».
«Tu devi essere pazza», gridò pieno d’ira il Bimbo-Stella. «Io non sono tuo figlio, perché tu sei una mendicante, orribile e cenciosa. Vattene di qui, che non ti veda mai più.»
«Oh sì, tu sei proprio il mio bambino, il figlio cui diedi la luce nel bosco», esclamò lei, cadendo in ginocchio e tendendogli le mani. «I briganti ti rapirono, e ti lasciarono lì a morire, ma io ti ho riconosciuto appena ti ho visto, e ho riconosciuto il mantello dorato e la collana d’ambra. Perciò ti prego, vieni con me, perché ho vagato per tutto il mondo in cerca di te. Vieni con me, figlio mio, perché ho bisogno del tuo amore.»
Ma il Bimbo-Stella non si mosse, e tenne ben chiuse le porte del suo cuore, e non altro suono si udiva fuorché il singhiozzare della donna che piangeva disperata.
E alla fine le parlò, e la sua voce era dura e amara: «Se davvero sei mia madre, avresti fatto meglio a restartene lontana, e a non venire qui per farmi vergognare, visto che io ero convinto d’essere il figlio di una Stella, e non il figlio di una pezzente, come mi dici che sono. Perciò vattene di qui, che io non ti veda mai più».
«Ahimè, figlio mio!», implorò lei. «Mi darai almeno un bacio prima che me ne vada? Ho sofferto tanto per poterti ritrovare!»
«No», rispose il Bimbo-Stella, «sei troppo orribile, preferirei baciare una biscia, o un rospo, piuttosto che te.»
Così la donna se ne andò, e s’inoltrò nella foresta gemendo amaramente, e il Bimbo-Stella nel vederla andarsene esultò, e fece ritorno fra i suoi compagni per continuare a giocare con loro.
Ma essi lo schernirono, e gli dissero: «Sei orribile come il rospo, e ripugnante come la biscia. Vattene via, non ti vogliamo a giocare con noi», e lo scacciarono fuori dal giardino.
E il Bimbo-Stella si accigliò e si disse: «Che mi stanno dicendo? Ora andrò alla fonte, a specchiarmi nell’acqua, ed essa mi rivelerà la mia bellezza».
Così andò alla fonte, e vi si specchiò e – oh! – orribile era il suo viso come il muso di un rospo, e tutto squamoso il suo corpo come quello di una vipera. Ed egli si gettò sull’erba e pianse, e si disse: «Sicuramente questo mi accade per il mio peccato. Perché ho rinnegato mia madre, e l’ho cacciata via, e sono stato crudele e superbo, e non ho avuto pietà di lei. Perciò me ne andrò e la cercherò per tutto il mondo, e non avrò pace finché non l’avrò ritrovata».
E la piccola figlia del taglialegna gli si accostò, e gli mise la mano sulla spalla e gli disse: «Che cosa importa se hai perduto la tua bellezza? Resta con noi, e io non ti disprezzerò».
Ed egli le rispose: «No, sono stato crudele con mia madre, e questa sciagura è la punizione che mi sono meritato. Perciò me ne andrò via di qua, e vagherò per il mondo finché la ritroverò e otterrò il suo perdono».
Così corse via nella foresta, e chiamò a gran voce sua madre perché venisse da lui, ma non ricevette alcuna risposta. Tutto il giorno la chiamò, e al tramonto del sole si distese su un giaciglio di foglie, e gli uccelli e gli animali fuggirono via da lui, perché ricordavano la sua crudeltà, ed egli rimase solo col rospo che lo fissava e la biscia che gli strisciava lenta al fianco.
E al mattino s’alzò, e colse dalle piante delle bacche acidule e le mangiò, poi riprese il cammino per il bosco immenso, gemendo amaramente. E a tutti quelli che incontrava chiedeva se avessero visto sua madre.
Chiese alla Talpa: «Tu puoi andare sotto terra. Dimmi, la mia mamma è laggiù?».
E la Talpa rispose: «Tu mi hai trafitto gli occhi e mi hai resa cieca. Come potrei saperlo?».
Chiese al Fanello: «Tu puoi volare sulle cime degli alti alberi, e vedere il mondo intero. Dimmi, non vedi dov’è la mia mamma?».
E il Fanello rispose: «Tu mi hai tarpato le ali per tuo divertimento. Come potrei volare?».
E al piccolo Scoiattolo che viveva sull’abete tutto solo, chiese ancora: «Dov’è la mia mamma?».
E lo Scoiattolo rispose: «Tu mi hai ucciso la mia. Vuoi forse uccidere anche la tua?».
E il Bimbo-Stella pianse e chinò la testa, e pregò le creature di Dio che lo perdonassero, e riprese il cammino per la foresta, in cerca della mendicante. E il terzo giorno giunse all’altra parte della foresta e scese verso la pianura.
E quando passava per i villaggi i ragazzi lo deridevano, e gli scagliavano pietre, e i fattori non lo lasciavano nemmeno dormire nei granai per timore che contaminasse il grano, tanto orribile era a vedersi, e i servi lo cacciavano via, e non c’era nessuno che avesse pietà di lui. E in nessun luogo riusciva ad avere notizie della mendicante che era sua madre, sebbene vagasse per il mondo per tre anni di seguito, e spesso avesse l’impressione di vederla per via, e la chiamasse, rincorrendola a volte finché i sassi non gli facevano sanguinare i piedi. Ma non riusciva mai a trovarla, e gli abitanti di ogni villaggio negavano d’averla mai vista, o d’aver visto qualcuno che le assomigliasse, e si facevano beffe del suo dolore.
Per tre anni di seguito egli vagò per il mondo, e nel mondo non c’era né amore, né tenerezza, né carità per lui, ma era né più né meno il mondo che egli si era forgiato negli anni della sua grande superbia.
E una sera il Bimbo-Stella giunse alle porte di una città dalle mura massicce, che sorgeva nei pressi di un fiume, e, benché sfinito e coi piedi piagati, vi si diresse per entrarvi. Ma le sentinelle spianarono le loro alabarde attraverso l’ingresso, domandandogli in tono aspro: «Che vieni a fare in questa città?».
«Cerco mia madre», rispose lui, «e vi prego di lasciarmi entrare, perché può darsi che si trovi in questa città.»
Ma essi si fecero beffe di lui, e uno di loro scosse la gran barba nera e posò a terra lo scudo esclamando: «Quando tua madre ti vedrà, non avrà certo di che rallegrarsi, poiché sei più brutto del rospo dello stagno, e della biscia della palude. Vattene! Tua madre non abita in questa città».
E un altro, che teneva in mano uno stendardo giallo, gli domandò: «Chi è tua madre, e perché la stai cercando?».
Ed egli rispose: «Mia madre è una mendicante come me, e io sono stato crudele con lei, e vi prego di lasciarmi entrare perché io possa ottenere il suo perdono, se per caso fosse in questa città».
Ma le sentinelle non vollero lasciarlo passare, e lo respinsero con le lance tese. E mentre egli se ne andava piangendo, ecco un uomo dall’armatura cesellata a fiori d’oro, sul cui elmo era dipinto un leone alato, che avanzò e chiese alle sentinelle chi era colui che voleva entrare. «È un mendicante, figlio di una mendicante», gli fu risposto, «e lo abbiamo cacciato via.»
«Ma no», esclamò il nuovo venuto, ridendo, «vendiamo quel sudicio essere come schiavo, e ce lo compreranno al prezzo di un boccale di vin dolce.»
E un vecchio dalla faccia malevola, che passava di lì, lo chiamò e gli disse: «Lo compro io a questo prezzo», e, pagata appunto quella somma, prese per mano il Bimbo-Stella e lo condusse in città.
E dopo aver camminato per molte strade giunsero a una piccola porta intagliata in un muro sormontato da un albero di melograno. E il vecchio toccò la porta con un anello di diaspro e quella si aprì, e scesero per cinque gradini d’ottone finché giunsero in un giardino folto di papaveri neri e di giare verdi d’argilla bruciata. E il vecchio si tolse dal turbante una sciarpa di seta variegata, e con questa bendò gli occhi del Bimbo-Stella, e lo spinse innanzi. E quando la sciarpa gli fu tolta dagli occhi, il Bimbo-Stella si trovò in una cella sotteranea, illuminata da una lanterna di corno.
E il vecchio gli mise dinnanzi una crosta di pane ammuffito su di un tagliere e disse: «Mangia», e un po’ d’acqua salmastra in una ciotola e disse: «Bevi», e quando il Bimbo-Stella ebbe mangiato e bevuto, uscì, chiudendo a chiave l’uscio dietro di sé e assicurandolo con una spranga di ferro.
E l’indomani il vecchio, che in verità era il più astuto dei maghi di Libia e aveva appreso la sua arte da un uomo che dimorava presso le bocche del Nilo, si ripresentò al piccolo prigioniero e gli disse: «In un bosco non lontano dalle porte di questa città dei Giauri ci sono tre monete d’oro. Una è d’oro bianco, un’altra d’oro giallo, e l’oro della terza è rosso. Oggi tu devi portarmi la moneta d’oro bianco, e se non me la porterai ti darò cento staffilate. Vattene via in fretta, ti aspetto al tramonto alla porta del giardino. Bada di portare con te l’oro bianco, altrimenti la pagherai cara, giacché sei il mio schiavo, e ti ho comprato al prezzo di un boccale di vin dolce». E gli bendò gli occhi con la sciarpa di seta dipinta, e lo guidò oltre la casa e il giardino di papaveri su per i cinque gradini d’ottone. E dopo aver aperto con l’anello la piccola porta, gli tolse la sciarpa e lo spinse sulla strada.
E il Bimbo-Stella uscì dalle porte della città, e giunse al bosco di cui il Mago gli aveva parlato.
Era questo bosco molto bello a vedersi, da fuori, e sembrava pieno di uccelli canori e di fiori profumati, e il Bimbo-Stella vi entrò con animo lieto. Ma quella bellezza gli giovò ben poco, perché dovunque andasse spuntavano dal suolo aspri rovi e spine a intralciargli il passo, e perfide ortiche lo pungevano, e il cardo coi suoi aculei lo trafiggeva, sicché era in preda al più penoso sgomento. Né riusciva a trovare in alcun luogo la moneta d’oro bianco di cui il Mago gli aveva parlato, benché la cercasse dal mattino a mezzogiorno e da mezzogiorno al tramonto. E al tramonto fece ritorno a casa gemendo amaramente, poiché sapeva quale sorte lo attendeva.
Ma giunto al margine del bosco, udì il grido di qualcuno in pena dal folto di una macchia. E dimenticandosi del proprio dolore, corse verso quel punto, e vide una piccola Lepre presa in una trappola preparatale da un qualche cacciatore.
E il Bimbo-Stella ebbe pietà di lei, e la liberò, dicendole: «Anch’io non sono che uno schiavo, ma posso dare a te la libertà».
E la Lepre gli rispose: «Tu mi hai dato la libertà, io che posso darti in cambio?».
E il Bimbo-Stella le disse: «Sto cercando una moneta d’oro bianco, e non la trovo in alcun luogo, e se non la porto a casa al mio padrone, mi picchierà».
«Seguimi», disse la Lepre, «io so dov’è nascosta quella moneta, e so anche a che scopo.»
Così il Bimbo-Stella seguì la Lepre, e vide la moneta che cercava nel cavo di un’enorme quercia. E si rallegrò molto, e la chiuse nel palmo della mano, e disse alla Lepre: «Il beneficio che mi rechi è cento volte più prezioso di quello che ti ho recato io, e la cortesia che ti ho usata me la ripaghi mille volte».
«Non è vero», rispose la Lepre, «mi sono comportata con te come tu ti sei comportato con me», e corse via in fretta, e il Bimbo-Stella si diresse verso la città.
Alle porte della città stava seduto un lebbroso. Il suo viso era coperto da un cappuccio di tela grigia, e gli occhi brillavano come carboni ardenti attraverso due fori. E quando egli vide avvicinarsi il Bimbo-Stella, batté su una ciotola di legno, e fece tintinnare il suo campanello, e lo chiamò dicendogli: «Dammi una moneta, o morirò di fame. Mi han cacciato fuori dalla città, e non c’è nessuno che abbia pietà di me».
«Ahinoi!», gemette il Bimbo-Stella. «Non ho che una moneta nella mia bisaccia, e se non la porto al mio padrone, mi picchierà, perché sono il suo schiavo.»
Ma il lebbroso lo supplicò nuovamente, e il Bimbo-Stella ebbe pietà, e gli diede la moneta d’oro bianco.
E quando giunse alla casa del Mago, questi gli aprì, lo fece entrare, e gli chiese: «Hai la moneta d’oro bianco?».
E il Bimbo-Stella rispose: «No, non l’ho».
E il Mago si avventò su di lui, e lo picchiò, e gli mise dinnanzi un tagliere vuoto, e gli disse: «Mangia», e una ciotola vuota, e gli disse: «Bevi», e lo rinchiuse nella cella sotterranea.
E l’indomani il Mago si ripresentò a lui, e disse: «Se oggi non mi porterai la moneta d’oro giallo, non ti libererò dalla tua prigionia e ti darò duecento staffilate».
Così il Bimbo-Stella andò al bosco, e tutto il giorno cercò la moneta d’oro giallo, ma non riuscì a trovarla in alcun luogo. E al tramonto si lasciò cadere al suolo e si mise a piangere, e mentre piangeva gli si avvicinò la piccola Lepre che aveva liberato dalla trappola.
E la Lepre gli disse: «Perché piangi? Che stai cercando nel bosco?».
E il Bimbo-Stella rispose: «Cerco una moneta d’oro giallo che sta nascosta qui, e se non la trovo il mio padrone mi picchierà e non mi libererà mai più».
«Seguimi», gridò la Lepre, e corse via nel bosco finché giunse a uno stagno. E in fondo allo stagno giaceva la moneta d’oro giallo.
«Come potrò mai ringraziarti?», disse il Bimbo-Stella. «È già la seconda volta che mi aiuti.»
«Sì, ma tu hai avuto pietà di me per primo», rispose la Lepre, e corse via in fretta.
E il Bimbo-Stella prese la moneta d’oro giallo, e se la mise nella bisaccia, e si affrettò verso la città. Ma il lebbroso, quando lo vide giungere, gli si fece incontro, e si inginocchiò gridando: «Dammi una moneta, o morirò di fame».
E il Bimbo-Stella gli disse: «Non ho che una moneta nella mia bisaccia, e se non la porto al mio padrone, mi picchierà, perché sono il suo schiavo».
Ma il lebbroso lo implorò nuovamente, e il Bimbo-Stella ebbe pietà, e gli diede la moneta d’oro giallo.
E quando giunse alla casa del Mago, questi gli aprì, lo fece entrare, e gli chiese: «Hai la moneta d’oro giallo?».
E il Bimbo-Stella rispose: «No, non l’ho».
E il Mago si avventò su di lui, e lo picchiò e lo avvinse in catene, e lo rinchiuse nella cella sotterranea.
E l’indomani il Mago si ripresentò a lui, e disse: «Se oggi mi porterai la moneta d’oro rosso, ti libererò, ma se non me lo porterai sta’ certo che ti toglierò la vita».
Così il Bimbo-Stella andò al bosco, e tutto il giorno cercò la moneta d’oro rosso, ma non riuscì a trovarla in alcun luogo. E al tramonto si lasciò cadere al suolo, e si mise a piangere, e mentre piangeva gli si avvicinò la piccola Lepre.
E la Lepre gli disse: «La moneta d’oro rosso che cerchi è nella caverna alle tue spalle. Perciò non disperarti e anzi rallegrati».
«Come potrò mai ricompensarti?», disse il Bimbo-Stella. «È la terza volta che mi aiuti.»
«Sì, ma tu hai avuto pietà di me per primo», rispose la Lepre, e corse via in fretta.
E il Bimbo-Stella entrò nella caverna, e nell’angolo più nascosto trovò la moneta d’oro rosso. Se la mise nella bisaccia, e si affrettò verso la città. E il lebbroso, quando lo vide giungere, si piantò nel mezzo della strada e gli gridò:
«Dammi la moneta d’oro rosso, altrimenti morirò», e il Bimbo-Stella ebbe ancora una volta pietà di lui, e gli diede la moneta d’oro rosso, dicendo: «La tua miseria è più grande della mia». Ma il suo cuore era greve d’afflizione, poiché sapeva quale sorte l’attendeva.
Ma – incredibile! – al suo passaggio attraverso le porte della città, le sentinelle si inchinarono in atto di obbedienza, dicendo: «Com’è bello il nostro signore!».
E una moltitudine di cittadini lo seguì, gridando: «Certo non può esserci nessuno più bello in tutto il mondo!».
E il Bimbo-Stella piangeva, e si diceva: «Si fanno beffe di me, e deridono la mia infelicità».
E tanto fitta era la folla che perse la strada, e si trovò alfine in una grande piazza in cui sorgeva il palazzo di un Re.
E la porta del palazzo si aprì, e i sacerdoti e gli alti ministri della città gli corsero incontro e si prostrarono dinnanzi a lui, e dissero: «Tu sei il nostro signore, colui che attendevamo, il figlio del nostro Re».
E il Bimbo-Stella rispose loro: «Non sono il figlio di un re, ma il figlio di una povera mendicante. E come fate a dire che sono bello, se so benissimo di avere un aspetto orribile?».
E l’uomo con l’armatura cesellata a fiori d’oro, sul cui elmo era dipinto un leone alato, gli mise dinnanzi uno scudo, e gridò: «Come può dire il mio signore di non essere bello?».
E il Bimbo-Stella guardò e – oh! – il suo viso era quello di un tempo, la sua bellezza era tornata a lui, ed egli vide nei suoi occhi ciò che prima non c’era.
E i sacerdoti e i ministri si inginocchiarono e gli dissero: «Una profezia antica di molti anni affermava che oggi sarebbe arrivato colui che doveva regnare su di noi. Dunque accetta questa corona e questo scettro, e sii con animo nobile e retto il nostro Re».
Ma egli disse loro: «Non ne sono degno, perché ho rinnegato la madre che mi ha dato la vita, e non potrò aver pace finché non l’avrò trovata e non avrò ottenuto il suo perdono. Quindi lasciatemi andare, perché devo vagare ancora per il mondo e non posso indugiare qui, benché voi mi offriate scettro e corona». E mentre così parlava volse indietro il viso, verso la strada che conduceva alle porte della città, e – oh! – tra la folla che si accalcava intorno alle sentinelle vide la mendicante che era sua madre, e al suo fianco il lebbroso che soleva sedere sul margine della via.
E un grido di gioia proruppe dalle labbra del Bimbo-Stella, ed egli corse verso di loro, e inginocchiatosi baciò le piaghe sui piedi di sua madre, e le bagnò di lacrime. Chinò il capo giù nella polvere, e singhiozzando come uno a cui stia per spezzarsi il cuore, le disse: «Mamma, ti ho rinnegato nell’ora della mia superbia. Accettami nell’ora della mia umiltà. Mamma, ti ho dato odio. Tu dammi amore. Mamma, ti ho respinta. Ora tu accogli tuo figlio».
Ma la mendicante non gli rispose nemmeno una parola.
Egli tese allora le mani, e afferrò il piede bianco del lebbroso, e disse: «Tre volte ti ho fatto la carità. Prega tu mia madre di parlarmi almeno una volta». Ma il lebbroso non gli rispose nemmeno una parola.
Di nuovo singhiozzante, egli disse: «Mamma, il mio dolore è più grande di quanto posso sopportare. Concedimi il tuo perdono, e lasciami ritornare nella foresta». E la mendicante gli posò la mano sul capo, e gli disse: «Alzati».
E il lebbroso gli pose la mano sul capo, e gli disse: «Alzati».
Ed egli si alzò, e li guardò e – oh! – erano un Re e una Regina.
E la Regina gli disse: «Questo è tuo padre, di cui hai avuto pietà».
E il Re gli disse: «Questa è tua madre, i cui piedi hai lavato con le tue lacrime».
Ed essi gli gettarono le braccia al collo e lo baciarono, e lo condussero al palazzo, e lo vestirono di un abito bellissimo, e gli posero la corona sul capo, e lo scettro nella mano, ed egli governò sulla città che sorgeva in riva al fiume, e fu il suo signore. Molta giustizia e pietà mostrò per tutti, e bandì in esilio il perfido Mago, e al taglialegna e a sua moglie mandò ricchi doni in gran quantità, e ai loro figli conferì alte cariche. E non permetteva che alcuno si comportasse in modo crudele con gli uccelli e le altre bestie, ma insegnava l’amore e l’affetto e la carità, e ai poveri dava pane, e ai bisognosi dava vestiti, e nel paese regnavano la pace e l’abbondanza.
Ma egli non regnò a lungo: tanto grande era stata la sua pena, e tanto amaro il fuoco della sua esperienza, che in capo a tre anni morì. E quello che regnò dopo di lui fu un re malvagio.