Nota introduttiva
Con la vistosa eccezione della Ballata del carcere di Reading, quasi tutta l’opera poetica di Oscar Wilde appartiene alla giovinezza dell’autore. Come poeta Wilde si era messo in luce già a Oxford, vincendo nel 1878 il prestigioso premio Newdigate per una composizione in versi su tema e schema metrico obbligati, in precedenza appannaggio di studenti poi diventati famosi come John Ruskin e Matthew Arnold (il tema di quell’anno fu «Ravenna», città che Wilde aveva la fortuna di avere visitato pochi mesi prima come parte di un viaggio di istruzione in Italia). E una raccolta di versi intitolata Poems fu il volume con cui Wilde si presentò per la prima volta al pubblico nel 1881, volume poi rivisto più volte durante la vita dell’autore. Qui è contenuta quasi tutta la sua produzione non in prosa, mancandovi (oltre ai drammi La duchessa di Padova e Una tragedia fiorentina) quasi soltanto il surricordato «Ravenna», il poemetto «La Sfinge», e la Ballata. Le ristampe attestano il successo di pubblico del libro, indubbiamente dovuto anche alla clamorosa campagna di autopromozione lanciata da Wilde stesso, quando calò da Oxford su Londra proclamandosi leader di un mai ben specificato movimento estetico e per la riforma dell’abbigliamento, molto seguito dai giornali, anche da quelli umoristici, ai quali fornì materiale appetitoso.
Poems è notevole qua e là per la facilità con cui il giovane autore rifà il verso ai suoi autori preferiti, appartenenti alla grande tradizione inglese, con in prima fila Shakespeare, Milton, Keats, e i contemporanei Swinburne, Arnold, Rossetti e Tennyson. Per far chiasso Oliver Elton, futuro critico letterario e all’epoca membro di una associazione studentesca di Oxford alla quale Wilde aveva inviato il libro in omaggio, propose addirittura di respingere il libro al mittente in quanto non contenente altro che un centone di autori già rappresentati nella biblioteca universitaria; dal canto loro, molti recensori non avevano faticato a indicare imprestiti ed echi, nati, si direbbe, da un desiderio di fagocitare testi ammirati, che può sembrare pericolosamente vicino al plagio. Per esempio, il celebre sonetto di Milton sui Valdesi massacrati in Piemonte inizia col verso «Avenge, o Lord, thy slaughtered saints, whose bones» – e quello di Wilde sui Cristiani macellati in Bulgaria esordisce con «Christ, dost thou live indeed? Or are thy bones». Con pazienza certosina lo studioso tedesco B. Fehr, autore di uno studio sulle origini delle poesie di Wilde (Berlino 1918), rintracciò moltissime di tali derivazioni, indicando puntigliosamente, per fare un altro esempio, le vistose reminiscenze in vari passi dei poemetti delle celebri descrizioni di fiori nel Racconto d’inverno.
Echi a parte, nell’insieme Poems appare estremamente eterogeneo tanto stilisticamente quanto tematicamente; lo si può definire come il campionario vasto, eloquente e a tratti sontuoso di un letterato agguerrito ma ancora privo di una sua voce originale, il quale pertanto scocca frecce in tutte le direzioni senza compromettersi troppo in nessuna. A dare un’idea di tale dispersività può bastare un rapida sintesi del contenuto del volume (nell’edizione originale), i cui circa sessanta componimenti, dopo un’introduzione fornita dal sonetto «Hélas!», sono divisi in quattro «movimenti», i primi due intitolati rispettivamente «Eleutheria» e «Rosa Mystica», il terzo tripartito in sezioni chiamate «Wind Flowers», «Flowers of Gold», «Impressions de Théatre», e un quarto senza titolo, separati da cinque poemetti: «The Garden of Eros», «The Burden of Itys», «Charmides», «Panthea», «Humanitad» (sic). Alla prima sezione appartengono carmi politici, con l’espressione un po’ generica di simpatie per la libertà e la democrazia; gli antecedenti sono Swinburne e, attraverso di lui, Hugo, ma l’interesse personale di Wilde si ferma alla superficie del sonoro e del decorativo, si vedano certi sonetti, e anche le quartine di «Ave Imperatrix», nelle intenzioni appassionata invettiva contro l’avida nazione che manda i suoi figli a morire in tutto il mondo per le sue brame di conquista, ma in sostanza non più di ghiotta rassegna di nomi esotici.
Il poemetto «The Garden of Eros» è un tripudio di sensuosa musicalità keatsiana; il «movimento» «Rosa Mystica», inaugurato dalla sommessa lirica «Requiescat» (ispirata dal ricordo della sorellina morta a dieci anni), contiene un gruppo di componimenti dettati durante il suo giro studentesco dell’Italia: qui a entusiasmi di maniera sul Bel Paese e sullo spirito del Rinascimento si alternano caute simpatie per il cattolicesimo, sotto forma di deplorazione per la schiavitù del papa e di esecrazioni per l’«odiata bandiera del rosso, bianco e verde» (ma si veda «Ravenna», dove Wilde aveva esultato per la presa di Roma da parte del re d’Italia). Non mancano poi reminiscenze dantesche, né, con «The New Helen», il tema dell’eterno femminino fatale, quasi un luogo comune obbligato nella poesia dei cosiddetti decadenti. «The Burden of Itys», influenzato dalla «Philomela» di Matthew Arnold, unisce Grecia, Italia e Inghilterra mediante il canto dell’usignolo, inaugurando la sezione «Wind Flowers», in cui sono omaggi all’alma mater oxoniense («Magdalen Walks»), al mondo di Keats e Rossetti («Endymion», «La Bella Donna della mia Mente», «Chanson»), e una prima «Impression du Matin», pittura di paesaggio alla maniera messa di moda in Inghilterra da J.M. Whistler. C’è poi il lungo poemetto «Charmides», storia del tragico amore di un giovinetto siculo per il simulacro di Atena, su cui conversero sdegni anche da parte di lettori relativamente spregiudicati (perfino Oscar Browning, docente anticonformista e amico di Wilde che recensì favorevolmente il libro, lo giudicò «ripugnante»; dal canto suo l’autore bostoniano T.W. Higginson, che aggredì insieme Wilde e Walt Whitman come autori osceni, scrisse che se lo si fosse letto ad alta voce in un salotto, «nessuna donna sarebbe rimasta fino alla fine»). Quindi è il turno del Wilde più parnassiano, con altre delicate «impressioni» dal sottotitolo francese; seguono ballate medievalizzanti, omaggi alle tombe di Shelley e Keats (è la sezione «Flowers of Gold»), e quindi le «Impressions de Théatre», sonetti ispirati a rappresentazioni cui Wilde ha assistito, tre dei quali dedicati a Ellen Terry (qui è stato fatto rilevare come tutto l’interesse di Wilde vada al personaggio, cioè alla forma: Dorian Gray cesserà di amare Sybil Vane quando costei rinuncerà ad essere attrice per imporsi come donna). Il poemetto «Panthea» è nel segno del panteismo shelleyano, e introduce il «quarto movimento» del libro, in cui sono ulteriori «impressioni», omaggi a Rossetti («At Verona»), e alcuni tentativi di confessione in chiave malinconica e suggestiva di rimorsi per peccati misteriosi («Apologia», «Quia Multum Amavi», «Taedium Vitae»), la cui origine lontana è un Baudelaire assai filtrato. «Humanitad», infine, dopo il quale non rimane che l’ultimo sfogo di «Glykypikros Eros», è, col suo titolo in spagnolo approssimativo, un peana in onore dei martiri dell’entusiasmo per l’umanità, e di quell’entusiasmo come antidoto contro le passioni più vili; fra questi campeggia Giuseppe Mazzini.
Per quanto leggibili talvolta come scorrevoli esercizi di maniera, talaltra come interessanti documenti di gusto vittoriano, preraffaellita, neoclassicheggiante o talvolta impressionista, i componimenti poetici di Wilde hanno trovato in ogni epoca pochi ammiratori, con tre eccezioni vistose quanto dissimili fra loro: «The Harlot’s House», «The Sphinx» e «The Ballad of Reading Gaol». Di queste poesie, le prime due hanno in comune, come scrisse Holbrook Jackson nel 1913, l’appello a «emozioni strane ed esotiche», «sterili e perverse»: «sono decadenti nel senso in cui fu decadente Baudelaire, dal quale ereditano quasi ogni cosa, tranne l’inglese in cui sono redatte. Ma pochi metteranno in discussione la loro pretesa a un posto in una curiosa nicchia artistica».
Nella «Casa della sgualdrina», che uscì su The Dramatic Review nel 1885, tali emozioni sono affidate al metro inconsueto, terzine di tetrapodie giambiche formate da un distico e da un terzo verso facente rima col terzo verso della terzina sucessiva. Lo schema delle rime è AAB, CCB, DDE, FFE, eccetera, con l’effetto di un abbandono continuamente corretto da una brusca pausa, ovvero di un’armonia dissonante, meccanica e irreale come il fantasmagorico quadro di ombre evocato. A tale effetto contribuiscono le numerose parole non inglesi collocate in sede di rima: Strauss, grotesques / arabesques, Quadrille, marionette / cigarette. Fra gli antecedenti e i modelli sono stati elencati il Gautier di Emaux et Camées («Büchers et Tombeaux»), il Baudelaire della Danse Macabre, il Rollinat di Névroses, e, naturalmente, Poe.
Assai meno asciutto e compatto, anche «La Sfinge» riesce tuttavia in qualche modo ad avvincere, soprattutto in grazia della sua opulenza sfacciata. La genesi di questo poemetto, che uscì in edizione di lusso, duecento copie numerate, illustrate da Charles Ricketts e rilegate in bianco e oro, è stata discussa parecchio, e può darsi che la verità si trovi nella nota premessa da Robert Ross, l’amico ed esecutore letterario di Wilde, a una ristampa in volume a sé che curò nel 1910:
Benché non pubblicata da Mr John Lane fino al 1894, La Sfinge fu composta prima dell’uscita del primo volume di Oscar Wilde nel 1881.
L’autore mi disse sempre di averla concepita e scritta a Parigi, all’Hotel Voltaire, Quai Voltaire, nel 1874, data che si accorda abbastanza bene con i versi «mentre io non ho visto / Che una ventina di estati spogliarsi del verde per le vistose livree dell’autunno.» Wilde era nato nel 1854. Tuttavia non posso fare a meno di pensare che questo resoconto della composizione fosse una licenza poetica. Versi analoghi si trovano nel suo poemetto premiato a Oxford, Ravenna, che è del 1878. Il poema fu rivisto e migliorato nel 1889, quando Wilde ne rintracciò il manoscritto in mia presenza, a Tite Street, in una scatola di vecchie carte.
Qualcuno considerò l’uscita della Sfinge un passo falso da parte di Wilde, i cui Poems di tredici anni prima erano stati dimenticati in favore dei successi di Dorian Gray e soprattutto della commedia Una donna senza importanza. Si trovò di cattivo gusto la scelta certamente provocatoria, per questa fantasticheria malsana, del metro tennysoniano di In Memoriam, ovvero della più ammirata elegia espressa dal vittorianesimo: la stanza di quattro versi ottosillabici rimati ABBA, che peraltro Wilde scrive come se i versi fossero due, ottenendo al posto della quartina un distico interminabile con un inquietante gioco di rime interne. Il trucco, poiché in fondo non si tratta che di un espediente grafico, comunque funziona, ed è soprattutto ad esso che si deve l’effetto curioso di nenia stordente, soporifera e, almeno per qualche lettore, «allucinante». Come al solito, è possible risalire alle fonti senza troppo sforzo: Il Corvo di Poe innanzitutto, per il metro abbastanza simile e per la situazione di dialogo, o piuttosto di monologo, dell’artista (presentato come un giovane studente) davanti a una creatura arcana e onnisciente comparsa nel suo studio; quindi molta letteratura francese della Decadenza, Rollinat, Gautier, Huysmans, Baudelaire, e su tutti Flaubert, nella cui Tentation de St. Antoine è già presente la più gran parte della mercanzia successivamente messa in liquidazione nella boutique di Oscar Wilde, dal «mur d’orichalque» ai vari senescalchi, obelischi, catafalchi, sarcofaghi, Tragelaphos, Amenalk, ippogrifi, basilischi; l’eroe di À rebours, Des Esseintes, toglierà da quelle pagine il dialogo fra la Sfinge e la Chimera, e lo farà recitare da una sua amante ventriloqua. L’operetta di Wilde ha insomma un suo valore di trovarobato o marché aux puces dell’armamentario decorativo di certa Decadenza, esposto senza discriminazione (qualcosa di analogo avviene in Salomé, prodotto delle stesse fonti e dello stesso gusto: «J’ai des topazes jaunes comme les yeux des tigres, et des topazes roses comme les yeux des pigeons, et des topazes vertes comme les yeux des chats. J’ai des opales qui brulent toujours avec une flamme qui est très froide...»).
La prigione ha avuto un effetto ammirevole su Mr. Wilfrid Blunt come poeta. I Sonetti d’amore di Proteo, nonostante le loro intelligenti modernità mussettiane e il loro spirito rapido e brillante, non erano nel migliore dei casi che affettati o fantastici. Si trattava semplicemente del registro di stati d’animo e momenti passeggeri, dei quali alcuni erano tristi, altri dolci, e non pochi, vergognosi. Il loro soggetto non era di portata alta o seria. Molto di quello che contenevano era debole e deliberato. In Vinculis invece è un libro che colpisce per la sua bella sincerità di proposito, per il suo pensiero elevato e appassionato, per la sua profondità e il suo ardore di intenso sentire.
Queste parole, scritte da Wilde nel 1889 a proposito dei versi di un poeta cui era capitato di finire in carcere, si rivelarono profetiche in un modo che il loro autore non avrebbe potuto immaginare. La ballata del carcere di Reading, infatti – unica opera scritta e pubblicata da Wilde dopo il rilascio – colpì i suoi primi lettori precisamente per «la sua bella sincerità di proposito, per il suo pensiero elevato e appassionato, per la sua profondità e il suo ardore di intenso sentire», tutte qualità vistosamente assenti dalla precedente produzione poetica dell’esteta: al quale l’atroce esperienza vissuta non dettò, è interessante notarlo, pagine di autocommiserazione, ché nel poemetto l’identità personale di Wilde è cancellata assieme a qualunque sospetto di speculazione sulle proprie vicende. Qui campeggia un tono umanitario, improntato alla pietà per il destino di un infelice unita all’orrore per la crudeltà delle pene che gli uomini infliggono ai loro simili; e l’intenzione è sostenuta dalla scelta del metro, semplice e popolare, tradizionalmente riservato al racconto di episodi «veri», porti alla pietà o alla meraviglia del pubblico.
La dedica del poemetto dice quanto è necessario sapere sul caso, narrato da un prigioniero anonimo (anche ufficialmente: il frontespizio della Ballata recò per la prima volta il nome di Wilde solo alla settima edizione. In precedenza l’autore si era celato sotto i numeri della sua matricola carceraria, «C.3.3.»), ovvero l’esecuzione avvenuta nel carcere di Reading, dove Wilde era detenuto, il 7 luglio 1896, nella persona di tale Charles Thomas Wooldridge, dragone di Sua Maestà, uxoricida.
Diversamente da ogni altra opera di Wilde, prosatore e poeta di facile vena, la Ballata ebbe gestazione laboriosissima. Wilde la iniziò a Berneval- sur-Mer, dove si era rifugiato in incognito, ai primi di giugno 1897; nella lettera che scrisse a Douglas subito dopo la scarcerazione per lodare le nuove poesie dell’amico parlò con ammirazione del genere della ballata, di cui in quei giorni meditava l’importanza storica di antecedente della grande poesia drammatica shakespeariana. Il 20 luglio Wilde scriveva a Ross che il poemetto era «quasi finito», e «quasi finito» lo definiva ancora in una lettera di un mese dopo; «non ancora finito!» scriveva da Dieppe il 4 settembre, prendendo intanto contatti con l’unico editore disposto a contaminarsi con un uomo come lui, il notorio Leonard Smithers, poi passato alla storia per aver stampato, in mezzo a un mare di pornografia, i disegni di Aubrey Beardsley e di Max Beerbohm. Visto un primo dattiloscritto, e avendo deciso di pubblicare la Ballata come volume a sé, Smithers chiese e ottenne l’aggiunta di alcune strofe; la versione definitiva Wilde la apprestò a Posillipo, dove aveva raggiunto Alfred Douglas, nell’ottobre. «Ho terminato il grande poema, ora sono seicento versi», scrisse da qui a Ross il 14 di quel mese (in realtà avrebbe continuato a intervenirvi fino a gennaio). E aggiunse: «Spero che farà buon effetto. A me ne piace gran parte. Molto è, lo sento, per uno strumento più rozzo del languido flauto che io amo».
La Ballata fu un immediato successo di pubblico quando comparve, nel febbraio 1898, in una edizione limitata a ottocento copie, e le ristampe si moltiplicarono, la sesta di mille copie uscendo nel maggio dello stesso anno; ben presto il poemetto sarebbe stato stampato anche in America, e tradotto in innumerevoli lingue. L’accoglienza della critica, pur buona, fu nel complesso cauta; si distinsero le lodi equilibrate e intelligenti di Arthur Symons, primo esegeta inglese del Decadentismo. Tutti i recensori comunque avvertirono un certo contrasto fra il genere popolare della ballata (e dell’argomento scelto da Wilde), e le tracce, continuamente riemergenti del gusto per una magniloquenza e una pomposità che sembra smentire l’ostentata spontaneità. La frase citata sopra mostra come lo stesso Wilde fosse conscio di un dissidio; e questo dissidio W.B. Yeats tentò di sanare in modo drastico quando incluse la Ballata nella discussa e polemica antologia della poesia inglese moderna che curò per la Oxford University Press (1936), in una versione dalla quale aveva espunto tutto quanto gli sembrava alieno dal tema principale, ottenendo, disse, «un nudo realismo analogo a quello di Thomas Hardy»: nella certezza che se Wilde fosse vissuto, la sua arte si sarebbe evoluta in questa direzione. Ma com’era prevedibile, l’operazione di Yeats, pur giustificabile in teoria, e in un certo senso auspicata da tutta la critica segnalatrice della duplice matrice del poema, fallisce; Yeats stesso nella prefazione quasi rimpiange di aver dovuto rinunciare a passi fra i più famosi, come la dichiarazione che «ogni uomo uccide la cosa che ama», ovvero la danza notturna degli spettri (in cui sono reminiscenze dell’armonia sincopata della Casa della Sgualdrina).
Il fatto è che la Ballata deve la sua qualità di degnissimo e forse definitivo epigono di un genere glorioso, risalente agli albori stessi della letteratura inglese, proprio al suo collocarsi nell’atmosfera di fine secolo. I suoi abbellimenti in chiave di decadenza sono in realtà strutture portanti, e non meri orpelli; amputandoli si compie una spoliazione. Benvenuto il Wilde schiettamente filantropo, sconvolto e indignato dalla scoperta di sofferenze da cui fino allora la vita lo aveva tenuto lontano; è un Wilde nuovo, umano e persuasivo. Ma tale egli risulta anche, e forse soprattutto, perché nella metamorfosi non ha affatto rinnegato l’altro Wilde, quello «artificiale», ossia cerebrale, e in ogni tempo coerente con la propria missione di artista.
È dunque anche nel rifiuto di rinunciare alla parte in apparenza più frivola della sua arte proprio mentre dimostra di avere imparato, nella catastrofe, una lezione fondamentale, che Wilde paradossalmente trionfa sui suoi persecutori; che impartisce, lui reietto, infamato, punito, una sorprendente lezione morale.
MASOLINO D’AMICO