De Profundis
«Epistola: In Carcere et Vinculis»
Dal Carcere di Sua Maestà, Reading
Caro Bosie,
dopo una lunga e infruttuosa attesa mi sono deciso a scriverti, tanto per il tuo bene quanto per il mio, perché non mi piacerebbe pensare di avere trascorso due lunghi anni di prigione senza aver ricevuto neanche una sola riga da te, né alcuna notizia o messaggio, eccettuati quelli che mi hanno dato dolore.
La nostra tanto malaugurata e deprecabile amicizia si è conclusa per me con la rovina e il pubblico disonore, tuttavia il ricordo del nostro antico affetto mi fa spesso compagnia e il pensiero che l’odio, l’amarezza e il disprezzo debbano per sempre occupare quel posto che una volta l’amore occupava nel mio cuore è molto triste per me. Penso che tu stesso senta nel tuo cuore che scrivermi mentre mi trovo nella solitudine della vita di prigioniero sia meglio che non pubblicare le mie lettere senza il mio permesso o dedicarmi poesie richieste, anche se il mondo non saprà nulla delle parole di dolore o di passione, di rimorso o di indifferenza che tu riterrai di mandarmi come risposta o invocazione.
Non ho alcun dubbio che in questa lettera, nella quale dovrò parlare della tua vita e della mia, del passato e del futuro, di cose dolci tramutate in amarezza e di cose amare che possono essere tramutate in gioia, ci sarà molto che ferirà la tua vanità nel vivo. Se questo succederà leggi e rileggi la lettera fino a che essa non ucciderà la tua vanità. Se trovi in essa qualcosa di cui senti di essere ingiustamente accusato, ricordati che si dovrebbe essere grati che esista una colpa di cui si possa essere ingiustamente accusati. Se ci fosse in essa anche un solo brano che ti farà venire le lacrime agli occhi, piangi come si piange in prigione dove il giorno, non meno della notte, è riservato alle lacrime. È l’unica cosa che può salvarti. Se andrai a lamentarti da tua madre, come hai fatto quando io manifestai disprezzo per te nella mia lettera a Robbie, in modo che ella ti lusinghi e ti riconduca con blandizie nel tuo autocompiacimento o nella tua vanità, sarai completamente perso. Se trovi una falsa scusa per te, ne troverai presto cento, e non sarai altro che quello che eri prima. Dici ancora, come nella tua risposta a Robbie, che io ti «attribuisco moventi indegni»? Ah, nella vita non avevi alcuno scopo. Avevi semplicemente degli appetiti. Uno scopo è un fine intellettuale. Che eri «molto giovane» quando iniziò la nostra amicizia? Il tuo difetto non era che conoscevi tanto poco della vita, ma che ne conoscevi troppo. L’alba mattutina della fanciullezza con il suo fiorire delicato, la sua luce pura e chiara, la gioia dell’innocenza e dell’attesa tu le avevi lasciate già da un pezzo dietro di te. Con passo veloce, correndo, eri passato dal Romanticismo al Realismo. Il fango e le cose che lì vivono avevano iniziato ad esercitare su di te il loro fascino. Da qui ebbero inizio i guai per cui tu cercasti il mio aiuto, e io, stolto secondo quel che dice il mondo, per pietà e bontà te lo diedi. Devi leggere questa lettera dall’inizio alla fine, anche se ogni parola potrà divenire per te come il fuoco o il bisturi del chirurgo, che fa sanguinare o bruciare la carne delicata. Ricorda che il pazzo agli occhi degli dèi e il pazzo agli occhi del mondo sono molto diversi. Chi ignora completamente gli aspetti dell’Arte nella sua evoluzione o le inclinazioni del pensiero nel suo progredire, la pompa del verso latino o la musicalità più ricca del greco vocalizzato, la scultura toscana o la canzone elisabettiana, può essere tuttavia pieno della più dolce saggezza. Il vero pazzo, colui che gli dèi deridono o rovinano, è colui che non conosce se stesso. Io lo sono stato per troppo tempo, tu lo fosti per troppo tempo. Non esserlo più. Non aver paura. La superficialità è il vizio supremo. Tutto ciò che viene compreso è giusto. Ricordati anche che qualsiasi cosa ti procura sofferenza leggera, causa ancora maggiore sofferenza a me scriverlo. Con te le Potenze Invisibili sono state molto buone. Ti hanno permesso di vedere le forme strane e tragiche della vita come si vedrebbero le ombre in un cristallo. La testa di Medusa che trasforma gli uomini vivi in pietra, a te è stato permesso di vederla soltanto da uno specchio. Tu stesso hai passeggiato libero in mezzo ai fiori. A me è stato portato via il bellissimo mondo dei colori e del movimento.
Inizierò col dirti che mi biasimo terribilmente. Mentre sto qui seduto in questa cella buia vestito da carcerato, uomo rovinato e coperto di disonore, io biasimo me stesso. Nelle notti angosciose, agitate e insonni, nelle lunghe, monotone, giornate di dolore, è me stesso che biasimo. Mi biasimo per aver permesso che un’amicizia non intellettuale, un’amicizia il cui scopo primario non era la creazione e la contemplazione di cose belle, dominasse completamente la mia vita. Fin dall’inizio ci fu un divario troppo ampio tra di noi. Tu a scuola eri stato pigro, e ancor di più all’università. Non ti rendevi conto che un artista, e in particolar modo un artista come me, vale a dire una persona per cui la qualità del lavoro dipende dall’approfondimento della propria personalità, richiede, perché la sua arte si sviluppi, comunanza di idee e atmosfera intellettuale, tranquillità, pace e solitudine. Ammiravi il mio lavoro quando era compiuto: godevi dei brillanti successi delle mie prime e dei magnifici banchetti che le seguivano, eri orgoglioso, cosa del tutto naturale, di essere intimo amico di un artista tanto famoso; ma non riuscivi a capire quali fossero le condizioni necessarie per produrre un’opera d’arte. Non mi esprimo con frasi eccessivamente retoriche, ma con parole che hanno una verità assoluta nei confronti del reale, se ti ricordo che durante l’intero periodo in cui fummo insieme non scrissi neppure un verso. Sia a Torquay che a Goring, Londra, Firenze o da qualsiasi altra parte, la mia vita, fintantoché tu sei rimasto al mio fianco, fu assolutamente sterile e senza creatività. E, con ben pochi intervalli, tu rimanesti, mi rincresce dirlo, sempre al mio fianco.
Per citare solo un caso tra tanti, ricordo ad esempio nel settembre 1893, di aver preso un quartierino, semplicemente per poter lavorare indisturbato, dal momento che avevo rotto il mio contratto con John Hare, per il quale avevo promesso di scrivere una commedia, e questi mi faceva pressioni affinché lo facessi. Durante la prima settimana rimanesti lontano. Avevamo avuto, cosa del tutto naturale, delle divergenze riguardo al valore artistico della tua traduzione di Salomé, perciò tu ti limitasti a mandarmi delle sciocche lettere sull’argomento. Quella settimana scrissi e completai in ogni dettaglio, così come venne in definitiva rappresentato, il primo atto di Un marito ideale. La seconda settimana tu tornasti e il mio lavoro dovette di fatto essere abbandonato. Arrivavo a St. James Place tutte le mattine alle 11.30 per avere l’opportunità di pensare e di scrivere senza le interruzioni che erano inseparabili da una famiglia, per quanto quieta e tranquilla come la mia. Ma fu un tentativo vano. A mezzogiorno in punto arrivavi e rimanevi a fumare sigarette e a chiacchierare fino all’1.30, quando dovevo portarti a pranzo al Café Royal o da Berkeley. La colazione con i suoi liqueurs durava di solito fino alle 3.30. Per un’ora te ne stavi da White. Ricomparivi all’ora del tè e rimanevi fino a che era ora di vestirsi per la cena. Cenavi con me al Savoy o a Tite Street. Di norma non ci separavamo fino a dopo mezzanotte, poiché la cena da Willis doveva concludere l’incantevole giornata. Questa fu la mia vita durante quei tre mesi, ogni giorno, eccetto i quattro giorni in cui tu ti recasti all’estero. In quella circostanza, naturalmente, dovetti arrivare fino a Calais per riportarti indietro. Per uno della mia natura e del mio temperamento si trattava di una situazione grottesca e tragica allo stesso tempo.
Te ne renderai conto sicuramente, adesso. Lo vedi ora che l’incapacità di stare da solo, la tua natura così esigente nel richiedere costantemente l’attenzione e il tempo altrui, la tua mancanza di qualsiasi capacità di una prolungata concentrazione intellettuale, lo sfortunato incidente – perché vogliopensare che non fosse più di questo – a causa del quale tu non eri statoancora capace di acquistare il «carattere di Oxford» nelle faccende intellettuali, intendo dire che non eri mai stato capace di giocare elegantemente con le idee, ma eri arrivato semplicemente alla violenza di opinioni –, che tutte queste cose, unite al fatto che i tuoi desideri e i tuoi interessi erano per la Vita e non per l’Arte, furono tanto dannose al tuo progresso nella cultura quanto lo furono al mio lavoro di artista? Quando paragono la mia amicizia con te alla mia amicizia con uomini ancora più giovani come John Gray e Pierre Louÿs mi vergogno. La mia vita vera, la mia vita più elevata era con loro e quelli come loro.
Dei pessimi risultati della mia amicizia con te ora non parlo. Penso soltanto alla sua qualità finché è durata. Per me era intellettualmente degradante.Tu avevi in germe i rudimenti di un temperamento artistico. Ma io ti ho conosciuto o troppo tardi o troppo presto, non so dire. Quando eri lontano stavo benissimo. In quel momento, all’inizio di dicembre dell’anno al quale alludevo, ero riuscito a indurre tua madre a mandarti lontano dall’Inghilterra, raccolsi nuovamente la tela strappata e sfilacciata della mia immaginazione, ripresi la mia vita nelle mie mani, e non mi limitai a terminare i tre atti che restavano di Un marito ideale, ma ideai e avevo quasi completato altre due opere di genere del tutto diverso, La Tragedia fiorentina e La Santa Cortigiana, quando all’improvviso, non invitato, non gradito, e in circostanze fatali alla mia felicità, tu sei tornato. Fui incapace di riprendere le due operelasciate allora incomplete. Non riuscii più a ritrovare quello stato d’animoche le aveva create. Tu ora, avendo pubblicato un tuo proprio volume dipoesie, sarai in grado di riconoscere la verità in tutto quello che qui ho detto.Sia che tu ci riesca o no, rimane come un’orribile verità nella parte più intima della nostra amicizia. Nel periodo in cui rimanesti con me tu fosti larovina assoluta della mia Arte e, per aver permesso che ti frapponessi dicontinuo tra l’Arte e me, mi rimprovero e mi vergogno sommamente di me stesso. Tu non eri in grado di sapere, non eri in grado di comprendere, noneri in grado di apprezzare. Non avevo assolutamente alcun diritto di aspettarmi questo da te. Ti interessavi semplicemente a quello che mangiavi e aituoi stati d’animo. Desideravi unicamente divertirti, con piaceri più o menocomuni. Erano ciò di cui il tuo temperamento aveva bisogno, o pensava diaver bisogno, per il momento. Tranne quando ti invitavo espressamente,avrei dovuto vietarti di entrare nella mia casa e nelle mie stanze. Mi biasimo senza riserve per la mia debolezza. Si è trattato puramente di debolezza. Mezz’ora con l’Arte è sempre stata per me più di un’ora con te. In nessun periodo della mia vita proprio nulla, se paragonato all’Arte, è stato per me della benché minima importanza. Ma, nel caso di un artista, la debolezza non è minore di un crimine, quando si tratta di una debolezza che paralizza l’immaginazione.
Mi biasimo inoltre per averti permesso di portarmi alla totale e vergognosa rovina finanziaria. Ricordo una mattina all’inizio di ottobre del 1892, quando ero seduto con tua madre nei boschi che si tingevano di giallo a Bracknell. A quel tempo conoscevo molto poco la tua vera natura. Ero stato con te a Oxford da un sabato a un lunedì e tu eri stato con me a Cromer dieci giorni, per giocare a golf. La conversazione volse su di te, e tua madre iniziò a parlarmi del tuo carattere. Mi parlò dei tuoi due difetti principali: la tua vanità e il tuo avere, come ella lo definì, «frainteso tutto riguardo al denaro». Ho un ricordo vivido di come ciò mi fece ridere. Non avevo la più pallida idea che il primo mi avrebbe portato in prigione, e il secondo alla bancarotta. Pensavo che la vanità fosse una sorta di bel fiore che un giovane potesse portare all’occhiello; per quanto riguarda la prodigalità – perché pensavo che ella non intendesse altro che quella – le virtù della prudenza e della parsimonia non erano tipiche né della mia natura né della mia razza. Ma prima che la nostra amicizia compisse un mese, cominciai a capire quello che tua madre voleva veramente dire. La tua insistenza per un tipo di vita piena di spese sconsiderate, le incessanti richieste di denaro, la pretesa che tutti i tuoi piaceri dovessero essere pagati da me sia che io fossi o non fossi con te, dopo un po’ di tempo mi portarono a serie difficoltà finanziarie, e quello che rese, almeno per me, gli sperperi così monotonamente privi di interesse a mano a mano che la tua salda presa sulla mia vita diventava più forte, fu che il denaro veniva speso di fatto per poco più che per i piaceri del mangiare, bere e cose del genere. È una gioia avere di tanto in tanto la propria tavola rossa di vino e di rose, ma tu superavi ogni buon gusto e moderazione; chiedevi senza cortesia e ricevevi senza ringraziare. Arrivasti a credere di avere una sorta di diritto di vivere a mie spese in mezzo a un lusso al quale non eri mai stato abituato, e che proprio per questo intensificò la tua avidità, tanto che alla fine se tu perdevi del denaro giocando d’azzardo in qualche Casinò di Algeri non facevi altro che telegrafarmi la mattina dopo a Londra perché depositassi la somma sul tuo conto in banca, e non dedicavi più alla questione pensieri di alcun genere.
Quando ti dico che tra l’autunno del 1892 e la data della mia incarcerazione spesi con te e per te più di 5000 sterline, senza contare le fatture che pagai, ti farai un’idea del tipo di vita che tu continuavi a fare. Pensi che io esageri? Le mie spese ordinarie con te in un giorno qualsiasi a Londra – per colazione, pranzo, cena, divertimenti, carrozze e tutto il resto – andavano dalle 12 alle 20 sterline, e le spese di una settimana erano naturalmente in proporzione e variavano dalle 80 alle 130 sterline. Per i nostre tre mesi a Goring le mie spese (compreso l’affitto naturalmente) furono di 1340 sterline. Con il curatore fallimentare dovetti ripercorrere passo per passo ogni particolare della mia vita. Fu una cosa terribile. «Vivere con semplicità e avere alti pensieri»1 era naturalmente un ideale che tu a quel tempo non avresti saputo apprezzare, ma tale prodigalità fu una disgrazia per entrambi. Una delle cene più belle che io ricordi di aver mai fatto è stata quella insieme a Robbie in un piccolo caffè di Soho, e costò circa tanti scellini quanto le mie cene con te costavano in sterline. Dalla mia cena con Robbie derivò il primo e il migliore di tutti i miei dialoghi. Idea, titolo, trama, esecuzione, vennero progettati durante un pranzo a prezzo fisso a 3 franchi e 50. Dei pranzi luculliani altro non rimane se non il ricordo di aver mangiato e bevuto troppo. E che io cedessi alle tue richieste fu nocivo per te, ora lo sai. Ti rese spesso avido, a volte ti rese non poco privo di scrupoli sgarbato sempre. In numerose occasioni troppa poca fu la gioia o il privilegio di essere tuo ospite. Dimenticavi – non vorrei dire la cortesia formale dei ringraziamenti, perché le cortesie formali danneggerebbero un’amicizia intima – ma semplicemente la grazia della dolce compagnia, il fascino della piacevole conversazione, quel τερπνόν κακόν come lo chiamavano i Greci, e tutti quegli interessi umanistici che abbelliscono la vita e la accompagnano come farebbe la musica, tenendo in armonia le cose e riempiendo di melodia luoghi aspri o silenziosi. E, per quanto possa sembrarti strano che una persona, nella terribile posizione in cui mi trovo, debba trovare differenza tra il vergognarsi di una cosa o di un’altra, ammetto tuttavia con franchezza che la follia di aver gettato via per te tutto questo denaro e di averti permesso di dilapidare la mia fortuna a tuo e a mio proprio danno, conferisce – ai miei stessi occhi – una nota di ordinaria dissolutezza alla mia bancarotta, che me ne fa vergognare doppiamente. Ero fatto per altre cose.
Ma più di tutto mi biasimo per averti permesso di portarmi alla completa degradazione morale. La base del carattere è la forza di volontà e la mia divenne completamente sottomessa alla tua. Sembra una cosa grottesca da dire, ma è nondimeno vera. Quelle scenate incessanti che sembravano esserti quasi fisicamente necessarie, e durante le quali la tua mente e il tuo corpo venivano stravolti e tu diventavi una cosa tanto terribile da guardare quanto da ascoltare; quella spaventosa mania che hai ereditato da tuo padre, la mania di scrivere lettere disgustose e ributtanti, la tua completa mancanza di qualsiasi controllo sulle tue emozioni, dimostrata dal tuo lungo e impermalito stazionare in tetri silenzi, non meno che dagli improvvisi attacchi di furore quasi epilettico; tutte queste cose in riferimento alle quali una delle mie lettere a te, che tu lasciasti in giro al Savoy o in qualche altro albergo e che perciò venne prodotta in tribunale dall’avvocato di tuo padre, conteneva un’implorazione non priva di pathos, se tu a quel tempo fossi stato in grado di riconoscere il pathos nei suoi elementi e nelle sue espressioni: furono queste, dico, l’origine e la causa della mia fatale cedevolezza a te nelle crescenti richieste quotidiane. Mi sfinisti. Fu il trionfo della natura più meschina su quella più grande. Fu il caso della tirannia del debole sul forte che da qualche parte, in una delle mie commedie, io descrivo come «la sola tirannia che duri»2.
E fu inevitabile. In ogni rapporto della vita con gli altri uno deve trovare qualche moyen de vivre. Nel tuo caso si doveva o lasciare fare a te o lasciarti. Non c’era nessun’altra alternativa. Per un profondo anche se mal riposto affetto per te, per una grande pietà per la tua mancanza di carattere e di temperamento, per il mio stesso proverbiale buon carattere e la mia pigrizia celtica, per un’artistica repulsione per le scenate volgari e le parole sgradevoli, per quell’incapacità di portare rancore di alcun genere che allora era una mia peculiarità, per la mia avversione a vedere la vita resa amara e brutta da ciò che per me, che in realtà avevo gli occhi puntati su altre cose, sembravano essere nient’altro che sciocchezze troppo insignificanti per dedicarci più che il pensiero o l’interesse di un attimo – per tutte queste ragioni, per quanto semplici possano sembrare, ho sempre lasciato fare a te. Come naturale conseguenza, le tue pretese, i tuoi sforzi di dominare, le tue richieste eccessive divennero sempre più irragionevoli. Il tuo stimolo più meschino, il tuo appetito più basso, la tua passione più volgare, divennero per te leggi dalle quali le vite degli altri dovevano essere sempre guidate e alle quali, se necessario, sacrificate senza scrupoli. Sapendo che col fare una scenata potevi averla sempre vinta, era semplicemente naturale che tu dovessi continuare sulla strada degli eccessi di volgare violenza. Alla fine non sapevi verso quale obiettivo ti affannavi, o quale scopo avevi in mente. Dopo esserti impossessato del mio genio, della mia forza di volontà e della mia fortuna, tu richiedesti, nella cecità della tua inesauribile avarizia, la mia intera esistenza. La prendesti. In quell’unico momento supremamente e tragicamente critico di tutta la mia vita, subito prima che io compissi il deplorevole primo passo della mia assurda azione giudiziaria, da una parte c’era tuo padre che mi attaccava con odiosi biglietti lasciati al mio club, dall’altra c’eri tu che mi attaccavi con lettere non meno disgustose. La lettera che ricevetti da te la mattina del giorno che ti permisi di portarmi al Commissariato di Polizia per richiedere quel ridicolo mandato di cattura per tuo padre fu una delle peggiori che tu abbia mai scritto e per il motivo più vergognoso. Voi due mi faceste perdere la testa. La mia capacità di giudizio mi abbandonò. Il terrore prese il suo posto. Non trovai alcuna possibile via d’uscita, posso affermarlo francamente, da nessuno di voi due. Barcollai ciecamente come un bue verso il mattatoio. Avevo commesso un gigantesco errore psicologico. Avevo pensato che il mettermi nelle tue mani per le piccole cose non significasse nulla: che quando fosse arrivato un grande momento io avrei potuto riaffermare la mia forza di volontà in virtù della sua naturale superiorità. Non fu così. Nel grande momento la mia forza di volontà mi abbandonò del tutto. Nella vita non c’è in realtà nessuna cosa piccola o grande. Tutte le cose hanno uguale valore e uguale dimensione. La mia abitudine di abbandonarmi a te in tutto – dovuta all’inizio principalmente all’indifferenza – era divenuta inconsciamente una vera parte della mia natura. Senza che lo sapessi aveva dato una forma stereotipa al mio carattere, conferendogli una disposizione d’animo permanente e fatale. È per questo che, nel sottile epilogo alla prima edizione dei suoi saggi, Pater dice che «il fallimento consiste nel formarsi delle abitudini». Quando lo disse gli ottusi oxfordiani pensarono che la frase fosse una volontaria inversione del testo alquanto pesante dell’Etica aristotelica, ma in essa c’è nascosta una meravigliosa, terribile verità. Ti avevo permesso di fiaccare la mia forza di carattere e per me il formarsi di un’abitudine si era dimostrato non solo Fallimento ma Rovina. Sul piano morale tu eri stato ancor più dannoso per me di quanto lo fossi stato sul piano artistico.
Una volta ottenuto il mandato, fu naturalmente la tua volontà a dirigere ogni cosa. In un momento in cui sarei dovuto rimanere a Londra per sentire un parere assennato e per esaminare con calma la trappola orribile nella quale mi ero lasciato prendere – la trappola da babbeo come la chiama oggi tuo padre – tu insistesti perché ti portassi a Montecarlo, uno dei luoghi più repellenti sulla faccia della terra, in modo da poter giocare tutto il giorno e anche la notte fino a che il Casinò rimaneva aperto. Per quanto mi riguarda – poiché il baccarat non esercitava su di me alcun fascino – restai fuori, abbandonato a me stesso. Ti rifiutavi di discutere anche solo per cinque minuti la situazione alla quale tu e tuo padre mi avevate portato. Il mio dovere era semplicemente pagare le tue spese d’albergo e le tue perdite. La benché minima allusione all’ordalia che mi aspettava veniva considerata una seccatura. Una nuova marca di champagne che ci veniva suggerita destava in te maggiore interesse.
Al nostro ritorno a Londra quelli tra i miei amici che desideravano davvero il mio bene mi implorarono di riparare all’estero e di non affrontare un processo assurdo. Tu attribuisti loro motivi meschini per darmi un consiglio di questo genere e a me codardia per ascoltarlo. Mi costringesti a rimanere affinché, dal banco degli imputati, me la cavassi con sfacciataggine e assurde fandonie. Alla fine, naturalmente, fui arrestato e tuo padre divenne l’eroe del giorno: anzi qualcosa di molto più di un semplice eroe; la tua famiglia ora si colloca – cosa piuttosto strana – fra gli Immortali, perché per quell’effetto grottesco che nella vicenda funge da elemento gotico e fa di Clio la più frivola di tutte le muse, tuo padre vivrà per sempre tra i buoni, incorrotti genitori del catechismo della domenica, il tuo posto è invece con il piccolo Samuele mentre io sono relegato nel fango più putrido delle Malebolge tra Gilles de Retz e il Marchese de Sade.
È ovvio che mi sarei dovuto liberare di te, avrei dovuto cacciarti via, scuoterti via dalla mia vita come un uomo scuote dai propri vestiti una cosa che lo ha punto. Nel più bello dei suoi drammi3 Eschilo ci narra del grande signore che alleva nella sua casa un leoncino, il λέοντος ἶνιν e lo ama perché accorre ai suoi richiami con occhi vivaci e gli fa le feste per il cibo: φαιδρωπὸς ποτὶ χεῖρα σαίνων τε γαστρὸς ἀνάγκαις. Poi l’essere cresce, mostra la natura della sua razza, ἦθος τὸ πρόσθε τοκήων, e distrugge il signore, la sua casa e tutto quello che egli possiede. Sento di essere stato come costui. Ma la mia colpa è stata non di non essermi separato da te, ma d’averlo fatto troppo spesso. Per quanto possa ricordare ho messo fine alla mia amicizia con te regolarmente ogni tre mesi e, ogni volta che l’ho fatto, tu sei riuscito per mezzo di suppliche, telegrammi, lettere, tramite l’intercessione dei tuoi amici, quella dei miei e cose del genere, a fare sì che io ti permettessi di tornare. Quando, alla fine di marzo del 1893, te ne sei andato dalla mia casa a Torquay, ero deciso a non rivolgerti mai più la parola e a non permetterti di stare con me per nessuna circostanza, tanto rivoltante era stata la scenata che avevi fatto la sera prima di partire. Mi scrivesti e mi telegrafasti da Bristol per supplicarmi di perdonarti e di incontrarti. Il tuo tutore, che era stato dalla tua parte, mi disse di ritenere che tu certe volte non fossi molto responsabile di quanto dicevi e facevi e che molti, se non tutti, a Magdalen erano dello stesso parere. Acconsentii a vederti e, naturalmente, ti perdonai. Tornando in città mi pregasti di portarti al Savoy. Quella visita mi fu davvero fatale.
Tre mesi dopo, a giugno, ci troviamo a Goring. Alcuni dei tuoi amici di Oxford vengono per rimanere dal sabato al lunedì. La mattina di quello stesso giorno in cui partirono facesti una scenata tremenda, penosa al punto che ti dissi che dovevamo separarci. Ricordo piuttosto bene che, mentre stavamo in piedi sul liscio campo da croquet con il bel prato che correva tutt’attorno a noi, ti feci rilevare che stavamo danneggiando a vicenda le nostre vite: che tu stavi rovinando completamente la mia e che io, era evidente, non ti stavo rendendo veramente felice e che una separazione irrevocabile e completa era l’unica cosa saggia e corretta da farsi. Te ne andasti con fare scontroso dopo colazione, lasciando al maggiordomo una delle tue lettere più offensive perché me la consegnasse dopo la tua partenza. Prima che fossero trascorsi tre giorni mi telegrafavi da Londra supplicandomi affinché ti perdonassi e ti permettessi di tornare. Avevo preso quel posto per farti contento. Su tua richiesta avevo assunto i tuoi stessi domestici. Mi dispiaceva terribilmente per l’orribile collera della quale eri preda. Ti volevo molto bene, perciò ti lasciai tornare e ti perdonai. Dopo altri tre mesi, a settembre, ci furono nuove scenate, originate da me che ti avevo fatto rilevare gli errori da studente nel tuo tentativo di tradurre la Salomé. Ora dovresti essere uno studioso di francese abbastanza esperto per sapere che la traduzione non era degna di te, in quanto oxfordiano, come non era degna dell’opera che cercava di rendere. Allora naturalmente non lo sapevi, e in una delle violente lettere che mi scrivesti sull’argomento dicesti di non avere «alcun obbligo intellettuale di sorta» nei miei confronti. Ricordo che quando lessi quell’affermazione la sentii come l’unica cosa vera che mi avevi scritto per tutta la durata della nostra amicizia. Mi resi conto che una natura meno colta ti si sarebbe adattata molto meglio. Tutto questo non lo dico affatto con amarezza, ma semplicemente per amicizia. In ultima analisi il legame di ogni rapporto, si tratti di matrimonio o di amicizia, è la conversazione, e la conversazione deve avere una base comune, e tra due persone di cultura molto diversa la sola base comune possibile è al livello più basso. La banalità di pensiero e di azione ha del fascino. Ne avevo fatto la chiave di volta di una filosofia molto brillante, che trovava espressione nelle commedie e nei paradossi. Ma le frivolezze e la follia della nostra vita diventarono spesso molto gravose per me: era soltanto nel fango che ci incontravamo, e per quanto fosse incantevole, terribilmente incantevole l’unico argomento attorno al quale si incentrava invariabilmente la tua conversazione, tuttavia alla fine mi riuscì estremamente monotono. Spesso mi annoiava a morte, e lo accettavo come accettavo la tua passione di andare ai music-hall o la tua mania per le assurde smodatezze nel mangiare e nel bere, o qualsiasi altra delle tue caratteristiche che meno mi attraevano, cioè come una cosa a cui ci si deve rassegnare, una parte del prezzo alto che si pagava per conoscerti. Quando, dopo aver lasciato Goring, andai a Dinard per quindici giorni, ti arrabbiasti terribilmente con me perché non ti portavo e, prima della mia partenza, facesti al riguardo delle scenate estremamente sgradevoli all’Hotel Albemarle, e mi inviasti telegrammi altrettanto spiacevoli in una casa di campagna dove mi trattenevo per alcuni giorni. Ti dissi, ricordo, che pensavo fosse tuo dovere stare per un po’ di tempo con i tuoi familiari, in quanto avevi trascorso lontano da loro l’intera stagione. Ma in realtà, ad essere del tutto sincero, non avrei permesso in nessun caso che rimanessi con me. Eravamo stati insieme per quasi dodici settimane. Avevo bisogno di riposo e di libertà dopo la terribile tensione a cui mi sottoponeva la tua compagnia. Mi era necessario starmene un po’ per conto mio. Mi era intellettualmente necessario. E confesso perciò che vidi nella tua lettera, dalla quale ho fatto delle citazioni, un’opportunità molto buona per porre termine alla fatale amicizia che era sorta tra noi, concludendola senza amarezza, come avevo appunto cercato di fare quella bella mattina di giugno a Goring, tre mesi prima. Tuttavia mi venne fatto presente – sono costretto a dire, con candore, da uno dei miei stessi amici dal quale tu eri andato in un momento di difficoltà – che tu saresti rimasto molto addolorato, forse quasi umiliato, dal veder rimandato indietro, come uno studente, il tuo lavoro; che mi aspettavo decisamente troppo da te dal punto di vista intellettuale; e che, non importa quello che scrivevi o facevi, tu mi eri devoto in modo completo e assoluto. Non volevo essere il primo a fermarti nei tuoi approcci letterari: sapevo bene che nessuna traduzione, se non fatta da un poeta, avrebbe potuto rendere il tono e il ritmo della mia opera in modo adeguato; la devozione mi sembrava, e mi sembra tuttora, una cosa meravigliosa, da non gettare via con leggerezza: perciò ripresi te e la traduzione. Esattamente tre mesi più tardi, dopo una serie di scenate che culminarono in una più rivoltante del solito, quando tu arrivasti un lunedì sera nelle mie stanze accompagnato da due dei tuoi amici, fui addirittura costretto a riparare all’estero la mattina dopo per sfuggirti, adducendo alla mia famiglia un qualche assurdo motivo per la partenza improvvisa, e lasciando un indirizzo falso al mio domestico per paura che tu mi potessi seguire con il treno successivo. E ricordo quel pomeriggio, nel vagone che si allontanava rapidamente in direzione di Parigi, di aver pensato in che situazione impossibile, terribile, profondamente sbagliata si era cacciata la mia vita, per cui io, uomo che godeva di fama mondiale, ero in pratica costretto a scappare dall’Inghilterra per cercare di disfarmi di un’amicizia che distruggeva completamente tutto ciò che di bello era in me, sia dal punto di vista intellettuale che morale: e la persona dalla quale io stavo fuggendo e con la quale ero rimasto invischiato non era una creatura terribile venuta fuori da una cloaca o da un pantano nella vita moderna, ma eri proprio tu, un giovane della mia stessa classe e posizione sociale, che era stato nel mio stesso College a Oxford, ed era ospite assiduo nella mia casa. Seguirono i soliti telegrammi supplichevoli e pieni di rimorso: non me ne curai. Infine tu minacciasti che se non avessi consentito a incontrarti, non avresti per nessun motivo consentito a proseguire per l’Egitto. Io stesso, essendone tu a conoscenza e consenziente, avevo pregato tua madre di mandarti in Egitto, lontano dall’Inghilterra, poiché a Londra stavi mandando in rovina la tua vita. Sapevo che se tu non fossi andato lei ne avrebbe avuto una terribile delusione e per amor suo ti incontrai e influenzato da una grande emozione, che persino tu non puoi aver dimenticato, ti perdonai il passato, anche se non dissi nulla riguardo al futuro.
Al mio ritorno a Londra il giorno seguente, ricordo di essermi seduto nella mia stanza e di aver cercato tristemente e seriamente di decidere se tu fossi davvero ciò che mi sembravi, così pieno di terribili difetti, così dannoso per te stesso e per gli altri, una persona fatale per chi la conosce o semplicemente per chi ci sta insieme. Ci ho meditato per un’intera settimana, e mi sono chiesto se dopotutto non ero ingiusto e non mi sbagliavo nell’idea che mi ero fatto di te. Alla fine della settimana mi venne consegnata una lettera di tua madre. Vi trovava piena espressione ogni mio sentimento nei tuoi confronti. In essa ella parlava della tua cieca, esagerata, vanità che ti portava a disprezzare la tua famiglia e a trattare il tuo fratello maggiore – quella candidissima anima – «come un filisteo», del tuo temperamento, che le faceva aver paura di parlarti della tua vita, quella vita che lei sentiva, sapeva, tu stavi conducendo, della tua condotta nelle questioni finanziarie, così angosciosa per lei per più di un verso; della degenerazione e del cambiamento che aveva avuto luogo in te. Capiva, naturalmente, come i caratteri ereditari ti avessero gravato di un terribile lascito, e lo ammise apertamente, anzi con terrore: egli è «l’unico dei miei figli che ha ereditato il fatale temperamento dei Douglas», scriveva di te. Alla fine scrisse che si sentiva costretta a dichiarare che la tua amicizia con me, a suo dire, aveva intensificato così tanto la tua vanità da divenire la fonte di tutte le tue colpe, e mi pregava ardentemente di non incontrarti all’estero. Le mandai subito una risposta scritta dicendole che concordavo in tutto e per tutto con ogni parola che aveva detto. Aggiunsi molto di più, mi spinsi fin dove potevo. Le dissi che all’origine della nostra amicizia – quando eri studente a Oxford – c’era stata la tua richiesta d’aiuto per un problema estremamente serio di tipo molto particolare. Le dissi che la tua vita era stata continuamente tormentata da problemi di questo genere. Il motivo del tuo viaggio in Belgio tu lo avevi attribuito alla colpa del tuo compagno di viaggio, e tua madre mi aveva rimproverato di averti presentato a lui. Rimisi la colpa sulle giuste spalle: le tue. Le promisi alla fine che non avevo la minima intenzione di incontrarti all’estero e la supplicai di cercare di farti rimanere lì, se fosse stato possibile come attaché onorario, se non fosse stato possibile per imparare le lingue moderne, oppure per qualsiasi altro motivo, a sua scelta, almeno per due o tre anni; e ciò tanto per il tuo bene quanto per il mio. Nel frattempo tu mi scrivevi a ogni invio di posta dall’Egitto.
Non prestai la minima attenzione a nessuna delle tue comunicazioni. Le leggevo e le strappavo. Avevo deciso di non avere più niente a che fare con te. La mia decisione era presa e mi dedicai felicemente a quell’Arte il cui sviluppo ti avevo permesso di interrompere. Dopo che erano passati tre mesi tua madre, con quella sfortunata debolezza di volontà che le è tipica e che nella tragedia della mia vita ha costituito un elemento non meno fatale della violenza di tuo padre, mi scrive lei stessa – naturalmente non ho dubbi che tu l’abbia istigata – per dirmi che sei estremamente impaziente di avere mie notizie e, per fare in modo che io non abbia nessuna scusa per non comunicare con te, mi manda il tuo indirizzo di Atene; naturalmente lo conoscevo benissimo. Ti confesso che rimasi del tutto sbalordito dalla sua lettera. Non riuscivo a capire come, dopo quello che mi aveva scritto a dicembre e quello che le avevo scritto in risposta, potesse in qualche modo tentare di riparare o di rinnovare la mia sfortunata amicizia con te. Risposi alla sua lettera, naturalmente, e la esortai nuovamente a cercare di farti contattare da qualche ambasciata all’estero per evitare di farti tornare in Inghilterra, ma non ti scrissi né prestai maggiore attenzione ai tuoi telegrammi di quanto non facessi prima che tua madre mi scrivesse. Alla fine telegrafasti addirittura a mia moglie, supplicandola di usare la sua influenza su di me perché ti scrivessi. La nostra amicizia era sempre stata per lei fonte di dolore: non solo perché da un punto di vista personale non le eri mai piaciuto, ma perché capiva che la tua presenza continua mi stava cambiando, e non in meglio: tuttavia, così come era sempre stata estremamente ospitale e cortese con te, allo stesso modo non poteva sopportare l’idea che io fossi in qualche modo – perché così le sembrava – scortese verso qualcuno dei miei amici. Pensava, anzi sapeva, che questa era una cosa estranea al mio carattere. Dietro sua richiesta mi misi in contatto con te. Ricordo benissimo il testo del mio telegramma. Dissi che il tempo avrebbe guarito ogni ferita, ma che per molti mesi a venire non avrei voluto scriverti né vederti. Partisti senza indugio per Parigi, mandandomi lungo il tragitto telegrammi appassionati, implorandomi di incontrarti per lo meno una volta. Rifiutai. Arrivasti a Parigi tardi, un sabato sera, e trovasti al tuo albergo una lettera da parte mia in cui affermavo di non volerti vedere. La mattina dopo ricevetti a Tite Street un tuo telegramma lungo circa dieci o undici pagine. In esso affermavi che, nonostante quello che mi avevi fatto, non potevi credere che io rifiutassi di vederti nel modo più assoluto: mi ricordavi che, per vedermi anche solo per un’ora, avevi viaggiato sei giorni e sei notti attraverso l’Europa senza fermarti neanche una volta lungo il percorso: quel che facesti era – devo ammetterlo – un appello quanto mai patetico, concludesti con quella che mi sembrò una minaccia di suicidio, e non di quelle sottilmente velate. Tu stesso mi avevi detto spesso che erano stati tanti quelli della tua razza che si erano macchiati le mani del loro stesso sangue: sicuramente tuo zio, probabilmente tuo nonno e molti altri ancora della folle, cattiva razza dalla quale provenivi. La pietà, il mio antico affetto per te, il riguardo per tua madre alla quale la tua morte in circostanze tanto terribili avrebbe procurato un colpo troppo grande da sopportare, l’orrore dell’idea che una vita così giovane e che, pur tra tutte le sue oscure colpe, recava ancora in sé promesse di bellezza, dovesse giungere a una fine così ripugnante, un semplice sentimento di umanità, tutto questo, se delle scuse fossero necessarie, deve fungere da mia scusante per aver acconsentito a concederti un ultimo colloquio. Quando giunsi a Parigi le tue lacrime che sgorgarono più e più volte durante la serata – e che ti bagnavano le guance come pioggia mentre eravamo seduti prima a pranzo da Voisin, poi a cena da Paillard, la gioia sincera che manifestasti nel vedermi, il tenermi la mano ogni volta che ti era possibile, come un bambino gentile e pentito, la tua contrizione allora così semplice e sincera – mi fecero acconsentire a rinnovare la nostra amicizia. Due giorni dopo il nostro rientro a Londra tuo padre ti vide pranzare con me al Café Royal, si unì al nostro tavolo, bevve il mio vino e quel pomeriggio stesso, con una lettera diretta a te, iniziò il suo primo attacco contro di me.
Può sembrare strano, ma ebbi ancora una volta, non direi la possibilità, ma il dovere, di separarmi da te. Non occorre che ti rammenti che mi riferisco alla tua condotta nei miei confronti a Brighton dal 10 al 13 ottobre del 1894. Tre anni sono un lungo periodo perché tu possa tornarci col pensiero. Ma noi che viviamo in prigione, e nelle cui vite non c’è altro evento che il dolore, dobbiamo misurare il tempo con i sussulti del dolore e il ricordo dei momenti amari. Non abbiamo niente altro a cui pensare. La sofferenza – per quanto strano ti possa suonare – è il mezzo tramite cui esistiamo, in quanto è l’unico che ci rende consapevoli di esistere; e il ricordo della sofferenza nel passato ci è necessario come garanzia, come prova, che la nostra identità continua. Tra me e il ricordo della gioia c’è un abisso non meno profondo di quello che c’è tra me e la gioia stessa. Se la nostra vita insieme fosse stata come il mondo immaginava: soltanto di piacere, dissolutezze e allegria, non sarei in grado di ricordarne un solo momento. È perché è stata piena di momenti e di giorni tragici, amari, sinistri nei loro avvertimenti, tediosa o terribile nelle sue scenate monotone e nelle sue violenze sconvenienti, che io posso vedere o sentire ogni singolo evento in dettaglio, a dire il vero non riesco a vedere o sentire che poco altro. In questo luogo gli uomini vivono talmente in mezzo al dolore che la mia amicizia con te, nel solo modo in cui sono costretto a ricordarla, mi appare sempre come un preludio consono alle varie tonalità di angoscia delle quali ogni giorno devo rendermi conto; anzi di più, di cui sento perfino la necessità; come se la mia vita, indipendentemente da come è parsa a me stesso e agli altri, sia sempre stata una vera Sinfonia di Dolore passando, attraverso i suoi ritmici movimenti, all’unica risoluzione certa, con quell’ineluttabilità che nell’Arte caratterizza l’esecuzione di ogni grande tema.
Ho parlato della tua condotta nei miei confronti per tre giorni consecutivi, tre anni fa, non è vero? Stavo cercando di ultimare la mia ultima commedia a Worthing, in solitudine. Le due visite che mi avevi fatto avevano avuto termine. All’improvviso apparisti una terza volta portando con te un amico, e proponesti addirittura che stesse a casa mia. Io (molto giustamente, ora devi ammetterlo), mi rifiutai in modo energico. Vi ospitai, naturalmente; non avevo altra scelta: ma altrove, e non nella mia casa. Il giorno seguente, un lunedì, il tuo amico tornò ai doveri della sua professione, e tu rimanesti con me. Annoiato da Worthing e ancor di più, non ho dubbi, dai miei infruttuosi sforzi di concentrarmi sulla commedia – l’unica cosa che davvero mi interessasse in quel momento – tu insistesti per farti portare al Grand Hotel a Brighton. La sera in cui arriviamo ti ammali di quella terribile febbriciattola che viene scioccamente chiamata influenza: il tuo secondo, se non terzo attacco. Non c’è bisogno che ti ricordi come ti rimasi accanto e mi presi cura di te, non semplicemente con frutta a profusione, fiori, regali, libri e cose analoghe che il denaro può procurare, ma con l’affetto, la tenerezza e l’amore che, qualunque cosa tu ne pensi, non si possono procurare con il denaro. Tranne che per una passeggiata di un’ora la mattina e un giro in carrozza di un’altra ora il pomeriggio, non abbandonai mai l’albergo. Mi feci arrivare da Londra grappoli d’uva speciale per te, perché non ti piaceva quella che offriva l’albergo, mi inventavo cose per farti piacere, rimanevo accanto a te o nella stanza vicino alla tua, rimanevo seduto con te ogni pomeriggio per farti stare calmo o per farti svagare. Dopo quattro o cinque giorni ti riprendi e io affitto un appartamento per cercare di finire il mio dramma. Tu, naturalmente, vieni con me. La mattina successiva al giorno del nostro insediamento mi sento malissimo. Tu devi andare a Londra per affari, ma prometti di ritornare nel pomeriggio. A Londra incontri un amico, e non rientri a Brighton fino alla tarda serata del giorno seguente; per quel momento ho una febbre spaventosa, e il medico scopre che ho preso l’influenza da te. Nulla avrebbe potuto essere più scomodo per un ammalato di quanto si rivela quell’appartamento. Il soggiorno è al primo piano, la camera da letto al terzo. Non c’è alcun domestico che ti assista, né qualcuno per mandare un messaggio, o per procurarsi ciò che ha ordinato il dottore. Ma tu ci sei. Non provo alcuna preoccupazione. I due giorni che seguono mi lasci completamente solo, senza cura, senza assistenza, senza niente. Non era un problema di uva, fiori e di regali deliziosi, era un problema di pura necessità: non potevo nemmeno procurarmi il latte che il medico mi aveva ordinato, la limonata venne dichiarata cosa impossibile, e quando ti supplicai di procurarmi un libro dal libraio o, se questi non avesse nulla di quello che avevo chiesto, di scegliere qualcos’altro, tu non ti prendesti neanche il disturbo di andarci. E quando, di conseguenza, venni lasciato tutto il giorno senza nulla da leggere, tu mi dici con calma che avevi comprato il libro e che ti avevano promesso di consegnarlo, un’affermazione che per caso in seguito scoprii essere del tutto falsa, dall’inizio alla fine. Nel frattempo, naturalmente tu vivi a mie spese, girando in carrozza, cenando al Grand Hotel, facendoti vedere nella mia stanza solo per chiedere denaro. Il sabato sera, dopo che mi avevi lasciato completamente solo e senza assistenza fin dal mattino, ti chiesi di tornare dopo cena, e di stare un po’ con me. Con voce irritata e maniere sgarbate mi prometti di farlo. Aspetto fino alle undici e tu non compari. Allora ti lascio un biglietto nella tua stanza semplicemente per ricordarti la promessa che mi avevi fatto, e come l’avevi mantenuta. Alle tre di notte, impossibilitato a dormire e torturato dalla sete, mi faccio strada, al freddo e al buio, fino al soggiorno, di sotto, con la speranza di trovare lì dell’acqua. Trovai te. Mi assali con tutte le orribili parole che un’indole sfrenata, una natura indisciplinata e maleducata poteva suggerirti. Con la terribile alchimia dell’egoismo tramutasti il tuo rimorso in collera. Mi accusasti di egoismo per essermi aspettato che tu rimanessi con me quando ero malato; di pormi fra te e i tuoi divertimenti; di cercare di privarti dei tuoi piaceri. Mi dicesti, e io sapevo che era del tutto vero, che eri tornato a mezzanotte semplicemente per cambiarti d’abito e uscire nuovamente per andare in luoghi dove speravi che ci fossero nuovi piaceri ad attenderti, ma che col lasciarti una lettera nella quale ti ricordavo che mi avevi trascurato per tutto il giorno e la sera, ti avevo di fatto privato del desiderio di altri divertimenti, e avevo sminuito la tua reale capacità di nuovi piaceri. Tornai di sopra disgustato, rimasi insonne fino all’alba, e riuscii a procurarmi qualcosa che spegnesse l’arsura causatami dalla febbre solo molto tempo dopo l’alba. Alle undici tu entrasti nella mia stanza. Durante la scenata precedente non potei fare a meno di osservare che tramite la mia lettera ti avevo, se non altro, tenuto a freno in una notte più sfrenata del solito. La mattina eri del tutto in te. Ovviamente attesi di sentire quali scuse avessi da addurre, e in che modo avessi intenzione di chiedere quel perdono che, nel tuo cuore lo sapevi, era immancabilmente in serbo per te, malgrado quello che avevi fatto; la tua fiducia assoluta nel fatto che io ti avrei sempre perdonato era la cosa che mi era sempre piaciuta di più, forse la cosa che mi piaceva di più di te. Ma, ben lontano dal fare ciò, tu iniziasti a ripetere la stessa scenata con rinnovata enfasi e con maggiore violenza. Alla fine ti dissi di uscire dalla stanza: facesti finta di farlo, ma quando alzai la testa dal cuscino nel quale l’avevo sepolta, eri ancora lì, e con un brutale scroscio di risa e con isterico furore ti muovesti all’improvviso verso di me. Un senso di orrore mi sopraffece, non riuscii a capire per quale esatto motivo; ma mi alzai immediatamente dal letto e, scalzo com’ero, scesi le due rampe di scale fino al soggiorno, che non lasciai fino a che il padrone dell’appartamento – che avevo chiamato con il campanello – mi assicurò che eri andato via dalla mia camera da letto, e promise di rimanere a portata di voce, in caso di necessità. Dopo un intervallo di un’ora, durante il quale era venuto il dottore che mi trovò, ovviamente, in uno stato di completa prostrazione nervosa e in una condizione febbrile peggiore dell’inizio, tornasti tu, in silenzio, per soldi; prendesti quello che riuscisti a trovare sulla toletta e sulla mensola del caminetto e te ne andasti di casa con i tuoi bagagli. Occorre che ti dica quello che pensai di te durante i due infelici e solitari giorni di malattia che seguirono? È necessario che io dica che vidi chiaramente che sarebbe stato un disonore per me il portare avanti anche solo un rapporto di conoscenza con una persona come quella che tu avevi dimostrato di essere? Che mi accorsi che eravamo al momento estremo, e mi accorsi che era davvero un grosso sollievo? E che sapevo che per il futuro la mia Arte e la mia Vita sarebbero state più libere e migliori e più belle in ogni modo? Per quanto malato, mi sentii a mio agio. Il fatto che la separazione fosse irrevocabile mi diede pace. Martedì la febbre mi abbandonò e per la prima volta cenai al piano di sotto. Mercoledì era il mio compleanno. Tra i telegrammi e le comunicazioni sul mio tavolo c’era una lettera con la tua calligrafia. La aprii pervaso da un senso di tristezza, sapevo che era ormai trascorso il tempo in cui una bella frase, un’espressione di affetto, una parola di dolore mi avrebbe indotto a riprenderti con me. Ma mi ingannavo completamente. Ti avevo sottovalutato. La lettera che mi inviasti per il mio compleanno era un’elaborata ripetizione delle due scenate, astutamente e accuratamente messa nero su bianco! Ti facevi gioco di me con volgari facezie. La tua sola soddisfazione in tutta la faccenda era, lo dicevi, che ti eri trasferito al Grand Hotel, e avevi segnato il tuo pranzo sul mio conto prima di lasciare la città. Ti congratulavi con me per la prudenza nel lasciare il mio letto di ammalato, per la mia improvvisa fuga al piano di sotto. «È stato un brutto momento per te», dicesti, «più brutto di quanto non immagini». Ah! Lo sapevo fin troppo bene. Cosa volesse davvero dire non lo sapevo; se avevi con te la pistola che avevi comprato per cercare di spaventare tuo padre e dalla quale, pensando fosse scarica, avevi una volta lasciato partire un colpo in un ristorante quando eravamo insieme; se la tua mano si muoveva verso un comune coltello da cucina che per caso si trovava sul tavolo tra di noi; se, dimenticando nel tuo furore la tua bassa statura e la forza inferiore, avevi pensato a qualche insulto appositamente diretto alla persona, o persino a un attacco, mentre io ero lì malato: questo non potrei dirlo. Non lo so neanche ora. Tutto quello che so è che una sensazione di totale orrore era scesa su di me, e che avevo sentito che se non avessi lasciato subito la stanza e fossi andato via, tu avresti fatto, o cercato di fare, qualcosa che sarebbe stata, perfino per te, fonte di vergogna per tutta la vita. Soltanto una volta in precedenza nella mia vita avevo sperimentato un tale sentimento di orrore per un essere umano. Era stato quando nella mia biblioteca di Tite Street, agitando in aria le sue manine con furia epilettica, tuo padre con il suo bulletto o amico, frapposto tra di noi, aveva pronunciato tutte le orrende parole che la sua orrenda mente riusciva a concepire, urlando le odiose minacce che in seguito mise in atto con tanta astuzia. In quest’ultimo caso fu naturalmente lui che dovette abbandonare per primo la stanza. Lo cacciai fuori. Nel tuo caso me ne andai io. Non era la prima volta che ero costretto a salvarti da te stesso.
Concludevi la lettera dicendo: «Quando non sei sul tuo piedistallo non sei interessante. La prossima volta che starai male me ne andrò subito». Ah! che fibra scadente rivela ciò! Che totale mancanza di immaginazione! Quanto si era incallito ed era diventato rozzo per allora il tuo temperamento! «Quando non sei sul tuo piedistallo non sei interessante. La prossima volta che starai male me ne andrò subito». Quanto spesso mi sono tornate alla mente quelle parole nella misera cella solitaria delle varie prigioni nelle quali mi hanno mandato. Me le sono ripetute più e più volte e ho visto in loro, spero ingiustamente, una parte del segreto del tuo strano silenzio. Che tu mi scrivessi questo, quando la stessa malattia e la febbre di cui soffrivo le avevo prese vegliandoti, era proprio disgustoso per la crudezza e rozzezza; ma, per qualsiasi essere umano sulla faccia della terra scrivere così a un altro sarebbe ugualmente un peccato per il quale non c’è perdono, ammesso che esistano peccati per cui non esiste perdono.
Confesso che quando ebbi finito la tua lettera mi sentii quasi contaminato, come se, mettendomi insieme a una persona di tale natura, avessi sporcato e disonorato in modo irreparabile la mia vita. È vero, lo avevo fatto, ma non dovevo sapere quanto fino a sei mesi più tardi. Decisi dentro di me di tornare a Londra il venerdì per incontrare di persona Sir George Lewis e chiedergli di scrivere a tuo padre per dichiarargli che avevo deciso di non permetterti più, per nessun motivo, di entrare nella mia casa, di sedere alla mia tavola, di parlare o passeggiare con me, o di stare in mia compagnia da qualsiasi altra parte e in qualsiasi altro momento. Fatto questo ti avrei scritto semplicemente per informarti sulla linea di condotta adottata; i motivi li avresti immancabilmente capiti da solo. Il giovedì sera avevo disposto tutto, quando il venerdì mattina, mentre sedevo a colazione prima di partire, mi capitò di aprire il giornale e di trovarci una notizia in cui si diceva che tuo fratello maggiore, il vero capofamiglia, l’erede al titolo, il pilastro della casa, era stato trovato morto in un fossato con il fucile scarico a fianco. L’orrore delle circostanze della tragedia, che ora si sa essere stato un incidente, ma allora era macchiata di ben più oscuri indizi, il pathos della morte improvvisa di una persona tanto amata da tutti coloro che lo conoscevano e per di più quasi alla vigilia del matrimonio, il pensiero di quello che doveva, o avrebbe dovuto essere, il tuo dolore, la consapevolezza della sofferenza che attendeva tua madre per la perdita di una persona alla quale ella si aggrappava per avere conforto e gioia dalla vita e che, come una volta ella stessa mi disse, non le aveva mai fatto spargere una lacrima dal giorno della sua nascita, la consapevolezza del tuo stesso isolamento, visto che entrambi gli altri tuoi fratelli si trovavano fuori dall’Europa, e di conseguenza tu eri il solo al quale tua madre e tua sorella potevano rivolgersi, non solo per avere compagnia nel loro dolore, ma anche per le tristi responsabilità dei terribili dettagli che la Morte porta sempre con sé; il semplice senso delle lacrimae rerum, delle lacrime di cui il mondo è fatto e della tristezza di tutte le cose umane: dal confluire di questi pensieri ed emozioni che si affollavano nel mio cervello giunse una pietà infinita per te e la tua famiglia. Dimenticai le mie stesse angosce e le amarezze. Quello che tu eri stato per me nella malattia non potei esserlo nel tuo lutto. Ti mandai immediatamente un telegramma esprimendo la mia più profonda partecipazione e nella lettera che poi lo seguì ti invitai a venire a casa mia non appena ti fosse stato possibile. Sentivo che abbandonarti in quel particolare momento, tanto più in modo formale tramite un avvocato, sarebbe stato troppo terribile per te.
Al tuo ritorno in città dal luogo della tragedia, dove eri stato chiamato, venisti subito da me con modi molto gentili e semplici, vestito a lutto, e con gli occhi velati dalle lacrime. Cercavi aiuto e consolazione come potrebbe cercarli un bambino. Ti aprii la mia casa, il mio focolare, il mio cuore. Il tuo dolore divenne anche mio, in modo che tu avessi un aiuto nel sopportarlo. Mai, nemmeno con una parola, feci allusione alla tua condotta verso di me, alle scenate e alla lettera disgustosa. Il tuo dolore, che era reale, mi sembrò avvicinarti a me più di quanto fosse mai successo. I fiori che tu prendesti da me per metterli sulla tomba di tuo fratello dovevano essere un simbolo non solo della bellezza della vita, ma della bellezza che giace dormiente nella vita di ognuno e che può essere portata alla luce.
Gli dèi sono strani. Non si servono solo dei nostri vizi per flagellarci4; ci portano alla rovina attraverso quello che c’è in noi di buono, gentile, umano, amorevole. Se non fosse stato per la pietà e l’affetto per te e per i tuoi, non mi troverei ora a piangere in questo terribile posto.
Naturalmente in tutti i nostri rapporti, percepisco non solo il Destino, ma il Fato avverso. Il Fato che scivola sempre rapido, perché va a spargere sangue. Attraverso tuo padre tu vieni da una razza con la quale unirsi in matrimonio è orribile, l’amicizia è funesta, e che mette le sue mani violente sia sulla propria vita che sulle vite degli altri. In ogni piccola circostanza in cui si sono incontrate le nostre vite, in ogni momento di grande o in apparenza insignificante importanza in cui tu venisti a me per un piacere o per chiedere aiuto, nelle piccole occasioni, nei piccoli incidenti che sembrano nel loro rapporto con la vita essere non più della polvere che danza in un raggio di luce o della foglia che svolazza giù da un albero, seguiva la Rovina, come l’eco di un grido amaro, o l’ombra che insegue l’animale da preda. La nostra amicizia comincia in realtà con la tua preghiera, espressa in una lettera commovente e incantevole, di aiutarti in una situazione spaventosa per chiunque, tanto più per un giovane a Oxford: lo faccio e, in definitiva, per l’uso che tu fai del mio nome in quanto tuo amico con Sir George Lewis, io comincio a perdere la sua stima e la sua amicizia, un’amicizia che durava da quindici anni. Quando fui privato del suo consiglio, del suo aiuto e della sua considerazione, venni privato dell’unica grande difesa della mia vita.
Mi mandi una poesia molto bella, del corso di poesia studentesco, per avere la mia approvazione; ti rispondo con una lettera di fantastici concetti letterari; ti paragono a Ila, o Giacinto, Giunchiglia o Narciso, o qualcuno favorito e onorato dall’amore del grande dio della Poesia. La lettera è come un brano di un sonetto di Shakespeare, trasposto in chiave minore. Può essere compreso solo da coloro che hanno letto il Simposio di Platone, o colto lo spirito di un austero stato d’animo che i marmi greci hanno reso bello. Era, fammelo dire francamente, il tipo di lettera che, in un momento felice ma consapevole, avrei scritto a qualsiasi grazioso giovane dell’una o dell’altra università che mi avesse mandato una poesia scritta da lui, certo che costui avrebbe avuto spirito o cultura sufficienti per interpretare in modo giusto quelle frasi stravaganti. Considera la vicenda di quella lettera! Passa dalle tue mani a quelle di un tuo sordido compagno: da questi a una banda di ricattatori, delle copie vengono mandate a Londra ai miei amici, e al direttore del teatro dove si rappresenta il mio lavoro, le viene sovrapposta ogni genere di interpretazione tranne quella giusta, la Società si elettrizza per l’assurda voce che io abbia dovuto pagare una grossa somma di denaro per averti scritto una lettera infamante; questo costituisce la base del peggiore attacco di tuo padre, io stesso produco la lettera originale davanti al tribunale per far vedere cosa è in realtà, viene denunciata dal legale di tuo padre come un rivoltante e insidioso tentativo di corrompere l’innocenza, alla fine diventa parte di un’accusa criminale, il Pubblico Ministero la richiede; il Giudice la riassume dimostrando poca cultura e molto moralismo: alla fine vado in prigione a causa sua. Questo è il risultato dell’averti scritto un’incantevole lettera.
Mentre sono a Salisbury con te ti allarmi terribilmente per una minacciosa comunicazione di un tuo vecchio amico: mi preghi di incontrare chi l’ha scritta e di aiutarti: lo faccio, il risultato è la Rovina per me. Sono costretto ad accollarmi tutto quello che hai fatto e a risponderne. Quando, non essendo riuscito a prendere la laurea, devi lasciare Oxford, mi mandi un telegramma a Londra per pregarmi di venire da te. Lo faccio immediatamente: mi chiedi di portarti a Goring poiché non ti andava, in quelle circostanze, di tornare a casa; a Goring vedi una casa e ne rimani affascinato, te la prendo, il risultato, sotto tutti i punti di vista, è la Rovina per me. Un giorno vieni da me e mi chiedi, come favore personale, di scrivere qualcosa per una rivista studentesca di Oxford, che sta per avviare un tuo amico del quale non ho mai sentito parlare e del quale non so nulla. Per farti piacere – che cosa non ho mai fatto per farti piacere? – gli mando una pagina di paradossi destinati in origine alla Saturday Review. Qualche mese più tardi mi trovo sul banco degli imputati dell’Old Bailey a causa del carattere della rivista. Essa è una parte dell’accusa del Pubblico Ministero contro di me. Sono chiamato a difendere la prosa del tuo amico e i tuoi stessi versi. Per la prima non posso trovare attenuanti; gli altri, leale fino all’amaro estremo alla tua giovane letteratura e alla tua giovane vita, li difendo con grande forza e mi rifiuto di sentir dire che sei uno scrittore di oscenità. Ma vado in prigione, nonostante tutto, a causa della rivista studentesca del tuo amico, e «dell’Amore che non osa dire il proprio nome»5. A Natale ti faccio un «regalo molto grazioso» – come lo descrivi nella tua lettera di ringraziamento – sul quale avevi lasciato il cuore, che valeva al massimo quaranta o cinquanta sterline. Quando arriva il crollo della mia vita, e io sono rovinato, l’ufficiale giudiziario che prende la mia libreria e la mette in vendita, lo fa per pagare il «regalo molto grazioso». È stato a causa di questo regalo che la mia casa è stata messa sotto sequestro. Nel momento finale e terribile, quando tu mi provochi e mi inciti con il tuo sarcasmo a intraprendere un’azione legale nei confronti di tuo padre e a farlo arrestare, l’ultima inezia a cui mi aggrappo, nei miei miseri tentativi di sfuggire, è la spesa enorme. Dico all’avvocato in tua presenza che non ho disponibilità, che non posso in alcun modo permettermi gli spaventosi costi, che non ho soldi a mia disposizione. Quello che dicevo era, come sai, perfettamente vero. Quel funesto venerdì, invece di stare nell’ufficio di Humphrey a consentire debolmente alla mia stessa rovina, sarei stato libero e felice in Francia, lontano da te e da tuo padre, ignaro del suo odioso biglietto, insensibile alle tue lettere, se solo avessi potuto andarmene dall’Avondale Hotel. Ma i padroni dell’albergo si rifiutarono di farmi partire nel modo più assoluto. Eri rimasto con me dieci giorni: per di più alla fine, con mia grande e, lo ammetterai, giusta indignazione, portasti a stare con me anche un tuo amico: il mio conto per dieci giorni ammontava a quasi 140 sterline. Il proprietario disse che non poteva consentire che i miei bagagli fossero portati via dall’albergo fino a che io non avessi saldato completamente il conto. Fu questo a trattenermi a Londra. Se non fosse stato per il conto dell’albergo sarei andato a Parigi il giovedì mattina.
Quando dissi all’avvocato che non avevo il denaro per affrontare l’enorme spesa, tu intervenisti subito. Dicesti che la tua stessa famiglia sarebbe stata felicissima di pagare tutte le spese necessarie, che tuo padre era stato un incubo per tutti loro, che avevano spesso discusso la possibilità di farlo rinchiudere in un manicomio così da toglierlo di mezzo, che era una fonte quotidiana di seccature e di angosce per tua madre e per tutti gli altri, che se solo mi fossi fatto avanti per farlo rinchiudere sarei stato considerato dalla famiglia un paladino e benefattore: e che i ricchi parenti di tua madre avrebbero considerato una vera gioia la possibilità di pagare tutti i costi e tutte le spese in cui si sarebbe potuto incorrere in uno sforzo di tale genere. L’avvocato aderì immediatamente, e io venni mandato in gran fretta alla Stazione di Polizia. Non mi era rimasta alcuna scusa per non andarci. Fui costretto a farlo. Naturalmente la tua famiglia non paga le spese e, quando io vengo dichiarato insolvente, è a causa di tuo padre e per le spese che ammontano alla misera somma di circa 700 sterline. In quel momento mia moglie, che si è allontanata da me per l’importante problema se io debba avere 3 sterline o 3 sterline e 10 alla settimana per vivere, sta preparando una causa di divorzio per la quale, naturalmente, sarà necessaria una nuova deposizione e un nuovo processo, a cui farà forse seguito una più seria azione giudiziaria. Naturalmente io non so nulla dei dettagli. So semplicemente il nome del testimone sulla cui deposizione si basano gli avvocati di mia moglie. È il tuo domestico di Oxford, che su tua espressa richiesta io presi a mio servizio per la nostra estate a Goring.
Ma, a dire il vero, non è necessario che io vada avanti con altri esempi dello strano Fato avverso che tu sembri aver fatto calare su di me in tutte le cose, piccole o grandi. A volte mi sembra che tu stesso sia stato semplicemente un burattino manovrato da una mano segreta e invisibile per portare eventi terribili a una terribile conclusione. Ma anche i burattini hanno delle passioni. Portano una trama nuova in quello che rappresentano, e intrecciano la conclusione preordinata della vicenda per soddisfare qualche loro capriccio o brama. Essere completamente liberi e allo stesso tempo completamente dominati dalla legge è l’eterno paradosso della vita umana, del quale ci rendiamo conto in ogni momento; e questa, lo penso spesso, è l’unica spiegazione possibile della tua natura, se mai possa esistere una spiegazione per i profondi e terribili misteri dell’anima umana, eccetto una, che rende ancor più mirabile il mistero.
Naturalmente, tu avevi le tue illusioni, anzi vivevi attraverso di esse e, tramite le loro nebbie cangianti e i veli colorati vedevi tutte le cose mutate. Tu pensavi, lo ricordo benissimo, che il tuo dedicarti a me, escludendo completamente la tua famiglia e la vita familiare, fosse una prova della meravigliosa stima che avevi di me, e del tuo grande affetto. Senza dubbio ti sembrava così. Ma ricorda che io portavo con me lusso, vita fastosa, denaro senza limiti. La tua vita familiare ti annoiava. Il «freddo vino da poco prezzo di Salisbury», per usare una frase da te coniata, non era di tuo gradimento. Dalla mia parte, insieme alle mie attrattive intellettuali, c’erano le vacche grasse d’Egitto. Quando non trovavi me per compagno, coloro che sceglievi come sostituti non erano lusinghieri.
Tu pensavi anche, mandando a tuo padre la lettera di un avvocato per dire che piuttosto che troncare la tua eterna amicizia con me avresti rinunciato all’assegno di 250 sterline l’anno che credo egli ti passasse allora – con le deduzioni per i debiti contratti a Oxford – di realizzare quanto di più nobile c’è nell’amicizia e toccare la nota più nobile dello spirito di autoabnegazione. Ma la rinuncia al tuo piccolo assegno non implicava la disponibilità a rinunciare anche soltanto a uno dei tuoi lussi più superflui, o agli sperperi meno necessari. Al contrario. La tua brama di vivere in modo fastoso non fu mai così viva. Le mie spese per otto giorni a Parigi per me, te e il tuo domestico italiano ammontarono a quasi 150 sterline: Paillard da solo ne assorbì 85. Per il tenore con cui tu desideravi vivere, la tua rendita annuale complessiva, consumando i pasti da solo ed essendo particolarmente parsimonioso nello scegliere i divertimenti più a buon mercato, ti sarebbe a malapena bastata per tre settimane. Il fatto che, in quella che era semplicemente una simulazione di spavalderia tu avessi rinunciato al tuo assegno, come facesti allora, dava, alla fin fine, un motivo plausibile alla tua pretesa di vivere a mie spese, o almeno quello che pensavi fosse un motivo plausibile: e in molte occasioni ne approfittasti seriamente, utilizzandolo appieno; e il salasso continuo, esercitato naturalmente soprattutto su di me, ma anche in certa misura, lo so per certo, su tua madre, non fu mai così doloroso, perché, perlomeno nel mio caso, mai del tutto privo della benché minima parola di ringraziamento, o del senso del limite.
Pensavi anche, attaccando tuo padre con terribili lettere, telegrammi offensivi e cartoline di insulti, di combattere veramente le battaglie di tua madre, facendoti avanti come suo campione e di vendicare quelli che erano stati i terribili torti e le sofferenze della sua vita coniugale. Era un’illusione da parte tua, proprio una delle peggiori. L’unico modo per vendicare i torti che tuo padre aveva inflitto a tua madre, se ritenevi che fosse parte del dovere di un figlio farlo, era essere per lei un figlio migliore di quanto tu non fossi stato; non rendendola timorosa di parlarti di cose serie; non firmando cambiali il cui pagamento era delegato a lei; essendo più gentile con lei e non recando dolore alla sua esistenza. Tuo fratello Francis la ripagò ampiamente per quello che aveva sofferto, con la sua dolcezza e la sua bontà nei brevi anni della sua vita, simile a quella di un fiore. Avresti dovuto prenderlo a modello. E ti sbagliavi anche nell’immaginare che sarebbe stato un indiscusso piacere e una gioia per tua madre se tu fossi riuscito tramite me a far mettere tuo padre in prigione. Sono sicuro che ti sbagliavi. E se vuoi sapere quello che una donna prova veramente quando suo marito, il padre dei suoi figli, porta la divisa da carcerato, scrivi a mia moglie e chiediglielo. Te lo dirà.
Anche io avevo le mie illusioni. Pensavo che la vita fosse una brillante commedia, e tu uno dei suoi molti eleganti personaggi. Mi accorsi che era una tragedia rivoltante e repellente, e che la sinistra occasione della grande catastrofe, sinistra nella concentrazione del fine e nell’intensità della forza di volontà, eri tu stesso, spogliato di quella maschera di gioia e di piacere dalla quale, non meno di me, eri stato ingannato e fuorviato.
Ora puoi capire, non è vero, un po’ di quello che sto soffrendo. Qualche giornale, credo la Pall Mall Gazette, nel descrivere la prova generale di uno dei miei drammi, parlava di te come di una persona che mi seguiva come fosse la mia ombra: il ricordo della nostra amicizia è l’ombra che cammina qui con me, che sembra non lasciarmi mai, che mi sveglia di notte per raccontarmi continuamente la stessa storia, fino a che la noiosa ripetizione fa sì che il sonno mi abbandoni fino all’alba, all’alba ricomincia daccapo, mi segue nel cortile del carcere e mi fa parlare fra me e me mentre mi trascino attorno attorno, sono costretto a ricordare ogni dettaglio che accompagnò ogni terribile momento; non c’è nulla che sia successo in quegli anni sfortunati che io non possa ricostruire in quella camera del cervello che è collocata separatamente per il dolore o la disperazione; tutte le note sgradevoli della tua voce, tutte le contrazioni e i gesti delle tue mani nervose, tutte le parole amare, tutte le frasi velenose mi ritornano; mi ricordo la strada o il fiume lungo i quali passavamo, il muro o i boschi che ci circondavano, su quale cifra del quadrante stavano le lancette dell’orologio, che direzione prendevano le ali del vento, la forma e il colore della luna.
Esiste, lo so, una risposta a tutto quello che ti ho detto, ed è che tu mi amavi: che per quei due anni e mezzo durante i quali le Parche tessevano su un canovaccio scarlatto i fili delle nostre vite separate tu mi amavi davvero. Sì, lo so che mi amavi. Qualunque fosse la tua condotta verso di me, nel mio cuore sentivo sempre che mi amavi davvero. Sebbene vedessi molto chiaramente che la mia posizione nel mondo dell’Arte, l’interesse che la mia personalità aveva sempre destato, il mio denaro, il lusso in cui vivevo, le mille e una cosa che contribuivano a rendere incantevole e meravigliosamente inverosimile una vita come la mia, erano tutti insieme e ognuno singolarmente elementi che ti affascinavano e ti facevano aggrappare a me, tuttavia, oltre a tutto questo c’era qualcos’altro, una qualche strana attrazione per te: mi amavi molto più di quanto avessi amato altri. Ma anche tu, come me, hai sofferto una terribile tragedia nella tua vita, sebbene di carattere diametralmente opposto alla mia. Vuoi sapere cosa era? Era questo: in te l’Odio fu sempre più forte dell’Amore. L’odio per tuo padre era di misura tale da superare completamente, sconfiggendolo e offuscandolo, il tuo amore per me. Tra essi non ci fu affatto lotta, o fu molto scarsa: tanto grande era il tuo Odio e mostruosamente in crescita. Non ti accorgevi che non c’è spazio, nella stessa anima, per tutte e due le passioni. Non possono vivere assieme in quella dimora finemente incisa. L’amore è nutrito dall’immaginazione, che ci fa diventare più saggi di quanto sappiamo, migliori di come ci sentiamo, più nobili di come siamo, e che ci permette inoltre di vedere la Vita come un’entità unica e che, evento unico tra tutti, ci permette di capire gli altri tanto nei loro rapporti reali che in quelli ideali. Solo ciò che è delicato, e concepito con delicatezza, può dare nutrimento all’Amore. Invece all’Odio tutto dà nutrimento. Non c’è stato un solo bicchiere di champagne che tu abbia bevuto in tutti questi anni che non abbia nutrito e ingrassato il tuo Odio. E, per gratificarlo, tu hai giocato d’azzardo con la mia vita, come hai giocato con il mio denaro, in modo incauto, sconsiderato, indifferente alle conseguenze. Se perdevi immaginavi che la perdita non sarebbe stata tua. Se vincevi, e lo sapevi, l’esultanza e i vantaggi della vittoria sarebbero stati tuoi.
L’odio acceca gli uomini. Non ne eri consapevole. L’Amore può leggere la scritta sulla stella più lontana, ma l’Odio ti accecava così tanto che non riuscivi a vedere oltre il giardino stretto e recintato dei tuoi volgari desideri, già inaridito dalla lussuria. La tua terribile mancanza di immaginazione, il solo difetto davvero funesto del tuo carattere, fu in tutto e per tutto il risultato dell’Odio che viveva in te. Sottilmente, silenziosamente e in segreto, l’Odio corrose la tua natura, come il lichene morde la radice dei salici, fino a che tu arrivasti a non vedere nulla tranne gli interessi più miseri e gli scopi più meschini. Quella facoltà che l’Amore avrebbe nutrito in te, l’Odio la avvelenò e la paralizzò. Quando per la prima volta tuo padre iniziò ad attaccarmi fu in qualità di tuo amico personale, e in una lettera privata diretta a te. Non appena ebbi letto la lettera, con le sue oscene minacce e le grossolane violenze, mi accorsi subito che un terribile pericolo incombeva all’orizzonte dei miei difficili giorni: ti dissi che non volevo subire le conseguenze del vostro antico odio reciproco, che io a Londra ero sicuramente un obiettivo ben più grande per lui di quanto non fosse un segretario del ministero degli Esteri a Homburg, che sarebbe stato scorretto nei miei confronti mettermi, anche solo per un momento, in una situazione del genere, e che avevo qualcosa di meglio da fare nella vita che non mettermi a fare delle scenate con un uomo ubriaco, déclassé, e mezzo matto come lui. Questo non riuscii a fartelo capire. L’Odio ti accecava. Insistesti che il litigio non aveva davvero nulla a che fare con me, che non avresti permesso che tuo padre ti dettasse delle imposizioni riguardo alle tue amicizie personali, che sarebbe stato scorretto da parte mia intromettermi. Prima di consultarmi sulla questione avevi già mandato a tuo padre un telegramma sciocco e volgare, come risposta. Questo fatto, ovviamente, ti impegnò a seguire una linea di condotta stupida e volgare. Gli errori fatali della vita non sono dovuti all’irragionevolezza dell’uomo: un momento irragionevole può essere uno dei momenti più belli. Sono invece dovuti alla condotta logica dell’uomo. C’è una grande differenza. Quel telegramma condizionò tutti i tuoi successivi rapporti con tuo padre, e di conseguenza tutta la mia vita. E in tutto ciò la cosa grottesca è che si trattava di un telegramma di cui si sarebbe vergognato il più volgare ragazzo di strada. Dai telegrammi insolenti alle pedanti lettere degli avvocati il passo fu naturale, e il risultato delle lettere del tuo legale a tuo padre fu, naturalmente, di farlo continuare ancora sulla stessa strada. Non gli lasciasti altra scelta che andare avanti. Lo costringesti a farlo come punto d’onore, o piuttosto di disonore, affinché la tua sfida avesse maggiore effetto. Così la volta seguente egli attacca me, non più in una lettera privata e in qualità di tuo amico personale, ma in pubblico e come nota personalità. Devo cacciarlo dalla mia casa. Mi viene a cercare da un ristorante all’altro, per insultarmi di fronte al mondo intero, e in modo tale che, se avessi reagito sarei stato rovinato, e se non avessi reagito sarei stato rovinato ugualmente. Quello era proprio il momento in cui tu ti saresti dovuto fare avanti e dire che non mi avresti esposto a quegli odiosi attacchi, a quell’infame persecuzione per causa tua, ma che avresti abbandonato, subito e di buon grado, qualsiasi pretesa sulla mia amicizia. Ora te ne accorgi, suppongo. Ma allora non te ne accorgesti mai. L’Odio ti accecava. Tutto quello a cui riuscivi a pensare (oltre naturalmente a scrivere a tuo padre lettere e telegrammi di insulto) era comprare una ridicola pistola che esplode al Berkeley in circostanze che creano uno scandalo peggiore di quanti fossero mai arrivati alle tue orecchie. Anzi, l’idea di essere l’oggetto di una terribile disputa tra tuo padre e un uomo della mia posizione sembrava deliziarti. Questo fatto suppongo, del tutto naturalmente, gratificava la tua vanità e lusingava il tuo amor proprio. Che tuo padre potesse avere il tuo corpo, che non mi interessava, e lasciasse a me la tua anima, che non lo interessava, avrebbe costituito per te una penosa soluzione al problema. Subodoravi la possibilità di uno scandalo pubblico e le corresti incontro. La prospettiva di una battaglia nella quale saresti stato al sicuro ti dilettava. Non ricordo di averti mai visto di umore migliore di quanto tu fosti per il resto di quella stagione. La tua unica delusione sembrò essere che in effetti non accadeva nulla, e che nessun ulteriore incontro o lite ebbero luogo tra noi. Ti consolasti mandando a tuo padre telegrammi di tal genere che alla fine il disgraziato ti scrisse per dire che aveva dato ordini ai suoi domestici di non portargli alcun telegramma con nessun pretesto. Questo non ti scoraggiò. Ti rendesti conto che le cartoline postali aperte offrivano delle grandissime opportunità, e te ne servisti pienamente. Lo incitasti ancora di più alla caccia. Non credo proprio che la avrebbe mai lasciata perdere. Gli istinti familiari erano molto forti in lui. Il suo odio per te era tenace quanto il tuo per lui e io ero il paravento per entrambi, una forma di attacco e di difesa. La sua stessa passione per la notorietà non era semplicemente individuale, bensì congenita alla sua razza. Tuttavia, se il suo interesse si fosse fermato per un istante, le tue lettere e cartoline avrebbero subito ravvivato la sua antica fiamma. Lo fecero. Ed egli, naturalmente, andò ben oltre. Dopo avermi attaccato in quanto gentiluomo e in privato, come personaggio pubblico e pubblicamente, alla fine decide di lanciare il suo ultimo e grande attacco a me come artista, e nel luogo in cui si rappresenta la mia Arte. Si assicura con l’inganno un posto per la prima di una delle mie commedie, ed escogita un complotto per interrompere la rappresentazione, rivolge al pubblico un infame discorso su di me, insulta i miei attori, mi lancia oggetti oltraggiosi o osceni quando alla fine sono chiamato davanti al sipario, per rovinarmi del tutto in maniera orribile attraverso il mio lavoro. Per purissimo caso, con la breve e casuale sincerità di un animo più ubriaco del solito, si vanta delle sue intenzioni davanti agli altri. Viene avvisata la polizia ed egli viene tenuto fuori dal teatro. Quella fu la tua occasione. Quello il tuo momento. Non capisci ora che avresti dovuto accorgertene, farti avanti e dire che non avresti voluto a nessun costo che la mia Arte subisse danni per amor tuo? Sapevi ciò che la mia Arte significava per me, l’elemento principale tramite cui avevo rivelato, prima me a me stesso, e poi me stesso al mondo; la vera passione della mia vita, l’amore in confronto al quale tutti gli altri amori erano come acqua melmosa in confronto al vino rosso, o la lucciola della palude in confronto al magico specchio della luna. Non capisci ora che la mancanza di immaginazione era l’unico difetto veramente fatale del tuo carattere? Quello che dovevi fare era molto semplice e chiaro davanti a te, ma l’Odio ti accecava e non riuscivi a vedere nulla. Io non potevo chiedere scusa a tuo padre per avermi insultato e perseguitato nel modo più odioso per quasi nove mesi. Non riuscii a eliminarti dalla mia vita. Ci avevo provato più e più volte. Mi ero spinto così tanto da lasciare addirittura l’Inghilterra e andare all’estero nella speranza di sfuggirti. Non era stato di alcun beneficio. Tu eri l’unica persona che avrebbe potuto fare qualcosa.
La soluzione della vicenda rimaneva interamente nelle tue mani. Era la sola grande opportunità che avevi di ricompensarmi in parte per tutto l’amore, l’affetto, la gentilezza e le attenzioni che avevo mostrato nei tuoi confronti. Se tu mi avessi apprezzato anche solo per un decimo del mio valore come artista lo avresti fatto. Ma l’Odio ti accecava. La facoltà «per cui e per cui soltanto possiamo capire gli altri tanto nei loro rapporti reali quanto in quelli ideali» era morta in te. Tu pensavi semplicemente a come far andare tuo padre in prigione. Vederlo «nel banco degli imputati», come eri solito dire: quella era la tua idea fissa. La frase divenne una delle molte sciés della tua conversazione di tutti i giorni. La si sentiva a ogni pasto. Il tuo desiderio fu dunque appagato. L’odio ti concedeva ogni minima cosa tu desiderassi. Fu un Padrone indulgente con te. Lo è, a dire il vero, con tutti coloro che lo servono. Per due giorni rimanesti seduto su un alto seggio con i funzionari di polizia, e i tuoi occhi si appagarono dello spettacolo di tuo padre in piedi nel banco degli imputati nel tribunale penale centrale. E il terzo giorno io presi il suo posto. Che cosa era successo? Nella vostra orribile partita di odio, tutti e due vi eravate giocati la mia anima a dadi, e capitò a te perdere. Ecco tutto.
Come vedi devo scrivere a te della tua vita, e tu devi comprenderla. Sono più di quattro anni che ci conosciamo. Metà del tempo lo abbiamo trascorso insieme: l’altra metà l’ho dovuta trascorrere in prigione in conseguenza della nostra amicizia. Dove tu riceverai questa lettera, se mai riuscirà ad arrivarti, non lo so; Roma, Napoli, Parigi, Venezia, qualche bella città sul mare o su un fiume, non ho dubbi, ti ospita. Sei circondato, se non dall’inutile lusso di quando eravamo insieme, a ogni modo da tutto quello che è piacevole all’occhio, all’orecchio, al gusto. La Vita è bella per te. E tuttavia, se sei saggio, e vuoi che Essa lo sia ancora di più, e in modo diverso, lascerai che la lettura di questa terribile lettera – perché so che così è – si dimostri per te una crisi e un punto di svolta tanto importante nella tua vita, come lo è per me lo scriverla. Il tuo viso pallido si coloriva facilmente per il vino e per il piacere. Se, mentre leggi quello che è scritto qui, di tanto in tanto ne rimani scottato per la vergogna, come dal getto d’aria di una fornace, sarà tanto meglio per te. La superficialità è il vizio supremo. Tutto quello che viene compreso è giusto.
Ora sono arrivato a raccontare fino alla prigione, non è vero? Dopo una notte passata nelle celle della polizia vengo mandato qui con un furgone. Tu eri premurosissimo e gentile. Quasi ogni pomeriggio, se non in effetti tutti i pomeriggi, fino a che non andasti all’estero, ti prendesti il disturbo di venire fino a Holloway in carrozza per vedermi. Scrivesti anche lettere molto belle e dolci. Ma non si fece mai strada nella tua mente per un istante che non era tuo padre ma tu a mettermi in prigione, che dall’inizio alla fine eri tu il responsabile, che era tramite te, a causa tua e per mezzo tuo che mi trovavo lì. Nemmeno lo spettacolo di me dietro le sbarre di una gabbia di legno riuscì ad accendere quella natura spenta e priva di immaginazione. Avevi la sensibilità e il sentimentalismo dello spettatore di un dramma piuttosto patetico. Non ti venne in mente di essere il vero autore dell’orribile tragedia. Vidi che non ti rendevi affatto conto di quello che avevi fatto. Non desideravo essere io a doverti dire quello che il tuo stesso cuore avrebbe dovuto dirti, ciò che ti avrebbe in effetti detto se tu non avessi permesso all’Odio di indurirlo e di renderlo insensibile. Tutto deve venirci dalla nostra stessa natura. Non porta alcun vantaggio dire a una persona una cosa che non sente come sua e che non può capire. Se ora ti scrivo in questi termini è perché il tuo stesso silenzio e comportamento durante la mia lunga prigionia lo hanno reso necessario. Inoltre, da come sono andate le cose, il colpo è ricaduto soltanto su di me. Ciò è stata una fonte di piacere. Sono stato contento di soffrire per molti motivi, anche se ai miei occhi c’è sempre stato, quando ti guardavo, un che di non poco spregevole nella tua completa e ostinata cecità. Ricordo che tirasti fuori con estremo orgoglio una lettera su di me che avevi pubblicato in un giornale da due soldi. Si trattava di un pezzo molto prudente, moderato, un prodotto davvero banale. Ti appellavi al «senso inglese del fair-play», o a una qualche tremenda banalità di quel genere, a favore di «un uomo caduto in basso». Era il tipo di lettera che avresti potuto scrivere se fosse stata rivolta una spiacevole accusa a una persona rispettabile che tu non avessi direttamente conosciuto. Pensavi invece che fosse una bellissima lettera, la ritenevi una prova di cavalleria quasi donchisciottesca. Sono sicuro che hai scritto altre lettere ad altri giornali che non le hanno pubblicate. Ma quelle erano semplicemente per dire che odiavi tuo padre. A nessuno interessava se lo odiavi oppure no. L’Odio, devi ancora impararlo, è, considerato intellettualmente, la Negazione Eterna. Considerato dal punto di vista delle emozioni è una forma di Atrofia, e uccide tutto tranne se stesso. Scrivere ai giornali per dire che si odia qualcun altro è come se si dovesse scrivere ai giornali per dire che qualcuno ha una qualche malattia segreta e disonorevole: il fatto che l’uomo che odiavi fosse il tuo stesso padre, e che il sentimento fosse interamente contraccambiato non rese il tuo Odio nobile e bello in alcun modo. Se mostrava qualcosa, era semplicemente che si trattava di un male ereditario.