GILBERT: Sì, il pubblico è incredibilmente tollerante. Riesce a perdonare tutto tranne il genio. Ma devo confessare che a me piacciono tutte le memorie. Mi piace la forma e allo stesso modo il loro contenuto. In letteratura il puro egoismo è gradevolissimo. È questo che ci affascina nelle lettere di personaggi tanto diversi come Cicerone e Balzac, Flaubert e Berlioz, Byron e Madame de Sévigné. Ogni volta che ci imbattiamo in esse, e, abbastanza stranamente, è piuttosto raro, non possiamo fare a meno di dar loro il benvenuto e non possiamo scordarle con facilità. Il genere umano amerà per sempre Rousseau per aver confessato i suoi peccati non a un prete, ma al mondo; le ninfe coricate che Cellini modellò in bronzo per il castello di re Francesco, e persino il verde Perseo che, nella loggia de’ Lanzi a Firenze, mostra alla luna il grande terrore che trasformò, un giorno, la vita in pietra, non ci hanno donato più soddisfazione della autobiografia in cui quel furfante del Rinascimento riferisce la storia dei suoi splendori e della sua vergogna. Le opinioni, il carattere, i successi dell’uomo contano molto poco. Egli può essere scettico come il gentile Sieur de la Montaigne, o un santo come il penoso figlio di Monica, ma quando ci svela i suoi segreti riesce sempre a rendere attente le nostre orecchie, e mute le nostre labbra. Il modo di pensare descritto dal Cardinale Newman – se si può così definire un metodo che cerca di risolvere i problemi intellettuali negando la supremazia dell’intelletto – non può, io credo, sopravvivere. Ma il mondo non si stancherà mai di osservare il cammino di quell’anima in pena da un’oscurità all’altra. La solitaria chiesa di Littlemore, dove «è umido il respiro del mattino e i fedeli pochi», gli sarà sempre cara; ogniqualvolta gli uomini vedono le bocche di leone fiorire sul muro del Trinity, penseranno a quello studente benigno che vedeva nel periodico risbocciare dei fiori la profezia che sarebbe stato per sempre obbediente alla Benevola Madre dei suoi giorni – una profezia che la Fede, nella sua saggezza o la sua follia, non soffrì per vedere realizzata. Sì, l’autobiografia è irresistibile. Il povero, sciocco e vanesio Segretario Pepys che, a forza di chiacchiere, si era fatto strada nella cerchia degli immortali, consapevole che l’indiscrezione è la miglior parte del valore, tra di loro si dimena in quella sua «ruvida vestaglia color porpora dai bottoni dorati e il pizzo intrecciato» che gli piace tanto descriverci, perfettamente a suo agio, e farneticare, con infinito piacere suo e nostro, della gonna indiana blu che aveva comprato a sua moglie, delle buone «frattaglie di maiale» e la «gustosa fricassea di vitello alla francese» che gli piaceva mangiare, delle partite a bocce con Will Joyce, e il suo «gironzolare dietro alle belle ragazze», di quando recitava Amleto la domenica, di quando suonava la viola i giorni feriali, e altre cose triviali e tremende. Persino nella vita reale l’egotismo presenta alcune attrattive. Quando la gente ci parla di altre persone, in genere risulta noiosa. Quando parla di se stessa quasi sempre è interessante; se si potesse farla smettere di parlare quando diventa noiosa, così facilmente come si chiude un libro di cui ci si è stancati, sarebbe assolutamente perfetta.

ERNEST: C’è molta virtù in quel Se, come avrebbe detto Touchstone. Ma davvero proponi che ognuno di noi diventi il proprio Boswell? Cosa succederebbe dei nostri laboriosi compilatori di Vite e Memorie in quel caso?

GILBERT: Cosa è accaduto di loro? Sono i parassiti dell’epoca, niente di più, niente di meno. Oggigiorno tutti i grandi uomini hanno dei discepoli, ed è sempre Giuda che scrive la biografia.

ERNEST: Caro amico!

GILBERT: Temo che sia vero. In passato eravamo soliti canonizzare i nostri eroi, mentre il metodo moderno è quello di volgarizzarli. Le edizioni a buon mercato dei grandi libri sono apprezzabilissime, ma le versioni a buon mercato dei grandi uomini sono assolutamente detestabili.

ERNEST: Posso chiederti a chi stai alludendo?

GILBERT: Be’, a tutti i letterati di second’ordine. Siamo invasi da una serie di persone che, quando un poeta o un pittore passa a miglior vita, arrivano a casa sua contemporaneamente al becchino, e dimenticano che il loro dovere è solo quello di rimanere muti. Ma di loro non parleremo. Sono solo dissotterratori di cadaveri della letteratura. La polvere è affidata a qualcuno,le ceneri a qualcun altro, ma l’anima non la possono afferrare. E adesso lascia che ti suoni Chopin o Dvořák, sì, suonerò una fantasia di Dvořák; scrive pezzi appassionati e curiosamente variopinti.

ERNEST: No, adesso non mi va la musica. È troppo indefinita. E poi ieri sera ho portato a cena la Baronessa Bernstein e, sebbene sia una persona squisita, ha insistito perché si parlasse di musica come se davvero fosse scritta in tedesco. Ci sono forme di patriottismo che trovo assolutamente degradanti. No, Gilbert, non suonare più. Voltati e parla con me. Parlami fin quando la stanza non sarà inondata dal giorno dalle candide corna. La tua voce ha qualcosa di meraviglioso.

GILBERT (alzandosi dal pianoforte): Non sono nello spirito di parlare stasera. Perché sorridi? Davvero non ne ho voglia. Dove sono le sigarette? Grazie. Come sono belli questi narcisi! Sembrano fatti di ambra e freddo avorio. Sono come le opere greche del periodo migliore. Qual era la storia delleconfessioni dell’Accademico pentito che ti aveva fatto ridere? Raccontamela. Dopo aver suonato Chopin, mi sento come se avessi pianto per peccati che non ho mai commesso e mi fossi lamentato di tragedie che non mi appartengono. La musica mi fa sempre quest’effetto. Crea un passato di cui non si è a conoscenza, e instilla in noi un senso di dolore che avevamo nascosto alle lacrime. Mi posso immaginare un uomo che ha condotto una vita normalissima ascoltare per caso un brano particolare e scoprire improvvisamente che la sua anima, incoscientemente, ha passato terribili esperienze, ha conosciuto gioie temibili, o travolgenti amori romantici, o grandi rinunce. Allora, raccontami quella storia, Ernest. Voglio divertirmi.

ERNEST: Be’, non so se abbia qualche importanza, ma credo che si tratti di una descrizione ammirevole del vero valore della normale critica letteraria. Succede che un giorno una signora chiese seriamente all’Accademico pentito, come lo chiami tu, se il suo celebre dipinto Giornata di primavera a Whitely o Aspettando l’ultimo omnibus, o qualche altro soggetto del genere, erano tutti dipinti a mano.

GILBERT: Lo erano?

ERNEST: Sei davvero incorreggibile. Ma, parlando seriamente, qual è la funzione della critica d’arte? Perché non si può lasciare libero l’artista di creare un mondo nuovo, se vuole, o al contrario, ombreggiare il mondo che già conosciamo, del quale, suppongo saremmo tutti stanchi se l’arte, col suo fine spirito di scelta e il delicato istinto di selezione, non lo rendesse, diciamo, più puro, e gli regalasse una momentanea perfezione. Trovo che l’immaginazione diffonda, dovrebbe diffondere, solitudine intorno a sé, e lavori meglio nel silenzio e nell’isolamento. Perché l’artista deve essere disturbato dall’acuto clamore della critica? Perché dovrebbero coloro che non riescono a creare, appropriarsi del diritto di dare un valore al lavoro creativo? Cosa possono saperne? Se l’opera di un uomo è facile da capire, non c’è bisogno di spiegazioni...

GILBERT: E se l’opera non è comprensibile la spiegazione è perversa.

ERNEST: Non ho detto questo.

GILBERT: Ma avresti dovuto. Oggigiorno ci restano così pochi misteri che non possiamo permetterci di perderne neanche uno. I membri della Browning Society, come i teologi del Broad Church Party, o gli autori della Serie dei Grandi Scrittori di Walter Scott, mi sembra che trascorrano il loro tempo a sciupare la loro divinità cercando di spiegarla. Dove si era sperato che Browning fosse un mistico, loro hanno cercato di dimostrare che era semplicemente poco chiaro. Dove si era immaginato che avesse qualcosa da celare, essi hanno provato che c’era ben poco da rivelare. Ma sto parlando solo del suo lavoro più incoerente. Preso nell’insieme è stato un grande. Non apparteneva agli Olimpi, e aveva tutte le mancanze di Titano. Non esaminava e raramente riusciva a cantare. La sua opera è guastata dalla lotta, la violenza e lo sforzo, egli passava non dall’emozione alla forma, ma dal pensiero al caos. Eppure era grande. È stato definito un pensatore, e certamente era un uomo che pensava continuamente, e pensava sempre ad alta voce; ma non era il pensiero che lo affascinava, piuttosto il processo che il pensare scatena. Lui amava la macchina non quello che la macchina produce. Il processo attraverso il quale il pazzo arriva alla sua follia lo interessava quanto la massima saggezza del saggio. Il sottile meccanismo della mente lo affascinava a tal punto che egli disprezzava il linguaggio, o al massimo lo considerava come un incompleto strumento di espressione. La rima, quell’eco squisita che risponde alla voce che essa stessa crea nelle vuote colline della Musa, la rima, che nelle mani del vero artista diviene non solo un elemento materiale della bellezza metrica, ma anche un elemento spirituale di pensiero e passione, risvegliando un nuovo stato d’animo, forse, o muovendo un vigoroso treno di idee, o aprendo, con la sola dolcezza e ispirazione di suono, le dorate porte alle quali l’immaginazione stessa aveva bussato invano; la rima che può trasformare le parole di un uomo in discorso divino; la rima, la sola corda che abbiamo aggiunto alla lira greca, divenne nelle mani di Robert Browning qualcosa di grottesco e casuale, qualcosa che a volte lo faceva mascherare da infimo commediante, e troppo spesso lo faceva cavalcare Pegaso prendendosi gioco degli altri. Ci sono momenti in cui ci ferisce con la sua musica mostruosa. Anzi, se solo rompendo le corde del liuto riesce a ottenere una musica, egli le rompe, ed esse saltano in modo stonato. Ma nessuna cicala, che suona melodie con le ali tremule, si posa sul corno eburneo per rendere il movimento perfetto, o l’intervallo meno sgradevole. Tuttavia, fu un grande: e sebbene abbia ridotto la lingua a ignobile creta, da quella creta generò uomini e donne che avevano vita. È la creatura più shakespeariana, dopo Shakespeare. Se Shakespeare poteva cantare con miriadi di labbra, Browning riusciva a tartagliare con mille bocche. Persino adesso, mentre sto parlando, e non contro di lui ma a suo favore, si sente scorrere per la stanza lo sfarzoso corteo dei suoi personaggi. Ecco là avanza lento Fra’ Lippo Lippi con le guance ancora accese del caldo bacio di qualche fanciulla. Là invece sta in piedi il temibile Saul con gli splendidi zaffiri che rilucono sul turbante. C’è Mildred Tresham, e il monaco spagnolo, giallo di odio, e anche Blougram, e Ben Ezra, e il vescovo di Santa Prassede. La progenie di Setebos farfuglia là nell’angolo e Sebald, udendo passare Pippa, guarda il volto sofferente di Ottima, la detesta, detesta se stesso e i suoi stessi peccati. Pallido come la bianca seta del suo farsetto, il malinconico re osserva con occhi traditori e sognanti il troppo leale Strafford che viene condotto al patibolo; Andrea rabbrividisce udendo i cugini fischiare nel giardino, e ordina alla sua perfetta moglie di scendere. Sì, Browning fu un grande. E come verrà ricordato? Come poeta? Ah, non come poeta! Verrà ricordato come scrittore di romanzi, il più eccelso scrittore di romanzi di fantasia, forse, che abbiamo mai avuto. Il suo senso della situazione drammatica non aveva rivali, e se non riusciva a risolvere i suoi problemi, poteva almeno esporli, e che cosa dovrebbe fare di più un artista? Se lo consideriamo come creatore di personaggi, egli si può mettere allo stesso livello di colui che ha inventato Amleto. Se avesse saputo esprimersi, avrebbe potuto sedere proprio al suo fianco. L’unico che può esser degno di toccare l’orlo del suo abito è George Meredith. Meredith è un Browning in prosa, e così è Browning. Utilizzava la poesia come strumento per scrivere prosa.

ERNEST: C’è qualcosa di giusto in ciò che dici, ma non in tutto ciò che dici. Sei ingiusto su molti punti.

GILBERT: È difficile non essere ingiusti verso ciò che si ama. Ma torniamo al punto. Che cosa è che dicevi?

ERNEST: Semplicemente questo: che nei migliori giorni dell’arte non c’erano critici d’arte.

GILBERT: Mi sembra di aver già sentito questa osservazione, Ernest. Ha tutta la vivacità dell’errore e tutta la noia di un vecchio amico.

ERNEST: È vero. Sì, non c’è bisogno che tu scuota la testa con quel fare petulante. È assolutamente vero. Ai tempi in cui l’arte era al suo meglio non esistevano i critici. Lo scultore liberava dal blocco di marmo il grande Hermete dalle bianche membra che vi dormiva dentro. I lucidatori e i doratori d’immagini davano tono e consistenza alla statua, e il mondo, al vederla, l’adorava ammutolito. Versava il bronzo incandescente nel calco di terra, e il fiume di metallo rosso si freddava nelle nobili curve prendendo la forma del corpo di un dio. Con smalto e gemme lucide donava la vista a occhi senza luce. I riccioli come giacinti divenivano crespi sotto le mani del cesellatore. E quando, in qualche oscuro recesso affrescato, o in mezzo al portico assolato cinto di colonne, stava sul piedistallo il figlio di Leto, coloro che passavano, διά λαμπροτάτου βαὶνοντες ἀβρῶς αἰθέρος4, prendevano coscienza di un nuovo influsso che investiva le loro vite. Sognanti, con un senso di strana e vivace gioia, tornavano a casa o al lavoro quotidiano, o vagavano, forse, oltre le porte della città verso prati abitati dalle ninfe, dove il giovane Fedro si bagnava i piedi, e, stesi sulla morbida erba, sotto i platani che il vento fa mormorare e dove fiorisce l’agnus castus, cominciavano a pensare alle meraviglie della bellezza e per rispetto desueto stavano silenziosi. A quei tempi l’artista era libero. Dalla valle del fiume raccoglieva la fine argilla con le mani, e con un piccolo strumento, fatto d’osso o di legno, la modellava in forme così belle che venivano donate ai morti perché con esse giocassero. Le possiamo ancora trovare nelle polverose tombe sulle aride colline vicino a Tanagra, e ancora l’oro pallido e il debole cremisi indugiano intorno ai capelli, alle labbra e alle vesti. Sul muro di calce fresca, macchiato di minio solo o mescolato a latte e zafferano, l’artista ritraeva qualcuno che camminava con passo stanco sui campi purpurei stellati di bianchi asfodeli, qualcuno «le cui palpebre nascondono tutta la guerra di Troia», Polissena, la figlia di Priamo. Oppure raffigurava Odisseo, il saggio e l’astuto, che, legato con strette corde all’albero maestro, poteva ascoltare senza pericolo il canto delle sirene, o vagare lungo il chiaro Acheronte, dove gli spettri dei pesci guizzano sul letto sassoso. O mostrava i Persiani in calzoni e mitra che fuggivano dinanzi ai Greci a Maratona, o le galee che infrangono lo sperone d’ottone nella piccola baia di Salamina. Con punte d’argento e carbone disegnava su pergamene o tavole di cedro. Dipingeva l’avorio e la rosea terracotta con la cera, dopo averla resa fluida con succo d’oliva e fissandola con ferri scaldati. Pannelli, marmi e tele diventavano magnifici al passaggio del suo pennello; e la vita, vedendo la sua stessa immagine, rimaneva immobile e non osava parlare. Tutta la vita, in realtà, era sua, dai venditori seduti al mercato, al pastore intabarrato steso sulla collina; dalla ninfa nascosta fra gli allori e il fauno che suona il flauto a mezzodì, al re che gli schiavi portano sulle spalle lucide d’olio nella lunga lettiga dalle verdi tende, rinfrescato da ventagli di piume di pavone. Uomini e donne, con sui volti la gioia o il dolore, gli passavano davanti. Lui li osservava e i loro segreti divenivano suoi. Attraverso la forma e il colore, egli ricreava un mondo. Anche tutte le arti minori gli appartenevano. Teneva la gemma sul disco rotante e l’ametista si trasformava nel purpureo giaciglio di Adone e sull’onice venato correvano Artemide e i suoi cani. Battendo l’oro forgiava rose e le univa in collane o bracciali. Batteva l’oro e faceva corone per l’elmo del conquistatore, o palme per la veste tiria, o maschere per i cadaveri dei re. Sul retro dello specchio d’argento incideva Teti portata dalle sue Nereidi, o Fedra sofferente d’amore con la sua nutrice, o Persefone, stanca di ricordi, che si orna le chiome coi papaveri. Il vasaio sedeva nella sua capanna e sotto le sue mani sbocciava il vaso come un fiore dal silenzioso tornio. Ne decorava la base, il collo e i manici con disegni di delicate foglie d’olivo o di acanto o a ondeggianti motivi a curve e creste. Poi dipingeva in rosso e nero giovani lottatori o corridori: cavalieri in armatura con strani scudi araldici e curiose visiere, che dalle carrozze a forma di conchiglia si sporgevano sui rampanti destrieri; gli dèi seduti a convito o che facevano miracoli; gli eroi vincitori o sconfitti. Talvolta incideva, con sottili linee vermiglie sulla bianca base, una coppia di languidi sposi, con Eros che gli svolazza intorno – un Eros come gli angeli di Donatello, una cosetta ridente dalle ali azzurrine o dorate. Sul lato incurvato era solito apporre il nome del suo amico. ΚΑΛΟΣ ΑΛΚΙΒΙΑΔΗΣ [Nobile Alcibiade] o ΚΑΛΟΣ ΧΑΡΜΙΔΗΣ [Nobile Carmide] ci raccontano la storia dei suoi giorni. Di nuovo, sul bordo dell’ampia coppa piatta, soleva disegnare il cervo al pascolo, o il leone che riposa, secondo il volere della sua fantasia. Dalla minuscola bottiglia di profumo Afrodite rideva al bagno, e con le Menadi svestite al suo seguito, Dioniso danzava nell’otre del vino con i piedi nudi tinti di mosto, mentre come un satiro, il vecchio Sileno si adagiava sulle pelli gonfiate, o agitava la magica lancia con in cima una pina intagliata, e ornata di una corona di scura edera. E nessuno disturbava l’artista al lavoro. Nessuna chiacchiera irresponsabile lo infastidiva. Non gli importava delle opinioni. Sull’Ilisso, dice Arnold da qualche parte, non c’era nessun Higginbotham. Sull’Ilisso, mio caro Gilbert, non esistevano sciocchi congressi d’arte che diffondono provincialismo in provincia e insegnano alla mediocrità il modo per trovar voce. Sull’Ilisso non c’erano riviste d’arte, su cui gli ingegnosi blaterano di cose che non capiscono. Sulle rive folte di canne del ruscello non si pavoneggia nessun ridicolo giornalismo monopolizzando il posto del giudice, quando dovrebbe chiedere clemenza sul banco degli imputati. I Greci non avevano critici d’arte.

GILBERT: Ernest, sei davvero divertente, ma le tue opinioni sono terribilmente fallaci. Temo che tu abbia ascoltato la conversazione di qualcuno più anziano di te. Questa è una cosa sempre pericolosa, e se la lascerai degenerare in abitudine troverai che è assolutamente fatale a qualsiasi sviluppo intellettuale. Per ciò che concerne il giornalismo moderno, non è mio compito difenderlo. Esso giustifica la propria esistenza seguendo il grande principio darwiniano della sopravvivenza del più volgare. Io ho a che fare solo con la letteratura.

ERNEST: Ma qual è la differenza fra letteratura e giornalismo?

GILBERT: Oh! Il giornalismo è illeggibile, e la letteratura non la legge nessuno. È tutto qui. Ma riguardo alla tua affermazione che i Greci non avevano critici d’arte, ti assicuro che è totalmente assurda. Sarebbe più giusto dire che i Greci erano una nazione di critici d’arte.

ERNEST: Davvero?

GILBERT: Sì, una nazione di critici d’arte. Ma non voglio distruggere quel quadro deliziosamente irreale che hai fatto circa la relazione dell’artista ellenico e lo spirito intellettuale della sua epoca. Rendere una descrizione accurata di ciò che non è mai accaduto non solo è occupazione propria dello storico, ma è privilegio inalienabile di ogni uomo di parte e di cultura. Comunque non è mio desiderio parlar colto. La conversazione colta o è un’affettazione dell’ignorante o è la professione del disoccupato mentale. Per quanto riguarda la cosiddetta conversazione educativa, essa è soltanto lo sciocco metodo attraverso il quale un ancor più sciocco filantropo tenta debolmente di disarmare il giusto rancore delle classi criminali. No, lascia che io ti suoni qualche brano follemente scarlatto di Dvořák. Le pallide figure dell’arazzo ci stanno sorridendo e le pesanti palpebre del mio bronzeo Narciso sono chiuse nel sonno. Non facciamo discussioni solenni. Sono anche troppo cosciente del fatto che siamo nati in un’epoca in cui solo gli ottusi sono presi sul serio, e vivo nel terrore di non esser compreso. Non farmi cadere nella posizione di colui che ti fornisce informazioni utili. L’istruzione è cosa rimarchevole, ma è bene ricordare, di tanto in tanto, che niente che valga la pena sapere può essere insegnato. Tra le tende semiaperte della finestra vedo la luna come un pezzo d’argento intagliato. Le stelle le stanno d’intorno a grappoli come api dorate. Il cielo è uno zaffiro duro e concavo. Usciamo nella notte. Il pensare è meraviglioso, ma l’avventura lo è ancor di più. Chissà, potremmo incontrare il principe Florizel di Boemia e udire la bella cubana raccontarci che lei non è ciò che sembra...

ERNEST: Sei orribilmente caparbio. Insisto perché tu discuta questi argomenti con me. Hai detto che i Greci furono una nazione di critici d’arte. Che critica d’arte ci hanno lasciato?

GILBERT: Caro Ernest, anche se non ci fosse giunto un solo frammento di critica d’arte dei tempi ellenici o ellenistici, sarebbe nondimeno vero che i Greci furono una nazione di critici d’arte, e che essi hanno inventato la critica d’arte proprio come hanno inventato la critica di qualsiasi altra cosa. Perché, dopo tutto, qual è il debito più grande che abbiamo verso i Greci? Semplicemente lo spirito critico. E tale spirito, che essi esercitavano su questioni di religione o di scienza, di estetica o metafisica, di politica e di cultura, l’esercitavano anche su questioni d’arte e, in realtà, delle due arti più alte e supreme ci hanno lasciato il sistema più perfetto di critica che il mondo abbia mai visto.

ERNEST: Ma quali sono queste arti più alte e supreme?

GILBERT: La vita e la Letteratura, la vita e l’espressione più perfetta della vita. I princìpi della prima, come stilati dai Greci, forse non possiamo realizzarli in un’epoca così rovinata dai falsi ideali come la nostra. I princìpi della seconda, come loro li hanno stesi, sono in molti casi così sottili che a stento riusciamo a capirli. Riconoscendo che l’arte più perfetta è quella che più pienamente rispecchia l’uomo nelle sue infinite varietà, essi elaborarono una critica del linguaggio, considerato sotto l’aspetto del semplice materiale d’arte, a un punto tale che noi, col nostro sistema metrico di accenti razionali o emotivi, appena riusciamo, se vi riusciamo, a raggiungere; studiando, per esempio, i movimenti metrici nel modo scientifico in cui un musicista moderno studia l’armonia e il contrappunto, e, non occorre dire, con istinto estetico assai più acuto. Su questo avevano ragione, come avevano ragione su tutto. Da quando è stata inventata la stampa, e, con essa, il fatale svilupparsi della consuetudine di leggere fra le classi medie e basse, in letteratura si è avuta la tendenza a privilegiare sempre di più la vista, e sempre di meno l’udito, che è in realtà il senso che, dal punto di vista della pura arte, dovremmo cercare di soddisfare, e ai cui canoni di gradevolezza dovremmo sempre obbedire. Persino l’opera di Pater, che è, in generale, il più perfetto maestro di prosa inglese attualmente fra noi, risulta spesso molto più simile a un mosaico che a un brano musicale, e qua e là pare che manchi di una vera vitalità ritmica nelle parole, di quella bella libertà e ricchezza d’effetto che la vitalità ritmica crea. In effetti, abbiamo reso lo scrivere un metodo di composizione definito, e l’abbiamo considerato come una forma di elaborato design. D’altra parte, i Greci ritenevano lo scrivere un semplice metodo di registrazione di fatti. La loro prova era costituita dalla parola orale, con le sue relazioni musicali e metriche. La voce era il mezzo e l’orecchio era il suo critico. A volte penso che la storia della cecità di Omero possa esser davvero un mito artistico, inventato in giorni di crisi, per rammentarci non solo che il poeta è sempre un veggente, vedendo meno con gli occhi fisici e maggiormente con gli occhi dell’anima, ma che è anche un vero cantore che costruisce il suo canto con la musica, ripetendo fra sé ogni verso finché non coglie il segreto della melodia, e modula nell’oscurità parole alate di luce. Certamente, che sia stato così o meno, la sua cecità è stata l’occasione se non la causa alla quale il grande poeta inglese deve molto del movimento maestoso e dello splendore sonoro dei suoi ultimi versi. Quando Milton non fu più in grado di scrivere, iniziò a cantare. Chi potrebbe comparare i versi di Comus con quelli di Samson Agonistes, o di Pradise Regained? Dopo esser diventato cieco, Milton compose, come tutti dovrebbero, esclusivamente con la voce, così il flauto o la zampogna dei primi versi conquistarono la potenza di un organo dalle molte canne, la cui ricca ed echeggiante musica possiede tutta la maestosità del verso omerico, se non cerca la sua sveltezza, rimanendo imperituro retaggio della letteratura inglese attraverso i secoli, poiché si eleva sopra di essi, e si impone su di noi costantemente, con la sua forma immortale. Sì, la scrittura ha danneggiato molto gli scrittori. Dobbiamo tornare alla voce. Su questo dobbiamo metterci alla prova, e forse così riusciremo ad apprezzare alcune delle sottigliezze della critica d’arte greca.

Come stanno le cose attualmente, non possiamo farlo. A volte, dopo aver scritto un brano di prosa ed esser stato abbastanza modesto da considerarlo assolutamente privo di imperfezioni, mi coglie il terribile dubbio di essermi macchiato della colpa di effeminatezza immorale per aver usato piedi trocaici o tribrachici, delitto per il quale un edotto critico dell’età augustea censura con grande severità il brillante, sebbene un po’ paradossale, Egesia. Mi si gela il sangue nelle vene quando ci penso, e mi chiedo se l’ammirevole effetto etico della prosa di quell’affascinante scrittore, che, una volta, con spirito di incauta generosità verso la parte meno istruita della nostra comunità ha proclamato la mostruosa dottrina che la condotta è tre quarti della vita, non sarà un giorno completamente azzerato dalla scoperta che i «piedi» erano stati messi nel posto sbagliato.

ERNEST: Ah, adesso sei irriverente.

GILBERT: E chi non lo sarebbe quando gli si racconta seriamente che i Greci non avevano critici d’arte? Posso capire quando si dice che il genio costruttivo dei Greci si perse nella critica, ma non che il popolo al quale siamo debitori del nostro spirito critico, non criticasse. Spero non mi chiederai di farti un’esposizione della critica d’arte greca da Platone a Plotino. È una serata troppo bella per rovinarla così, e la luna ad ascoltarci si coprirebbe il volto di cenere più di quanto già non l’abbia. Ma, pensa solo a una semplice piccola opera di critica estetica, la Poetica di Aristotele. Non è perfetta nella forma, perché non ben scritta, fatta forse con appunti buttati giù per una conferenza sull’arte, o con frammenti isolati destinati a un libro più complesso, ma riguardo al carattere e alla trattazione è assolutamente perfetta. Il risultato etico dell’arte, la sua importanza per la cultura e il suo posto nella formazione del carattere, tutto questo è stato fatto in maniera definitiva da Platone. Ma in questo caso abbiamo l’arte considerata non dal punto di vista morale, ma puramente estetico. Platone, naturalmente, si era occupato di molti argomenti decisamente relativi all’arte, come l’importanza dell’unità nell’opera d’arte, la necessità del tono e l’armonia, il valore estetico della forma, la relazione delle arti visuali col mondo esterno, e la relazione della finzione con i fatti. Egli per primo, forse, ha risvegliato nell’animo umano il desiderio non ancora soddisfatto di conoscere il nesso esistente fra Bellezza e Verità, e il ruolo della Bellezza nell’ordine intellettuale e morale del cosmo. I problemi dell’idealismo e del realismo, così come li enunciò, a qualcuno possono sembrare poveri di risultati nella sfera metafisica dell’essere astratto in cui egli li pone, ma trasferiscili alla sfera dell’arte e vedrai che sono ancora vitali e pieni di significato. Forse è come critico della bellezza che Platone è destinato a sopravvivere e, alterando il nome della sfera delle sue speculazioni, troveremo una nuova filosofia. Ma Aristotele, come Goethe, si occupa soprattutto delle manifestazioni concrete dell’arte. Per esempio, egli prende la Tragedia e fa ricerche sul materiale che essa utilizza, che è il linguaggio, sul suo soggetto, che è la vita, sul metodo di funzionamento, che è l’azione, sulle condizioni che la portano a manifestarsi, che sono quelle della presentazione teatrale, sulla sua struttura logica, che è la trama, sulla attrattiva estetica finale, che è il senso della bellezza analizzato attraverso le passioni della pietà e del rispetto. Quella purificazione e spiritualizzazione della natura che egli chiama κάΘαρσις è, come notò Goethe, essenzialmente estetica, e non morale, come si immaginava Lessing. Preoccupato principalmente dell’impressione che l’opera d’arte produce, Aristotele si mette ad analizzare tale impressione, a investigare le sue fonti, come si è generata. Come fisiologo e psicologo egli sa che la salute di una funzione dipende dall’energia. Aver la capacità di passione e non realizzarla significa essere incompleti e limitati. Lo spettacolo mimico della vita che la tragedia offre libera il petto da molta «materia perigliosa» e, presentando oggetti superiori e degni su cui esercitare le emozioni, essa purifica e spiritualizza l’uomo; anzi, non soltanto lo spiritualizza, ma lo inizia a nobili sentimenti di cui altrimenti non avrebbe saputo niente. La parola κάΘαρσις, infatti, mi è sembrata a volte un’allusione precisa al rito dell’iniziazione, sebbene possa non esserlo, come a volte sono tentato di immaginare, ma certamente questo è il suo significato qui. Questo, naturalmente, è solo il libro a grandi linee. Ma vedi che perfetto esempio di critica estetica sia. Chi altri, se non un greco, avrebbe potuto analizzare tanto bene l’arte? Dopo averlo letto, non ci si meraviglia più del fatto che Alessandria si sia dedicata tanto ampiamente alla critica d’arte, e che lo spirito artistico del tempo si manifesti ogniqualvolta si faccia l’analisi di una qualsiasi forma di stile e maniera, si mettano in discussione le grandi scuole accademiche di pittura come, ad esempio, la scuola di Sicione, che cercava di conservare le dignitose tradizioni del vecchio genere, oppure le scuole impressionista e realistica il cui scopo era quello di riprodurre la vita reale, o gli elementi di idealismo nella ritrattistica, o il valore artistico della forma epica in un’età così moderna come la loro, o gli argomenti più adatti per l’artista. In realtà temo che le persone dal temperamento non artistico di quel tempo fossero troppo indaffarate anche su questioni di letteratura e d’arte, poiché le accuse di plagio erano moltissime e scaturivano sia dalle incolori labbra dell’impotenza, o dalle bocche grottesche di coloro che, non possedendo niente di proprio, immaginavano di potersi guadagnare una reputazione di ricchezza gridando che erano stati derubati. E ti assicuro, mio caro Ernest, che i Greci chiacchieravano di pittori quanto facciamo noi adesso, avevano i loro personali punti di vista, le loro mostre personali, le confederazioni di Arti e Mestieri, i movimenti Pre-Raffaelliti, i movimenti verso il realismo, tenevano conferenze sull’arte, scrivevano saggi sull’arte, producevano i loro storici, i loro archeologi e così via. Addirittura, gli impresari teatrali delle compagnie itineranti portavano con sé i loro critici durante i viaggi, e pagavano loro fior di stipendi perché scrivessero note di lode. Qualunque cosa, infatti, sia moderna ai nostri tempi, essa la dobbiamo ai Greci, tutto ciò che è anacronismo è invece dovuto al Medioevo. Sono i Greci che ci hanno fornito l’intero apparato critico, quanto acuto fosse il loro istinto si può notare dal fatto che quello di cui si occuparono con maggior attenzione fu, come ho già detto, il linguaggio. Poiché la materia prima usata dal pittore e dallo scultore è ben poca cosa se confrontata con le parole. Le parole non solo producono musica dolce come quella del liuto o della viola, e possiedono colori ricchi come quelli che ci fanno ammirare le tele dei veneziani o degli spagnoli, forme plastiche non meno sicure e certe di quelle che si svelano nel marmo o nel bronzo, ma in esse, e solo in esse, troviamo anche pensiero e passione. Anche se i Greci avessero preso a soggetto della loro critica solo il linguaggio, sarebbero stati comunque i più grandi critici del mondo. Conoscere i princìpi dell’arte più elevata significa conoscere i princìpi di tutte le arti.

Ma vedo che la luna si sta nascondendo dietro a quella nuvola dal color di zolfo. Riluce come l’occhio di un leone da dietro una bruna criniera o da una cortina. Essa teme che io ti parli anche di Luciano e di Longino, di Quintiliano e Dionisio, di Plinio Fronto e Pausania, di tutti coloro che, nel mondo antico, hanno scritto o disquisito su argomenti d’arte. Non deve temere. Sono stanco di perlustrare gli oscuri e ottusi abissi dei fatti. Ormai per me non c’è nient’altro che il divino μονόχρονος ἠδονή [indivisibile piacere] di un’altra sigaretta. Le sigarette, almeno, hanno il pregio di lasciarci insoddisfatti.

ERNEST: Prova una delle mie. Sono piuttosto buone, le faccio arrivare direttamente dal Cairo. L’unica utilità dei nostri «attachés» è che procurano agli amici del tabacco eccellente. E dal momento che la luna si è nascosta, conversiamo ancora un po’. Sono decisamente pronto ad ammettere che ciò che ho detto riguardo ai Greci era sbagliato. Erano, come hai rilevato, una nazione di critici d’arte. Lo riconosco, e mi dispiace un po’ per loro, poiché la facoltà creativa è più elevata di quella critica. Fra le due non c’è davvero confronto.

GILBERT: L’antitesi che c’è fra di esse è del tutto arbitraria. Senza la facoltà critica non esiste nessuna creazione artistica degna di questo nome. Poco fa stavi parlando del bello spirito di scelta e del delicato istinto di selezione attraverso i quali l’artista realizza per noi la vita e le conferisce una momentanea perfezione. Ebbene, quello spirito di scelta, quel sottile riguardo per l’omissione, è in realtà la facoltà critica in una delle sue espressioni più caratteristiche, e chi non la possiede non può crear nulla in arte. La definizione di Arnold della letteratura come critica della vita non è forse troppo felice nella forma, ma dimostra quale sia l’importanza che egli attribuisce all’elemento critico in ogni opera creativa.

ERNEST: Avrei detto che i grandi artisti lavorano inconsapevolmente, che fossero «più saggi di quanto sapessero di essere», come, credo, Emerson abbia detto da qualche parte.

GILBERT: Non è esattamente così Ernest. Ogni opera della fantasia è consapevole di se stessa e ben determinata. Nessun poeta verseggia perché deve. Almeno nessun grande poeta. Un grande poeta fa poesia perché sceglie di farlo. È così adesso e lo è sempre stato. A volte siamo portati a pensare che le voci che echeggiavano all’alba della poesia erano più semplici, più spontanee e più naturali delle nostre e che i poeti di allora guardavano e camminavano attraverso un mondo che possedeva in sé qualità poetiche, ed esse senza modificazioni potevano passare direttamente nei loro versi. Adesso l’Olimpo è coperto da una spessa coltre di neve, e i suoi ripidi fianchi sono spogli e brulli, ma un tempo, possiamo supporre, il candido piede delle Muse spazzava via la rugiada dagli anemoni al mattino, e a sera arrivava Apollo e cantava ai pastori della valle. Ma dicendo questo non facciamo che prestare ad altri tempi ciò che noi desideriamo, o pensiamo di desiderare, per il nostro. Il senso storico ci fa difetto. Ogni secolo che produce poesia è, fino a qui, un secolo artificiale e l’opera che ci sembra il prodotto più semplice e naturale del suo tempo è invece sempre il risultato del più grande impegno consapevole. Credimi, Ernest, non c’è bella arte senza consapevolezza, e consapevolezza e spirito critico sono tutt’uno.

ERNEST: Capisco quel che intendi dire, e in gran parte hai ragione. Ma ammetteresti con sicurezza che i grandi versi del mondo antico, le composizioni collettive, anonime e primitive, erano il risultato dell’immaginazione di quei popoli, piuttosto che dell’immaginazione degli individui?

GILBERT: Non quando quei versi divennero poesia. Non quando vennero modellati in forme bellissime. Ché non c’è arte dove non c’è stile, e non c’è stile dove manca unità e l’unità è propria dell’individuo. Non v’è dubbio che Omero avesse a sua disposizione vecchie storie e ballate, così come Shakespeare aveva cronache, commedie e racconti su cui lavorare, ma non si trattava che di materiale grezzo. Lui li ha presi e li ha modellati in canzoni. Essi sono divenuti suoi perché lui li ha resi belli; furono composti di musica,

 

E così non componete affatto

E perciò componete per sempre

 

Quanto più si studi la vita e la letteratura, tanto più intensa si fa la sensazione che dietro ogni bellezza sta l’individuo, che non è il momento che fa l’uomo, ma è l’uomo che fa i secoli. In verità sono incline a pensare che tutti i miti e le leggende scaturite, sembra, dallo stupore o il terrore o l’immaginazione di una tribù o di una nazione, sono originariamente l’invenzione di una singola mente. Il fatto che i miti siano così stranamente limitati di numero mi sembra che avalli la mia ipotesi. Ma non voglio addentrarmi in questioni di mitologia comparata. Dobbiamo attenerci alla critica. Ed ecco quello che voglio sottolineare: un’epoca in cui non esiste critica, o è un’epoca la cui arte è immobile, ieratica e limitata alla riproduzione formale dei generi, oppure è un’epoca in cui non c’è arte. Ci sono state epoche di crisi che non erano creative, nel senso più comune del termine, età in cui lo spirito dell’uomo ha cercato di mettere ordine fra i tesori del suo scrigno, di separare l’oro dall’argento, l’argento dal piombo, di contare i gioielli, e di dare nomi alle perle. Ma non c’è mai stata un’epoca creativa che non sia stata anche critica. Poiché è la facoltà di criticare che inventa nuove forme. La tendenza della creazione è quella di ripetersi. È allo spirito critico che dobbiamo il fiorire di nuove scuole, dei nuovi modelli che l’arte si trova a portata di mano. In realtà non c’è una sola forma, che l’arte utilizza adesso, che non derivi dallo spirito critico di Alessandria, dove tali forme furono inventate, stereotipate o rese perfette. Dico Alessandria non solo perché è là che lo spirito dei Greci acquistò maggior consapevolezza, per poi ridursi a scetticismo e teologia, ma perché fu quella città, e non Atene, che Roma prese a modello, e fu attraverso la sopravvivenza, comunque fosse, della lingua latina, che la cultura riuscì a vivere. Quando, nel Rinascimento, la letteratura greca fece la sua comparsa in Europa, il terreno era stato in qualche misura preparato. Ma, per sbarazzarci dei dettagli della storia, che sono sempre noiosi e di solito poco accurati, diciamo, in generale, che le forme dell’arte sono dovute allo spirito critico dei Greci; a esso noi dobbiamo l’epica, la lirica, tutto il dramma nei suoi vari sviluppi, comprendendo il burlesco, l’idillio, il romanzo romantico, quello di avventura, la saggistica, il dialogo, l’orazione, la conferenza, per la quale forse non dovremmo perdonarli, e l’epigramma nell’accezione più vasta della parola. In effetti dobbiamo loro tutto fuorché il sonetto, anche se alcuni curiosi paralleli di movimento di pensiero si possono rintracciare nell’Antologia: il giornalismo americano, col quale non è possibile rintracciare il benché minimo parallelo, e la ballata in dialetto scozzese simulato, che recentemente uno dei nostri scrittori più industriosi ha proposto come base di uno sforzo finale e unanime da parte dei nostri poeti di second’ordine perché diventino davvero romantici. Sembra che ogni nuova scuola gridi a gran voce contro la critica, ma allo stesso modo è alla facoltà critica dell’uomo che essa deve la sua origine. Il mero istinto creativo non porta innovazioni, riproduce soltanto.

ERNEST: Hai parlato della critica come di una parte essenziale dello spirito creativo, e adesso accetto pienamente la tua teoria. Ma cosa mi dici della critica al di fuori della creazione? Io ho la sciocca abitudine di leggere periodici e mi pare che la critica moderna sia perfettamente priva di valore.

GILBERT: È così anche per il lavoro più creativo. Mediocrità che bilancia altra mediocrità, incompetenza che plaude altra incompetenza – questo è lo spettacolo che ci offre l’attività artistica inglese di tanto in tanto. Eppure sento di essere un po’ ingiusto su questi argomenti. Generalmente i critici – e sto parlando del rango più elevato di quelli, in effetti, che scrivono per giornali da tre soldi – sono molto più colti di quelli su cui devono esprimere dei giudizi. Questo è, veramente, quello che dovremmo aspettarci, dal momento che la critica richiede moltissima cultura se paragonata alla creazione.

GILBERT: Davvero?

ERNEST: Certamente. Chiunque può scrivere un romanzo di tre volumi. Richiede semplicemente l’ignoranza completa sia della vita che della letteratura. La difficoltà che io immagino trovi il critico è la difficoltà di sostenere qualsiasi modello. Dove non c’è stile deve essere impossibile anche il confronto. I poveri recensori sembrano quasi i redattori del commissariato della letteratura, i cronisti delle gesta dei criminali abituali dell’arte. A volte si dice che non leggano completamente tutte le opere che sono chiamati a giudicare. Ed è così. O almeno dovrebbero non leggerle. Se lo facessero diventerebbero incalliti misantropi o, se mi permetti di prendere a prestito una frase da uno dei graziosi diplomati di Newnham, incalliti misogini per il resto della loro vita. Né è necessario. Per conoscere la qualità di un vino non è necessario berne un’intera botte. È sufficiente una mezz’ora per dire se un libro vale qualcosa o no. In realtà bastano dieci minuti se si possiede l’istinto per la forma. Chi ha voglia di leggere laboriosamente un intero volume uggioso? Lo si assaggia, e ciò è sufficiente, più che sufficiente, potrei immaginare. Sono cosciente del fatto che ci sono molti onesti lavoratori, nella pittura come nella letteratura, che si oppongono totalmente alla critica. Essi hanno perfettamente ragione. La loro opera non ha nessuna relazione intellettuale con l’epoca in cui vivono. Non ci comunica nessun elemento di piacere. Non suggerisce nessun nuovo punto di partenza del pensiero, di passione o di bellezza. Non se ne dovrebbe parlare. Dovremmo lasciarla all’oblio che merita.

ERNEST: Ma, caro amico – scusa se ti interrompo – credo che tu permetta alla tua passione per la critica di portarti un po’ troppo lontano. Infatti, dopo tutto, anche tu devi ammettere che è molto più difficile fare una cosa che parlarne.

GILBERT: Più difficile fare una cosa che parlarne? No davvero. Questo è un grossolano errore popolare. È molto più difficile parlare di una cosa che farla. Nell’ambito della vita reale ciò risulta naturalmente ovvio. Chiunque può fare la storia. Solo un grande uomo può scriverla. Non esiste un modello per l’azione, né per l’emozione che non condividiamo con gli animali della più bassa specie. È solo il linguaggio che ci rende superiori a loro, o rende un essere umano superiore a un altro – il linguaggio, che è padre e non figlio del pensiero. Al confronto l’azione è sempre semplice, e quando ci è presentata nella forma più grave, perché più continua, ed è questa, ritengo, la vera industriosità, diventa semplicemente il rifugio di quelli che non hanno niente da fare. No, Ernest, non parlare di azione. È qualcosa di cieco che dipende da influenze esterne ed è mossa da un impulso la cui natura è inconsapevole. È qualcosa di incompleto nella sua essenza, visto che è limitata dal caso, non conosce la sua direzione, variando costantemente il suo scopo. Ha come base una mancanza di immaginazione. È l’ultima risorsa di chi non sa sognare.

ERNEST: Gilbert, tratti il mondo come fosse una sfera di cristallo. La tieni in mano e la giri per compiacere la tua caparbia fantasia. Non fai altro che riscrivere la storia.

GILBERT: L’unico dovere che abbiamo nei confronti della storia è quello di riscriverla. E non è l’ultimo dei compiti che lo spirito critico ha in serbo. Quando scopriremo tutte le leggi scientifiche che governano la vita, ci renderemo conto che colui che ha più illusioni del sognatore è l’uomo d’azione. Egli, infatti, non sa nulla né sulle origini né sui risultati delle sue azioni. Nel campo dove pensava di aver seminato rovi, noi facciamo la nostra vendemmia e il fico che aveva piantato per nostro piacere è secco come un cardo, e più amaro. L’Umanità non ha mai saputo dove stesse andando, è per questo che non è riuscita a trovare la sua strada.

ERNEST: Tu pensi, quindi, che nel campo dell’azione lo scopo consapevole è una delusione?

GILBERT: È peggio di una delusione. Se vivessimo abbastanza per vedere i risultati delle nostre azioni forse coloro che si ritengono buoni soffrirebbero di un cupo rimorso, e coloro che il mondo ritiene cattivi sarebbero stimolati da una nobile gioia. Ogni piccola cosa che noi facciamo passa nella grande macchina della vita che può ridurre le nostre virtù in polvere e privarle di ogni valore, oppure trasformare i nostri peccati in elementi di una nuova civiltà, più grande e più meravigliosa di qualsiasi altra vissuta in passato. Ma gli uomini sono gli schiavi delle parole. Si infuriano contro il materialismo, così lo chiamano, dimenticando che non c’è stato nessun miglioramento materiale che non abbia spiritualizzato il mondo, e ci sono stati pochissimi, seppure ce ne sono stati, risvegli spirituali che non abbiano ridotto le capacità del mondo a vane speranze, aspirazioni infruttuose o vuoti e insidiosi credi. Ciò che si chiama Peccato è un elemento essenziale del progresso. Senza di esso il mondo stagnerebbe, o invecchierebbe o perderebbe il suo colore. Grazie alla sua curiosità, il peccato incrementa l’esperienza della razza. Con la sua intensa asserzione dell’individualismo, ci salva dal monopolio del tipo. Il suo rifiuto delle comuni nozioni morali lo unisce alla più alta etica. E rispetto alle virtù? Che cosa sono le virtù? La natura, ci dice Renan, non si cura della castità, ed è forse al pudore di Maddalena, e non alla loro purezza che le Lucrezie della vita moderna devono il loro candore. La carità, come sono costretti ad ammettere persino coloro della cui religione è parte formale, crea una serie di mali. La sola esistenza della coscienza, facoltà di cui ci si vanta tanto oggi e di cui si va tanto fieri ignorantemente, è un segno del nostro sviluppo imperfetto. Deve essere unito all’istinto prima di andar bene. L’auto-negazione è semplicemente un metodo mediante il quale l’uomo ferma il suo progresso, l’auto-sacrificio è ciò che resta della mutilazione del selvaggio, parte di quella antica adorazione del dolore che è un fattore tanto terribile nella storia del mondo, che, ancora oggi, miete vittime, giorno dopo giorno, e ha i suoi altari sulla terra. Virtù! Chi sa cosa sono le virtù? Non tu, non io, nessuno. È giusto per la nostra vanità che uccidiamo i criminali, ché se li lasciassimo vivere ci dimostrerebbero cosa noi abbiamo guadagnato dal loro delitto. È per sua pace che il santo va al martirio. Gli viene risparmiata l’orribile visione del raccolto di ciò che ha seminato.

ERNEST: Gilbert, hai toccato una nota troppo acuta. Torniamo al più leggiadro campo della letteratura. Che cosa stavi dicendo? Che è più difficile parlare di una cosa piuttosto che farla?

GILBERT (dopo una pausa): Sì, credo di essermi avventurato su questa semplice verità. Ora sicuramente mi darai ragione? Quando l’uomo agisce è un burattino. Quando fa delle descrizioni è un poeta. Il segreto è tutto lì. Sulle pianure sabbiose della ventosa Ilio era facile scoccare la freccia dall’arco pitturato, o lanciare contro lo scudo di cuoio e fiammeggiante ottone la lunga lancia dall’impugnatura di frassino. Era facile per la regina adultera stendere i tappeti di Tiria davanti al suo signore, e poi, mentre lui giaceva nel vasca di marmo, gettargli in testa la purpurea rete e rivolgersi all’amante dal liscio volto per pugnalarlo tra le maglie al cuore, che avrebbe dovuto spezzarsi ad Aulide. Anche per Antigone, che la Morte attendeva come sposo all’altare, era facile passare nell’aria viziata del meriggio, salire la collina, e cospargere di terra gentile il povero cadavere che non aveva sepoltura. Ma che dire di coloro che scrissero tutto ciò? Di coloro che hanno fornito realtà a queste cose, e le hanno rese immortali? Non sono essi più grandi dei personaggi di cui parlano? «Ettore, quel caro cavaliere è morto», e Luciano racconta come, negli oscuri inferi, Menippo vide il teschio di Elena che sbiancava, e si meravigliava del tetro piacere delle navi rostrate all’attacco, di quei begli uomini in cotta di maglia atterrati, quelle città fortificate ridotte in polvere. Eppure ogni giorno la figlia di Leda, come un cigno, compare sui bastioni e guarda giù la marea della guerra. Gli anziani dalla grigia barba si stupiscono della sua bellezza, ed ella sta al fianco del re. Nella sua camera di avorio giace il suo amante; sta lucidando la bella armatura e pettinando la scarlatta piuma del cimiero. Con paggi e cavalier serventi, il marito di lei passa di tenda in tenda. Può vedergli la capigliatura brillante e ode, o crede di udire, la sua chiara e fredda voce. Giù nel cortile, il figlio di Priamo sta allacciando le fibbie della sua corazza d’ottone. Le bianche braccia di Andromaca gli cingono il collo. Posa a terra l’elmo, per non spaventare il piccolo. Dietro le tende ricamate del suo padiglione, siede Achille, in vesti profumate, mentre in armatura d’oro e d’argento l’amico del suo cuore si prepara per affrontare la battaglia. Da uno scrigno stranamente intagliato che Teti sua madre aveva portato vicino alla sua nave, il signore dei Mirmidoni tira fuori il mistico calice che mai labbra umane hanno toccato, lo pulisce con dello zolfo e lo raffredda con acqua fresca. Dopo essersi lavato le mani ne riempie la cavità brunita di vino scuro e sparge sulla terra il denso sangue dell’uva in onore di Colui che i profeti scalzi hanno adorato a Dodona. Lo prega, e non sa che prega invano, ché per mano di due cavalieri di Troia, il figlio di Pantoo, Euforbo, dagli adorabili ricci intrecciati d’oro, e Patroclo il Priamide cuor di leone, compagno dei compagni, deve affrontare il proprio destino. Sono fantasmi? Eroi di nebbia? Ombre di un canto? No, sono reali. Azione! Cos’è l’azione? Essa muore nel momento in cui muore la sua energia. È una bassa concessione ai fatti. Il mondo è fatto dal cantore per il sognatore.

ERNEST: Mentre parli mi sembra che sia così.

GILBERT: È davvero così. Sulla cittadella di Troia in rovina indugia la lucertola come fatta di verde bronzo. Il gufo ha costruito il nido sul palazzo di Priamo. Sulle vuote pianure vagano il pastore e il capraio con le greggi e dove, sul mare oleoso, del color del vino, οἶνοψ πόντος, come lo chiama Omero, i grandi galeoni dalla prua di rame e i fianchi striati di vermiglio, arrivarono lucenti, a forma di falce di luna, il solitario pescatore di tonni sta nella sua barchetta e osserva i sugheri galleggianti della rete. Eppure ogni mattino le porte della città si spalancano, e a piedi, su carrozze tirate dai cavalli, i guerrieri partono per la battaglia e si prendono gioco dei nemici da dietro la maschere di ferro. Tutto il giorno la battaglia infuria e quando giunge la notte arriva la luce delle torce presso le tende e i lumi ardono nella sala. Coloro che vivono nel marmo o sui pannelli dipinti conoscono della vita soltanto un unico istante squisito, veramente eterno nella sua bellezza, ma limitato a una nota di passione, o a uno stato d’animo di calma. Coloro che prendono vita dal poeta possiedono una miriade di emozioni di gioia e di terrore, di coraggio e disperazione, di piacere e di sofferenza. Le stagioni vanno e vengono, gioiose o tristi processioni, e con passo greve o lieve passano dinanzi a loro. Hanno giovinezza e maturità, sono bambini e poi diventano vecchi. È sempre l’alba per Sant’Elena, come l’ha vista alla finestra Veronese. Per l’aria immobile del mattino gli angeli le portano il simbolo della sofferenza del Signore. Le brezze fresche del mattino le sollevano le bionde trecce dalla fronte. Sulla collinetta presso la città di Firenze, dove riposano gli amanti di Giorgione, è sempre solstizio meridiano, e il meriggio è reso così languido dal sole estivo, che a malapena la fanciulla ignuda riesce a immergere nella vasca di marmo la rotonda bolla di trasparente vetro, e le lunghe dita del suonatore di liuto riposano pigramente sulle corde. È sempre il tramonto per le ninfe danzanti che Corot mandò libere fra gli argentei pioppi di Francia. Nell’eterno tramonto si muovono le loro figure diafane, i cui tremuli bianchi piedi sembrano non toccare l’erba carica di rugiada su cui camminano. Ma coloro che camminano nell’epica, nel dramma o nel romanzo vedono lungo i mesi laboriosi sorgere e tramontare le giovani lune, osservano la notte dalla sera alla stella del mattino, e possono notare lo scorrere del giorno con le sue ombre e il suo oro, dall’alba al tramonto. Per loro, come per noi, i fiori sbocciano e appassiscono, la Terra, la Dea dalle verdi Trecce, come l’ha chiamata Coleridge, cambia d’abito per compiacerli. La statua è concentrata in un momento di perfezione. L’immagine dipinta sulla tela non possiede alcun elemento di crescita o di cambiamento. Se poco conoscono della morte è perché poco conoscono della vita, poiché i segreti della vita e della morte appartengono a coloro, e solo a quelli che sono soggetti alla sequenza del tempo, e che non hanno solo il presente, ma il futuro e possono elevarsi o cadere da un passato di gloria o di vergogna. Il movimento, il problema delle arti visive, si risolve solo nella letteratura. È la letteratura che ci mostra il corpo con la sua velocità e l’anima con la sua inquietudine.

ERNEST: Sì, capisco quel che vuoi dire. Ma di sicuro, più alto è il posto che assegni all’artista, tanto più basso dovrà essere quello del critico.

GILBERT: E perché?

ERNEST: Perché al massimo quel che potrà darci sarà solo l’eco di una grande musica, una indistinta ombra di una forma ben delineata. Può darsi, come tu dici, che la vita sia un caos, che i suoi martirii siano meschini e ignobili, che la funzione della letteratura sia quella di creare, dalla materia prima della esistenza reale, un mondo nuovo che sarà meraviglioso, più duraturo, e più sincero di quello su cui il nostro sguardo comune si posa, e nel quale le nature ordinarie cercano di raggiungere la perfezione. Ma, per certo, se questo nuovo mondo sarà realizzato dallo spirito e il tocco di un grande artista, diventerà qualcosa di così perfetto e completo che ai critici non resterà nulla da fare. Adesso capisco, e prontamente devo ammettere che è molto più difficile parlare di qualcosa che farla. Però trovo che questa massima, giusta e ragionevole, possa applicarsi solo alla relazione che esiste fra Arte e Vita, non a tutte le relazioni che intercorrono fra Arte e Critica.

GILBERT: Ma certo, la Critica è in sé un’arte. Allo stesso modo in cui la creazione artistica implica l’applicazione della facoltà critica, ed effettivamente non si può realizzare se non così, ugualmente la Critica è creativa nel senso più alto del termine. La critica, infatti, è sia creativa che indipendente.

ERNEST: Indipendente?

GILBERT: Sì, indipendente. Allo stesso modo dell’opera del pittore o dello scultore, anche la critica non va giudicata attraverso limitati canoni di imitazione o di somiglianza. Tra il critico e l’opera d’arte presa in esame esiste la stessa relazione che c’è fra l’artista e il mondo visibile della forma e del colore, o il mondo invisibile della passione o del pensiero. Anzi, egli non necessita nemmeno di materie prime eccelse per rendere perfetta la sua arte. Qualsiasi cosa farà al suo caso. Quindi, proprio come fece Flaubert con gli squallidi e meschini innamoramenti della sciocca moglie di un dottorucolo di campagna nel triste paese di Yonville-l’Abbaye, che fu capace di creare un classico, di costruire un capolavoro di stile, così da argomenti di poca o nessuna importanza, come i quadri esposti alla Royal Academy quest’anno, qualsiasi altro anno, dalle poesie di Lewis, dai romanzi di Ohnet, o dalle commedie di Henry Arthur Jones, il vero critico può, se gli fa piacere, indirizzare o sprecare in tal modo le sue facoltà di contemplazione, realizzare un’opera perfetta nella sua bellezza e caratterizzata da finezza intellettuale. Perché no? L’ottusità è sempre stata una tentazione per chi è brillante e la stupidità è sempre la «Bestia Trionfans» che chiama la saggezza e la fa uscire dalla sua tana. Per un artista tanto creativo come è il critico cosa vuoi che importi l’argomento? Né più né meno di quanto esso significhi per il romanziere o il pittore. Come loro egli riesce a trovar spunti dappertutto. La trattazione è la prova. Non c’è niente che in sé non abbia suggerimenti o sfide.

ERNEST: Ma davvero la critica è un’arte creativa?

GILBERT: Perché non dovrebbe esserlo? Opera sui materiali e dà loro una forma che è al tempo stesso nuova e piacevole. Cosa si può dire in più per la poesia? In realtà direi che la critica è una creazione all’interno di una creazione. Come è successo per i grandi artisti, da Omero a Eschilo, fino a Shakespeare e Keats, che non si sono rivolti direttamente alla vita per avere la materia prima delle loro opere, ma l’hanno cercata nei miti, nelle leggende, negli antichi racconti, allo stesso modo il critico si trova a trattare materiale che altri hanno, per così dire, purificato per lui, al quale è già stata data la forma e il colore dell’immaginazione. Anzi, andrei oltre dicendo che la Critica più elevata, essendo la forma più pura di impressione personale, è a suo modo più creativa del lavoro artistico, dal momento che ha un minor numero di riferimenti a modelli esterni a sé; è infatti questa la sua ragione di vita, e, come avrebbero affermato i Greci, per se stessa e in se stessa trova il suo fine ultimo. Per certo non ci sono impedimenti di verosimiglianza che possano ostacolare il suo cammino. Mai nessuna ignobile considerazione di plausibilità, vile concessione alla noiosa ripetizione della vita domestica o pubblica, la toccherà. Dalla finzione ci si può appellare ai fatti, ma per l’anima non c’è appello.

ERNEST: Per l’anima?

GILBERT: Sì per l’anima. Questo è quel che è la critica più elevata, il resoconto di un’anima. È più appassionante della storia poiché si centra solo su se stessa. È più piacevole della filosofia poiché il suo argomento è concreto e non astratto, reale e non vago. È l’unica forma civile di autobiografia, poiché non ha a che fare con accadimenti, ma con i pensieri; non con gli incidenti fisici dei fatti o delle circostanze della vita, ma con gli stati d’animo spirituali e le passioni immaginative della mente. Mi diverte sempre molto la sciocca vanità di quegli scrittori e artisti di oggigiorno che sembrano credere che la funzione primaria del critico sia quella di sparlare delle loro opere di second’ordine. La miglior cosa che si può dire del lavoro creativo d’arte moderno è che è un poco meno volgare che la realtà, perciò il critico, col suo fine senso di distinzione e il sicuro istinto di delicata raffinatezza, preferisce posare lo sguardo su uno specchio argenteo o sul velo intessuto, e i suoi occhi eviteranno invece il caos e il chiasso della vera esistenza, nonostante lo specchio possa essere imperfetto e il velo strappato. Il suo unico scopo è quello di registrare le sue proprie impressioni. È per lui che si dipingono quadri, si scrivono libri, e si scolpisce il marmo.

ERNEST: Mi sembra di aver sentito un’altra teoria della critica.

GILBERT: Sì, l’ha già detto qualcuno la cui memoria tutti onoriamo; la musica del suo flauto ha un tempo sedotto Proserpina dai suoi campi di Sicilia, ha fatto muovere i bianchi piedi, e non invano, sulle primule di Cumnor: il fine ultimo della critica è quello di vedere un oggetto come in realtà esso è. Ma questo è un errore molto grave, e non prende in considerazione la forma più perfetta della critica, che è nella sua essenza puramente soggettiva, e cerca di rivelare i propri segreti e non il segreto di altri. Infatti la critica si occupa dell’arte non come espressione, ma puramente come impressione.

ERNEST: Ma è davvero così?

GILBERT: Naturalmente. A chi importa se le opinioni di Ruskin su Turner sono giuste o no? Ha qualche importanza? La sua prosa maestosa e potente, così fervida e dal color del fuoco nella nobile eloquenza, così ricca nell’elaborata sinfonia della musica, così sicura e certa, nei migliori momenti, nel sottile scegliere le parole e gli epiteti, è, in quanto opera d’arte, almeno altrettanto grande dei magnifici tramonti che sbiadiscono e ammuffiscono sulle tele rovinate della Galleria d’Inghilterra; in realtà ancor più grande di quest’ultime, si è portati a volte a pensare, non solo perché a parità di bellezza, essa è più duratura, ma alla piena varietà delle sue attrattive, l’anima parla all’anima in quei versi cadenzati, non solo attraverso la forma e il colore, anche se completamente e senza alcuna perdita per loro tramite, con passione superiore e superiore intelletto, con intuito immaginativo e aspirazione poetica; è più grande, penso sempre, nonostante la Letteratura sia la più grande delle arti. Di nuovo, che importa se Pater ha aggiunto al ritratto di Monna Lisa qualcosa che Leonardo non sognò mai? Il pittore può esser stato semplicemente schiavo di un arcaico sorriso, come molti hanno supposto, ma ogniqualvolta mi trovo nelle fredde gallerie del Palazzo del Louvre e rimango in piedi dinanzi alla grande figura «immobile nel suo marmoreo incarnato circondata di pietre fantastiche, come in una debole luce sottomarina», mormoro fra me e me: «È più antica delle rocce che la circondano; come un vampiro essa è morta molte volte, e ha imparato i segreti della tomba; si è tuffata nel mare profondo e conserva intorno a sé i suoi giorni caduti; ha trafficato per strane tele con i mercanti dell’Est; come Leda, è stata la madre di Elena di Troia, come Sant’Anna, la madre di Maria. Tutto questo per lei non fu che un suono di lira e di flauto, essa vive nella delicatezza con cui i suoi mutevoli lineamenti furono modellati, e con cui furono colorate le palpebre e le mani». E dico al mio amico: «La presenza che tanto stranamente sorge presso le acque è espressione di ciò che, nel corso di migliaia di anni, l’uomo è arrivato a desiderare»; ed egli mi risponde: «Suo è il capo dove si posano “tutti gli intenti del mondo” e le palpebre sono un po’ stanche».

Così il quadro ci appare più bello di quanto sia in realtà, ci svela segreti dei quali, in realtà, non sa niente, e la musica di quella prosa mistica suona dolce alle nostre orecchie come quella del suonatore di liuto che regalò alle labbra della Gioconda quelle curve sottili e velenose. Mi domandi come avrebbe risposto Leonardo se qualcuno gli avesse detto del suo dipinto che «tutti i pensieri e l’esperienza del mondo ci hanno inciso e scolpito, col potere che avevano di rifinire e rendere espressiva la forma esteriore, l’animalismo della Grecia, la lussuria di Roma, i sogni del Medioevo e la sua ambizione spirituale e gli amori immaginari, il ritorno al mondo pagano e i peccati dei Borgia»? Egli probabilmente avrebbe risposto che non aveva pensato a nessuna di queste cose, ma si era preoccupato semplicemente di accomodare certe linee e volumi, di sperimentare una nuova e particolare armonia dei colori blu e verde. Ed è esattamente per questa ragione che il brano di critica che ho citato è critica del più alto livello. Prende l’opera d’arte come spunto di una nuova creazione. Non si limita – o almeno supponiamo sia così per il momento – a scoprire le reali intenzioni dell’artista e a considerarle come definitive. Ed è giusto, poiché il significato di ogni bella creazione risiede tanto nell’anima di chi l’osserva quanto nell’anima di chi l’ha realizzata. Dirò di più, è chi guarda che dona all’opera d’arte una miriade di significati, la rende meravigliosa e la pone in una relazione nuova rispetto all’epoca, cosicché essa diventa una porzione vitale delle nostre esistenze, un simbolo di ciò per cui preghiamo, o, forse, di ciò che, avendo pregato, temiamo di ricevere. Più avanti vado con i miei studi, Ernest, e più vedo chiaramente che la bellezza delle arti visive è, come la bellezza della musica, basata principalmente sull’impressione, e può essere guastata, come spesso succede, da un eccesso di intenzioni intellettuali da parte dell’artista. Quando l’opera è finita, è come se avesse una vita propria indipendente, il messaggio che può comunicare è molto diverso da quello che l’artista ha messo sulle sue labbra perché ce lo dicesse. A volte, quando ascolto l’ouverture del Tannhäuser, mi sembra davvero di vedere il bel cavaliere che passa delicatamente sull’erba coperta di fiori, e di sentire la voce di Venere che lo chiama dalla caverna nella collina. Ma altre volte mi comunica un’infinità di cose totalmente diverse, di me, forse, della mia vita, della vita di persone che abbiamo amato e che ci siamo stancati di amare, della passione che l’uomo ha conosciuto o che non ha conosciuto e di cui è stato alla ricerca. Questa serata potrebbe suggerire a qualcuno quell’Ἔρως τῶν ἀδυνάτων [Amore dell’impossibile], quell’«Amour de l’Impossible» che prende come una follia molti di coloro che credono di vivere al sicuro, lontani da ogni pericolo e, improvvisamente intossicati dal veleno dell’illimitato desiderio, dell’infinita ricerca di ciò che non possono ottenere, si indeboliscono e svengono o cadono. Domani, come la musica di cui ci parlano Aristotele e Platone, la nobile musica dorica dei Greci può aver la funzione del medico, fornirci un anestetizzante contro il dolore, può guarire lo spirito ferito e «portare l’anima in armonia con tutte le cose giuste». E ciò che vale per la musica vale anche per l’arte. La bellezza ha molti significati come l’uomo ha molti stati d’animo. La bellezza è il simbolo dei simboli. Essa svela tutto poiché non esprime niente. Quando si mostra a noi, ci mostra l’intero mondo dai colori di fuoco.

ERNEST: Ma, il lavoro di cui hai parlato è davvero critica?

GILBERT: È il massimo livello della Critica, dal momento che non analizza solo l’opera d’arte individuale, ma la Bellezza stessa, e infonde meraviglia in una forma che l’artista può aver lasciato vuota, o non capita, o non capita completamente.

ERNEST: La critica al massimo livello, allora, è più creativa della creazione, e lo scopo primario del critico è di vedere l’oggetto come in realtà non è in sé; è questa la tua teoria, vero?

GILBERT: Sì, la mia teoria è questa. Per il critico l’opera d’arte non è che un semplice suggerimento per un nuovo lavoro tutto suo, che non necessariamente deve avere una ovvia rassomiglianza con l’oggetto della sua critica. L’unica caratteristica di una bella forma è quella di poterci inserire qualsiasi cosa si voglia, e vedervi qualsiasi cosa; la Bellezza, che dona alla creazione l’elemento universale ed estetico, fa del critico, a sua volta, un creatore e gli suggerisce un’infinità di cose che non erano presenti nella mente di chi ha scolpito la statua, dipinto la tela o lavorato la gemma.

Coloro che non comprendono né la natura della Critica elevata né il fascino dell’Arte elevata, a volte dicono che i quadri di cui il critico ama maggiormente parlare sono quelli che appartengono all’aneddotica della pittura, e che trattano di scene prese dalla letteratura o la storia. Ma non è così. In realtà immagini di questo tipo sono veramente troppo comprensibili. Appartengono alla classe delle illustrazioni, e anche se le consideriamo da questo punto di vista, sono dei fallimenti, poiché non sono di stimolo per l’immaginazione, ma ad essa pongono dei limiti ben precisi. Ché il campo della pittura, come ho detto prima, è abbondantemente diverso da quello del poeta. A quest’ultimo la vita appartiene nella sua piena e assoluta interezza; non solo la bellezza che si contempla, ma anche la bellezza che si ascolta; non solo la momentanea grazia della forma, o la transitoria gioia del colore, ma l’intera sfera del sentimento, il ciclo perfetto del pensiero. Il pittore è così limitato che può mostrarci il mistero dell’anima solo attraverso la maschera del corpo; può maneggiare le idee solo attraverso le immagini convenzionali; si può occupare di psicologia solo usando i suoi equivalenti fisici. E lo fa in un modo così poco adeguato, chiedendoci di accettare il turbante strappato del Moro per la nobile ira di Otello o un vecchio rimbambito in una tempesta per la selvaggia follia di Lear! Eppure sembra che niente possa fermarlo. La maggior parte dei nostri vecchi pittori inglesi hanno trascorso le loro tristi e sprecate vite a moraleggiare sul dominio dei poeti, rovinando i loro motivi con una trattazione maldestra, facendo ogni sforzo per rendere, in forma e colore visibili, le meraviglie di ciò che è invisibile, lo splendore di quello che non può esser visto. I loro quadri sono, come naturale conseguenza, insopportabilmente noiosi. Hanno degradato le arti non visibili in arti ovvie. Non voglio dire con questo che il pittore e il poeta non possano trattare gli stessi soggetti. L’hanno sempre fatto e sempre lo faranno. Ma mentre il poeta può essere o no figurativo, il pittore deve esserlo sempre. Poiché un pittore è limitato non da ciò che vede nella natura, bensì da ciò che si può vedere sulla tela.

Quindi, caro Ernest, pitture di questo tipo non interesseranno veramente il critico. Egli distoglierà da esse la sua attenzione, per occuparsi di opere che lo facciano riflettere, sognare o fantasticare, di opere che possiedano la sottile qualità dell’ispirazione e paiono dirci che anche attraverso di loro si può fuggire in un mondo più vasto. Si è detto, a volte, che la tragedia della vita di un artista è quella di non poter realizzare il suo ideale. Ma la vera tragedia, che impedisce il passo di gran parte degli artisti, è che essi realizzano il proprio ideale in modo troppo assoluto. Perché quando l’ideale è realizzato, è derubato della sua meraviglia e del suo mistero; diventa solo un nuovo punto di partenza per un ideale diverso. Ecco perché la musica è un tipo perfetto di arte. La musica non può mai rivelare il suo ultimo segreto. In questo sta anche la spiegazione del valore del limite nell’arte. Lo scultore si arrende volentieri davanti all’imitazione del colore, e il pittore davanti alle reali dimensioni della forma, perché rinunciando ad esse riescono a evitare una rappresentazione troppo definita del Reale, che finirebbe per essere una semplice imitazione e una realizzazione troppo definita dell’Ideale, che sarebbe troppo puramente intellettuale. È attraverso la sua stessa mancanza di compiutezza che l’Arte si completa nella bellezza, e si rivolge così non alla facoltà di riconoscimento né alla facoltà della ragione, ma esclusivamente al senso estetico. Questo, mentre accetta sia la ragione che il riconoscimento come tappe della comprensione, le subordina entrambe a un’impressione puramente sintetica dell’opera d’arte come tutto e, prendendo ogni elemento emozionale estraneo che l’opera possieda, utilizza la sua stessa complessità come mezzo per aggiungere una più ricca unità all’impressione ultima. Puoi vedere, quindi, come il critico estetico rifiuti questa ovvia forma d’arte che lancia un solo messaggio, e dopo averlo lanciato rimane scialba e sterile, e piuttosto vada alla ricerca di quella forma che suggerisce sogni e stati d’animo, rendendo vera ogni interpretazione con la loro bellezza immaginativa, senza mai arrivare a un’interpretazione definitiva. Senza dubbio dovrà esserci una somiglianza fra il lavoro creativo del critico e l’opera che lo ha ispirato, ma si tratterà di una somiglianza, come esiste, non fra la natura e lo specchio che il paesaggista o il pittore di figura si può supporre che le porgano, ma fra la natura e l’opera dell’artista decorativo. Proprio come sui tappeti persiani senza fiori, fioriscono davvero il tulipano e la rosa e sono bellissimi da guardare nonostante non siano riprodotti nella loro forma e aspetto visibile; come si possono trovare echi della madreperla e della porpora delle conchiglie marine nella chiesa di San Marco a Venezia; come il soffitto a volte della meravigliosa cappella a Ravenna è reso splendido dall’oro, il verde e lo zaffiro della coda del pavone anche se l’uccello di Giunone non vi passa in volo; alla stessa maniera il critico riproduce l’opera in esame in una forma che non è mai imitativa, il cui fascino risiede, in parte, nel rifiuto della verosimiglianza, in questo modo ci mostra non solo il significato ma anche il mistero della Bellezza, e, trasformando ogni arte in letteratura, risolve una volta per tutte il problema dell’unità nell’arte.

Ma vedo che è ora di mangiare. Dopo aver discusso di vino Chambertin e un po’ di cacciagione, passeremo alla questione del critico visto nel suo ruolo di interprete.

ERNEST: Ah! Allora ammetti che al critico a volte sia consentito di vedere l’oggetto come è in se stesso.

GILBERT: Non ne sono completamente sicuro. Potrò ammetterlo, forse dopo cena. C’è un’influenza sottile nella cena.

 

 

PARTE SECONDA

Con qualche osservazione sull’importanza di discutere di ogni cosa

 

ERNEST: La cacciagione era deliziosa e il vino perfetto, e adesso torniamo al punto in discussione.

GILBERT: Ah, no, evitiamolo. La conversazione dovrebbe toccare ogni argomento, senza concentrarsi su nessuno in particolare. Parliamo della «Indignazione Morale: Cause e Cura», argomento sul quale ho intenzione di scrivere. O della «Sopravvivenza di Tersite» vista dai giornali umoristici inglesi. Oppure su qualsiasi argomento capiti.

ERNEST: No, voglio discutere del critico e della critica. Mi hai detto che la critica più alta si occupa non dell’arte espressiva, ma di quella puramente d’impressione ed è quindi creativa e indipendente, insomma, un’arte a sé stante, e ha, con l’opera creativa, lo stesso rapporto che quest’ultima ha con il mondo visibile della forma e del colore, o il mondo non visibile del pensiero e della passione. Be’, adesso dimmi, non sarà a volte il critico il vero interprete?

GILBERT: Sì, può esserlo, se fa questa scelta. Egli può passare dall’impressione sintetica dell’opera d’arte come tutto, all’analisi o esposizione del lavoro stesso; e in questo ambito più modesto, come io sostengo, ci sono molte cose deliziose che possono esser dette o fatte. Comunque non sempre il suo obiettivo sarà quello di spiegare l’opera d’arte; può cercare di ingrandirne i misteri, o diffondere, intorno ad essa o al suo autore, quella nube di meraviglia che è ugualmente cara agli dèi e ai loro fedeli. La gente comune si trova «terribilmente a suo agio in Sion». Propone di passeggiare sottobraccio ai poeti, e ha un modo loquace di ripetere ignorantemente: «Perché dovremmo leggere ciò che è stato scritto su Shakespeare e Milton? Possiamo leggere le tragedie e le poesie, e questo è abbastanza». Ma apprezzare Milton, come osservò una volta il compianto rettore di Lincoln, è la ricompensa di studi approfonditi. Chi desidera comprendere Shakespeare deve veramente capire la relazione che intercorse fra lui e il Rinascimento e la Riforma, l’epoca elisabettiana e quella giacobiana; deve aver confidenza con la storia della lotta per la supremazia fra le antiche forme classiche e il nuovo spirito del Romanticismo, fra la scuola di Sidney, Daniel e Johnson e quella di Marlowe e del di lui più grande figlio; deve essere a conoscenza del materiale di cui era fornito, del metodo di utilizzo e le condizioni della rappresentazione teatrale nel diciassettesimo secolo, le limitazioni e le libertà, la critica letteraria al tempo di Shakespeare, i suoi fini, forme e canoni; deve studiare la lingua inglese nel suo divenire e i vari sviluppi del verso sciolto o rimato; studiare il dramma greco, le connessioni fra l’arte del creatore di Agamennone e l’arte del creatore di Macbeth; in breve deve essere in grado di collegare la Londra elisabettiana all’Atene di Pericle e apprendere la vera posizione che ha avuto Shakespeare nella storia del dramma europeo e del dramma nel mondo. Il critico potrà certo essere un interprete, ma non tratterà mai con l’arte come se fosse una Sfinge enigmatica i cui futili segreti possono essere indovinati e rivelati da una persona dai piedi feriti e che non conosce il proprio nome. Al contrario, considererà l’arte come una dea i cui misteri egli ha il dovere di intensificare e che ha il privilegio di rendere la maestà di lei ancora più meravigliosa davanti agli occhi degli uomini.

Ed è qui, Ernest, che accade la cosa strana. Il critico sarà veramente un interprete, ma non inteso come colui che ripete semplicemente in forma diversa il messaggio che gli è stato messo sulle labbra perché venga ripetuto. Poiché, come solo attraverso il contatto con l’arte di nazioni straniere l’arte di un determinato paese guadagna quella vita indipendente e separata che si chiama nazionalità, così, per una bizzarra inversione, è solo intensificando la propria personalità che il critico può interpretare e la personalità e l’opera di altri. Più fortemente la sua personalità entra nell’interpretazione, più l’interpretazione diventa reale, soddisfacente, convincente e più vera.

ERNEST: Avrei detto che la personalità costituisse un elemento di disturbo.

GILBERT: No, è un elemento di rivelazione. Se desideri comprendere gli altri devi intensificare il tuo individualismo.

ERNEST: Qual è, allora, il risultato?

GILBERT: Te lo dirò, e forse sarò più esplicito con un esempio concreto. Io credo che, mentre il critico letterario sta al primo posto in quanto ha il campo più vasto, una visione più ampia e il materiale più nobile, ogni altra arte ha, per così dire, un critico che le è stato destinato. L’attore è il critico del dramma. Mostra il lavoro del poeta sotto nuove condizioni, e con un metodo che ha solo lui. Si appropria della parola scritta, e l’azione, il gesto, la voce diventano i mezzi della rivelazione. Il cantante, o il suonatore di liuto o di viola, è il critico della musica. L’incisore che riproduce un quadro lo deruba dei bei colori, ma usando un nuovo materiale ci mostra la vera qualità, i toni, i valori del colore stesso, la relazione fra i volumi, e così è, a suo modo, un critico di quel quadro poiché un critico è colui che ci presenta un’opera d’arte in una forma diversa da quella che ha, e l’impiego di un nuovo materiale è un elemento critico oltre che creativo. Anche la scultura ha un suo critico, che può essere l’intagliatore di gemme, come ai tempi dei Greci, o qualche pittore come Mantegna che cercò di riprodurre sulla tela la bellezza delle linee plastiche o la dignità sinfonica del bassorilievo processionale. Nel caso dei critici d’arte creativi di cui ho parlato, è evidente che la personalità è assolutamente essenziale per una vera interpretazione. Quando Rubinstein ci suona l’Appassionata di Beethoven, non è solo Beethoven che ci offre, ma anche se stesso, quindi ci dà un Beethoven assoluto, un Beethoven reinterpretato attraverso una ricca natura artistica, reso vivido e meraviglioso grazie a una nuova e intensa personalità. Quando un grande attore recita Shakespeare, abbiamo lo stesso tipo di esperienza. La sua individualità personale diventa una parte vitale dell’interpretazione. A volte si sente dire che gli attori ci mostrano il loro Amleto e non quello di Shakespeare; questo errore, perché è un errore, è, mi duole dover dire, spesso ripetuto da quel grazioso e affascinante scrittore che ha recentemente abbandonato la scena turbolenta della letteratura per la pace della Camera dei Comuni; intendo l’autore di Obiter Dicta. È un dato di fatto che un Amleto di Shakespeare non esiste. Se Amleto ha qualche elemento di definitezza dell’opera d’arte, egli possiede anche tutta l’oscurità che è propria della vita. Ci sono tanti Amleti per quante sono le malinconie.

ERNEST: Tanti Amleti per quante sono le malinconie?

GILBERT: Sì; e siccome l’arte nasce dalla personalità è solo attraverso la personalità che può esser rivelata; è dall’incontro di due personalità che nasce la giusta critica interpretativa.

ERNEST: Dunque il critico, considerato come interprete, darà non meno di quanto riceve, e dà in prestito quanto prende?

GILBERT: Ci presenterà sempre l’opera d’arte in qualche nuova relazione con la nostra epoca. Sarà sempre a ricordarci che le grandi opere d’arte sono cose vive – sono infatti le uniche cose che hanno vita. A tal punto, in realtà, egli proverà questa sensazione, che sono certo, man mano che la civiltà progredisce e acquista un più alto grado di organizzazione, gli spiriti eletti di ciascuna età, gli spiriti edotti e critici, diminuiranno sempre più il loro interesse nella vita reale, e «cercheranno di ottenere le proprie impressioni quasi interamente da ciò che è stato toccato dall’arte». Ché la vita è estremamente deficitaria in quanto a forma. Vi accadono catastrofi in modi sbagliati e alla gente sbagliata. Riguardo alle commedie della vita, esse possiedono una sorta di orrore grottesco, e le sue tragedie sembrano culminare in farsa. Nell’affrontarla si rimane sempre feriti. Le cose, o durano troppo a lungo o non durano abbastanza.

ERNEST: Povera vita! Povera vita umana! Non ti commuovono nemmeno le lacrime che il poeta romano ci dice essere una sua parte essenziale.

GILBERT: Temo che mi commuovano troppo rapidamente. Perché, quando ci si volta indietro a guardare la vita che è stata così vivace nella sua intensità di emozioni e piena di momenti ardenti di estasi o di gioia, tutto sembra solo sogno e illusione. Che cosa sono le cose irreali, se non passioni che un giorno sono state ardenti come fuoco? Cosa le cose incredibili, se non quelle cose in cui si è creduto con maggior fiducia? E quali sono le cose improbabili? Quelle che noi stessi abbiamo fatto. No, Ernest, la vita ci inganna con delle ombre, come un burattinaio. Chiediamo a lei piacere. Essa ce lo dà, accompagnato da amarezza e delusione. Ci imbattiamo in alcuni nobili dolori che pensiamo offriranno la purpurea dignità alla tragedia dei nostri giorni, ma essa si allontana da noi e lascia il posto a ben meno nobili cose; allo spuntar di un giorno grigio e ventoso, o al tramonto fragrante di silenzio e d’argento, ci troveremo a guardare stupiti dall’indifferenza, o col duro cuore insensibile, la treccia di capelli dai riflessi d’oro che un giorno abbiamo adorato con trasporto e baciato follemente.

ERNEST: Allora la vita è un fallimento?

GILBERT: Dal punto di vista artistico, certamente. E ciò che dal punto di vista artistico rende la vita un fallimento è ciò a cui essa deve la sua sordida sicurezza, il fatto che non un’emozione potrà mai ripetersi allo stesso modo. Come è diverso nel mondo dell’arte! Su uno scaffale della libreria dietro di te c’è la Divina Commedia e so che, se l’apro a una certa pagina, verrò preso da un odio inveterato per qualcuno che non mi ha fatto nessun torto, oppure mi prenderà un grande amore per qualcuno che non ho mai visto. Non esiste emozione che l’arte non possa darci, e quelli che hanno scoperto il suo segreto possono stabilire in anticipo quali saranno le nostre esperienze. Si può scegliere il giorno, e l’ora. Possiamo dire a noi stessi «Domani, all’alba, camminerò col grave Virgilio nella valle delle ombre della morte» e, guarda!, l’alba ci troverà nella selva oscura, con al nostro fianco il Mantovano. Varchiamo il cancello che intima di lasciar ogni speranza, e con pietà, o gioia, scorgiamo l’orrore di un altro mondo. Gli ipocriti passano con le facce dipinte e le cappe di piombo dorato. Dall’incessante vento che li scuote, i peccatori carnali ci guardano, e noi guardiamo l’eretico che si lacera le carni, e il goloso sferzato dalla pioggia. Spezziamo gli aridi rami nel bosco delle Arpie, ciascuno di essi, venefico e cupo di colore, perde rosso sangue davanti ai nostri occhi e grida forte tristi lamenti. Da un corno di fuoco Odisseo ci parla, e quando dal sepolcro di fuoco si leva il grande Ghibellino, l’orgoglio, che trionfa sulla tortura di quel letto, diventa per un momento nostro. Per l’aria cupamente purpurea volano coloro che hanno macchiato il mondo della bellezza del loro peccato, e nel girone dell’odiosa malattia, idropico e gonfio nel corpo fino a somigliare a un mostruoso liuto, giace Adamo da Brescia, coniatore di monete false. Ci ordina di ascoltare le sue miserie; ci fermiamo ed egli con le labbra secche e semiaperte ci narra di come giorno e notte sogni i ruscelli dalle chiare acque che scorrono in freschi rivoli di rugiada per le verdi colline del Casentino. Sinone, il falso greco di Troia, lo schernisce. Lo percuote sul volto, e si azzuffano. Noi siamo affascinati dalla loro vergogna, e indugiamo finché Virgilio ci rimprovera e ci porta via verso la città turrita di giganti dove il grande Nembrotto suona il corno. Ci aspettano cose terribili e noi le affrontiamo con le vesti e il cuore di Dante. Passiamo i confini dello Stige e Argenti nuota verso la barca tra le onde limacciose. Ci chiama, ma noi lo respingiamo. All’udire la voce della sua agonia ci compiaciamo, e Virgilio ci loda per l’amarezza del nostro disprezzo. Camminiamo sul freddo cristallo di Cocito, dove i traditori stanno conficcati come fuscelli nel vetro. Il piede si imbatte nella testa di Bocca. Non ci dirà il suo nome, e strappiamo, dal cranio urlante, i capelli a manciate. Alberico ci prega di liberargli il volto dal ghiaccio, ché possa piangere un po’. Glielo promettiamo, e dopo aver narrato la sua dolorosa storia, ci riprendiamo la promessa e tiriamo dritto; la nostra crudeltà è in vero cortesia, perché chi è più meschino di chi ha pietà per coloro che Dio ha condannato? Nelle fauci di Lucifero vediamo quello che vendette Cristo, e nelle fauci di Lucifero stanno anche coloro che uccisero Cesare. Tremiamo, e usciamo a riveder le stelle.

Nella terra del Purgatorio l’aria è più libera, e la montagna sacra si leva nella pura luce del giorno. C’è pace per noi e per quelli che vi restano per una stagione, anche se, pallida del veleno della Maremma, Madonna Pia ci passa dinanzi, e là stia Ismene ancora circondata dal dolore terreno. Un’anima dopo l’altra ci fa condividere il suo pentimento o la sua gioia. Colui al quale il lutto della sua vedova ha insegnato a bere il dolce assenzio del dolore ci narra di Nella che nel letto da sola prega, e dalla bocca di Buonconte apprendiamo che un’unica lacrima può salvare dal malvagio un peccatore morente. Sordello, nobile e sdegnoso lombardo, occhieggia su di noi da lontano, come un leone accucciato. Quando sa che Virgilio è un cittadino mantovano, gli butta le braccia al collo e quando sa che egli è il cantore di Roma, gli cade ai piedi. Nella valle dall’erba e i fiori più belli dello smeraldo spaccato e del legno indiano, più lucenti dello scarlatto e l’argento, cantano quelli che in vita furono re; ma le labbra di Rodolfo d’Asburgo non si muovono alla musica degli altri, Filippo di Francia si percuote il petto, ed Enrico d’Inghilterra siede in solitudine. Man mano che si va avanti, salendo la meravigliosa scalinata, essa diviene più ampia di quanto lo era prima, il canto dei re si affievolisce, e alla lunga raggiungiamo i sette alberi d’oro e il giardino del Paradiso Terrestre. Su un cocchio tirato dal grifone appare colei che ha la fronte cinta di foglie d’olivo, di bianco velata col verde mantello, ed è vestita di colori vivi come il fuoco. L’antica fiamma si risveglia in noi. Con terribili pulsazioni il sangue è spinto veloce nelle vene. La riconosciamo. È Beatrice, la donna che abbiamo adorato. Il ghiaccio che si è rappreso intorno al nostro cuore si scioglie. Scoppiamo in calde lacrime di tormento e a terra pieghiamo il capo, perché sappiamo di aver peccato. Dopo aver fatto penitenza, esserci purificati, bevuto alla fontana del Lete, ed esserci bagnati nelle acque di Eunoè, la signora della nostra anima ci fa salire al Paradiso Celeste. Dall’eterna perla della luna, il volto di Piccarda Donati si piega verso di noi. La sua bellezza per un momento ci turba e quando, come qualcosa che cade nell’acqua, ella ci lascia, la seguiamo con lo sguardo anelante. Il dolce pianeta di Venere è pieno d’amanti. Cunizza, sorella di Ezzelino, signora del cuore di Sordello, si trova lì, così come Folco, il cantore appassionato della Provenza, che abbandonò il mondo in pena per Azalais, e la meretrice di Canaan, la cui anima per prima fu redenta da Cristo. Nel sole sta Gioacchino da Fiore, nel sole, Tommaso d’Aquino narra la storia di San Francesco e Bonaventura la storia di San Domenico. Tra i rubini ardenti di Marte, Cacciaguida si avvicina. Ci racconta della freccia scoccata dall’arco del suo esilio, come sa di sale il pane degli altri e quanto ripide sono le scale di una casa straniera. In Saturno le anime non cantano, e neanche la nostra guida osa sorridere. Le fiamme crescono e si abbassano lungo una scala d’oro. Infine vediamo il carro della Rosa Mistica. Beatrice fissa lo sguardo sul volto di Dio e più lo toglie. Anche noi abbiamo la beatifica visione; conosciamo l’Amor che muove il sole e l’altre stelle. Sì, è possibile far tornare indietro la terra di seicento anni e unirci al grande fiorentino, inginocchiarci con lui allo stesso altare, dividere con lui l’estasi e lo sdegno. E se ci stanchiamo dei tempi antichi, se desideriamo ritornare alla nostra epoca con tutta la sua noia e i suoi peccati, non ci sono forse libri che ci sanno far vivere di più in un’ora di quanto la vita sappia farci vivere in una serie di vergognosi anni? Vicino alla tua mano troverai un piccolo volume, rilegato in pelle verde Nilo, cosparso di ninfee dorate e liscio di solido avorio. È il libro che amava Gautier, il capolavoro di Baudelaire. Aprilo a quel triste madrigale che inizia:

 

Que m’importe que tu sois sage?

Sois belle! et sois triste!

[Che m’importa che tu sia saggia,

Sii bella, e malinconica!]

 

e ti ritroverai ad adorare il dolore come non hai mai fatto con la gioia. Vai avanti al poema sull’uomo che si tortura, lascia che la sua musica sottile si insinui nella tua mente e colori i tuoi pensieri, e per un momento diverrai colui che l’ha scritto; anzi, non solo per un momento, ma durante molte nude notti illuminate dalla luna, e sterili giorni senza sole, una disperazione non tua prenderà dimora in te, e la miseria di un altro ti roderà il cuore. Leggi tutto il libro, cerca che esso riveli anche solo uno dei suoi segreti al tuo cuore, e nella tua anima crescerà il desiderio di saperne di più, essa si ciberà di miele avvelenato, tenterà di pentirsi di strani crimini di cui non ha colpa, e riparare a piaceri che non ha mai conosciuto. Allora, quando sarai stanco di questi fiori del male, passa ai fiori che crescono nel giardino di Perdita, rinfresca la fronte febbricitante nei loro calici grondanti rugiada, e lascia che la loro bellezza ti curi e ti ristori l’anima. Oppure sveglia dalla sua dimenticata tomba il dolce siriano, Meleagro, e chiedi all’amante di Eliodoro di suonarti della musica, perché lui pure ha fiori nella sua musica, rossi bocci di melograno, iris profumati di mirra, narcisi inanellati, giacinti blu cobalto, maggiorana e occhi-di-bove increspati. A lui era caro il profumo dei campi di fagioli a sera, a lui era caro l’odoroso spiconardo che cresceva sulle colline di Siria, il fresco verde timo, e l’incanto della coppa di vino. I piedi della sua amata, che camminava nel giardino erano come gigli sui gigli. Più morbide dei petali dei papaveri non ancora sbocciati erano le sue labbra, più delicate delle violette e altrettanto profumate. Il croco fiammeggiante spuntava dall’erba per guardarla. Per lei lo svelto narciso ha raccolto la fresca pioggia; e per lei l’anemone ha dimenticato i venti siciliani che lo corteggiavano. E né il croco, né l’anemone, né il narciso erano belli al pari suo.

È un fatto curioso, questo trasferimento di emozioni. Soffriamo delle stesse malattie del poeta, e il cantore ci presta la sua pena. Labbra senza vita ci danno un messaggio, e cuori ormai ridotti in polvere ci possono comunicare la loro gioia. Corriamo a baciare la bocca sanguinante di Fantine, e seguiamo Manon Lescaut per il mondo intero. La follia d’amore della donna di Tiria è la nostra, e nostro è anche il terrore di Oreste. Non c’è passione che non possiamo provare, né piacere di cui non sappiamo godere, possiamo scegliere il momento dell’iniziazione e anche il tempo della nostra libertà. Vita! Vita! Non rivolgiamoci alla vita se vogliamo gratificazione o esperienza. È qualcosa limitata dalle circostanze, dall’espressioni incoerenti, priva della corrispondenza fra forma e spirito, l’unica che riesca a soddisfare il carattere artistico e critico. Ci fa pagare cara la sua merce e acquistiamo il più infimo dei suoi segreti a un costo mostruoso e infinito.

ERNEST: Dobbiamo, dunque, rivolgerci all’Arte per ogni cosa?

GILBERT: Per ogni cosa. Poiché l’arte non ci reca danno. Le lacrime che versiamo vedendo un dramma sono un esempio di emozione squisitamente sterile che l’arte ha il compito di suscitare. Piangiamo, ma non restiamo feriti. Ci addoloriamo, ma non è dolore amaro. Nella vita reale dell’uomo, come afferma Spinoza, è il passaggio a una perfezione minore. Ma il dolore con cui l’arte ci colma purifica e rende iniziati, se posso citare ancora dal grande critico d’arte dei Greci. È attraverso l’arte, e solo attraverso di essa, che possiamo mettere in pratica la nostra perfezione; solo attraverso l’arte, siamo al riparo dai pericoli sordidi della vera esistenza. Questo dipende non solo dal fatto che niente di ciò che si immagina vale d’esser fatto, e che si può immaginare tutto, ma dalla sottile legge della forza delle emozioni che, come quelle del mondo fisico, hanno dei limiti di estensione ed energia. Si può sentire tanto, e non di più. Cosa può importare il piacere col quale la vita ci tenta, o il dolore col quale cerca di menomare e rovinare la nostra anima, se nello spettacolo della vita di coloro che non sono mai esistiti si può trovare il vero segreto della gioia e si possono versar lacrime per la morte di chi, come Cordelia e la figlia di Brabanzio, non potrà mai morire?

ERNEST: Fermati un momento. Mi pare che in tutto ciò che hai detto ci sia qualcosa di radicalmente immorale.

GILBERT: Tutta l’arte è immorale.

ERNEST: Tutta l’arte?

GILBERT: Sì, perché lo scopo dell’arte è l’emozione fine a se stessa, e l’emozione per amore dell’azione è lo scopo della vita e della organizzazione pratica della vita che si chiama società. La società, che è il principio e la base della moralità, esiste semplicemente per una concentrazione di energia umana; allo scopo di assicurare la sua stessa continuità e la salubre stabilità richiede, indubbiamente a ragione, a ciascuno dei cittadini, di contribuire con qualche tipo di lavoro che sia produttivo per il bene comune, che sfacchini e lavori per la fatica quotidiana. La società spesso perdona il criminale; ma non perdona il sognatore. Le bellissime e sterili emozioni che l’arte fa nascere in noi sono odiose ai suoi occhi, la gente è così totalmente dominata dalla tirannia di questo orrendo ideale sociale, che senza pudore arriva a una mostra o altro luogo di pubblico accesso, e proclama con voce stentorea «Che cosa fai?», mentre «Che cosa pensi?» è l’unica domanda che a ogni essere civile dovrebbe esser permesso sussurrare a un altro. Le intenzioni di queste persone oneste e raggianti non sono cattive, indubbiamente. Forse è per questo che sono così eccessivamente tediose. Qualcuno dovrebbe insegnar loro che mentre, agli occhi della società, la Contemplazione è uno dei più gravi peccati di cui si può macchiare un cittadino, agli occhi della cultura più alta questa è la vera occupazione dell’uomo.

ERNEST: La contemplazione?

GILBERT: La contemplazione. Prima ti ho detto che è più difficile parlare di una cosa che farla. Adesso lascia che ti dica che non far niente è la cosa più difficile del mondo, la più difficile e la più intellettuale. Per Platone, con la sua passione per la saggezza, essa era la più nobile forma di energia. Per Aristotele, che aveva la passione per il sapere, era ugualmente la più nobile forma di energia. A questo la passione per la santità conduceva il santo e il mistico del Medioevo.

ERNEST: Esistiamo, quindi, per non fare nulla?

GILBERT: È per non fare niente che esistono gli eletti. L’azione è limitata e relativa. Assoluta e senza limiti è la visione di colui che siede comodamente e contempla, che passeggia in solitudine e sogna. Ma noi che siamo nati alla fine di quest’epoca meravigliosa siamo al contempo troppo colti e troppo critici, troppo intellettualmente sottili e troppo curiosi di piaceri squisiti, per accettare le speculazioni sulla vita invece che la vita stessa. Per noi la città divina5 è incolore e la «fruitio dei» insignificante. La metafisica non soddisfa il nostro temperamento, e l’estasi religiosa è fuori moda. Il mondo attraverso il quale il filosofo dell’Accademia diventa «spettatore di tutto il tempo e di tutta l’esistenza» non è un mondo ideale, in realtà, ma semplicemente un mondo di idee astratte. Quando vi entriamo, languiamo circondati dal gelo del pensiero matematico. Le corti della città di Dio non ci sono ancora aperte. A far la guardia ai suoi cancelli c’è l’ignoranza, e per poterli varcare dobbiamo rinunciare a tutto ciò che è più divino della nostra natura. È stato sufficiente che i nostri padri abbiano creduto. Hanno esaurito la capacità di fede della specie. L’eredità che ci hanno lasciato è lo scetticismo di cui loro avevano timore. Se l’avessero tradotto in parole, non sarebbe rimasto in noi sotto forma di pensiero. No, Ernest, no. Non possiamo tornare al santo. C’è molto più da imparare dal peccatore. Non possiamo tornare indietro al filosofo, e il mistico ci porta fuori strada. Come suggerisce Pater, chi mai scambierebbe la curva di una sola foglia di rosa con quell’intangibile e informe Essere che per Platone occupa un posto tanto alto? Che cosa sono per noi l’Illuminazione di Filone, l’Abisso di Eckhart, la visione di Bohme, o lo stesso mostruoso cielo che fu rivelato agli occhi ciechi di Swedenberg? Tutto ciò è meno notevole del giallo tromboncino in un campo di narcisi, molto meno della minima delle arti visive; perché, come la natura è materia che lotta nella mente, così l’arte è pensiero che si esprime sotto le condizioni della materia, parlando così sia all’anima che ai sensi persino nelle sue manifestazioni più minime. Per il temperamento estetico il vago è sempre repellente. I Greci furono una nazione di artisti perché mancavano del senso dell’infinito. Come Aristotele, come Goethe, dopo aver letto Kant, noi vogliano la concretezza, niente può gratificarci se non la concretezza.

ERNEST: Cosa proponi, dunque?

GILBERT: Io credo che con lo sviluppo dello spirito critico saremo in grado di realizzare non solo le nostre vite, ma la vita collettiva della razza, renderci quindi assolutamente moderni, nel vero senso della parola modernità. Perché colui che vede il presente solo nella cosa effettivamente presente, non sa nulla dell’età in cui vive. Per capire il diciannovesimo secolo, dobbiamo capire tutti i secoli che lo hanno preceduto e che hanno contribuito alla sua formazione. Per conoscere a fondo se stessi, bisogna conoscere tutto degli altri. Non deve esistere un sentimento che non possiamo condividere, nessuno stile di vita ormai morto che non possa esser riportato in vita. È impossibile? Credo di no. Rivelandoci il meccanismo assoluto di ogni azione, e liberandoci così dall’ingombrante peso della responsabilità morale di cui da soli ci siamo gravati, il principio scientifico dell’Eredità è divenuto, quasi, il garante della vita contemplativa. Ci ha dimostrato che mai siamo meno liberi di quando cerchiamo di agire. Ci ha catturato con le reti del cacciatoree ha scritto sul muro la profezia del nostro destino. Non possiamo vederla perché è dentro di noi. Non la vediamo se non nello specchio dell’anima. È la Nemesi, senza la maschera. È l’ultimo dei Fati, il più terribile. È il solo dio di cui conosciamo il vero nome. Eppure, mentre nell’ambito della vita esteriore e pratica ha tolto libertà all’energia e la scelta all’azione, nella sfera soggettiva, dove lavora l’anima, quest’ombra terribile viene da noi, portando molti doni, doni di strani temperamenti e suscettibilità subdole, selvaggi ardori e fredda indifferenza, doni complessi e multiformi di pensieri contraddittori, e passioni in guerra fra loro. Così non è la nostra vita quella che viviamo, ma la vita dei morti e l’anima che dimora in noi non è una entità spirituale unica che ci rende persone e individui, creata per renderci servizio, che entra in noi per la nostra gioia. È invece qualcosa che ha vissuto in posti terribili, che ha fatto dei sepolcri la sua abitazione. È afflitta da molte malattie, ha il ricordo di peccati curiosi. È più saggia di quanto lo siamo noi, ha una saggezza migliore. Ci riempie di desideri impossibili, e ci fa inseguire ciò che non possiamo ottenere. C’è una cosa, comunque, Ernest, che essa può fare per noi. Può condurci lontano dai luoghi la cui bellezza è oscurata dalla nebbia della consuetudine, o la cui ignobile bruttezza e le cui sordide pretese rovinano la perfezione del nostro sviluppo. Può aiutarci ad abbandonare l’epoca in cui siamo nati, e trasferirci in altre età nelle quali non ci sentiamo esiliati. Può insegnarci come fuggire dalle nostre esperienze, e realizzare le esperienze di coloro che furono più grandi di noi. Il dolore di Leopardi che grida contro la vita diventa il nostro dolore. Teocrito suona il suo flauto e noi ridiamo con le labbra delle ninfe e dei pastori. Nella pelle del lupo di Pierre Vidal scappiamo davanti ai cani, e cavalchiamo via nell’armatura di Lancillotto, dalla dimora campestre della Regina. Abbiamo sussurrato il nostro segreto d’amore sotto il copricapo di Abelardo, e con la veste macchiata di Villon abbiamo fatto della nostra vergogna un canto. Si può veder l’alba con gli occhi di Shelley, e quando vaghiamo con Endimione la Luna si innamora della nostra gioventù. Nostra è l’angoscia di Ati, nostra la debole rabbia e il nobile dolore del Danese. Pensi che sia l’immaginazione che ci consente di vivere queste innumerevoli vite? Sì è l’immaginazione; e l’immaginazione è il prodotto dell’eredità. È semplicemente esperienza di razza concentrata.

ERNEST: Ma, dov’è in tutto questo, la funzione dello spirito critico?

GILBERT: La cultura che rende possibile la trasmissione delle esperienze di razza può esser resa perfetta solo dallo spirito critico, e in realtà si può considerare un tutto unico con esso. Ché, chi è il vero critico se non colui che custodisce in sé i sogni, le idee, e i sentimenti di una miriade di generazioni, al quale nessuna forma di pensiero è aliena, nessun impulso emotivo è oscuro? E chi è il vero uomo di cultura se non chi, con grande erudizione e fastidiosi rifiuti, ha reso l’istinto consapevole e intelligente; colui che riesce a distinguere l’opera di valore da quella che non ne ha; che, così, attraverso contatti e confronti diventa maestro dei segreti di stile e scuola, comprende i loro significati, ascolta le loro voci e sviluppa quello spirito di disinteressata curiosità che è la vera radice, come è il vero fiore, della vita intellettuale, ottenendo in tal modo la chiarezza intellettuale; avendo imparato «il meglio che si conosce e si pensa nel mondo», egli vive – non è fantasioso dire – con coloro che sono Immortali.

Sì, Ernest, la vita contemplativa, la vita il cui scopo non è il fare, ma l’essere, e non il semplice essere, ma il divenire: ecco ciò che può offrirci lo spirito critico. Gli dèi vivono così: o riflettendo sulla loro perfezione, come ci dice Aristotele, o, come ha immaginato Epicuro, osservando con l’occhio placido dello spettatore la tragi-commedia del mondo che essi hanno creato. Anche noi potremmo viver come loro, ed essere testimoni, con appropriate emozioni, delle varie scene che l’uomo e la natura offrono. Ci potremmo spiritualizzare, distaccandoci dall’azione, e diventare perfetti rifiutando l’energia. Ho sempre pensato che Browning avesse provato una sensazione del genere. Shakespeare spinge Amleto alla vita attiva e fa sì che porti a compimento la sua missione con la forza. Browning avrebbe potuto darci un Amleto che avrebbe portato a termine la sua missione solo pensando. Gli accadimenti e gli eventi erano insignificanti per lui, e irreali. Ha fatto dell’anima la protagonista della tragedia della vita e ha considerato l’azione come il solo elemento non drammatico di un dramma. Comunque, per noi la Βίος θεωρητικός [Vita di contemplazione] è il vero ideale. Dall’alta torre del pensiero osserviamo il mondo. Calmo, concentrato su se stesso, e completo, il critico estetico contempla la vita; nessuna freccia tirata a caso si può conficcare fra le giunture della sua armatura. Egli, almeno, è al sicuro. Ha scoperto come si vive. È immorale questo modo di vivere? Sì, ogni arte è immorale, tranne quella bassa forma di arte sensuale o didattica che cerca di spingere all’azione per il bene o per il male. Perché ogni tipo di azione appartiene alla sfera dell’etica. Il fine dell’arte è semplicemente creare uno stato d’animo. Questo stile di vita è poco pratico? Ah, non è così facile non essere pratici come crede l’ignorante Filisteo. Sarebbe stato bene per l’Inghilterra se così fosse stato. Non c’è paese al mondo che ha bisogno di persone poco pratiche come quello in cui viviamo. Fra di noi il Pensiero è degradato dalla continua associazione con la pratica. Coloro che si muovono nella tensione e il turbinio della vita reale, il rumoroso politico, lo sbraitante riformatore sociale o l’ottuso prete accecato dalle sofferenze di quella insignificante parte della comunità che gli è capitata in sorte, possono seriamente pretendere di formulare un giudizio intellettuale disinteressato su una cosa qualsiasi? Ciascuna professione comporta un pregiudizio. La necessità di una carriera obbliga ognuno a prender posizione. Viviamo in un’epoca di eccessivo lavoro, e di insufficiente istruzione; l’epoca in cui le persone sono talmente industriose che diventano assolutamente stupide. Sebbene sia sgradevole a sentirsi, non posso fare a meno di affermare che queste persone hanno ciò che meritano. Il modo sicuro per non saper nulla della vita è quello di cercare di rendersi utili.

ERNEST: Dottrina allettante, Gilbert.

GILBERT: Non sono sicuro che sia così, ma ha almeno il piccolo merito di essere vera. Che il desiderio di far del bene agli altri produca un copioso raccolto di saccentelli è il minore dei mali che provoca. Il saccente fornisce uno studio psicologico interessante e, nonostante questo sia il più immorale degli atteggiamenti moraleggianti, il fatto che ha un atteggiamento è già qualcosa. È un riconoscimento formale dell’importanza di considerare la vita da un punto di vista ben definito e ponderato. Che la Partecipazione Umanitaria lotti contro la Natura assicurando la sopravvivenza dei perdenti può indurre l’uomo di scienza a odiare le sue facili virtù. L’economista politico può inveire contro di essa poiché ha posto l’imprevidente sullo stesso piano del previdente, togliendo così alla vita il suo più forte, perché più sordido, incentivo all’operosità. Ma agli occhi del pensatore, il vero danno che la comprensione emotiva provoca è limitare la conoscenza e impedire la risoluzione di qualsiasi problema sociale. Oggi cerchiamo di evitare la crisi che incombe, la rivoluzione prossima, come la chiamano i miei amici Fabiani, a forza di elemosine e sussidi. Be’, quando la rivoluzione della crisi arriverà, noi saremo impotenti, poiché ci mancherà la conoscenza. Perciò, Ernest, non lasciamoci ingannare. L’Inghilterra non sarà civilizzata fino a quando non aggiungerà la terra di Utopia ai suoi domini. Esiste più di un paese, fra le sue colonie, a cui essa potrebbe rinunciare vantaggiosamente, per una terra bella come quella. Ciò di cui abbiamo bisogno sono persone che non siano pratiche e che vedano più in là del loro naso, il cui pensiero vada oltre il momento esatto in cui vivono. Coloro che cercano di condurre le persone possono farlo solo seguendo la plebaglia. È con la voce di una persona che grida nel deserto che si devono preparare le strade degli dèi.

Ma forse tu credi che nella gioia dell’osservazione fine a se stessa, nella contemplazione fine a se stessa, ci sia qualcosa di egoistico. Se è questo che pensi, non dirlo. Ci vuole un’epoca profondamente interessata come la nostra, per deificare il sacrificio di sé. Ci vuole un’epoca totalmente avida, come la nostra, per elevare le belle virtù intellettuali, quelle virtù emotive e sentimentali che sono di beneficio pratico immediato solo a se stesse. Inoltre, questi filantropi e sentimentali dei nostri giorni non raggiungono il loro scopo, sempre cianciando del dovere di ognuno verso il prossimo. Infatti lo sviluppo della razza dipende dallo sviluppo dell’individuo, dove la cultura del singolo cessa di essere ideale, il livello intellettuale subisce una subitanea caduta, e spesso scompare del tutto. Se ti capita di cenare con un uomo che ha passato la vita a farsi una cultura – tipo raro ai nostri tempi, ammetto, ma di tanto in tanto se ne trova qualcuno – ti alzerai da tavola arricchito e consapevole del fatto che per un momento un alto ideale ha sfiorato e santificato le tue giornate. Ma, oh!, mio caro Ernest, sedere accanto a qualcuno che ha passato la vita cercando di istruire gli altri! Che esperienza terrificante! Come è spaventosa l’ignoranza che è prodotta inevitabilmente dalla fatale consuetudine di impartire lezioni! Come si dimostra limitata di ampiezza la mente di quella creatura! Come ci annoia, e come deve annoiarsi, con le sue infinite ripetizioni e nauseanti reiterazioni! Come è carente di qualsiasi elemento di crescita intellettuale! E in quale circolo vizioso continua a muoversi!

ERNEST: Parli con uno strano fervore, Gilbert. Hai avuto di recente un’esperienza, come dici tu, così terrificante?

GILBERT: Pochi di noi riescono a evitarle. La gente dice che il maestro è via. Vorrei davvero che fosse così. Ma il tipo, di cui è, tutto sommato, solo un rappresentante e sicuramente il meno importante di essi, mi sembra che in realtà domini le nostre vite. E allo stesso modo in cui il filantropo costituisce un problema nell’ambito dell’etica, nell’ambito intellettuale il problema è costituito da colui che è tanto occupato a istruire gli altri e che non ha mai avuto il tempo di istruire se stesso. No, Ernest, l’erudizione per se stessi è il vero ideale dell’uomo. Goethe l’aveva capito e il debito più immediato che abbiamo nei suoi confronti è più grande di quello che possiamo avere con qualsiasi altro personaggio, sin dai tempi della Grecia. I Greci l’avevano capito, hanno lasciato in eredità al pensiero moderno il concetto di vita contemplativa, insieme al metodo critico con il quale unicamente la vita può esser davvero vissuta. È stato ciò che ha reso grande il Rinascimento e ci ha donato l’Umanesimo. È l’unica cosa che potrebbe rendere grande anche la nostra epoca, perché il vero punto debole dell’Inghilterra non sta nell’insufficienza di armamenti o nella mancanza di fortificazioni sulle coste; non è nella povertà che striscia lungo i vicoli bui o nell’alcolismo che schiamazza in orrendi cortili, ma sta semplicemente nel fatto che i suoi ideali sono emotivi e non intellettuali.

Non nego che sia difficile raggiungere tale ideale dell’intelletto, lo è anche di più, e così sarà negli anni a venire, perché è tanto impopolare tra la plebe. È così facile per la gente comprendere chi soffre. E le è tanto difficile comprendere invece il pensiero. Le persone in realtà comprendono tanto poco che cosa sia il pensiero che, se dichiarano pericolosa una teoria, ne proclamano immediatamente la condanna, mentre soltanto quella teoria ha un vero valore intellettuale. Un’idea innocua non merita affatto di esser chiamata idea.

ERNEST: Gilbert, mi stupisci. Hai detto che tutta l’arte, nella sua essenza, è immorale. Adesso mi vieni a dire che tutti i pensieri nella loro essenza sono pericolosi?

GILBERT: Sì, sul piano pratico, è così. La sicurezza della società è costituita dalla consuetudine, dall’istinto inconsapevole; la base della stabilità sociale, come organismo sano, è formata dalla totale assenza di qualsiasi intelligenza fra i suoi componenti. La grande maggioranza delle persone sono perfettamente consapevoli di ciò, si schierano naturalmente dalla parte di quel meraviglioso sistema che li eleva alla dignità di macchine, e lottano furiosamente contro l’intrusione della facoltà dell’intelletto in ogni questione che riguardi la vita; a tal punto che si è tentati di definire l’uomo un animale ragionevole che perde la calma quando lo si chiama ad agire secondo i dettami della ragione. Ma lasciamo perdere il piano pratico, e non parliamo più dei perfidi filantropi che possiamo proprio affidare alle cure del saggio dagli occhi a mandorla del Fiume Giallo Chuang Tsu; egli ha dimostrato che questi armeggioni, ben pesanti e offensivi, hanno distrutto la semplice e spontanea virtù dell’uomo. Come argomento è piuttosto noioso e non vedo l’ora di tornare al campo dove, invece, la critica è libera.

ERNEST: La sfera dell’intelletto?

GILBERT: Ricordi? Ho parlato del critico creativo, a suo modo, quanto l’artista, il cui lavoro può essere effettivamente di qualche pregio nella misura in cui fornisce al critico lo spunto per qualche nuova disposizione di pensiero e di sentimento; egli può realizzarlo praticamente con pari o maggiore superiorità di forma, usando un nuovo mezzo di espressione, renderlo bellissimo in modo diverso, e più perfetto. Be’, mi sembri un po’ scettico su questa teoria. Ho forse detto qualcosa di sbagliato?

ERNEST: Non sono veramente scettico, ma devo ammettere che sento profondamente che il lavoro del critico che hai descritto, ovvero il lavoro di produzione – e si deve indubbiamente ammettere che sia anche creativo – è necessariamente, puramente soggettivo, mentre le grandi opere sono sempre oggettive, oggettive e impersonali.

GILBERT: La differenza fra oggettivo e soggettivo riguarda solo la semplice forma esteriore. È incidentale, non essenziale. Tutte le creazioni artistiche sono assolutamente soggettive. Lo stesso paesaggio che Corot osservava era, a dir suo, una disposizione della sua mente; e le grandi figure del dramma greco o inglese che ci sembra possiedano una loro vita propria, separati dai poeti che hanno dato loro forma e li hanno modellati, sono, in ultima analisi, semplicemente i poeti stessi, non come pensavano di essere, ma come pensavano di non essere, e grazie a quel pensiero accadde, anche se per un momento, che lo fossero davvero. Poiché non possiamo varcare i limiti di noi stessi, né può esserci nella creazione ciò che non fosse nel creatore. Anzi, direi che più la creazione appare oggettiva, più è, in realtà, soggettiva. Shakespeare può aver incontrato Rosencrantz e Guildenstern per le bianche strade di Londra, o aver visto i servi di case rivali mordersi i pollici a vicenda nella pubblica piazza. Ma Amleto è venuto fuori dalla sua anima, e Romeo dalla sua passione. Erano elementi propri della sua natura ai quali egli dette forma visibile, impulsi che lo scossero tanto intimamente, da dover, per forza, lasciare che esprimessero la loro energia, non su un piano inferiore della vita reale, dove sarebbero stati impediti e costretti e quindi imperfetti, ma sul piano dell’arte della immaginazione, dove l’Amore può davvero trovare nella Morte la sua realizzazione più alta; dove si può pugnalare chi origlia dietro l’arazzo, lottare in una tomba appena scavata, far sì che un re colpevole beva la sua colpa, vedere lo spirito del proprio padre, sotto i raggi della luna, che avanza in armatura di ferro lungo le mura cinte dalla nebbia. Essendo limitata, l’azione avrebbe lasciato Shakespeare insoddisfatto e inespresso; e proprio perché egli non fece niente che fu capace di realizzare ogni cosa, così non parlandoci mai di se stesso nei suoi drammi, sono i suoi drammi che ce lo rivelano in modo assoluto. Ci mostrano la sua vera natura e carattere molto più a fondo persino di quei deliziosi e strani sonetti in cui egli rivela a occhi cristallini lo scrigno segreto del suo cuore. Sì, la forma oggettiva è la più soggettiva nella sostanza. L’uomo è meno se stesso quando parla della sua persona. Dategli una maschera, e vi dirà la verità.

ERNEST: Il critico, quindi, essendo limitato alla forma soggettiva, sarà fatalmente meno capace di esprimere se stesso, rispetto all’artista che ha sempre a sua disposizione forme che sono impersonali e oggettive.

GILBERT: Non necessariamente, e certamente no davvero se riconosce che ciascun modello di critica è, al livello più alto del suo sviluppo, semplicemente uno stato d’animo e che mai siamo tanto sinceri con noi stessi come quando siamo incoerenti. Il critico estetico, fedele solo al principio della bellezza in tutte le cose, sarà sempre alla ricerca di impressioni nuove, prendendo da varie scuole il segreto del loro fascino, inchinandosi, forse, dinanzi ad altari stranieri, o sorridendo, se gli va, a nuovi, strani dèi. Ciò che la gente chiama il nostro passato ha, senza dubbio, molto a che fare con loro, ma non ha assolutamente niente a che fare con noi. L’uomo che si volta a guardare il proprio passato merita di non aver un futuro che lo attende. Una volta che si è trovata espressione per uno stato d’animo, è finita. Tu ridi, ma credimi è così. Ieri era il Realismo che ci attirava. Da esso si otteneva quel «nouveau frisson» (nuovo brivido) che aveva lo scopo di produrre. Lo abbiamo analizzato e ce ne siamo stancati. Al tramonto vennero i «Luministes» nella pittura, e i «Symbolistes» nella poesia: lo spirito del Medioevo, lo spirito che non appartiene a nessun tempo ma solo al carattere, si è risvegliato improvvisamente nella Russia ferita, e per un momento ci ha incalzati con il terribile fascino del dolore. Oggigiorno vanno di moda i Romantici, già le foglie tremano nelle valli e sulle cime viola delle colline la Bellezza cammina con snelli piedi dorati. Naturalmente, i vecchi canoni della creazione sussistono. Gli artisti riproducono o se stessi o si riproducono a vicenda, con tediosa reiterazione. Ma la Critica continua ad andare avanti, e il critico è in crescita costante.

Di nuovo, il critico non è neanche veramente limitato alla forma soggettiva dell’espressione. Il metodo del dramma gli è caratteristico, come quello dell’epos. Può usare il dialogo come ha fatto chi ha messo Milton a colloquio con Marvel sulla natura della commedia e della tragedia, o ha fatto disquisire sulle lettere Sidney e Lord Brooke sotto le querce di Penshurst; oppure adotta la narrazione, come ama fare Pater: ciascuno dei suoi Ritratti Immaginari – mi sembra questo il titolo del libro – ci presenta, sotto una fantasiosa forma di finzione, alcuni squisiti brani di critica, uno sul pittore Watteau, un altro sulla filosofia di Spinoza, un terzo sugli elementi pagani del primo Rinascimento e l’ultimo, e per qualche aspetto il più suggestivo, sulle fonti del «Aufklarung», l’illuminazione che albeggiò in Germania il secolo scorso e al quale la nostra cultura deve così tanto. Il dialogo certamente, quella straordinaria forma letteraria che, da Platone a Luciano, da Luciano a Giordano Bruno, e da Bruno a quel grande vecchio pagano che tanto deliziò Carlyle, i critici creativi del mondo hanno sempre impiegato, non riesce a perdere, per il pensatore, le sue attrattive come forma di espressione. Per mezzo di esso può sia rivelarsi che nascondersi, può dar forma a qualsiasi fantasia e conferire realtà a ogni stato d’animo. Per mezzo di esso può mostrare l’oggetto sotto ogni punto di vista, può farcelo vedere a tutto tondo, come fa lo scultore, sfruttando in questo modo tutta la ricchezza e la verità di effetto che deriva da motivi secondari improvvisamente suggeriti dallo sviluppo dell’idea centrale, facendo più luce sull’idea stessa, o da quei felici ripensamenti che offrono una più piena completezza allo schema centrale, mantenendo tuttavia qualcosa del delicato fascino dell’inatteso.

ERNEST: Inoltre, in questo modo, egli può inventare un antagonista immaginario e convertirlo, quando lo voglia, con qualche disquisizione assurdamente sofisticata.

GILBERT: Ah! È così facile convertire gli altri. E così difficile convertire se stessi. Per giungere a ciò in cui si crede, si deve parlare con labbra che non sono le nostre. Per sapere il vero ci si deve immaginare una miriade di falsità. Perché, che cos’è la verità? In fatto di religione è solo l’opinione che è sopravvissuta. In fatto di scienza è la sensazione ultima. In fatto di arte, è l’ultima delle sensazioni che si provano. E adesso, Ernest, vedi che il critico ha a sua disposizione tante forme oggettive di espressione quante ne ha l’artista. Ruskin ha trasformato la sua critica in prosa d’immaginazione, ed è superbo nei suoi cambiamenti e nelle sue contraddizioni; Browning ha fatto della sua critica versi sciolti e fa che il poeta e il pittore ci rivelino il loro segreto; Renan usa i dialoghi, e Pater l’invenzione; Rossetti ha tradotto i colori di Giorgione e il tratto di Ingres in ritmo di sonetto; e ha tradotto anche i suoi stessi colori e tratti, sentendo, con l’istinto di chi possiede molte forme di espressione, che l’arte definitiva è la letteratura e che il mezzo più versatile e più bello sono le parole.

ERNEST: Bene, adesso che hai stabilito che il critico ha a sua disposizione tutte le forme oggettive, vorrei che tu mi spiegassi quali sono le qualità che dovrebbero caratterizzare un vero critico.

GILBERT: Quali diresti che siano?

ERNEST: Be’, credo che un critico dovrebbe soprattutto essere giusto.

GILBERT: Ah! Non giusto. Un critico non può essere giusto nel senso comune del termine. Solo riguardo a cose che non interessano si può esprimere realmente un’opinione imparziale, ragione per cui, indubbiamente, un’opinione imparziale è sempre assolutamente priva di valore. L’uomo che considera ambedue i lati della questione non vede proprio niente. L’arte è una passione, e in materia d’arte il Pensiero è inevitabilmente colorato dall’emozione, perciò è fluido piuttosto che statico e, dipendendo da particolari stati d’animo e momenti squisiti, non può esser chiuso nella rigidità di una formula scientifica o di un dogma teologico. L’arte parla all’anima, e l’anima può esser fatta prigioniera della mente come del corpo. Non dovremmo, naturalmente, aver pregiudizi. Ma, come un grande francese ha osservato un centinaio di anni fa, in questo campo l’aver preferenze è questione privata, e quando si hanno delle preferenze si smette di essere giusti. Solo un battitore di aste può ammirare tutte le scuole d’arte in modo imparziale e giusto. No, la giustizia non è una delle qualità del vero critico. Non è neanche una condizione della critica. Ogni forma d’arte con cui veniamo a contatto, per il momento ci domina a esclusione di ogni altra forma. Dobbiamo completamente arrenderci all’opera in questione, qualsiasi essa sia, se vogliamo conoscerne il segreto. Per il momento non dobbiamo pensare a nient’altro, non possiamo, in realtà, pensare a nient’altro.

ERNEST: Il vero critico sarà, comunque, razionale, non è vero?

GILBERT: Razionale? Ci sono due modi di non amare l’arte, Ernest. Uno è non amarla. L’altro è di amarla razionalmente. Perché l’Arte, come capì Platone, e non senza rimpianto, crea nell’ascoltatore e nello spettatore una forma di divina pazzia. Non sgorga dall’ispirazione, ma rende gli altri ispirati. La ragione non è la facoltà alla quale fa appello. Se si ama l’arte la si deve amare oltre ogni altra cosa al mondo, e contro questo amore, la ragione, se la si ascoltasse, griderebbe forte. Non c’è niente di sano nell’adorazione della bellezza. È troppo splendida per non essere folle. Coloro le cui vite prendono forma in essa appariranno, agli occhi del mondo, sempre dei puri visionari.

ERNEST: Almeno sarà sincero, il critico?

GILBERT: Un po’ di sincerità è pericolosa, molta sincerità è assolutamente fatale. Il vero critico sarà sempre sincero nella sua devozione al principio della bellezza, ricercherà la bellezza in ogni epoca e in ogni scuola, e non permetterà mai di esser limitato da una qualsiasi abitudine di pensiero o di modi stereotipati di osservare le cose. Troverà la sua realizzazione attraverso diverse forme, in migliaia di maniere e sarà sempre curioso di nuove sensazioni e nuovi punti di vista. Solo attraverso il costante cambiamento, troverà la sua vera unità. Non permetterà a se stesso di diventare schiavo delle proprie opinioni. Poiché, che cos’è il pensiero se non il movimento nella sfera intellettuale? L’essenza del pensiero, come l’essenza della vita, è crescita. Non devi lasciarti spaventare dalle parole, Ernest. Ciò che la gente chiama insincerità è solo un modo attraverso il quale possiamo moltiplicare le nostre personalità.

ERNEST: Temo di non aver indovinato con i miei suggerimenti.

GILBERT: Delle tre qualità che hai citato, due, la sincerità e la giustizia, anche se non sono propriamente morali, sono almeno al confine con la morale; la prima condizione della critica è che il critico dovrebbe essere in grado di riconoscere che la sfera dell’arte e la sfera dell’Etica sono assolutamente distinte e separate. Quando vengono mischiate, ecco che ricomincia il caos. In Inghilterra, ai nostri giorni, esse vengono confuse spesso e, nonostante i puritani nostri contemporanei non possano distruggere una cosa bellissima, possono comunque, per mezzo della loro straordinaria smania, contaminarla per un momento. È soprattutto, mi rincresce dover dire, attraverso il giornalismo che questo tipo di gente trova espressione. Mi rincresce perché c’è anche molto da dire in favore del giornalismo moderno. Fornendoci le opinioni dei non istruiti, fa sì che manteniamo il contatto con l’ignoranza della comunità. Offrendoci il resoconto dettagliato degli eventi della vita contemporanea, ci dimostra quale minima importanza essi in realtà abbiano. Discutendo invariabilmente di facezie, ci fa capire quali siano le cose che la cultura richiede e quali no. Ma non dovrebbe permettere al povero Tartufo di scrivere articoli sull’arte moderna. Quando lo fa si rende stupido. Eppure, gli articoli di Tartufo e gli appunti di Chadband fanno di buono almeno questo: servono a mostrare quanto sia estremamente limitata l’area nella quale l’Etica, e le considerazioni etiche, possa pretendere di esercitare la sua influenza. La scienza è fuori dalla portata della morale, poiché il suo sguardo è fisso su verità eterne. L’arte è fuori dalla portata della morale perché il suo sguardo è fissato su cose belle, immortali e costantemente mutevoli. Alla morale appartengono le sfere più basse e meno intellettuali. Comunque, lasciamo passare questi puritani roboanti; possiedono un lato comico. Chi può fare a meno di ridere quando un comune giornalista propone seriamente di limitare il materiale a disposizione dell’artista? Qualche limite potrebbe a ragione, e potrà presto, spero, esser posto a qualche giornale e a qualcuno che su essi scrive. Essi ci forniscono i nudi, sordidi e disgustosi fatti della vita. Fanno la cronaca, con avidità degradante, dei peccati di seconda scelta, con la consapevolezza dell’illetterato ci offrono accurati dettagli prosaici di quello che fa la gente, e che, comunque, non hanno il benché minimo interesse. Ma all’artista che accetta i fatti della vita e tuttavia li modella in belle forme, li rende veicoli di pietà o di rispetto, mostra il loro elemento di colore e la loro meraviglia, e anche la loro vera importanza etica, che da essi costruisce un mondo più reale di quello vero e di importanza più nobile e più elevata – chi potrà imporre limiti? Non gli apostoli del nuovo giornalismo che altro non è che la vecchia volgarità «scritta in grande». Non gli apostoli del nuovo puritanesimo, che è solo il piagnucolio degli ipocriti ed è sia scritto che parlato malamente. La sola idea è ridicola. Lasciamo questa gente malvagia, e procediamo col discutere delle qualità artistiche necessarie al vero critico.

ERNEST: E quali sono? Dimmele tu stesso.

GILBERT: Il temperamento è il primo requisito di un critico – un temperamento squisitamente sensibile alla bellezza e alle varie sensazioni che essa provoca. Adesso non parleremo di quali siano le condizioni e i mezzi con i quali questo temperamento nasce in una razza o nell’individuo. Sarà sufficiente osservare che esso esiste e che in noi esiste un senso della bellezza, separato dagli altri sensi e a loro superiore, separato dalla ragione e di più nobile statura, separato dall’anima ma di uguale valore – un senso che porta alcuni a creare, e altri, gli spiriti più raffinati, io credo, alla pura contemplazione. Ma per raggiungere la purezza e la perfezione, questo senso necessita di un certo tipo di ambiente particolare. Senza di esso deperisce e perde di vivacità. Ricordi quel bel brano dove Platone descrive come dovrebbe essere educato un giovane greco, e con quanta insistenza si sofferma sull’importanza dell’ambiente, dicendo che il ragazzo deve essere fatto crescere in mezzo a visioni e suoni gradevoli, così che la bellezza delle cose materiali possa preparare la sua anima a recepire la bellezza, che è spirituale. Senza rendersene conto e senza conoscerne la ragione, egli svilupperà quel vero amore per la bellezza che, come Platone non si stanca mai di ripetere, è il vero scopo dell’educazione. Gradatamente nascerà in lui il temperamento che lo porterà naturalmente e semplicemente a dare la preferenza al buono invece che al cattivo, a seguire l’istintivo gusto per tutto ciò che possiede grazia, fascino e bellezza, rifiutando quanto è volgare e discordante. Infine, durante il suo corso, il suo gusto deve diventare critico e cosciente di sé, ma all’inizio deve esistere puramente come un istinto coltivato e «colui che ha ricevuto la vera cultura dell’uomo interiore percepirà una visione chiara e certa delle omissioni e mancanze in arte o in natura; con infallibile gusto, nel lodare e trovare piacere in ciò che è buono e lo riceve in seno alla sua anima divenendo così buono e nobile, giustamente biasimerà e odierà il malvagio, a partire dai giorni della sua gioventù, addirittura prima di conoscerne la ragione». Perciò, quando più tardi, lo spirito critico e consapevole si svilupperà in lui, egli «lo riconoscerà e lo saluterà come un amico che la sua educazione gli ha reso familiare da tempo». Non c’è bisogno che ti dica, Ernest, quanto manchi in Inghilterra questo ideale, posso immaginare il sorriso che illuminerebbe il volto lucido del filisteo se si osasse suggerirgli che il fine ultimo dell’educazione è l’amore per la bellezza, che i metodi per portarla a compimento sono lo sviluppo del carattere, la valorizzazione del gusto e la creazione dello spirito critico.

Eppure, anche per noi, esiste ancora una certa gradevolezza di ambiente, l’ottusità di tutori e professori conta molto poco finché ci si può trattenere nei grigi chiostri del Magdalen, o ascoltare la voce flautata che canta nella cappella di Waynefleete, o stendersi su un prato verde, fra strane fritillarie screziate come serpenti, osservare l’infuocato mezzogiorno che accende l’oro sulle banderuole delle torri dorate, o vagare su per la scala della Christ Church sotto i ventagli ombrosi dei soffitti a volte, o passare attraverso le porte scolpite del palazzo di Laud nel College di St. John. Ma non solo a Cambridge o a Oxford si può formare, allenare e perfezionare questo senso della bellezza. In tutta l’Inghilterra c’è un rinascimento delle arti decorative. La bruttezza ha fatto il suo tempo. Si trova del gusto persino nelle case dei ricchi, e le case dei meno abbienti sono state rese graziose, accoglienti e gradevoli da viverci. Calibano, il povero e rumoroso Calibano, crede che una volta smesso di far versi a qualcosa, questa cessi di esistere. Ma se smette di beffeggiare è perché ha incontrato una beffardaggine più svelta e acuta della sua, per un momento è stato amaramente ridotto a quel silenzio che dovrebbe sigillare per sempre le sue labbra sgraziate. Quel che si è fatto per il momento è stato principalmente liberare la strada. È sempre più difficile distruggere che creare, quando ciò che si deve distruggere è la volgarità e la stupidità, il compito della distruzione non solo richiede coraggio, ma anche disprezzo. Comunque, mi pare che in certa misura questo sia stato fatto. Ci siamo sbarazzati di ciò che è brutto. Dobbiamo ora fare qualcosa di bello. Anche se la missione del movimento estetico è di indurre le persone alla contemplazione, non portarle a creare, tuttavia, dato l’istinto creativo forte nei Celti, e sono i Celti che predominano nell’arte, non c’è ragione che in futuro questo nostro bizzarro rinascimento non divenga tanto potente quanto lo fu la nuova nascita dell’arte che si risvegliò secoli fa nelle città italiane.

Di sicuro, per lo sviluppo del temperamento, dobbiamo rivolgerci alle arti decorative: alle arti che ci toccano, quelle che ci indignano. I quadri moderni sono senza dubbio piacevoli da guardare. Almeno alcuni di essi. Ma è quasi impossibile conviverci; sono troppo intelligenti, troppo asettici, troppo intellettuali. Il loro significato è troppo ovvio, il metodo troppo chiaramente definito. Esauriscono quel che hanno da dire in breve tempo e quindi diventano noiosi come i conoscenti. Mi piacciono molto le opere di molti pittori impressionisti di Parigi e di Londra. Finezza e garbo non hanno ancora abbandonato la loro scuola. Alcune delle loro composizioni e armonie servono a ricordarci l’irraggiungibile bellezza dell’immortale Symphonie en blanc majeur di Gautier, quel perfetto capolavoro di colore e musica che potrebbe aver suggerito il modello, così come il titolo, di molte delle loro pitture migliori. Per essere una classe che accoglie gli incompetenti con fervida simpatia, che confonde il bizzarro col bello, volgarità e verità, essi sono estremamente colti. Sono in grado di fare incisioni che hanno la brillantezza di epigrammi, pastelli affascinanti come paradossi, e i loro ritratti, qualunque siano i luoghi comuni contro di loro, non si può negare che possiedano quel meraviglioso e unico fascino che è proprio delle opere di pura fantasia. Ma neanche gli impressionisti, per quanto onesti e industriosi siano, fanno abbastanza. Mi piacciono. La loro nota tonica, con le sue variazioni in lilla, creò un’epoca nel colore. Sebbene il momento non faccia l’uomo, il momento fa sicuramente gli impressionisti, e riguardo al momento nell’arte, e il «monumento del momento» come disse Rossetti, cosa non può dirsi? Sono anch’essi suggestivi. Se non hanno aperto gli occhi ai non vedenti, hanno almeno dato grande incoraggiamento ai miopi, e mentre i loro capigruppo possono avere tutta l’inesperienza dell’età antica, i loro giovani sono davvero troppo saggi per essere sempre sensibili. Eppure insistono nel trattare la pittura come se fosse una specie di autobiografia creata a uso dell’illetterato, e ci fanno continuamente prediche, sulle rozze tele ruvide, su quanto siano superflue le loro vite e le loro opinioni, rovinando con l’eccessiva enfasi quel bel disprezzo della natura che è la loro cosa migliore, e unico esempio di modestia. Ci si stanca, alla lunga, dell’opera di individui la cui individualità fa sempre un gran rumore, e di solito, priva di interesse. Molto di più va detto della nuova scuola di Parigi, gli «Archaicistes», come essi si definiscono, che, rifiutandosi di abbandonare l’artista in balìa del tempo, non trovano l’ideale dell’arte solo nell’effetto atmosferico, ma sono alla ricerca, piuttosto, della bellezza delle linee, della graziosità dei colori, rifiutano il noioso realismo di coloro che dipingono solo ciò che vedono; loro vedono ciò che vale vedere, e lo vedono non semplicemente con la vista fisica reale, ma con la vista più nobile dell’anima il cui scopo spirituale è molto più vasto, così come molto più splendido nel proposito artistico. A ogni buon conto, essi operano nelle condizioni di cui hanno bisogno per la loro perfezione, hanno sufficiente istinto estetico per rimpiangere quelle sordide e stupide limitazioni dell’assoluta modernità di forma che si sono dimostrate la rovina di così tanti impressionisti. Eppure l’arte francamente decorativa è quella con cui vivere. Fra tutte le arti visive, è l’unica che crea in noi sia il temperamento che lo stato d’animo. Il colore puro, privo della corruzione del significato e lontano da forme definite, può parlare all’anima in migliaia di modi diversi. L’armonia che esiste nelle delicate proporzioni delle linee e dei volumi comincia a riflettersi nella mente. Il ripetersi dei modelli ci dà riposo. La meraviglia delle linee stimola la nostra immaginazione. Nella sola bellezza dei materiali impiegati sono latenti elementi di cultura. Ma questo non è tutto. Con il rifiuto deciso della natura come ideale di bellezza, ma anche del metodo imitativo dei pittori ordinari, l’arte decorativa non solo prepara l’anima ad accogliere il vero lavoro di immaginazione, ma sviluppa in esso quel senso della forma che sta alla base dell’opera creativa non meno che del successo della critica. Poiché il vero artista non è colui che procede dal sentimento verso la forma, bensì dalla forma al pensiero e alla passione. Egli non concepisce prima l’idea, e poi si dice «trasferirò la mia idea in un metro complesso di quattordici versi», ma consapevole della bellezza dello schema del sonetto, concepisce certi movimenti musicali e forme di rima. La semplice forma gli suggerisce come renderla completa di sostanza e renderla intellettualmente ed emozionalmente compiuta. Di tanto in tanto il mondo inveisce contro qualche incantevole poeta artistico, perché, per usare una frase sciocca e trita, egli «non ha niente da dire». Se avesse qualcosa da dire, probabilmente la direbbe, e il risultato sarebbe tedioso. Ma è proprio perché egli non vuol comunicare nessun messaggio che la sua opera può esser bella. Trae ispirazione dalla forma, e solo da essa, come dovrebbe fare ogni artista. Una vera passione lo porterebbe alla rovina. Ogni cosa che accada veramente è rovinata per l’arte. Tutta la poesia peggiore scaturisce da veri sentimenti. Essere naturali vuol dire essere ovvi, ed essere ovvi significa non essere artistici.

ERNEST: Mi chiedo se davvero credi in quello che dici.

GILBERT: Perché te lo chiedi? Non solo nell’arte il corpo è anima. In ogni aspetto della vita la forma è l’inizio delle cose. I movimenti ritmici e armoniosi della danza comunicano, dice Platone, sia ritmo che armonia alla mente. Le forme sono il cibo della fede, urla Newman in uno dei suoi momenti di sincerità che ci fanno apprezzare e ci fanno conoscere l’uomo. Era nel giusto, anche se forse non poteva sapere quanto terribilmente nel giusto fosse. Si ha fede nei Credi non perché essi siano razionali, ma perché vengono ripetuti. Sì, la forma è tutto. È il segreto della vita. Scopri una forma che esprima il dolore, ed esso ti diverrà caro. Trova espressione per la gioia e ne intensificherai l’estasi. Desideri amare? Utilizza la litania dell’amore, e le parole creeranno il desiderio dal quale si crede che esse nascano. Il tuo cuore è corroso dal dolore? Immergiti nel linguaggio del dolore, impara da Amleto e dalla regina Costanza, e scoprirai che solo l’esprimerlo è un modo di consolarsi e che la Forma, che è la nascita della passione, è anche la morte del dolore. Così, per tornare al campo dell’arte, è la forma che crea, non solo il temperamento critico, ma anche l’istinto estetico, quell’istinto infallibile che ci rivela ogni cosa sotto la luce della bellezza. Comincia con l’adorazione della forma e non ci sarà segreto nell’arte che non ti verrà svelato. Ricorda che nella critica come nella creazione, il temperamento è tutto e che le scuole d’arte non dovrebbero essere raggruppate storicamente secondo l’epoca della produzione, bensì secondo i temperamenti a cui fanno appello.

ERNEST: La tua teoria dell’educazione è dilettevole. Ma quale influenza avranno i critici cresciuti in quegli ambienti tanto raffinati? Pensi davvero che l’artista sia sensibile alla critica?

GILBERT: L’influenza del critico starà nel semplice fatto che egli esiste. Rappresenterà il modello senza difetti. La cultura del secolo vedrà in lui la realizzazione di se stessa. Non dovrai domandargli che abbia altro scopo se non quello di perfezionare se stesso. Ciò che chiede l’intelletto, è stato ben detto, è solo di sentirsi vivo. In realtà il critico potrà avere il desiderio di esercitare la propria influenza; ma facendo ciò, dovrà occuparsi non dell’individuo, ma dell’epoca di cui egli cercherà di risvegliare la coscienza, e di renderla responsabile, creando in essa nuovi desideri, nuove esigenze, cedendo a essa le proprie ampie visioni e i suoi nobili sentimenti. L’arte reale dell’oggi lo occuperà meno dell’arte di domani, molto meno dell’arte di ieri e riguardo a questa o quella persona che attualmente sta faticando, cosa importa agli zelanti? Fanno del loro meglio, senza dubbio, e di conseguenza da loro otteniamo il peggio. È sempre con le intenzioni migliori che si fanno le opere peggiori. Inoltre, mio caro Ernest, quando un uomo arriva all’età di quarant’anni, o diventa un membro della Royal Academy, o è eletto all’Atheneum Club, o viene riconosciuto come famoso romanziere, i cui libri sono molto richiesti nelle stazioni ferroviarie di periferia; si può avere il divertimento di esporlo, ma non si può aver il piacere di riformarlo. E questa, oserei dire, è la sua fortuna, poiché sono certo che il processo di riforma è ben più doloroso della punizione, in realtà è punizione nella sua forma più grave e morale – fatto che dimostra il nostro completo fallimento come comunità, nel redimere quell’interessante fenomeno che si chiama delinquente matricolato.

ERNEST: Ma non può essere che il poeta sia il miglior giudice della poesia e il pittore il miglior giudice della pittura? Ogni arte deve rivolgersi principalmente all’artista che vi lavora. Non sarà il suo giudizio senz’altro il più stimato?

GILBERT: Tutte le arti si rivolgono solo al temperamento artistico. L’arte non si rivolge allo specialista. Essa pretende di essere universale, e in tutte le sue manifestazioni essa è una. Così, lungi dall’esser vero che l’artista è il miglior giudice dell’arte, un artista davvero grande non potrà mai giudicare le opere degli altri, e a malapena potrà giudicare la propria. La stessa visione concentrata che fa di un uomo un artista, con la sua pura intensità limita la facoltà di corretto apprezzamento. L’energia della creazione lo spinge ciecamente verso la sua meta. Le ruote del suo carro alzano intorno a lui come una nube di polvere. Gli dèi sono nascosti gli uni dagli altri. Possono riconoscere i propri fedeli. E questo è tutto.

ERNEST: Dici che un artista non può apprezzare la bellezza di un’opera diversa dalla sua?

GILBERT: Gli è impossibile. Wordsworth vide in Endymion soltanto un bell’esempio di Paganesimo, e Shelley, a cui l’attivismo non piaceva, fu sordo al messaggio di Wordsworth, la cui forma egli aborriva; e Byron, quella creatura umana incompleta e appassionata, non riusciva ad apprezzare né il poeta delle nuvole né quello dei laghi, e a lui restò nascosta la meraviglia di Keats. Il realismo di Euripide era odioso per Sofocle. Le calde lacrime che versava non avevano musica per lui. Milton, col suo senso del grande stile, non capiva il metodo di Shakespeare, non più di quanto Sir Joshua poteva capire il metodo di Gainsborough. Gli artisti scadenti ammirano a vicenda i propri lavori. Lo chiamano avere la mente aperta, libera da pregiudizi. Ma un artista veramente grande non può concepire che la vita venga mostrata, o la bellezza forgiata, sotto condizioni diverse da quelle che lui ha scelto. La creazione impiega tutta la sua capacità critica entro la propria sfera. Non la si può usare in ambiti che appartengono ad altri. Ed è proprio perché un uomo non può fare una determinata cosa, che ne è il giudice migliore.

ERNEST: Lo pensi davvero?

GILBERT: Sì, poiché la creazione limita, mentre la contemplazione rende ampia la visione.

ERNEST: E per quanto riguarda la tecnica? Certamente ogni arte ha una tecnica diversa.

GILBERT: Sicuro, ogni arte ha una sua grammatica e i suoi materiali. Non c’è mistero né sull’una né sugli altri, e l’incompetente può sempre aver ragione. Ma mentre le regole su cui si basa l’arte possono essere fissate e certe, perché trovino la loro vera realizzazione esse devono esser trasformate dall’immaginazione in una tale bellezza da sembrare eccezioni, ognuna di esse. La tecnica è davvero personalità. Per questa ragione l’artista non può insegnarla, l’alunno non la può apprendere, e il critico estetico non la può capire. Per il grande poeta c’è un solo metodo musicale, il suo. Per il grande pittore c’è una sola maniera di dipingere, quella che lui applica. Il critico estetico, e solo lui, può apprezzare tutte le forme e le metodologie. È a lui che l’arte rivolge il suo appello.

ERNEST: Bene, credo di averti formulato tutte le domande che avevo, e adesso devo ammettere...

GILBERT: Ah! non dire che sei d’accordo con me. Quando la gente mi dà ragione ho sempre la sensazione di essere in errore.

ERNEST: In questo caso non ti dirò certo se sono d’accordo con te o no. Ma ti farò un’altra domanda. Mi hai spiegato che la critica è un’arte creativa. Quale futuro avrà?

GILBERT: È alla critica che il futuro appartiene. Gli argomenti da cui la creazione può attingere sono di giorno in giorno più scarsi in estensione e varietà, la Provvidenza e Walter Besant hanno esaurito quelli ovvi. Se la creazione è destinata a durare dipende solo dalla condizione di diventare molto più critici di quanto lo siamo adesso. Le vecchie vie e le strade polverose sono state percorse troppo spesso. La loro bellezza è stata consunta da piedi stanchi, hanno perduto quell’elemento di novità e sorpresa che è tanto essenziale per la fantasia. Chi ci stimolerà con l’invenzione ci deve donare uno sfondo interamente nuovo, o deve rivelarci l’anima umana nel suo più intimo lavorio. La prima soluzione ci è proposta attualmente da Rudyard Kipling. Sfogliando le pagine del suo Plain Tales from the Hills sembra di stare sotto una palma a leggere la vita con i suoi superbi lampi di volgarità. I brillanti colori dei bazar ci abbagliano gli occhi. Gli anglo-indiani di giada di second’ordine sono squisitamente incongruenti con l’ambientazione. La mancanza di stile nella narrazione è sufficiente a rendere bizzarro giornalismo realistico quel che ci racconta. Dal punto di vista letterario, Kipling è un genio che tralascia le aspirate. Dal punto di vista della vita, è un cronista che conosce la volgarità meglio di chiunque altro. Dickens ne conosceva i costumi e la commedia. Kipling ne conosce l’essenza e la serietà. È l’autorità principale su cose di second’ordine, e attraverso la serratura ha visto e ne ha viste di meravigliose, i suoi sfondi sono vere opere d’arte. Per quanto riguarda la seconda condizione, abbiamo avuto Browning e anche Meredith. Ma c’è ancora molto da fare nel campo dell’introspezione. A volte, la gente dice che il romanzo sta diventando troppo morboso. Per quel che riguarda la psicologia, non è mai stato abbastanza morboso. Abbiamo appena sfiorato la superficie dell’anima, e questo è tutto. In una singola cellula eburnea del nostro cervello sono riposte cose più meravigliose e più terribili di quanto non possano aver sognato coloro che, come l’autore di Le rouge et le noir, hanno cercato di braccare l’anima nei luoghi più nascosti e di far confessare alla vita i suoi segreti più intimi. Eppure c’è un limite anche al numero degli sfondi non ancora provati ed è possibile che un ulteriore sviluppo della consuetudine all’introspezione si dimostri fatale per la capacità creativa, alla quale cerca di fornire nuovo materiale. Io stesso sono incline a pensare che la creazione abbia i giorni contati. Scaturisce da un impulso troppo primitivo e naturale. Comunque sia, è certo che gli argomenti a disposizione per creare diminuiscono costantemente, mentre crescono ogni giorno i soggetti per la critica. Ci sono sempre nuovi atteggiamenti per la mente, nuovi punti di vista. Il dovere di imporre una forma sul caos non diminuisce via via che il mondo avanza. Non è mai esistito un tempo che avesse più bisogno della critica del nostro. È solo attraverso di esso che l’Umanità può rendersi conto del punto a cui è arrivata.

Ore addietro mi hai domandato quale fosse l’uso della critica. Avresti anche potuto chiedermi quale fosse l’uso del pensiero. È la critica, come osserva Arnold, che crea l’atmosfera intellettuale di un’epoca. È la critica, come spero io stesso di poter sottolineare un giorno, che rende la mente uno strumento raffinato. Col nostro sistema educativo, abbiamo gravato la memoria col peso di fatti sconnessi e ci siamo ingegnati a impartire la cultura che abbiamo faticosamente acquisito. Insegnamo alla gente come ricordare e non insegnamo mai come crescere. Non ci è mai capitato di cercare di sviluppare nella nostra mente una qualità di apprendimento e discernimento più sottile. I Greci lo fecero, e quando veniamo in contatto con l’intelletto critico greco, dobbiamo essere consapevoli che, mentre i nostri argomenti sono sotto ogni punto di vista più ampi e variati dei loro, è da attribuire a loro il metodo per l’interpretazione di tali argomenti. L’Inghilterra ha fatto una cosa: ha inventato e stabilito l’Opinione Pubblica, che è un tentativo di organizzare l’ignoranza della comunità ed elevarla alla dignità di forza fisica. Ma la saggezza gli è sempre stata nascosta. Considerata come strumento di pensiero, la mente inglese è rozza e sottosviluppata. L’unica cosa che la può purificare è la crescita dell’istinto critico.

È la Critica, ancora una volta, che con la concentrazione rende possibile la cultura. Prende la massa ingombrante dell’opera creativa e la distilla in essenza più raffinata. Chi, desiderando mantenere un senso di forma potrebbe lottare con la mostruosa moltitudine di libri che il mondo ha prodotto, libri in cui il pensiero balbetta e l’ignoranza schiamazza? Il filo che deve guidarci attraverso questo faticoso labirinto è nelle mani della critica. Anzi, dipiù, quando non ci sono dati e la storia è perduta o non è mai stata scritta, la Critica può ricreare per noi il passato dal più piccolo frammento di linguaggio o arte, tanto precisamente come lo scienziato riesce, da un piccolo osso o da una semplice impronta di zampa sulla roccia, a ricreare per noi il drago alato o la lucertola titanica il cui passo un tempo faceva tremare la terra, può chiamar fuori dalla caverna Behemoth, e far nuotare ancora Leviatano nel mare spaurito. La storia della preistoria appartiene al critico filologo e archeologo. È a lui che vengono rivelate le origini delle cose. I resti consapevoli di un’epoca sono quasi sempre fuorvianti. Solo per mezzo della critica filologica conosciamo più dei secoli che non hanno lasciato tracce oggettive, di quanto non sappiamo dei secoli che ci hanno lasciato le loro pergamene. Può fare per noi ciò che non possono né la fisica né la metafisica. Può darci l’esatta scienza della mente nel processo del suo divenire. Può fare ciò che la Storia non può. Può raccontarci quello che l’uomo pensava prima di imparare a scrivere. Mi hai chiesto dell’influenza della Critica; credo di aver già risposto alla domanda, ma devo aggiungere questo. È la Critica che ci rende cosmopoliti. La scuola di Manchester ha cercato di far capire agli uomini la fratellanza dell’umanità sottolineando i vantaggi commerciali della pace. Ha cercato di degradare il meraviglioso mondo alla stregua di mercato comune per la compravendita. Ha fatto appello agli istinti più meschini e ha fallito. Le guerre si sono succedute l’una all’altra e il credo dei commercianti non ha impedito che la Francia e la Germania si scontrassero in sanguinose battaglie. Ci sono altre persone, oggi, che cercano di appellarsi alla semplice comprensione emozionale, o ai dogmi superficiali di qualche vago sistema di etica astratta. Hanno le loro Società di Pace, tanto care ai sentimentalisti, e propongono un Arbitrato Internazionale non armato, tanto popolare fra coloro che non hanno mai letto la storia. Ma nemmeno la comprensione emozionale funziona. È troppo variabile e troppo strettamente legata alle passioni; ha un consiglio di arbitri che, per il bene comune della razza, sono privi del potere di rendere esecutive le loro decisioni, e questo non sarà di grande aiuto. C’è solo una cosa peggiore dell’Ingiustizia, ed è la Giustizia senza la sua spada in pugno. Quando il Diritto non è Potenza, è Male.

No, le emozioni non ci renderanno cosmopoliti, non più di quanto possa fare l’avidità di guadagno. Solo attraverso la coltivazione della critica intellettuale saremo in grado di elevarci oltre i pregiudizi razziali. Goethe – non devi fraintendermi – era il più tedesco dei tedeschi. Amava il suo paese come nessun altro. Il suo popolo gli era caro, ed egli lo guidò. Eppure, quando lo zoccolo di ferro di Napoleone calpestò vigne e campi di grano, le sue labbra rimasero mute. «Come si possono scrivere canti di odio, senza odiare?», disse a Eckermann, «e come potrei io, per cui solo cultura e barbarie hanno importanza, odiare una nazione che è fra le più colte della terra, e alla quale devo gran parte della mia propria cultura?». Questa osservazione, fatta risuonare per primo da Goethe nel mondo moderno, diventerà, credo, il punto di partenza per il cosmopolitismo del futuro. La critica annullerà i pregiudizi razziali, insistendo sull’unità della mente umana nella varietà delle sue forme. Se saremo tentati di far guerra a una nazione, ci ricorderemo che stiamo per distruggere un elemento della nostra cultura, forse il più importante. Fino a quando la guerra sarà considerata malvagia, manterrà il suo fascino. Quando la si considererà volgare, cesserà di esser popolare. Questo cambiamento sarà, naturalmente, molto lento, e la gente non se ne renderà conto. Non dirà «Non combattiamo la Francia perché la sua prosa è perfetta», ma grazie alla perfezione della sua prosa non la odierà. La critica intellettuale legherà l’Europa con vincoli molto più stretti di quelli che possono forgiare commercianti e sentimentalisti. Ci donerà la pace della comprensione.

Ma non è tutto. È la Critica che, non riconoscendo nessuna posizione come quella definitiva, rifiutandosi di legarsi con sciocche parole d’ordine di sette e scuole, crea quella serena disposizione filosofica che ama la verità per se stessa, e non l’ama di meno perché sa che è irraggiungibile. Quanta poca di quella disposizione abbiamo qui in Inghilterra! E di quanta ne avremmo bisogno! La mente dell’inglese è sempre una furia. L’intelletto della razza è sprecato in sordidi e stupidi battibecchi di politici di second’ordine o di teologi di terz’ordine. Resta allo scienziato il compito di dimostrarci l’esempio supremo di quella «dolce ragionevolezza» di cui Arnold ha parlato con tanto buon senso e, ahimè, con poco effetto. L’autore di Origin of the Species aveva, comunque, una disposizione filosofica. Se si guardano i pulpiti e le piattaforme che si trovano di solito in Inghilterra, si può solo provare il disprezzo di Giuliano, o l’indifferenza di Montaigne. Siamo dominati dai fanatici, il cui peggior vizio è la loro sincerità. Qualunque cosa si avvicini al libero gioco della mente è praticamente sconosciuto fra noi. La gente inveisce contro il peccatore, ma non è il peccatore bensì lo stupido la nostra vergogna. Non esiste peccato tranne la stupidità.

ERNEST: Ah! Sei proprio appassionato di antinomie!

GILBERT: Il critico artistico, come il mistico, ama sempre le antinomie. Essere buoni, secondo il comune standard di bontà, è ovviamente abbastanza facile. Ci vuole solo una certa quantità di sordido terrore, una certa mancanza di pensiero immaginativo, e una certa bassa passione per la rispettabilità borghese. L’Estetica è più elevata dell’Etica. Essa appartiene a una sfera più spirituale. Distinguere la bellezza in una cosa è il più alto grado che possiamo raggiungere. Persino il senso del colore è più importante, nello sviluppo di un individuo, del senso della ragione o del torto. L’Estetica, in realtà, sta all’Etica nell’ambito della civiltà cosciente, come nell’ambito del mondo esterno, il sesso sta alla selezione naturale. L’Etica, come la selezione naturale, rende possibile l’esistenza. L’Estetica, come la selezione sessuale, rende la vita piacevole e bellissima, la colma di nuove forme, le dona progresso, varietà e cambiamento. Quando arriveremo alla vera cultura, che è il nostro scopo, raggiungeremo quella perfezione che i santi hanno sognato, la perfezione di coloro per i quali il peccato non è possibile, non con rinunce da asceti, ma perché possono fare qualsiasi cosa vogliano, senza ferire l’anima, e non possono desiderare niente che la possa danneggiare, essendo essa un’entità così divina capace di trasformarsi negli elementi di una esperienza più ricca, o di una sensibilità più raffinata, o di un nuovo modo di pensare, atti o passioni che nella gente comune sarebbero ordinari, o ignobili per gli ignoranti, o vili per i disonorevoli. È pericoloso? Sì, è pericoloso – tutte le idee, come ti ho detto, lo sono. Ma la notte sta per finire e la luce è tremula nella lampada. C’è solo un’altra cosa che non posso fare a meno di dirti. Hai parlato contro la critica, definendola sterile. Il diciannovesimo secolo è un punto di svolta nella storia, semplicemente a causa dell’opera di due uomini, Darwin e Renan, l’uno critico del Libro della Natura, l’altro critico dei Libri di Dio. Non riconoscerlo vuol dire perdere il significato di una delle epoche più importanti nell’intero corso del mondo. La creazione è sempre indietro rispetto ai tempi. È la Critica che ci guida. Lo Spirito Critico e lo Spirito del Mondo sono una cosa sola.

ERNEST: E chi possiede questo spirito, ed è da esso posseduto, suppongo non farà niente?

GILBERT: Come Persefone, di cui ci narra Landor, la dolce e pensosa Persefone intorno ai cui piedi sbocciano asfodeli e amaranti, egli siederà, contento in «quella pace immota di cui i mortali hanno pietà, e di cui gli dèi gioiscono». Osserverà il mondo e conoscerà i suoi segreti. Col contatto con cose divine, diverrà divino. La sua sarà la vita perfetta, e solo la sua.

ERNEST: Mi hai raccontato un sacco di cose strane stasera, Gilbert. Mi hai detto che è più difficile parlare di una cosa piuttosto che farla, e che non fare niente è la cosa più difficile al mondo. Mi hai detto che l’arte è immorale, e ogni pensiero è pericoloso; che la critica è più creativa della creazione, e che la più alta delle critiche è quella che rivela in un’opera d’arte ciò che l’artista non vi ha messo. Che proprio perché un uomo non può fare qualcosa, egli ne è il giudice più appropriato; che il vero critico è ingiusto, insincero e irrazionale. Amico mio, tu sei un sognatore.

GILBERT: Sì, sono un sognatore. Poiché il sognatore è colui che trova il suo cammino alla luce della luna, e la sua punizione è di vedere l’alba prima degli altri.

ERNEST: La sua punizione?

GILBERT: E la sua ricompensa. Ma, guarda, è già l’alba. Tira le tende e spalanca le finestre. Come è fresca l’aria del mattino! Piccadilly giace ai nostri piedi come un lungo nastro d’argento. Sul Parco sta sospesa una sottile nebbia purpurea, ed è purpurea l’ombra delle bianche case. È troppo tardi per dormire. Scendiamo al Covent Garden a guardare le rose. Vieni, sono stanco di pensare.

 

 

 

La verità delle maschere

Nota sull’illusione

 

In molti degli attacchi in qualche modo violenti che sono stati recentemente fatti contro la magnificenza delle messe in scena che caratterizzano il ritorno in auge di Shakespeare oggi in Inghilterra, sembra ci sia un tacito accordo fra i critici sul fatto che Shakespeare stesso fosse più o meno indifferente riguardo ai costumi dei suoi attori e che, se potesse vedere la produzione di Mrs. Langtry di Antonio e Cleopatra, probabilmente direbbe che il dramma, e solo il dramma, è la cosa importante, mentre tutto il resto non è che cianfrusaglie prive di importanza. Mentre, per quanto concerne l’accuratezza storica dei costumi, Lord Lytton, in un articolo sul «Nineteenth Century», ha enunciato, come un dogma d’arte, che l’archeologia è totalmente fuori luogo nella realizzazione dei drammi di Shakespeare, e che il tentativo di introdurre questa usanza è una delle pedanterie più stupide in un’epoca di boriosi.

Esaminerò l’opinione di Lord Lytton più avanti; ma rispetto alla teoria che Shakespeare non si occupasse molto del guardaroba costumistico del suo teatro, chiunque si interessi dello studio del metodo shakespeariano, si rende conto che non esiste assolutamente nessun altro drammaturgo, sui palcoscenici di Francia, Inghilterra o Atene, che, come Shakespeare, punti tanto, per l’effetto illusionistico, sugli abiti degli attori.

Ben sapendo che il temperamento artistico è affascinato dalla bellezza dei costumi, egli introduce continuamente nei suoi drammi, maschere e danze, semplicemente per il gusto del piacere che procurano alla vista; rimangono ancora le istruzioni di scena per le tre grandi processioni di Enrico VIII, indicazioni caratterizzate dalla più straordinaria precisione nei dettagli, fino ai collari dei Santi, e le perle fra i capelli di Anna Bolena. Sarebbe davvero molto facile per un regista attuale riprodurre questi quadri scenici esattamente come Shakespeare li aveva concepiti; ed erano così accurate che uno degli ufficiali di corte del tempo, scrivendo a un amico dell’ultima rappresentazione del dramma al Globe Theatre, addirittura si lamenta del suo realismo, specialmente per quanto riguarda l’apparizione sul palco dei Cavalieri della Giarrettiera con uniformi ed emblemi dell’Ordine quasi si fosse voluto intenzionalmente mettere in ridicolo le vere cerimonie; spirito analogo a quello del governo francese che, qualche tempo fa, proibì al divertente attore Christian di apparire in scena in uniforme, sulla base del fatto che far la caricatura di un colonnello avrebbe pregiudicato la gloria dell’esercito. Altrove la magnificenza dell’abbigliamento, che distingueva il teatro inglese sotto l’influenza di Shakespeare, è stata attaccata dalla critica contemporanea, non come di regola, a causa delle tendenze democratiche del realismo, ma di solito per quelle cause di ordine morale che costituiscono l’ultima spiaggia delle persone che non hanno senso della bellezza.

Comunque il punto che mi premeva sottolineare è che Shakespeare apprezzava il valore dei bei costumi non per aggiungere del pittoresco alla poesia, ma perché vedeva quanto fosse importante il costume come mezzo per riprodurre certi effetti drammatici. Molti dei suoi drammi – Misura per misura, La dodicesima notte, Due gentiluomini di Verona, Tutto è bene quel che finisce bene, Cymbeline, e altri – dipendono, per l’illusione, dal carattere dei vari abiti indossati dagli eroi e dalle eroine; la dilettevole scena dei miracoli moderni della guarigione per fede, in Enrico VI, perderebbe di pregnanza se Gloster non fosse vestito in rosso e nero; e il «denoument» delle Allegre comari di Windsor si articola sul colore della veste di Anne Page. Riguardo all’uso che Shakespeare fa dei travestimenti, gli esempi sono pressoché innumerevoli. Postumo nasconde la sua passione sotto un abito da contadino, Edgardo il suo orgoglio sotto i cenci di un idiota; Porzia indossa la veste dell’avvocato e Rosalinda si abbiglia «in tutto e per tutto come un uomo». La sacca di Pisanio trasforma Imogene nel giovane Fidele; Jessica fugge dalla casa del padre vestita da ragazzo, Julia lega i suoi biondi capelli in fantastici nodi d’amore e indossa calzoni e farsetti; Enrico VIII corteggia la sua dama nei panni di un pastore; Romeo in quelli di un pellegrino. Il principe Hal e Poins inizialmente appaiono come ladruncoli vestiti di pelle di montone, e poi con bianchi grembiuli e giacca di cuoio come osti in una taverna. E Falstaff non si presenta forse come bandito di strada, come vecchia, come Herne il cacciatore e come vestiti che vanno alla lavanderia?

Né sono meno numerosi gli esempi di utilizzo del costume come mezzo per intensificare la situazione drammatica. Dopo l’uccisione di Duncan, Macbeth appare in camicia da notte come se fosse stato svegliato dal sonno; Timone conclude vestito di stracci il dramma che aveva iniziato in gran splendore; Riccardo adula i cittadini londinesi con un’armatura sciatta e meschina, ma non appena ha conquistato il trono col sangue, marcia per le strade incoronato, con San Giorgio e la Giarrettiera; l’apice della Tempesta si raggiunge quando Prospero, gettando la sua veste da incantatore, manda Ariele a cercargli il cappello e lo spadino e si rivela come il grande Duca italiano; lo stesso Spettro, in Amleto, cambia sembianze mistiche per riprodurre effetti diversi; e Giulietta, un commediografo moderno l’avrebbe probabilmente vestita del suo sudario, rendendo la scena semplicemente orrida, ma Shakespeare la abbiglia con vesti ricche e bellissime, la cui gradevolezza nella volta offre «una festosa presenza piena di luce», che fa della tomba una camera nuziale e dà a Romeo lo spunto e il motivo del suo discorso sul trionfo della Bellezza sulla Morte.

Persino minimi dettagli di abito, come il colore dei calzini del maggiordomo, o i motivi ornamentali sul fazzoletto di una dama, la manica di un giovane soldato, o la cuffietta alla moda di una donna, divengono fra le mani di Shakespeare elementi di vera importanza drammatica e, in alcuni casi, l’azione della scena ne è assolutamente condizionata. Molti altri drammaturghi si sono avvalsi dei costumi come mezzo per esprimere direttamente alla platea il carattere di un personaggio al suo apparire sul palco, anche se difficilmente in modo tanto brillante come Shakespeare nel caso del dandy Parolles, che, fra l’altro, può esser compreso solo da un archeologo; il divertimento di servo e padrone che si scambiano i mantelli davanti al pubblico; i naufraghi che si azzuffano per spartirsi un mucchio di begli abiti, e uno stagnino vestito come un duca fra i suoi paioli, tutto questo si può considerare parte del ruolo fondamentale che il costume ha sempre ricoperto nella commedia dai tempi di Aristofane fino a Gilbert; ma nessuno ha saputo trarre dal semplice dettaglio di un abito o di un accessorio tanta ironia di contrasti, un effetto tanto immediato e tragico, tanta pietà e tanto pathos, quanto Shakespeare stesso. Armato da capo a piedi, il Re defunto percorre i bastioni di Elsinore poiché non tutto va bene in Danimarca; la gabbana ebrea di Shylock è parte del marchio di infamia sotto cui avvizzisce la sua natura ferita e amareggiata; Arturo, supplicando per la propria vita, non trova miglior argomento di difesa del fazzoletto che aveva dato a Uberto:

 

Avete il cuore di farlo? quando vi doleva il capo

vi cinsi la fronte col fazzoletto,

(era ciò che avevo di meglio, una principessa

l’aveva ricamato per me)

e non ve l’ho mai più richiesto.

 

Il fazzoletto macchiato di sangue di Orlando modula la prima cupa nota in quello squisito idillio silvestre, e dimostra la profondità di sentimento che sottolinea l’ingegno fantasioso di Rosalinda e il suo beffeggiarsi ostinato.

 

La notte scorsa era sul mio braccio e lo baciai;

spero che non dica al mio signore

bacio altri che lui,

 

dice Imogene, celiando sulla perdita del bracciale che già si trovava sulla strada per Roma a derubare la fede di suo marito; il piccolo Principe passando dalla torre gioca con il pugnale nella cinta di suo zio; Duncan manda un anello a Lady Macbeth la notte del suo assassinio; e l’anello di Porzia trasforma la tragedia del mercante nella farsa di una moglie. Il grande ribelle York muore con, sul capo, una corona di carta; l’abito nero di Amleto è come un motivo di colore nel dramma, come il lutto di Chimene nel Cid; il culmine del discorso di Antonio è alla presentazione del mantello di Cesare:

 

ricordo

la prima volta che Cesare lo mise.

Era una sera d’estate, nella sua tenda,

il giorno in cui vinse i Nervi: –

guardate, in questo punto il pugnale di Cassio

l’ha trafitto; vedete che strappo ha fatto

l’invidioso Casca:

proprio qui il benamato Bruto ha colpito...

Anime gentili, che fate, piangete nel vedere

ferito solo l’abito del nostro Cesare?

 

I fiori che Ofelia trasporta nella sua follia sono altrettanto patetici delle violette che sbocciano su una tomba; l’effetto del vagare di Lear per la brughiera è intensificato, oltre ogni parola, dal suo fantastico aspetto; e quando Cloten, colpito dal sarcastico sorriso di sua sorella che osserva l’abbigliamento del marito, si veste col medesimo abito per rigettare su di lei la vergogna, si ha la sensazione che niente nell’intero complesso del Realismo francese moderno, neanche in Teresa Raquin, quel capolavoro dell’orrido, si possa paragonare, per significato tragicamente terribile, alla straordinaria scena del Cymbeline.

Nel dialogo stesso, alcuni dei brani più vivaci sono suggeriti dai costumi. Dice Rosalinda:

 

Credi, sebbene io sia bardata come un uomo,

che indossi farsetto e calzoni?

 

E Costanza:

 

Il dolore colma il vuoto del figlio mio

assente,

ne riempie gli abiti e dà loro la sua

forma.

 

E l’improvviso grido acuto di Elisabetta:

 

Ah! Tagliate i miei lacci!

 

Sono questi solo alcuni degli esempi che si possono portare. Uno degli effetti più belli che io abbia mai visto sul palcoscenico, è stato Salvini, nell’ultimo atto del Lear, che strappa la piuma dal cappello di Kent e l’avvicina alle labbra di Cordelia arrivando al verso:

 

Questa piuma si muove; essa vive!

 

Booth, il cui Lear aveva molte nobili qualità, ricordo che per rendere la stessa scena, strappò del pelo di ermellino archeologicamente scorretto; ma la trovata di Salvini era la migliore e anche più vera. E quanti hanno visto Irving nell’ultimo atto del Riccardo III sono certo non hanno dimenticato come l’agonia e il terrore fossero intensificati, per contrasto, dalla calma e dalla quiete che li precedevano, e dalla recitazione dei versi quali:

 

Come, la mia celata è più arrendevole di prima?

E tutta la mia armatura riposta nella tenda?

Assicurati che le aste siano salde e non

troppo pesanti.

 

Versi che hanno un doppio significato per il pubblico che ricorda le ultime parole che la madre di Riccardo gli ha detto quando egli marciava a Bosworth:

 

Perciò prendi con te la mia

maledizione più tremenda,

che nei giorni della battaglia ti sfianchi più

di tutta l’armatura che ti pesa addosso.

 

Riguardo alle risorse di cui disponeva Shakespeare, bisogna osservare che, mentre si lamenta più di una volta della piccola misura del palco sul quale deve inscenare i suoi poderosi drammi storici e della mancanza di scenari che lo obbliga a tagliare molte scene d’effetto in esterno, scrive sempre come un drammaturgo che ha a sua disposizione un elaboratissimo guardaroba, e può far affidamento su attori che si preoccupano del trucco. Anche adesso è difficile rappresentare la Commedia degli errori; dobbiamo la possibilità di ammirare La dodicesima notte, eseguita come si deve, al pittoresco incidente del fratello di Miss Ellen Terry e della sua somiglianza con lei. In realtà per mettere in scena uno dei drammi di Shakespeare assolutamente come avrebbe voluto lui stesso, c’è bisogno di un buon trovarobe, un intelligente costruttore di parrucche, un costumista che abbia il senso del colore e buona conoscenza dei tessuti, un maestro del trucco, un maestro di scherma, un maestro di ballo e un artista che diriga personalmente tutta la realizzazione. Poiché egli ci dice con molta precisione quale deve essere l’abito e l’apparenze di ciascun personaggio. «Racine abhorre la réalité», dice Auguste Vacquerie, «il ne digne pas s’occuper de son costume. Si l’on s’en rapport aux indications du poête, Agamennon sera vêtu d’un sceptre et Achille d’une épée» [Racine odia la realtà – Non si degna di considerare i costumi. A stare alle indicazioni del poeta, Agamennone sarebbe vestito solo di uno scettro e Achille di una spada]. Ma Shakespeare è molto diverso. Ci dà indicazioni precise sui costumi di Perdita, Florizel, Autolycus e delle streghe del Macbeth; del farmacista di Romeo e Giulietta, molte descrizioni elaborate del grasso cavaliere e un resoconto puntiglioso dell’abito nuziale di Petruchio. Ci dice che Rosaline è alto, deve portare una lancia e un piccolo pugnale; Celia è più bassa e le si deve colorare il volto di marrone perché appaia abbronzata. I bambini che faranno la parte delle fate della Foresta di Windsor devono essere vestiti di verde e di bianco – omaggio, per inciso, alla regina Elisabetta, della quale essi erano i colori preferiti – e con verdi ghirlande e bianche visiere devono giungere gli angeli a Caterina a Kimbolton. Bottom veste abiti fatti in casa, Lisandro si distingue da Oberon per indossare un abito ateniese, e Launce ha gli stivali bucati. La Duchessa di Gloucester è in un lenzuolo bianco, con suo marito che la piange a lato. La giubba variopinta del Buffone, il rosso del Cardinale, i gigli francesi ricamati sui mantelli inglesi, tutto offre l’occasione di scherzo o di motteggio nel dialogo. Sappiamo qual è il motivo sull’armatura del Delfino e sulla spada della Pulzella, l’insegna nobiliare sull’elmo di Warwick e il colore del naso di Bardolph. Porzia ha i capelli biondi, Febe neri; i riccioli di Orlando sono castani e le chiome di Sir Andrew Aguecheek cadono come lino sulla rocca, senza arricciarsi affatto. Alcuni personaggi sono robusti, altri magri; alcuni dritti, altri gobbi; alcuni chiari, altri scuri; altri ancora devono tingersi la faccia. Lear ha la barba bianca, quella del padre di Amleto è brizzolata; Benedick deve rasarsi nel corso del dramma. A dir la verità in fatto di barbe posticce, Shakespeare è piuttosto complicato; ci spiega quali devono essere i colori da usare e fa continuamente cenni agli attori per accertarsi che esse siano ben fissate. C’è una danza di mietitori con i cappelli di paglia, e di contadini con le giubbe ruvide, come satiri; una maschera di amazzone, una di russo e una maschera classica; molte scene immortali su un tessitore in una testa d’asino, un battibecco sul colore di un soprabito che deve essere domato dal Lord Mayor di Londra, e una scena fra il marito infuriato e la moglie, modista, circa l’apertura di una manica.

Per quanto riguarda le metafore che Shakespeare trae dal vestiario e i suoi aforismi su di esso, le sue frecciate alla moda della sua epoca, con riferimento particolare alla ridicola grandezza dei cappelli da signora, e le descrizioni del «mundus muliebris», dalla canzone di Autolycous del Racconto d’inverno, fino alla descrizione della veste della Duchessa di Milano nel Molto rumore per nulla, sono davvero troppo numerose per essere citate; comunque vale la pena di rammentare che la Filosofia dell’Abbigliamento, nella sua completezza, si trova nella scena di Edgard nel Lear – un brano che ha il pregio della brevità e dello stile sulla grottesca saggezza e la metafisica in qualche misura enfatica del Sartor Resartus. Credo, comunque, che da quanto ho già detto, risulti chiaro che Shakespeare era molto interessato ai costumi. Non intendo nel senso superficiale, come è stato concluso da qualcuno, che la sua conoscenza dei fatti e dei narcisi lo rendeva un Blackstone e Paxton dell’età elisabettiana; ma nel senso che egli sapeva che il costume ha la capacità di ottenere intensi effetti sul pubblico, e allo stesso tempo di rendere più espressivi certi tipi di personaggi, ed è un fattore essenziale dei mezzi che ha a sua disposizione il vero illusionista. In realtà, per lui, la deformità di Riccardo ha lo stesso valore della bellezza di Giulietta; mette la saia del radicale accanto alle sete dei signori e osserva qual è l’effetto scenico che da essi si può ottenere. È divertito da Calibano come da Ariele, dagli stracci come dai tessuti dorati e riconosce la bellezza artistica della bruttezza.

La difficoltà che ebbe Ducis nella rappresentazione dell’Otello a causa dell’importanza data a un oggetto tanto volgare quanto un fazzoletto, e il suo tentativo di smorzare la rozzezza facendo ripetere al Moro «Le bandeau! Le bandeau!», può esser presa come esempio di differenza fra «tragédie philosophique» e il dramma della vita reale; l’introduzione per la prima volta della parola «mouchoir» al Théâtre Français ha fatto epoca nel movimento realistico-romantico di cui Hugo fu il padre e Zola l’enfant terrible, proprio allo stesso modo in cui il classicismo della prima metà del secolo fu enfatizzato dal rifiuto di Talma di continuare a impersonare gli eroi greci indossando una parrucca incipriata – uno dei molti esempi, per inciso, dell’esigenza di accuratezza storica degli abiti che ha distinto i grandi attori dei nostri tempi.

Criticando l’importanza data al denaro in La Comédie Humaine, Theophile Gautier afferma che Balzac può vantarsi di aver inventato un nuovo eroe della fantasia, le héros métallique. Di Shakespeare si può dire che per primo ha intuito il valore drammatico dei farsetti e che l’apice dell’emozione può dipendere da una crinolina.

L’incendio del Globe Theatre – fatto dovuto, a proposito, ai risultati della passione per l’illusione per cui si distinse la direzione artistica di Shakespeare – ci ha privato, purtroppo, di molti importanti documenti. Ma nell’inventario, ancora esistente, del guardaroba scenico di un teatro londinese dei tempi di Shakespeare, si fa menzione di alcuni costumi particolari per cardinali, pastori, re, pagliacci, frati e buffoni; mantelli verdi per gli uomini di Robin Hood, una verde veste per Marianna; un farsetto bianco e dorato per Enrico V, e una toga per Longshanks; e poi cotte, cappe, gonne di damasco, abiti di tela d’oro e d’argento, gonne di taffettà, di cotone stampato, cappotti di velluto, di seta, di tela di Frisia, giustacuori di cuoio giallo e nero, abiti rossi e grigi, abiti da Pierrot francese, una veste «per andare invisibili» che ci sembra davvero a buon mercato per 3 sterline e 10 scellini, quattro incomparabili guardinfanti – e tutti questi dimostrano il desiderio di poter dare a ciascun personaggio il costume appropriato. Ci sono registrazioni anche di costumi spagnoli, moreschi e danesi, elmi, lance, scudi dipinti, corone imperiali, tiare papali, come anche di costumi per giannizzeri turchi, senatori romani e tutti gli dèi e le dee dell’Olimpo, che dimostrano una grande ricerca storica da parte del direttore del teatro. È vero che è fatta menzione anche di un corsetto per Eva, ma probabilmente la «donnée» (motivo) del dramma era dopo la Caduta. Chiunque abbia la cura di esaminare l’età di Shakespeare troverà che la ricerca storica era una delle caratteristiche particolari. Dopo il recupero delle forme classiche dell’architettura che si ebbe nel Rinascimento, la stampa a Venezia e altrove dei capolavori della letteratura greca e latina, nacque naturalmente un interesse per i costumi e gli ornamenti del mondo antico. Non era per l’erudizione che ne poteva derivare, ma piuttosto per la gradevolezza che offrivano, che l’artista si mise allo studio di questi particolari. I curiosi oggetti che venivano riportati alla luce nei continui scavi non erano lasciati ad ammuffire nei musei, alla contemplazione dell’indifferente addetto e alla «ennui» di una guardia annoiata dalla mancanza di crimini. Essi venivano utilizzati come motivi per la produzione di una nuova arte, che non solo era bella ma anche molto particolare.

Infessura ci racconta che, nel 1485, alcuni operai che lavoravano agli scavi sulla via Appia si imbatterono in un antico sarcofago romano che riportava l’incisione «Giulia, figlia di Claudio». Aprendo la bara trovarono nel suo interno marmoreo il corpo di una bellissima ragazza di circa quindici anni, che l’abilità dell’imbalsamatore aveva difeso dalla consunzione del tempo. I suoi occhi erano semiaperti, la chioma sparsa intorno a lei in riccioli dorati, dalle labbra e dalle gote la freschezza della fanciullezza non se n’era ancora andata. Portata alla capitale essa divenne subito il centro di un nuovo culto, con folle di pellegrini che venivano da ogni parte della città per rendere omaggio al suo sepolcro. Fino a quando il Papa, temendo che coloro che avevano trovato il segreto della bellezza in una tomba pagana potessero dimenticare i segreti custoditi nei rozzi sepolcri di pietra scolpita, fece rimuovere nottetempo il cadavere, e lo fece sotterrare in segreto. Sebbene si possa trattare di una leggenda, questa storia ha il pregio di dimostrare quale fosse l’atteggiamento nei confronti del mondo antico, tipico del Rinascimento. L’archeologia non era per loro semplicemente una scienza per lo studioso; era un modo di trasformare l’arida polvere dell’antichità nel respiro e nella bellezza stessa della vita, di riempire con il nuovo vino del Romanticismo forme che altrimenti sarebbero state vecchie e consunte. L’influenza di questo spirito si può rintracciare nel pulpito di Nicola Pisano o nel Trionfo di Cesare di Mantegna e nel servizio che Cellini creò per re Francesco. Ma non se ne ha conferma solo nelle arti statiche – le arti del movimento immobile –; si nota la sua influenza anche nelle grandi maschere greco-romane che fornivano costante divertimento alle allegre corti del tempo, e nelle parate e processioni con le quali i cittadini delle grandi città commerciali erano soliti salutare i principi che capitavano in visita. Processioni, comunque, considerate così importanti che di esse si facevano delle stampe e le si pubblicavano – fatto che testimonia l’interesse generale per avvenimenti di questo tipo.

Questo uso dell’archeologia negli spettacoli, lungi quindi dall’essere pedanteria boriosa, è sotto ogni aspetto legittimo e bello. Ché il palcoscenico non è solo un luogo di incontro di tutte le arti, ma anche l’arte che riprende vita. Qualche volta, nei romanzi storici l’uso di termini strani e obsoleti sembra che nasconda la realtà sotto l’erudizione, oserei dire che molti dei lettori di Notre Dame de Paris sono rimasti perplessi circa il significato di espressioni come «la casauque à mahoitres, les voulgiers, le gallimard taché d’encre, les caraquiniers» [tuniche con maniche imbottite, uomini con alabarde, astucci macchiati d’inchiostro, marinai di caracks], ma come è diverso sul palco! Il mondo antico si risveglia e la storia sfila come una processione davanti ai nostri occhi, senza costringerci a ricorrere a dizionari o enciclopedie per la perfezione del nostro godimento. Non c’è davvero bisogno che il pubblico conosca le fonti dell’allestimento di uno spettacolo. Da oggetti come, per esempio, il disco di Teodosio, oggetto col quale probabilmente la maggior parte delle persone non ha confidenza, Godwin, uno dei massimi spiriti artistici dell’Inghilterra di questo secolo, crea la grande bellezza del primo atto di Claudiano: ci mostra la vita a Bisanzio nel quarto secolo non attraverso una scialba conferenza e una serie di tristi calchi, non attraverso un romanzo che richiede l’ausilio di un glossario, ma con la rappresentazione visibile davanti a noi di tutta la gloria di quella grande città. E mentre i costumi erano fedeli fino al minimo punto di colore e di disegno, ai dettagli non veniva attribuita quella esagerata importanza cui si è soliti dare necessariamente durante una minuziosa conferenza, ma sottostavano alle regole della composizione elevata e all’unità dell’effetto artistico. Parlando del grande quadro del Mantegna, che adesso si trova a Hampton Court, Symonds dice che l’artista ha convertito un motivo storico in un tema di melodie di linee. Lo stesso si potrebbe dire con uguale giustezza della scena di Godwin. Soltanto uno sciocco la chiamerebbe pedanteria, solo chi non ha saputo guardare né ascoltare direbbe che la passione del dramma è stata repressa dall’allestimento. Si trattava, in realtà, di una scena non solo perfetta dal punto di vista pittoresco, ma anche decisamente drammatica, libera dalla necessità di descrizioni noiose, che ci mostrava con i colori e le caratteristiche dell’abito di Claudio, e i costumi dei suoi attendenti, tutta la natura e la vita dell’uomo, da quale scuola di pensiero fosse influenzata, fino a quale tipo di cavallo egli montava nelle gare.

L’archeologia è davvero gradevole se trasformata in qualche forma d’arte. Non è mio desiderio sottovalutare il lavoro degli studiosi più eruditi, ma ho la sensazione che l’uso fatto da Keats del Dizionario di Lemprière è molto più prezioso per noi della trattazione del Prof. Max Muller dello stesso soggetto mitologico come affezione del linguaggio. È meglio Endymion di qualsiasi teoria, per quanto giusta o, come nell’esempio appena fatto, non giusta, su un’epidemia fra gli aggettivi! E chi non pensa che il principale merito del libro di Piranesi sui Vasi sia quello di aver ispirato Keats per le sua Ode on a Grecian Urn? L’arte, e l’arte soltanto, può rendere bella l’archeologia; l’arte teatrale la può usare nel modo più diretto e vivo, poiché può combinare in un’unica presentazione l’illusione della vita reale e le meraviglie del mondo irreale. Ma il sedicesimo secolo non è stato solo il secolo di Vitruvio; è stata anche l’età di Vecellio. Ogni nazione sembrava improvvisamente interessarsi agli abiti dei vicini. L’Europa iniziò a far ricerche sui propri vestiti e fu assolutamente straordinario il numero di libri sui costumi nazionali che furono pubblicati. All’inizio del secolo la Nurenberg Chronicle, con le sue duemila illustrazioni, raggiunse la quinta edizione e, prima della fine del secolo, uscirono diciassette edizioni della Cosmography di Munster. Oltre a questi libri, ci furono anche le opere di Michael Colyns, Hans Weigel, Amman, e Vecellio stesso, tutte illustrate, e alcuni dei disegni di Vecellio furono probabilmente fatti dalla mano di Tiziano.

Ma la loro conoscenza non derivava solo dai libri e dai trattati. Lo sviluppo della consuetudine di viaggiare all’estero, i crescenti rapporti commerciali tra i paesi e la frequenza delle missioni diplomatiche offrirono a ogni nazione molte opportunità di studiare le varie forme degli abiti contemporanei. Per esempio, dopo la partenza dall’Inghilterra degli ambasciatori dello Zar, del Sultano e del Principe del Marocco, Enrico VIII e i suoi amici dettero molte feste in maschera abbigliandosi come i loro ospiti. In seguito, Londra conobbe, forse troppo spesso, il cupo splendore della Corte spagnola, da Elisabetta arrivavano inviati da ogni paese, i cui abiti, ci dice Shakespeare, ebbero un’importante influenza sul costume inglese.

E l’interesse non era limitato agli abiti classici, o agli abiti delle nazioni straniere; ci fu anche un’abbondante ricerca, specialmente fra la gente di teatro, sui costumi antichi della stessa Inghilterra. Quando Shakespeare, nel prologo di uno dei suoi drammi, esprime il suo rammarico per non essere in grado di riprodurre gli elmi dell’epoca, parla come un impresario elisabettiano, non solo come poeta elisabettiano. Ad esempio, a Cambridge, ai suoi tempi venne rappresentato un Riccardo III, in cui gli attori indossavano veri abiti d’epoca ottenuti dalla grande collezione di costumi storici della Torre, sempre aperta alle ricerche degli impresari e a volte messa a loro disposizione. E non posso fare a meno di pensare che quell’allestimento deve esser stato di gran lunga più artistico, rispetto ai costumi, di quello di Garrick nel quale egli stesso apparve in un indescrivibile abito fantasioso, e tutti gli altri nei costumi dell’epoca di Giorgio III, con Richmond ammirato in modo particolare per la sua uniforme da giovane guardia.

Perché, qual è l’utilità per la scena dell’archeologia, che così tanto spaventa i critici, se non quella, e quella sola, che riesce a darci l’architettura e l’abbigliamento adatto al tempo in cui l’azione ha luogo? Ci consente di vedere un greco vestito da greco e un italiano vestito da italiano, di ammirare gli archi di Venezia e i balconi di Verona; se si tratta di qualche epoca della storia del nostro paese, ci permette di osservarne il vero aspetto, di vedere il re e come era vestito. Mi chiedo, comunque, che cosa avrebbe detto, tempo addietro, Lord Lytton, al Princess’ Theatre, se il sipario si fosse alzato sul Bruto di suo padre, seduto su una sedia in stile Regina Anna, con in capo una fluente parrucca e addosso una vestaglia fiorita, costume considerato particolarmente appropriato, il secolo scorso, per gli antichi romani! Perché a quei tempi lo storicismo non turbava il palcoscenico, né preoccupava i critici, e i nostri poco artistici nonni sedevano pacificamente in una atmosfera stantia di anacronismi, guardavano, con la calma compiacenza dell’età della prosastica, un Iachimo con cipria e nei, un Lear con sbuffi di pizzo e una Lady Macbeth in ampie crinoline. Posso capire che si attacchi lo storicismo sulla base dell’eccessivo realismo, ma contestarlo come pedante mi sembra davvero che superi il limite. Comunque accusarlo per una qualsiasi ragione è sciocco; si potrebbe parlare in modo altrettanto irrispettoso dell’equatore. Poiché l’archeologia, essendo una scienza, non è né buona né cattiva, ma è semplicemente un fatto. Il suo valore dipende interamente dal modo in cui la si utilizza, e solo un artista può utilizzarla. Per il materiale ci si deve rivolgere all’archeologo, per il metodo all’artista.

Quando disegna la scena e i costumi per uno dei drammi di Shakespeare, per prima cosa l’artista deve stabilire l’epoca migliore. Questa deve essere determinata dallo spirito generale del dramma, più che in base ai veri riferimenti storici che vi si possono trovare. Molti Amleti sono stati ambientati in un passato troppo lontano. Amleto è essenzialmente un discepolo della Rinascita del Sapere; se l’allusione alla recente invasione dell’Inghilterra da parte dei Danesi lo colloca nel nono secolo, l’uso dei fioretti lo porta molto più avanti. Comunque, una volta fissata la data, lo storico deve fornirci i fatti che l’artista deve trasformare in realizzazione.

È stato detto che gli anacronismi in Shakespeare dimostrano la sua indifferenza rispetto alla precisione storica ed è stata sottolineata la infelice citazione che Ettore fa da Aristotele. D’altra parte, gli anacronismi sono davvero pochi, di scarsa importanza e se un fratello artista glieli avesse fatti notare, probabilmente li avrebbe corretti. Poiché, sebbene non possano essere definite pecche, sicuramente non fanno parte delle grandi bellezze delle sue opere; o, almeno, se lo sono, il loro fascino anacronistico non può essere enfatizzato se il dramma non è accuratamente allestito secondo l’epoca esatta. Comunque, considerando l’opera di Shakespeare nel complesso, quel che è davvero notevole è la sua fedeltà ai personaggi e alle trame. Molte delle sue «dramatis personae» sono state persone veramente esistite, e una parte del pubblico dell’epoca può aver avuto la possibilità di vederle nella vita reale. L’accusa più grave che fu fatta a Shakespeare, ai suoi tempi, riguardava la caricatura che probabilmente si riferiva a Lord Cobham. Per quanto concerne la trama, Shakespeare attinge sempre o dalla storia autentica, o da vecchie ballate e tradizioni che per il pubblico elisabettiano avevano la stessa funzione della storia, e che, anche ai giorni d’oggi, nessuno storico scientifico giudicherebbe non vere. Non solo sceglieva i fatti invece che la fantasia come base del suo lavoro creativo, ma a ogni opera dava un carattere generale, in una parola, l’atmosfera sociale dell’epoca in questione. Ebbe a riconoscere che la stupidità è una caratteristica permanente di tutte le civiltà europee; quindi non vede molta differenza fra la folla londinese a lui contemporanea e una folla romana dei giorni pagani, fra uno sciocco guardiano di Messina e uno sciocco Giudice di Pace di Windsor. Ma quando ha a che fare con personaggi di statura più elevata, egli dà loro il marchio e il sigillo del loro tempo. Virgilia era una donna romana sulla cui tomba era scritto «Domi mansit lanam fecit» (Stava a casa a filare), così come sicuramente Giulietta è stata una romantica fanciulla del Rinascimento. Si dimostra fedele perfino alle caratteristiche di razza. Amleto ha tutta l’immaginazione e l’irrisolutezza dei paesi del Nord, la Principessa Caterina è assolutamente francese come l’eroina di Divorcons; Enrico V è un perfetto inglese e Otello un vero moro.

Inoltre, quando Shakespeare tratta della storia inglese dal quattordicesimo al sedicesimo secolo, è eccezionale per come si assicura che i fatti siano perfettamente esatti – effettivamente egli segue Holinshed con particolare fedeltà. Le continue guerre fra Francia e Inghilterra sono descritte con una straordinaria dovizia di particolari fino ai nomi delle città assediate, i porti di approdo e di imbarco, i luoghi e le date delle battaglie, i titoli dei comandanti di ciascuna parte, e le liste dei morti e dei feriti. Riguardo alla Guerra delle Rose, si hanno molte dettagliate genealogie dei sette figli di Edoardo III; ci si dilunga sulla rivendicazione del trono da parte delle Case rivali di York e Lancaster e se l’aristocrazia non vorrà leggere Shakespeare come poeta, dovrebbe certo leggerlo come una sorta di primitivo almanacco nobiliare. Non c’è un unico titolo nobiliare nella Camera Alta, a eccezione naturalmente di quelli poco interessanti assunti dai Lords di legge, che non si ritrovi in Shakespeare unito a molti dettagli della storia delle famiglie, degni di lode o meno che fossero. Se è davvero necessario che i ragazzi dei collegi conoscano la Guerra delle Rose, potrebbero imparare le loro lezioni da Shakespeare non meno bene che dai loro sussidiari da uno scellino, e, non occorre dirlo, in modo estremamente più piacevole. Anche ai giorni di Shakespeare gli si riconosceva questa utilità dei suoi drammi. «I drammi storici insegnano la storia a coloro che non possono leggerla dalle cronache», dice Heywood in un brano sul teatro, eppure sono certo che le cronache del sedicesimo secolo erano molto più divertenti dei primi libri di testo del diciannovesimo.

Naturalmente il valore estetico delle opere di Shakespeare non dipende minimamente dai fatti di cui esse trattano, ma dalla loro Verità, e la Verità non dipende mai dai fatti poiché li sceglie o li inventa a proprio piacere. A ogni buon conto, l’uso che Shakespeare fa dei fatti è una parte interessantissima del suo metodo di lavoro, e ci dimostra la sua predisposizione per il palcoscenico e le sue relazioni con la grande arte dell’illusione. Ci si stupirebbe davvero se qualcuno classificasse i suoi drammi come «racconti di fate» come fa Lord Lytton, poiché il suo fine era quello di creare un dramma storico nazionale inglese, che trattasse di avvenimenti che il pubblico conosceva bene, con eroi vivi nella memoria del popolo. Il patriottismo, non serve sottolinearlo, non è una qualità indispensabile per l’arte; ma significa per l’artista la sostituzione di un sentimento universale a un sentimento individuale, e per il pubblico la presentazione di un’opera d’arte in una forma più piacevole e popolare. Vale la pena ricordare che sia il primo che l’ultimo successo di Shakespeare furono drammi storici.

Ci si potrebbe chiedere adesso, che cosa abbia a che fare tutto ciò con l’atteggiamento di Shakespeare verso il costume. La risposta è che il drammaturgo che pone tanta attenzione alla precisione storica dei fatti avrebbe accolto l’esattezza storica dei costumi come un’importante aggiunta al suo metodo illusionistico. E non ho esitazioni nel dire che fu così. Il riferimento agli elmi dell’epoca, nel prologo dell’Enrico V, può essere considerato fantasioso, anche se Shakespeare spesso ha visto

 

il casco stesso

che spaventò l’aria di Agincourt

 

dove esso è ancora appeso nella cupa atmosfera dell’Abbazia di Westminster, insieme alla sella di quel «figlio della fama», e allo scudo segnato dalle tacche e rivestito di lacero velluto blu e consunti gigli d’oro; ma l’uso delle cotte d’armi nell’Enrico VI è un pezzo di pura archeologia, poiché non si indossavano nel sedicesimo secolo; potrei dire che la stessa cotta del Re era ancora appesa sulla sua tomba nella Cappella di San Giorgio, a Windsor, ai tempi di Shakespeare. Poiché fino agli sfortunati trionfi dei filistei nel 1645, le cappelle e le cattedrali inglesi erano dei grandi musei nazionali di storia, vi si custodivano armature e bardature degli eroi della storia inglese. Molti di essi erano, naturalmente, conservati nella Torre e, anche ai tempi di Elisabetta, i turisti venivano condotti là per ammirare quelle curiose reliquie del passato come l’enorme lancia di Charles Brandon, che viene ammirata, credo, ancora dai visitatori del nostro paese. Ma chiese e cattedrali erano generalmente scelte come templi per la raccolta di antichità storiche. A Canterbury si può ancora vedere l’elmo del Principe Nero, a Westminster le vesti dei nostri Re e nell’antica cattedrale di San Paolo, Richmond stesso ha appeso proprio lo stendardo che aveva sventolato sul campo di Bosworth.

In realtà, ovunque Shakespeare si girasse a Londra, poteva vedere le acconciature e gli accessori dei secoli passati, e non si può dubitare che approfittasse di tali opportunità. L’utilizzo di lance e scudi, ad esempio, nelle vere battaglie, tanto frequente nei suoi drammi, è derivato dall’archeologia e non dagli equipaggiamenti militari dei suoi tempi; l’impiego costante di armature nelle battaglie non era caratteristico della sua epoca, infatti stavano lentamente scomparendo davanti alle armi da fuoco.

Inoltre, l’insegna nobiliare sull’elmo di Warwick, di cui si tiene gran conto nell’Enrico VI, è assolutamente perfetta in un dramma del quindicesimo secolo, epoca in cui si era soliti portarle, ma non in un dramma dei tempi di Shakespeare: infatti piume e penne avevano preso ormai il loro posto – moda che, come ci spiega nell’Enrico VIII, fu importata dalla Francia. Per i drammi storici, quindi, sicuramente ci si avvalse dell’archeologia, e credo che fu così anche nel caso delle opere di altro tipo. L’apparizione di Giove sull’aquila e col tuono nella mano, quella di Giunone e i suoi pavoni e di Iride col suo arco multicolore; la mascherata delle Amazzoni e quella dei Cinque Valorosi, si possono considerare tutte storiche; ed è così anche per la visione di Postumo nella prigione di Sicilio Leonato – «Un vecchio con gli abiti del guerriero, che conduceva una anziana matrona». Dell’«abito ateniese» che distingueva Lisandro da Oberon ne abbiamo già parlato; ma uno degli esempi più caratteristici è quello dell’abito di Coriolano, per il quale Shakespeare si rifà direttamente a Plutarco. Questo storico, nelle sue Vite parallele dei Greci e dei Romani, ci narra della corona di foglie di quercia di cui era cinto il capo di Caio Maerzio, e del curioso tipo di abito col quale, secondo la antica moda, egli doveva andare a sollecitare i voti presso gli elettori; in ambedue i casi l’autore inizia delle lunghe disquisizioni, sulla origine e il significato dei costumi antichi. Shakespeare, col suo spirito da vero artista, accetta i fatti dello storico e li trasforma in effetti drammatici e pittoreschi: infatti, la veste dell’umiltà, «la veste di lana», come la chiama Shakespeare, è la nota centrale del dramma. Ci potrebbero essere altri casi da citare, ma questo è sufficiente per il mio scopo; e in ogni caso, da esso risulta evidente che, mettendo in scena un dramma con i costumi appropriati all’epoca, seguendo le migliori autorità, si seguono i desideri e i metodi di Shakespeare.

Anche se non fosse così, non vi sarebbe più ragione di continuare negli errori che si suppone abbiano caratterizzato gli allestimenti shakespeariani come non ci sarebbe ragione di far recitare la parte di Giulietta da un giovanotto, o rinunciare ai vantaggi degli scenari intercambiabili. Una grande opera d’arte drammatica non solo dovrebbe esprimere le moderne passioni per mezzo dell’attore, ma dovrebbe esserci presentata nella forma più adatta allo spirito moderno. Racine portò in scena i suoi drammi romani con abiti Luigi XIV su un palco affollato di spettatori; ma noi abbiamo bisogno di condizioni diverse per poter godere della sua arte. La perfetta precisione dei dettagli, per amore della perfetta illusione, è a noi necessaria. Ciò a cui dobbiamo badare è che i dettagli non usurpino il posto principale. Essi devono sempre essere subordinati al motivo essenziale del dramma. Ma la subordinazione, nell’arte, non significa tralasciare la Verità; significa convertire i fatti in effetti, e assegnare a ciascun dettaglio il giusto valore relativo.

 

Les petits détails d’histoire et de vie domestique (dice Hugo) doivent être scrupuleusement étudiés et reproduits par le poête, mais uniquement comme des moyens d’accroitre la réalité de l’ensamble, et de faire pénétrer jusque dans les coins les plus obscurs de l’oeuvre cette vie générale et puissante au milieu de laquelle les personnages sont plus vrais, et les catastrophes, par conséquant, plus poignantes. Tous doit être subordonné a ce but. L’Homme sur le premier plan, le reste au fond.

[I piccoli dettagli della storia e della vita domestica devono essere studiati scrupolosamente e riprodotti dal poeta, ma solo come mezzi per accrescere la verosimiglianza dell’insieme, e di far penetrare fino ai recessi più oscuri dell’opera la vita generale e potente nella quale i personaggi sono più veri, e le catastrofi, di conseguenza, più pregnanti. Tutto deve essere subordinato a questo fine. L’Uomo in primo piano, e tutto il resto come sfondo.]

 

Questo brano è interessante poiché scritto dal primo grande drammaturgo francese che ha fatto uso dell’archeologia sul palcoscenico, e i cui drammi, sebbene assolutamente perfetti nei dettagli, sono da tutti conosciuti per la loro passione e non per la loro pedanteria – per la loro vita, non per la loro erudizione. È vero che egli ha fatto qualche concessione nel caso dell’impiego di espressioni curiose o strane. Ruy Blas parla di M. de Priego come di «sujet du roi» invece di «noble du roi», e Angelo Malipieri di «la croix rouge» invece di «la croix de gueule». Ma queste sono concessioni fatte al pubblico o meglio, a una parte di esso. «J’en offre ici toutes mes excuses aux spectateurs intelligents», ci dice in una nota di un suo dramma, «espérons qu’un jour un seigneur vénitien pourra dire tout bonnement sans péril son blason sur le théâtre. C’est un progrès qui viendra» [Mi scuso con tutti gli spettatori intelligenti. Speriamo che un giorno, un nobile veneziano possa semplicemente e senza timore esporre il proprio blasone sul palco. Sarà un progresso].

Sebbene la descrizione del blasone non sia fatta con linguaggio accurato, esso è in sé perfettamente giusto. Si potrebbe dire che il pubblico non fa caso a queste cose; d’altra parte bisognerebbe ricordare che l’arte non ha altro scopo che la perfezione, segue semplicemente le sue regole e che il dramma, che Amleto giudica «caviale per il volgo», è invece da lui molto apprezzato. Inoltre, comunque, in Inghilterra il pubblico ha subìto una trasformazione: apprezza molto di più la bellezza adesso che qualche anno fa; e sebbene non abbia troppa confidenza con gli storici e i dati archeologici che gli vengono mostrati, ammira in ogni caso le bellezze che si trova davanti agli occhi. E questa è la cosa importante. Meglio trarre piacere da una rosa che osservarne le radici al microscopio. La precisione storica serve solo alla verosimiglianza dell’effetto scenico. Non è una qualità. La proposta di Lord Lytton di fare solo abiti belli senza considerare gli elementi storici si basa sull’incomprensione della natura del costume, e del valore che esso ha sul palcoscenico. È un valore doppio, pittoresco e drammatico; il primo dipende dai colori, e il secondo dal disegno e dal carattere. Ma l’uno e l’altro sono talmente interdipendenti che, ogniqualvolta nelle opere teatrali dei nostri giorni la cura storica manca e i vari abiti sono stati presi da epoche diverse, il risultato è stato che il palco si è trasformato in un caos di costumi, in una caricatura dei secoli del Ballo in maschera, fino a rovinare ogni effetto drammatico o pittoresco. Perché gli abiti di un’epoca non armonizzano artisticamente con quelli di un’altra, e, rispetto al valore drammatico, confondere i costumi vuol dire confondere il dramma. Il costume è una crescita, un’evoluzione, un importantissimo, se non il più importante, segno dei modi, delle abitudini e del tipo di vita di ciascun secolo. Ai Puritani non piaceva il colore, l’ornamento e la grazia dell’apparenza costituì parte della grande rivolta della classe media contro la Bellezza nel diciassettesimo secolo. Lo storico che tralasciasse ciò ci darebbe un’immagine inesatta del periodo, e un drammaturgo che di esso non si avvalesse, perderebbe fatalmente uno degli elementi più vitali dell’effetto realistico. L’effeminatezza del vestire che ha caratterizzato il regno di Riccardo II è un tema consueto per gli autori contemporanei. Shakespeare, scrivendo dopo duecento anni, fa dell’amore del Re per le acconciature stravaganti e le mode straniere un tema fondamentale del dramma, dai rimproveri di John Gaunt fino al discorso di Riccardo stesso, nel terzo atto, quando viene deposto dal trono.

Che Shakespeare abbia ammirato la tomba di Riccardo a Westminster, appare certo dal discorso di York:

 

Guardate, guardate Re Riccardo; è come il sole che scontento esce arrossendo dall’infuocata porta dell’oriente, poiché vede le invidiose nubi che si piegano ad oscurare la sua gloria.

 

Poiché si può ancora vedere sulla veste del re il suo simbolo preferito – il sole che esce da una nuvola. In realtà, in ogni epoca le condizioni sociali sono talmente rappresentate dai costumi che mettere in scena un dramma del Cinquecento in abiti trecenteschi, o viceversa, renderebbe lo spettacolo irreale perché non attinente alla verità. E, dal momento che la bellezza è preziosissima per l’effetto teatrale, la bellezza più elevata non solo è paragonabile alla assoluta precisione dei dettagli, ma in realtà dipende da questa. Inventare un costume dal nulla è quasi impossibile tranne che per burla o per stravaganza; combinare insieme in un abito caratteristiche di secoli diversi sarebbe pericoloso come esperimento: l’opinione di Shakespeare sul valore artistico di queste mescolanze si capisce dalla continua satira che egli fa contro i dandy elisabettiani: essi pensavano di esser ben vestiti perché prendevano i farsetti dall’Italia, i cappelli in Germania, e i calzoni in Francia. Bisogna notare che le scene più belle portate sul nostro palcoscenico sono state quelle caratterizzate dalla perfetta attendibilità, come le rievocazioni del diciottesimo secolo a Haymarket dei signori Bancroft, la superba produzione di Molto rumore per nulla fatta da Irving e Claudiano di Barrett. Inoltre, e questa forse è la risposta più completa alla teoria di Lord Lytton, dobbiamo ricordare che il fine principale del drammaturgo non è la bellezza del costume o del dialogo. Il vero drammaturgo mira per prima cosa alla caratterizzazione, non desidera che i personaggi siano vestiti in modo attraente più di quanto voglia dar loro un buon carattere, che essi parlino un bell’inglese. Il vero drammaturgo, infatti, ci mostra la vita sotto l’aspetto dell’arte e non l’arte attraverso le sembianze della vita. Gli abiti greci sono i più belli che si siano mai visti e quelli inglesi del secolo scorso sono i più orrendi; tuttavia non si può rappresentare una commedia di Sheridan con i costumi che si userebbero per Sofocle. Poiché, come dice Polonio nella sua trattazione alla quale sono lieto di poter esprimere la mia riconoscenza, una delle qualità principali del costume è la sua espressività. Lo stile affettato del secolo scorso era la caratteristica naturale di una società dalle maniere affettate e dalla affettata conversazione – caratteristica che il drammaturgo prenderà in considerazione moltissimo fino alla rilevazione del più minimo particolare nella sua precisione, e caratteristica per la quale solo l’archeologia può procurare i materiali.

Ma che un abito sia accurato non è tutto; esso deve anche essere adatto alla statura e all’aspetto dell’attore, alla condizione che egli deve rappresentare così come alla necessaria azione del dramma. Nella rappresentazione fatta da Hare di Come vi piace, al St. James Theatre, ad esempio, le ragioni per il lamento di Orlando, per esser stato allevato da contadino e non come un gentiluomo, sono messe in ridicolo dalla signorilità del suo costume, la splendida acconciatura del Duca, bandito, e dei suoi amici era del tutto fuori luogo. La spiegazione di Lewis Wingfield, che sostiene che le sontuose leggi dell’epoca rendevano tutto questo necessario, temo che non sia sufficiente. È poco probabile che fuorilegge, che vivono nella foresta e vivono di agguati, facciano attenzione alla correttezza nel vestire. È più facile che fossero vestiti come i compari di Robin Hood, ai quali, in verità, sono paragonati nel corso del dramma. Che le loro vesti non siano quelle di nobili abbienti lo si può capire dalle parole di Orlando quando si imbatte con loro. Li scambia per ladri, ed è stupito dalle loro risposte gentili e cortesi. La realizzazione di Lady Campbell, sotto la direzione di Godwin, dello stesso dramma, nella foresta di Coombe, riguardo alla messa in scena fu molto più artistica. O almeno così mi è parso. Il Duca e i suoi compari vestivano di tuniche di tela, giacchette di cuoio, stivali e guanti di ferro, indossavano cappucci e cappelli con la tesa piegata su un lato. E dal momento che recitavano in una vera foresta, sono certo che hanno trovato quegli abiti estremamente comodi. Ogni personaggio del dramma aveva un abbigliamento perfettamente appropriato, il verde e il marrone dei costumi armonizzavano perfettamente col verde delle felci fra le quali si muovevano, erano in armonia con gli alberi sotto cui si stendevano e col bel paesaggio inglese che circondava gli attori pastorali. La perfetta naturalezza della scena era dovuta alla assoluta adeguatezza di tutto ciò che indossavano. Né l’archeologia poteva esser messa a più dura prova e uscirne in modo più trionfante. La rappresentazione, nel suo complesso, ha dimostrato una volta per tutte che, se il costume non è storicamente corretto e artisticamente adeguato, il risultato è sempre scarsamente verosimile, innaturale e teatrale, nel senso di artificiale.

Ma, ancora, non basta che i costumi siano appropriati, accurati e dai bei colori: anche su tutto il palco deve esserci piacevolezza di colore. Se lo sfondo è dipinto da un artista e le scene in primo piano da un altro, si corre il pericolo di perdere l’armonia d’insieme. Si dovrebbe stabilire lo schema del colore per ciascuna scena, con la precisione che si usa per la decorazione di una stanza; i tessuti usati dovrebbero esser combinati e ricombinati in ogni modo possibile, togliendo quel che stona. Riguardo a particolari tipi di colori, il palcoscenico è spesso troppo sfolgorante, a causa, in parte dell’uso eccessivo di rossi violenti e infuocati, in parte a causa dei costumi dall’aspetto troppo nuovo. L’aspetto liso, che nella vita moderna è solo la tendenza delle classi inferiori a darsi un tono, ha un certo valore artistico, e i colori spesso sono migliori se resi un po’ sbiaditi. Anche l’azzurro è usato troppo frequentemente; non solo è un colore pericoloso da portare alla luce del gas, ma è anche davvero difficile trovare un bel blu in Inghilterra. Ci vogliono due anni per ottenere il blu Cina che ammiriamo tanto, e il pubblico inglese non è disposto certo ad aspettare così a lungo. Naturalmente, sulla scena può essere impiegato il blu pavone che, in special modo al Lyceum, dà ottimi risultati, ma tutti i tentativi fatti con i blu chiari o scuri che ho visto si sono dimostrati dei fallimenti. Il valore del nero è scarsamente considerato; è stato usato da Irving nell’Amleto, come nota centrale di una composizione, ma ad esso non viene riconosciuta nessuna importanza come colore neutro per gli abbinamenti. E tutto ciò è curioso se si considera, in generale, il colore degli abiti di un’epoca, come dice Baudelaire, «Nous celebrons tous quelque enterrement» [Siamo vestiti tutti da funerale]. Lo storico del futuro probabilmente ricorderà la nostra età come quella in cui si comprese la bellezza del nero, ma per quel che riguarda gli allestimenti teatrali e l’arredamento delle case, non credo proprio che sia così. Il suo valore decorativo è lo stesso del bianco o dell’oro; può separare o rendere armonici i colori. Nei drammi moderni la giubba nera dell’eroe ricopre da sola un importante ruolo, e dovrebbe essergli dato uno sfondo adeguato. Ma capita raramente. In realtà l’unico sfondo giusto che io abbia visto per uno spettacolo in abiti moderni è stato quello color crema e grigio del primo atto di Princess George realizzato da Mrs. Langtry. Di solito il protagonista è soffocato da bric-à-brac e palme, si perde nell’abisso dorato del mobilio Luigi XIV o, circondato da intarsi, è ridotto alla statura di un nano. Invece una scenografia dovrebbe sempre rimanere in secondo piano, allo stesso modo in cui deve rimanere in secondo piano il colore rispetto all’effetto. E questo si ottiene solo se è un’unica mente che dirige la messa in scena. I fatti d’arte sono diversi, ma l’essenza dell’effetto artistico è l’uniformità. Monarchia, Anarchia o Repubblica possono contendersi il governo di una nazione, ma in teatro il potere dovrebbe essere sempre nelle mani di un solo despota erudito. Chiunque capisca il costume di un’epoca capisce anche la sua architettura e le necessità del suo ambiente. È facile capire dalla forma delle sedie se si tratta o no dell’epoca delle crinoline. Infatti, nell’arte non ci sono specialisti, ma una produzione, artistica davvero, dovrebbe portare l’impronta di un maestro, e di uno solo, che non si limiti a disegnare e disporre ogni cosa, ma che abbia anche il completo controllo sul modo in cui è indossato ogni abito. Mademoiselle Mars, nella prima rappresentazione dell’Ernani, si rifiutò categoricamente di chiamare il suo amante «Mon Lion!», se prima non le fosse stato consentito di indossare un piccolo «toque», molto in voga sui boulevards. Molte giovani attrici insistono, oggi, nel voler portare rigide gonne inamidate sotto l’abito greco, rovinando completamente la delicatezza del lino e del drappeggio; questi delitti non dovrebbero essere permessi. Oggigiorno si dovrebbero fare, inoltre, molte più prove in costume. Attori come Forbes-Robertson, Conway, George Alexander e altri, per non parlare di artisti più anziani, riescono a muoversi con disinvoltura indossando i costumi di qualsiasi epoca; ma non sono pochi quelli che si trovano terribilmente in imbarazzo se non hanno tasche dove infilare le mani, o che portano i vestiti come se fossero costumi. I costumi, naturalmente, riguardano i costumisti, ma gli abiti devono riguardare chi li indossa. Parimenti, la si dovrebbe smettere con l’idea, molto diffusa in teatro, che Greci e Romani all’aperto andassero a capo scoperto – errore in cui non caddero i registi elisabettiani che ai loro senatori romani fornivano cappucci oltre che toghe. Aumentare le prove in costume servirebbe anche a spiegare agli attori che ci sono tipi di gesti e di movimenti che non solo sono adatti allo stile degli abiti, ma che da quest’ultimi vengono condizionati. Ad esempio, l’uso stravagante delle braccia nel Settecento era conseguenza delle grandi crinoline; e la solenne dignità di Burleigh era dovuta alla sua gorgiera non meno che alla sua ragione. E poi, se l’attore non si trova a suo agio nel proprio costume, non si trova a suo agio neanche nel proprio ruolo. Di quanto valga un bel costume per l’atmosfera artistica e per la creazione del gusto del bello fine a se stesso qui non voglio parlare; tuttavia vale la pena notare come Shakespeare apprezzasse questo aspetto della questione per la messa in scena delle sue tragedie, sempre illuminate da luce artificiale e in teatri tappezzati di nero. Quello che ho cercato di rilevare è che l’archeologia non è una forma di pedanteria, bensì un mezzo di illusione artistica; che il costume costituisce un modo per presentare il personaggio senza descriverlo e di riprodurre effetti e situazioni drammatiche. Ritengo che sia un vero peccato che tanti critici si siano messi ad accusare uno dei più importanti movimenti del teatro moderno, prima che esso abbia potuto raggiungere la dovuta perfezione. Sono certo che questo avverrà, così come sono sicuro che ai critici teatrali dovrà esser richiesta, in futuro, una competenza che vada oltre l’aver visto Benjamin Webster o il ricordarsi di Macready; verrà loro richiesto, invece, di coltivare il senso del bello. «Pour être plus difficile, la tâche n’est que plus glorieuse» [Poiché è più arduo, il compito porterà maggior gloria]. Se non incoraggiarlo, dovranno per lo meno non opporsi a un movimento che Shakespeare e tutti i drammaturghi avrebbero approvato, poiché usa il metodo dell’illusione della verità, e ha, come risultato, l’illusione della bellezza. Non che io sia d’accordo con tutto quello che ho detto in questo saggio, ci sono molti punti che disapprovo totalmente. Il saggio rappresenta semplicemente un punto di vista artistico, e nella critica estetica l’atteggiamento è tutto. Nell’arte non esiste una verità universale. La verità nell’arte è quella la cui contraddizione è ugualmente vera. Così come è solo nella critica d’arte, e solo attraverso di essa, che possiamo apprendere la teoria platonica sulle idee, così è solo nella critica d’arte e solo attraverso di essa che possiamo mettere in pratica il sistema hegeliano dei contrari. Le verità della metafisica sono le verità delle maschere.

 

 

 

1 In italiano nel testo (N.d.T.).

2 In italiano nel testo (N.d.T.).

3 In italiano nel testo (N.d.T.).

4 Muovendo delicatamente il passo nell’aria lucente.

5 In italiano nel testo (N.d.T.).

Questo ebook appartiene a lidia barone - 1124737 Edito da Newton Compton Editori Acquistato il 01/08/2011 13.50.20 con numero d'ordine 63790
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