ATTO QUARTO

 

Il Tribunale. Alle pareti tendaggi di velluto grigio istoriati; sotto i tendaggi il muro è dipinto di rosso. Figure allegoriche dorate sostengono il soffitto, dove s’alternano travi rosse e stucchi grigi con pannelli analoghi. Un baldacchino di raso bianco a fiori d’oro è preparato per la Duchessa. Sotto di esso un lungo tavolo coperto da drappi rossi e destinato ai giudici. Più sotto un tavolo per i cancellieri.

Due soldati sono di guardia ai lati del baldacchino e altri due sono presso la porta. Alcuni cittadini sono già nell’aula, altri entrano salutandosi a vicenda: due mazzieri che indossano abiti di colore viola mantengono l’ordine con le loro lunghe mazze bianche.

 

PRIMO CITTADINO: Buongiorno, Antonio.

SECONDO CITTADINO: Buongiorno, compare Domenico.

PRIMO CITTADINO: È un giorno importante per Padova dopo la morte del Duca.

SECONDO CITTADINO: Non ho veduto un giorno come questo da quando è morto l’altro Duca. E se non dico la verità, mi caschi la lingua dalla bocca.

PRIMO CITTADINO: Prima lo processeranno e poi emetteranno la sentenza, vero Antonio?

SECONDO CITTADINO: No, perché allora potrebbe sfuggire alla punizione; invece prima lo condanneranno alla pena che gli spetta, poi gli faranno il processo in modo da evitare ogni ingiustizia.

PRIMO CITTADINO: Sì, sì... comunque la pagherà a caro prezzo.

SECONDO CITTADINO: Uccidere un Duca è un reato gravissimo.

TERZO CITTADINO: Dicono che i Duchi hanno sangue blu.

SECONDO CITTADINO: Quello del nostro Duca doveva esser nero come la sua anima.

PRIMO CITTADINO: Attento, Antonio, il mazziere ti sta guardando.

SECONDO CITTADINO: Finché s’accontenta di guardarmi poco male. Non si può frustare con le sopracciglia.

TERZO CITTADINO: Che ne pensate di quel ragazzo che ha accoltellato il Duca?

SECONDO CITTADINO: È bello, nobile e magari sarà anche buono... e tuttavia è un malvagio dato che ha fatto fuori il Duca.

TERZO CITTADINO: Dopo tutto è la prima volta che lo fa: forse la legge non sarà troppo severa con lui, non ne ha uccisi altri...

SECONDO CITTADINO: Giusto!

MAZZIERE: Zitto tu, delinquente!

SECONDO CITTADINO: Son forse il vostro specchio, messer Mazziere, visto che mi chiamate delinquente?

PRIMO CITTADINO: Ecco che arriva qualche personaggio della Corte. Sentite, monna Lucia, voi che risiedete a Palazzo, come sta la vostra povera signora, la Duchessa dal dolce visino?

LUCIA: Eh, è stato un triste giorno! Che giornata! Che sventura! Pensate che il giugno scorso a San Michele è stato il diciannovesimo anniversario del mio matrimonio e adesso ad agosto t’ammazzano il Duca: non è una strana coincidenza?

PRIMO CITTADINO: Ma la Duchessa come sta?

MONNA LUCIA: Lo sapevo io che sarebbe capitata qualche disgrazia a Corte. Sei settimane fa le ciambelle si bruciarono tutte dalla stessa parte e a San Martino, com’è vero che vi sto parlando, una gran falena andò a finire con le ali contro la fiamma d’una candela... che paura ho avuto!

PRIMO CITTADINO: Ma la Duchessa, che Dio vi benedica... come sta?

MONNA LUCIA: Eh, sì, è ora che domandiate di lei, poverina! È quasi impazzita. Non ha chiuso occhio tutta la notte, ma ha camminato su e giù per le sue stanze. L’ho pregata di prendere un goccio di latte col vino bollito o l’acquavite e d’andar a letto per riposare un poco e star meglio, ma mi ha risposto che aveva paura di sognare. Strana risposta, no?

SECONDO CITTADINO: Questi nobili son senza cervello, e allora la Provvidenza li compensa con i bei vestiti.

MONNA LUCIA: Basta, che Iddio tenga il delitto lontano da noi, finché siamo vivi: così dico io.

(Quasi di corsa entra il conte Moranzone.)

MORANZONE: Il Duca è morto?

SECONDO CITTADINO: Ha un coltello piantato nel cuore e dicono che non fa bene alla salute.

MORANZONE: Chi è accusato d’averlo ucciso?

SECONDO CITTADINO: Il colpevole, signor mio.

MORANZONE: Ma chi è?

SECONDO CITTADINO: Quello che è accusato dell’assassinio del Duca.

MORANZONE: Intendo dire: come si chiama?

SECONDO CITTADINO: E come dovrebbe chiamarsi? Col nome che gli ha dato il suo padrino.

MAZZIERE: Si chiama Guido Ferranti, signore.

MORANZONE: Ero quasi certo della tua risposta prima ancora che tu la dicessi. (A parte:) È strano che abbia ucciso il Duca, se penso allo stato d’animo in cui era quando mi ha lasciato. Forse quando ha visto quell’uomo, quel demonio che ha venduto suo padre, l’ira ha scacciato dal suo cuore tutte le sue infantili convinzioni sull’amore e ha fatto prender il loro posto alla vendetta. Mi stupisce però che non sia fuggito. (Si rivolge di nuovo verso la folla:) Ditemi come l’hanno catturato.

TERZO CITTADINO: L’han preso alle calcagna, signor mio.

MORANZONE: Ma chi l’ha preso?

TERZO CITTADINO: Quelli che gli han messo le mani addosso.

MORANZONE: Com’è stato dato l’allarme?

TERZO CITTADINO: Ah, questo non lo so, signore.

MONNA LUCIA: È stata la Duchessa in persona a indicare per dove stava fuggendo.

MORANZONE (a parte): La Duchessa? C’è qualcosa di strano in questa storia.

MONNA LUCIA: Sì! E lui aveva il pugnale in mano! Il pugnale della Duchessa!

MORANZONE: Che avete detto?

MONNA LUCIA: Ma sì che il Duca è stato trafitto dal pugnale della Duchessa.

MORANZONE (a parte): In tutto questo c’è un mistero per me.

SECONDO CITTADINO: La fanno lunga.

TERZO CITTADINO: Per l’accusato verranno sempre troppo presto.

MAZZIERE: Silenzio!

PRIMO CITTADINO: Voi però per far tacere noi fate ancor più baccano.

(Entra il Gran Cancelliere Bernardo Cavalcanti insieme ad altri giudici.)

SECONDO CITTADINO: Quello vestito di rosso chi è? Il boia?

TERZO CITTADINO: No. È il Gran Cancelliere.

(Entra Guido sotto scorta armata.)

SECONDO CITTADINO: Quello, senza dubbio, è l’accusato.

TERZO CITTADINO: Ha la faccia onesta.

PRIMO CITTADINO: È un trucco: i delinquenti hanno oggi una faccia talmente onesta che la gente per bene è costretta a prendere l’aspetto di delinquenti per distinguersi da loro.

(Entra il Boia e prende posto alle spalle di Guido.)

SECONDO CITTADINO: Oh, eccolo il boia! Signore! Credete che la sua scure sia molto affilata?

PRIMO CITTADINO: Eh, sì, più del tuo cervello di sicuro!

SECONDO CITTADINO: Va là, non c’è da aver paura. Alla povera gente come noi non tagliano la testa. Ci impiccano, e via!

TERZO CITTADINO: Perché suonano le trombe adesso? Forse il processo è già finito?

PRIMO CITTADINO: Ma no, sono per la Duchessa.

(Dopo squilli [di tromba] entra la Duchessa vestita di velluto nero damascato; lo strascico è sorretto da due paggi in abito viola; con lei entra il Cardinale in veste scarlatta, quindi alcuni cortigiani vestiti di nero.

La Duchessa prende posto sul trono che è sopra allo scranno dei giudici, i quali, appena ella è entrata, si sono alzati in piedi togliendosi il cappello.

Il Cardinale si siede accanto alla Duchessa, appena un poco più in basso. I gentiluomini di corte si raggruppano attorno al trono.)

SECONDO CITTADINO: Povera signora com’è pallida! Si siederà lì?

PRIMO CITTADINO: Certo. Adesso ha assunto lei le funzioni del Duca.

SECONDO CITTADINO: Meglio per la nostra città; lei è di animo gentile e misericordiosa. Una volta ha fatto curare il mio bambino che aveva la terzana.

TERZO CITTADINO: Già. E ci ha sempre dato il pane, non scordatevelo, il pane.

UN SOLDATO: Indietro, buona gente.

SECONDO CITTADINO: Se siamo buona gente, perché dobbiamo tirarci indietro?

MAZZIERE: Silenzio!

CANCELLIERE [(alla Duchessa)]: Altezza, è vostro desiderio che si inizi il processo per l’assassinio del Duca? (Ella annuisce.) Fate avanzare l’imputato. Come vi chiamate?

GUIDO: Non ha importanza, signore.

CANCELLIERE: Siete noto in Padova col nome di Guido Ferranti.

GUIDO: Si può morire con quel nome come con un altro qualsiasi.

CANCELLIERE: Conoscete la terribile accusa che pende sul vostro capo, e cioè l’empia uccisione del vostro Signore, Simone Gesso, Duca di Padova.

Che cosa avete da opporre?

GUIDO: Nulla.

CANCELLIERE: Allora riconoscete che l’accusa è fondata?

GUIDO: Non riconosco nulla e tuttavia nulla nego. Vi prego, signor Gran Cancelliere d’esser quanto più breve vi sia consentito dalle consuetudini e dalle leggi. Io non parlerò.

CANCELLIERE: Questo non significa che siate innocente di questo delitto, ma piuttosto che il vostro cuore di pietra ha chiuso con ostinazione ogni porta alla voce della giustizia.

Non crediate che questo silenzio possa in qualche modo giovarvi: se mai aggrava la vostra colpa efferrata della quale noi tutti siamo certi.

Ancora una volta vi invito a parlare.

GUIDO: Non dirò nulla.

CANCELLIERE: Non mi resta allora che chiedere per voi una sentenza di rapida morte.

GUIDO: Vi prego di comunicarmela al più presto. Non c’è nient’altro che desideri con eguale ardore.

CANCELLIERE (alzandosi): Guido Ferranti...

MORANZONE (staccandosi dalla folla degli astanti): Fermatevi, signor Cancelliere.

CANCELLIERE: Chi siete voi che domandate alla Giustizia di fermare il suo corso?

MORANZONE: Se v’è giustizia, segua la sua via; ma se non lo fosse...

CANCELLIERE: Chi è costui?

CONTE BARDI: Un gentiluomo d’altissimo lignaggio, ben conosciuto dal defunto Duca.

CANCELLIERE: Siete arrivato in tempo per veder punito l’assassino del Duca. Quest’è l’uomo che ha compiuto quell’orrendo misfatto.

MORANZONE: Su lui c’è solo un sospetto oppure vi sono prove certe della sua colpevolezza?

CANCELLIERE: Per tre volte il Tribunale lo ha invitato a parlare, ma senza dubbio la colpa gli attanaglia la lingua perché nulla ha detto in sua difesa, né cerca, come farebbe un innocente, di stornare da sé l’atroce accusa.

MORANZONE: Signor Gran Cancelliere, vi chiedo ancora una volta: quali prove avete?

CANCELLIERE (mostrando il pugnale): Questo pugnale che la scorsa notte gli è stato strappato dai soldati. Grondava sangue come le sue mani. Di quali altre prove può esserci bisogno?

MORANZONE (prende il pugnale e si avvicina alla Duchessa): M’inganno o ieri questo pugnale l’ho veduto appeso alla cintola di Vostra Altezza?

(La Duchessa sussulta e non risponde.)

Signor Gran Cancelliere, posso parlare per un momento con questo giovane che si trova in pericolo così grave?

CANCELLIERE: Certo, messere. M’auguro possiate indurlo a fare piena confessione della sua colpa.

(Il conte Moranzone s’avvicina a Guido, che è alla sua destra, e l’afferra al polso.)

MORANZONE (a bassa voce): Lo ha ucciso lei? Gliel’ho letto negli occhi. Ragazzo, come puoi credere che possa mandare a morte il figlio del mio amico? Suo marito vendette tuo padre e ora la moglie vorrebbe vendere te, suo figlio.

GUIDO: Conte Moranzone, io soltanto l’ho ucciso. Rassicuratevi: ho vendicato mio padre.

MORANZONE: No, non l’hai ucciso tu! Se così fosse stato, il pugnale di tuo padre e non il gingillo d’una femmina avrebbe compiuto l’opera. Guarda con quali occhi ci fissa! Quant’è vero Iddio le strapperò quella maschera di marmo e l’accuserò davanti a tutti del delitto!

GUIDO: Non lo farete.

MORANZONE: Puoi esser certo che lo farò.

GUIDO: Signore, non dovete parlare.

MORANZONE: Perché no? Se è innocente, lo dimostri. Altrimenti dovrà morire.

GUIDO: Che cosa volete che faccia?

MORANZONE: O tu o io dobbiamo dire la verità al Tribunale.

GUIDO: La verità è che l’ho ucciso io.

MORANZONE: Dici così? Vedremo quel che affermerà la pia Duchessa.

GUIDO: No, no, parlerò io.

MORANZONE: Così va meglio, Guido. Le sue colpe ricadano su lei e non su di te. Non è stata forse lei a consegnarti alle guardie?

GUIDO: Sì, lei.

MORANZONE: E allora vendica su lei la morte di tuo padre: era la moglie di Giuda.

GUIDO: La moglie di Giuda, sì.

MORANZONE: Anche se nella notte trascorsa mi sei apparso debole come un fanciullo, credo che non abbia più bisogno di incitamenti adesso.

GUIDO: Ero così debole la notte scorsa? Son sicuro che oggi non lo sarò più.

CANCELLIERE: Confessa?

GUIDO: Confesso, signore. È stato commesso un orrendo delitto contro natura.

PRIMO CITTADINO: Senti, senti: è d’animo buono e il delitto gli fa orrore. Lo assolveranno, vedrete.

CANCELLIERE: Non avete altro da dire?

GUIDO: Anche questo. Spargere il sangue d’un uomo è peccato mortale.

SECONDO CITTADINO: Questo delicato sentimento dovrebbe esporlo al boia.

GUIDO: E infine mio signore, prego questo Tribunale perché mi dia la possibilità di chiarire con sincerità il tremendo segreto di questo mistero e di denunciare la persona vergognosamente colpevole che la scorsa notte ha ucciso il Duca con quel pugnale.

CANCELLIERE: Vi è data licenza di parlare.

DUCHESSA (alzandosi): E io dico che non deve parlare: non abbiamo bisogno d’altre prove. Non è forse stato catturato di notte nella nostra casa con addosso la sanguinosa prova della colpa?

CANCELLIERE (mostrando lo statuto legale): Vostra Altezza può leggere le norme della nostra giustizia.

DUCHESSA (rifiutando il libro): Signore, pensateci. Non è forse probabile che un uomo come costui possa pronunciare qui, alla presenza del popolo, parole calunniose contro il mio Signore, contro la città e la sua onorabilità e forse persino contro me stessa?

CANCELLIERE: Altezza, questa è la legge.

DUCHESSA: Non fatelo parlare, fategli salire imbavagliato la scala che deve portarlo al ceppo del boia.

CANCELLIERE: La legge, Altezza.

DUCHESSA: La legge non vincola noi; noi vincoliamo gli altri per suo tramite.

MORANZONE: Signor Gran Cancelliere, non potete acconsentire al compimento di questa ingiustizia.

CANCELLIERE: Il Tribunale non ascolta la vostra voce, conte Moranzone. (Alla Duchessa:) Anche per una giusta causa, o Signora, sarebbe un pericoloso precedente se distogliessimo la nostra legge dal corso che le abbiamo tracciato poiché a causa di questa mancanza l’anarchia guasterebbe questa bilancia d’oro e cause ingiuste potrebbero ottenere ingiuste vittorie.

CONTE BARDI: Non ritengo che Vostra Altezza possa opporsi alla legge.

DUCHESSA: Troppo comodo tirare in ballo la Legge. Mi sembra, miei superbi signori di Padova, che se vi si tocca nella disponibilità dei vostri beni, anche sol di quel poco che può togliere alle vostre enormi sostanze l’equivalente del prezzo d’un traghetto, voi non siate capaci di aspettare i tediosi indugi della Legge con la mite pazienza che ora mi consigliate.

CONTE BARDI: Signora, credo che facciate grave torto alla nobiltà qui presente.

DUCHESSA: Io invece non lo credo. Chi di voi, se trovasse di notte un ladro nella sua casa con qualche povero oggetto nascosto tra i suoi cenci, sarebbe disposto a perder tempo parlando con lui? Non lo consegnereste forse nelle mani delle guardie per farlo portare subito in prigione? E così adesso, se voi foste davvero degli uomini d’onore, trovando qui costui col sangue del mio Signore ancor grondante dalle sue mani, lo avreste trascinato fuori dal Tribunale per mozzargli voi la testa con la mannaia.

GUIDO: O Dio!

DUCHESSA: Parlate, signor Gran Cancelliere.

CANCELLIERE: Altezza, non posso esser d’accordo con voi. Le leggi di Padova sono chiare al riguardo, e in forza di esse anche un volgare delinquente può chiedere di parlare e difendersi.

DUCHESSA: Non si dia tanto peso a questa procedura. Costui non è un volgare delinquente, signor Gran Cancelliere, ma un pericoloso bandito e un vile traditore, sorpreso con le armi in pugno contro il nostro Stato. Poiché chi uccide un uomo che è a capo d’uno Stato uccide anche lo Stato, fa d’ogni moglie una vedova e d’ogni infante un orfano, e va quindi considerato come un nemico del pubblico bene, esattamente come se si presentasse qui sostenuto da tutte le artiglierie e le armi di Venezia per assaltare e abbattere le porte della città; anzi, è più pericoloso per il bene pubblico d’ogni altra arma scintillante, d’ogni altra artiglieria tonante, perché mura e porte, bastioni e fortezze, fatte di materia inerte come legno e pietra, possono esser nuovamente alzate contro il cielo, mentre nessuno potrà mai risollevare il corpo abbattuto del mio signore assassinato e farlo rivivere e dargli ancora la gioia di vivere.

MAFFIO: Sta a vedere: per san Pietro e per san Paolo, son convinto che non lo faranno parlare.

JEPPO VITELLOZZO: Ha detto cose giuste. Ascolta.

DUCHESSA: E allora coprite di cenere la testa di Padova, ornate di drappi funebri le mute strade cittadine, fate che ogni uomo indossi austeri abiti neri; ma prima di porre attenzione a questi riti funebri, pensiamo alla mano crudele che ha compiuto il delitto e ha portato tanta sciagura al nostro Stato, e chiudiamo immediatamente quest’uomo nella stretta cella dove non penetra voce alcuna, e dove con pochi grani di polvere la morte empie la bocca mendace degli esseri umani.

GUIDO [Alle guardie che avanzano per riprenderlo]: Lasciatemi, marrani! Io vi dico, signor Gran Cancelliere, che adesso potete imporre all’oceano infuriato, al turbine invernale o alla bufera alpina di non scatenarsi, come a me di tacere! Sì! Anche se chiudeste la mia gola con i coltelli, ogni orrida ferita aperta da voi troverebbe una lingua e griderebbe!

CANCELLIERE: Questa vostra violenza è inutile: se il Tribunale non concede formalmente diritto di parola, niente di quanto viene qui detto ha valore.

(La Duchessa sorride e Guido s’accascia, disperato.)

Con il vostro grazioso permesso, Signora, io e questi saggi giudici ci ritiriamo in altra stanza per esaminare i precedenti e prendere una decisione.

DUCHESSA: Andate, signor Gran Cancelliere, studiate a fondo le nostre leggi e fate sì che questo traditore che urla venga sconfitto.

MORANZONE: Andate, signor Gran Cancelliere, esaminate la vostra coscienza, e fate sì che un uomo non venga mandato a morte senza essere stato ascoltato.

(Il Presidente, i Giudici e il Gran Cancelliere escono.)

DUCHESSA: Taci, cattivo genio della mia vita! V’intromettete tra noi una seconda volta! [A Guido:] Adesso, signor mio, credo di aver vinto!

GUIDO: Non morrò senza aver parlato!

DUCHESSA: Morrai senza aver fatto parola e con te il tuo segreto.

GUIDO: Sei tu Beatrice, la Duchessa di Padova?

DUCHESSA: Sono quale tu mi hai fatta. Sono opera tua.

MAFFIO [a un cortigiano]: Osservala. Non sembra quella tigre bianca che vedemmo a Venezia, mandata al Doge da un militare dell’India?

JEPPO VITELLOZZO: Zitto! Potrebbe sentirti.

[Il Boia si avvicina a Guido.]

IL BOIA: Caro ragazzo, perché ci tieni tanto a parlare, dal momento che la mia scure è già tanto vicina al tuo collo? Le tue parole non la renderanno di certo meno tagliente. Ma se proprio lo vuoi parla all’uomo di Chiesa che è qui. Il popolo dice che è buono con tutti e anch’io so in verità che è così.

GUIDO: Questo dispensatore di morte è più gentile di tutti gli altri.

IL BOIA: Dio ti salvi, signore; ti renderò l’ultimo servizio su questa terra.

GUIDO [volgendosi al Cardinale]: Mio buon Cardinale, in terra cristiana, con il viso misericordioso di Cristo che ci osserva dall’alto seggio della Giustizia, è dunque possibile che un uomo possa morire senza essere confessato e assolto? E se questo non è possibile, perché non m’è consentito di narrare un’orrenda storia di peccati, se mai v’è peccato sull’anima mia?

DUCHESSA: Perdi il tuo tempo.

CARDINALE: Purtroppo, figliolo, non ho alcun potere presso il braccio secolare. Il mio dovere ha inizio dopo che è stata fatta giustizia: solo allora ho l’obbligo di sollecitare il peccatore a pentirsi e a confessare all’orecchio di Santa Madre Chiesa gli orrendi segreti d’un’anima che ha peccato.

DUCHESSA: Potrai parlare in confessione sino al punto che le tue stesse labbra saranno stanche delle storie che racconti, ma qui... qui non parlerai.

GUIDO: Reverendo padre, mi date troppo lieve conforto.

CARDINALE: Non dir questo, figliolo. Il potere di Santa Madre Chiesa non si esaurisce in questa misera parte di mondo, in cui non siamo che polvere, come dice Gerolamo: se il peccatore muore pentito, le nostre sante messe e le preghiere sono efficaci per liberarne l’anima dal purgatorio.

DUCHESSA: E quando vedrai il mio Signore con quella stella di sangue sul cuore, digli che sono stata io a mandarti là!

GUIDO: Oh, Signore Iddio!

MORANZONE: Se non m’inganno, questa è la donna che amavi.

CARDINALE: Vostra Altezza è troppo crudele verso quest’uomo.

DUCHESSA: Non più di quanto lo è stato lui verso di me.

CARDINALE: Già, v’ha ucciso lo sposo!

DUCHESSA: Certo, lo ha ucciso.

CARDINALE: Tuttavia la misericordia è un sovrano diritto dei principi.

DUCHESSA: Io non ho ricevuto misericordia, e non ne concedo. Quest’uomo ha mutato il mio cuore in un masso di pietra, ha seminato erbe velenose su un campo fertile, ha avvelenato le fonti della pietà nel mio petto, ha disseccato dalla radice ogni germe di bontà. La mia vita è una terra devastata dalla carestia, dove è scomparsa ogni cosa buona. Io sono come lui mi ha fatto diventare. (Piange.)

JEPPO VITELLOZZO: Non è strano che amasse fino a questo punto un uomo malvagio come il Duca?

MAFFIO: Le donne sono strane, sia quando amano i loro mariti, sia quando li odiano.

JEPPO VITELLOZZO: Sai esser filosofo, Petrucci.

MAFFIO: Sì, la mia filosofia mi porta a capire le disgrazie degli altri.

DUCHESSA: Com’è lungo il colloquio di questi uomini barbuti! Andate a dir loro che rientrino, e presto, altrimenti il mio cuore finirà con lo spezzarsi a furia di battere, anche se non ci tengo a vivere.

Iddio sa che la mia vita non è stata gioiosa, ma non voglio morire senza compagnia, non voglio andare all’Inferno da sola. Guardatemi, Eminenza. Non leggete sulla mia fronte a lettere scarlatte la parola: Vendetta?

Portatemi dell’acqua, voglio cancellarla: vi fu impressa a fuoco la notte scorsa, ma di giorno si può non mostrarla, non è vero Eminenza? Come corrode, come brucia nel mio capo... datemi un pugnale! non quello! Un altro, e la cancellerò.

CARDINALE: È nell’ordine naturale delle cose che l’animo vostro sia tanto infiammato contro la mano assassina che nel sonno uccise il vostro Signore.

DUCHESSA: Vorrei poterla bruciare quella mano, Eminenza. E brucerà tra poco.

CARDINALE: La Chiesa ci impone di perdonare i nemici.

DUCHESSA: Perdonare? Che significato può avere. Io non sono mai stata perdonata.

(Entra il Gran Cancelliere [con i giudici].)

Ebbene, signor Gran Cancelliere?

CANCELLIERE: Graziosa Signora e nostra amata Sovrana, abbiamo esaminato a lungo il punto controverso e considerato attentamente il parere di Vostra Altezza, né mai saggio consiglio uscì da labbra più belle...

DUCHESSA: Proseguite, Signore, omettendo i complimenti.

CANCELLIERE: Siamo giunti alla conclusione, secondo quel che Vostra Altezza faceva giustamente rilevare, che qualsiasi nostro cittadino, il quale con la forza o con la frode cospiri contro la persona del Sovrano, si mette ipso facto fuori della Legge, perde i diritti comuni agli altri cittadini, è un traditore, è un nemico della Comunità e può essere posto a morte da qualsiasi spada senza che l’uccisore corra pericolo alcuno: e, se è portato davanti al Tribunale, deve ascoltare la sua ben meritata condanna con labbra mute e in riverente silenzio, senza il privilegio d’essere liberamente ammesso a parlare.

DUCHESSA: Vi ringrazio molto, signor Gran Cancelliere. La vostra legge è giusta; adesso vi prego di inoltrare questo bandito verso il castigo che merita. Sono stanca di aspettare, e così il boia. O c’è dell’altro?

CANCELLIERE: Sì, c’è dell’altro, Altezza. Quest’uomo è nato fuori del territorio del nostro Stato, non è padovano, né era legato al Duca in qualità di suddito, ma tenuto soltanto a rispettare nei suoi confronti la legge comune di natura. E quindi anche se è accusato di molteplici tradimenti, per i quali la pena più lieve è sempre la morte, ha tuttavia il diritto di parlare in pubblico, di fronte al popolo e al Tribunale. Anzi, il Tribunale lo solleciterà a difendere in qualsiasi modo la sua vita a norma di legge, in modo che la sua città natale non possa accusare, giustamente offesa, il nostro Stato per aver eseguito una ingiusta procedura e che da ciò non derivi una guerra. Questa è in Padova la mitezza delle leggi per gli stranieri che vivono entro le sue mura.

DUCHESSA: Faceva parte del seguito del mio Signore, come potete considerarlo uno straniero?

CANCELLIERE: Avendo servito meno di sette anni non può essere considerato un cittadino padovano.

GUIDO: Grazie, signor Gran Cancelliere. Ammiro la vostra legge.

SECONDO CITTADINO: A me non piace nessuna legge; se non esistessero le leggi, nessuno le violerebbe e saremmo tutti persone dabbene.

PRIMO CITTADINO: Giusto. Sagge parole le tue, e che vanno lontano.

MAZZIERE: Sì, portano alla forca dritto dritto!

DUCHESSA: E sarebbe questa la Legge?

CANCELLIERE: È la Legge, Signora, e parla chiaro.

DUCHESSA: Datemi quel libro: è scritto a lettere di sangue.

JEPPO VITELLOZZO: Guarda la Duchessa.

DUCHESSA: Legge maledetta, vorrei poterti abrogare così come è facile strapparti da questo libro. (Lacera la pagina.) Venite qui, conte Bardi. Siete un uomo d’onore. Fatemi preparare subito un cavallo; devo partire immediatamente per Venezia.

BARDI: Per Venezia, Signora?

DUCHESSA: Non fatene parola con nessuno. Andate, andate subito.

(Il Conte Bardi esce.)

Un momento, signor Gran Cancelliere. Dunque, voi dite che la Legge è questa... no, non ho dubbi che quanto dite non sia giusto, sebbene il giusto sia ingiusto in questo caso... ma se questa è la Legge, non posso, in forza della mia autorità, rinviare il giudizio ad altro giorno?

CANCELLIERE: Non può essere rimandato un processo riguardante un assassinio.

DUCHESSA: E allora non rimarrò a udire quest’uomo vilipendere con la sua rozza lingua la mia persona. A Palazzo mi chiamano impegni ben maggiori. (Ai Cortigiani:) Venite via con me, signori.

CANCELLIERE: Mia Sovrana, non potete lasciare questo Tribunale sino a che l’accusato non sia assolto o ritenuto colpevole di quest’orrendo crimine.

DUCHESSA: Non posso, Gran Cancelliere? Con quale diritto frapponete ostacoli sulla via che ho scelta? Non sono forse la Duchessa di Padova, la Reggente dello Stato?

CANCELLIERE: Appunto per questo, Signora, se la fonte della vita e della morte, da cui scaturisce come un fiume possente la Giustizia, viene privata della vostra persona, la Giustizia non potrebbe essere compiuta e mancherebbe al suo scopo. Dovete rimanere.

DUCHESSA: Come? Volete trattenermi qui contro il mio volere?

CANCELLIERE: Vi preghiamo di non opporre la vostra volontà alla Legge.

DUCHESSA: E se ricorressi alla forza per uscire dal Tribunale?

CANCELLIERE: Non potete forzare il Tribunale a cedervi il passo.

DUCHESSA: Non rimarrò qui. (Si alza in piedi.)

CANCELLIERE: Dov’è l’usciere? Si faccia avanti.

(L’usciere esegue l’ordine.)

Sapete qual è il vostro dovere, signore.

(L’usciere chiude le porte del Tribunale che sono a sinistra. Quando vi si avvicinano la Duchessa col suo seguito, si inginocchia.)

USCIERE: In tutta umiltà prego Vostra Altezza di far sì che l’adempimento del mio dovere non diventi scortesia, né il mio sgradito compito possa renderle offesa. Le stesse leggi che conferiscono a Vostra Altezza la Reggenza impongono a me di sbarrarvi il passo. Mia Sovrana, infrangere quelle leggi significa infrangere il vostro potere, non il mio.

DUCHESSA: Tra voi gentiluomini ce n’è uno capace di levarmi di torno questo chiacchierone con una pugnalata?

MAFFIO (sguainando la spada): Sì, io!

CANCELLIERE: Attento a quello che fate, conte Maffio. (A Jeppo:) E anche voi, signore. Il primo che sfiora con la spada quest’umile addetto del nostro Tribunale morrà prima del calar del sole.

DUCHESSA: Ringuainate le spade, miei signori. Sembra opportuno che io ascolti quell’uomo. (Torna sul trono.)

MORANZONE [a Guido]: Hai il nemico in pugno, adesso.

CANCELLIERE (mostrando una clessidra): Guido Ferranti, mentre questi granelli di sabbia cadranno attraverso la clessidra, v’è concesso di parlare. Tanto, e non più.

GUIDO: È quel che basta, Signore.

CANCELLIERE: Siete in bilico sul baratro della morte. Dite la verità, solo la verità. Null’altro può aiutarvi.

GUIDO: Se non lo farò, date il mio corpo al boia qui presente.

CANCELLIERE (dopo aver capovolto la clessidra): Silenzio, mentre parla l’imputato.

MAZZIERE: Silenzio!

GUIDO: Onorati giudici di questo Tribunale, quasi non so da dove cominciare il mio racconto, tanto strana è la vicenda atroce in cui son coinvolto. Per prima cosa vi dirò chi sono e da chi sono nato. Sono il figlio di quel buon Duca Lorenzo che con mostruoso tradimento fu mandato a morte dal più empio degli assassini, già duca di questa buona città di Padova.

CANCELLIERE: Badate a quel che dite: a nulla vi gioveranno calunnie contro il Duca che giace nella bara.

MAFFIO: Per San Giacomo, questi è il legittimo erede del Ducato di Parma.

JEPPO VITELLOZZO: Ho sempre pensato che fosse un nobile.

GUIDO: Confesso che aspirando a una giusta vendetta, a una sacra vendetta su quell’uomo avido di sangue, chiesi di mettermi al seguito del Duca, obbedii a ogni suo volere, divisi con lui la tavola, bevvi il suo vino e giacqui in intimità con lui. Questo confesso. E anche questo: che aspettai sino a quando giunse a confidarmi i più nascosti segreti della sua vita, mi colmò d’ogni favore e mi mise a parte d’ogni suo occulto pensiero. Aspettavo solo questo.

(Al Boia:) Tu, uomo avido di sangue, non volger la tua scure verso di me prima del tempo: chi sa se è proprio giunta la mia ora? C’è solo il mio collo da giustiziare?

CANCELLIERE: La sabbia scende velocemente. Venite presto alla morte del Duca.

GUIDO: Sarò breve. La notte scorsa, allo scoccare della mezzanotte, scalai con l’aiuto d’una grossa fune il muro del palazzo, deciso a vendicare l’assassinio di mio padre. Sì, volevo ucciderlo, lo confesso, Signore. Ammetto anche questo: che mentre salivo furtivamente la scala che conduceva alla camera del Duca e tendevo la mano per scostare la portiera scarlatta che ondeggiava e fremeva su quella porta, improvvisamente la candida luna in moto nel vasto firmamento inondò di luce argentea la stanza immersa nell’oscurità, la notte accese per me le sue luci e vidi l’uomo che odiavo imprecare nel sonno. Pensai all’uccisione d’un padre adorato, pensai a mio padre consegnato al patibolo, gettato per un vile mercato sul ceppo del boia, e allora colpii l’ignobile traditore, gli cacciai nel cuore questo pugnale che per caso avevo trovato nella camera.

DUCHESSA (alzandosi): Oh!

GUIDO (rapidamente): Sì, ho ucciso il Duca. Ora, signor Gran Cancelliere se posso chiedere una grazia, fate che non veda altro sole illuminare i tormenti di questo mondo obbrobrioso.

CANCELLIERE: La grazia vi è concessa. Morrete questa notte. Conducetelo via. E voi, Signora, venite.

(Guido viene portato via; mentre s’allontana la Duchessa tende le braccia verso di lui e attraversa di corsa il palcoscenico.)

DUCHESSA: Guido! Guido!

 

Sipario

 

 

Questo ebook appartiene a lidia barone - 1124737 Edito da Newton Compton Editori Acquistato il 01/08/2011 13.50.20 con numero d'ordine 63790
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