Nota introduttiva
Geloso per il successo intellettuale e mondano del giovane Oscar Wilde che era stato suo grande amico e frequentatore per un paio d’anni, il pittore nonché arguto conversatore e teorico d’arte James McNeill Whistler (uno dei diffusori a Londra dell’Impressionismo) lo accusò di plagio, ovvero «del coraggio delle opinioni altrui»; e rimane famoso un aneddoto in cui avendo Whistler pronunciato uno dei suoi bon mots, e avendo Wilde sospirato con ammirazione «Come vorrei averlo detto io!», l’altro commentò: «Lo dirai, Oscar, lo dirai».
Senonché Wilde non aveva mai preteso di essere un pensatore originale, nemmeno quando, appena uscito da Oxford, tentava di attirare l’attenzione esibendosi in pose stravaganti e autodefinendosi leader di un mai ben specificato «movimento estetico»: anche allora egli si presentava semplicemente come l’apostolo, il propagandista, il divulgatore di una campagna di difesa dell’arte e del bello, le cui origini risalivano agli albori della Rivoluzione Industriale. Da quando infatti la nuova realtà della Macchina aveva cominciato a minacciare la creatività individuale dell’uomo, e allo stesso tempo l’Utilitarismo, filosofia della emergente classe borghese, aveva messo in discussione la legittimità della stessa esistenza dell’artista, voci si erano levate a proclamare l’importanza delle attività squisitamente ed esclusivamente estetiche. In Inghilterra il poeta John Keats, morto in esilio con la sensazione di essere stato respinto dall’establishment letterario, aveva assunto un po’ i connotati del martire di un mondo gretto, che non ha più posto per chi si rifiuta di produrre valori tangibili. In Francia era nata l’espressione polemica «l’Arte per l’Arte», indicante l’affrancamento della Bellezza da qualunque considerazione di validità commerciale o didattica: qui lo scrittore Théophile Gautier, diffusore del simbolo del girasole (la pianta che cerca la luce), aveva esaltato la superiorità delle rose sulle patate, e di Michelangelo sull’inventore della mostarda bianca; e artisti come Baudelaire e Flaubert erano stati al centro di processi loro intentati dai «filistei», ossia i gretti borghesi, nemici della Verità, così chiamati dal poeta e critico tedesco Heinrich Heine. Baudelaire in particolare aveva trovato argomenti nell’opera di un altro poeta e critico, americano, da lui tradotto e diffuso: Edgar Allan Poe, denunciatore della così definita «eresia del didatticismo», cioè l’assurdità di imporre a un’opera d’arte fini utilitari, didascalici o edificanti che siano. Le affermazioni scandalose di Baudelaire furono riecheggiate in Inghilterra dal poeta Algernon Swinburne, mentre dal canto loro arbitri del gusto come il critico d’arte John Ruskin e il traduttore e poeta William Morris predicavano, sempre contro la grossolanità dei prodotti fatti in serie, il ritorno a una manualità di tipo medievale. Infine in un libro diventato subito famoso, Studies in the History of the Renaissance (1873), il professore di Oxford Walter Pater propose un modello di sensibilità estetica chiaramente disgiunta dal tornaconto mercantile o morale, esortando i giovani ad ardere «come dura fiamma gemmea», allo scopo di captare i momenti privilegiati dell’esistenza – «ogni momento una forma diviene perfetta, in una mano o su un volto; qualche tono sui colli o sul mare è più squisito di altri...».
Ammiratore di Swinburne e di Morris, allievo di Ruskin e di Pater all’Università, Wilde aveva reso omaggio a questi e a molti altri personaggi (fra cui i pittori preraffaelliti come Rossetti) nelle conferenze pronunciate in America, quando inviato dall’impresario D’Oyly Carte per fare pubblicità all’operetta Patience, satira della moda estetizzante, aveva preso sul serio la sua missione, facendosi paladino dell’importanza del buon design sia nell’arredamento sia nei vestiti, ma soprattutto, più genericamente, della bellezza in generale come elemento insostituibile della vita quotidiana. Quelle conferenze – della prima, intitolata «Il Rinascimento Inglese», sopravvive il testo integrale, altre sono note in modo meno completo – contenevano l’esposizione appassionata e talvolta un po’ contraddittoria dei temi dei personaggi surricordati e di altri ancora, come Dante Gabriel Rossetti, fondatore del cenacolo dei pittori preraffaelliti, in uno stile che risente della turgidità di quella prosa fine secolo, da cui il Wilde più maturo si sarebbe affrancato. Seguirono, dopo il ritorno a Londra e il matrimonio, anni di proficua attività letteraria quasi sempre anonima, come recensore di libri e più raramente di spettacoli, sulle pagine di giornali come la «Pall Mall Gazette» e riviste come il mensile «The Woman’s World», di cui Wilde fu per due anni il direttore: è in questi articoli, raccolti postumi in due volumi delle opere complete, che si mette a punto la fisionomia del saggista, la cui manifestazione più remota risale allo scritto dei tempi di Oxford «The Rise of Historical Criticism», notevole soprattutto per una erudizione classica in carattere con l’eccellente curriculum di studi di Wilde. Culmine di questo tirocinio sono tre saggi usciti fra il 1889 e il 1891, contenenti non solo l’esposizione più matura del pensiero di Wilde in fatto di estetica ma anche la sintesi più lucida di tutto quel dibattito sulle ragioni dell’arte di cui sopra abbiamo frettolosamente elencato qualcuno dei momenti principali.
Di questi tre saggi fondamentali due, ossia «The Decay of Lying» e «The Critic as Artist», furono riuniti con altri due di minore impegno in un volume intitolato Intentions, uscito nel 1891. I due minori sono «The Truth of Masks» e «Pen, Pencil and Poison». Il primo e più antico tratta esaurientemente dell’uso del costume nei drammi di Shakespeare. Al momento di ristamparlo nel libro, Wilde vi aggiunse l’ultimo paragrafo, in cui afferma di non condividere necessariamente tutto quello che ha detto; in seguito andò oltre, e chiese al suo traduttore francese addirittura di escludere il saggio dall’edizione di Intentions in quella lingua, a beneficio di «The Soul of Man Under Socialism», che aveva scritto nel frattempo. Più caratteristicamente wildiano appare «Pen, Pencil and Poison» col suo ritratto del critico d’arte, esteta ante litteram nonché avvelenatore Thomas Griffith Wainewright, vissuto ai tempi di Dickens: qui Wilde ha modo di sfoggiare un po’ di malizioso cinismo, destinato a provocare scherzosamente i cosiddetti benpensanti, non molti dei quali presumibilmente conoscevano lo studio già dedicato da Swinburne allo stesso personaggio, studio del quale Wilde si giovò con grande disinvoltura.
Ben più succosi appaiono i due dialoghi rispettivamente sulla decadenza della menzogna e sulle funzioni della critica d’arte, usciti entrambi sulla rivista «The Nineteenth Century», il primo nel gennaio 1889 (dopo essere stato ispirato da una conversazione di Wilde con Robert Ross, come si racconta in De Profundis), e il secondo in due puntate, nel luglio e nel settembre 1890. In «The Decay of Lying» i due giovani dandies che si confrontano languidamente nella biblioteca di una casa di campagna hanno i nomi dei figli di Wilde. Quello dei due che porta avanti l’argomento sostiene la vitale importanza, in arte, della libera fantasia del creatore, il quale ha il compito di «mentire», ossia di darci qualcosa di deliberatamente non vero, vale a dire di diverso dalla vita, di alternativo e di migliore; e nel fuoco di fila di spiritosi paradossi, con cui sottolinea la sua tesi contro il realismo e la piattezza documentaria, il discettatore arriva a sostenere, non senza pezze d’appoggio, che è la natura a imitare l’arte, e non viceversa – le nebbie di Londra non esistevano prima che i pittori decidessero di dipingerle, e il Giappone dei vedutisti orientali esiste solo nei loro acquerelli.
Nella versione uscita in rivista, «Il critico come artista» si intitolava «The True Function and Value of Criticism» («La vera funzione e il vero valore della critica»), con una precisa allusione al celebre saggio di Matthew Arnold, «The Function of Criticism at the Present Time». Colà il grande letterato vittoriano aveva sostenuto che il primo dovere del critico è «vedere l’oggetto com’è realmente in se stesso», assioma che già Pater aveva ripreso per ribaltarlo, affermando invece che il critico deve innanzitutto stabilire la verità circa le proprie impressioni. Procedendo su questa strada, Wilde esalta la soggettività del critico, che secondo lui è superiore all’artista in quanto lavora su materiali già decantati. L’artista infatti attinge dalla vita e dalla natura, che ha il compito di perfezionare; il critico invece parte dalle opere d’arte, ossia da forme superiori, e se ne libra per arrivare a mete ancora più alte (naturalmente, per «critico» Wilde non intende tanto l’esegeta delle opere altrui, quanto l’artista superiore, che si ispira dall’arte e non dall’imperfetta realtà).
Lo stimolo a buttar giù «L’anima dell’uomo sotto il socialismo», uscito sulla «Fortnightly Review» nel febbraio 1891, Wilde lo avrebbe ricevuto da una conferenza alla quale era stato condotto dal suo più giovane amico e compatriota irlandese G.B. Shaw; è anche quasi l’unico testo contenente le idee politiche dell’esteta. Sono idee che come è stato osservato riportano più alla tradizione anarchica che a quella marxista, in quanto Wilde sostiene, come al solito paradossalmente, l’abolizione di ogni costrizione – Stato, leggi, obbligo del lavoro – allo scopo di lasciare l’uomo libero di sviluppare la propria personalità in senso artistico. Sulla plausibilità di un futuro in cui le macchine svolgeranno tutte le incombenze, a partire dalle più sgradevoli, è ovviamente lecito qualche dubbio; ma lo scopo del saggista non è di convincere della solidità della sua economia, quanto piuttosto di comunicare la sua indignazione per le ipocrisie della società in cui vive, ipocrisie che si manifestano per esempio nell’assistenzialismo e nella carità – atteggiamenti che servono solo a perpetuare la situazione esistente, ossia a mantenere i poveri deboli e ossequienti, e a far diventare i ricchi sempre più ricchi.
All’atmosfera dei dialoghi «The Decay of Lying» e «The Critic as Artist» si apparenta «The Portrait of Mr W. H.», racconto lungo uscito sulla rivista «Blackwood’s Magazine» nel 1889 e poi riscritto da Wilde fino a raddoppiarlo di mole. La nuova versione, che è quella qui presentata, rimase a lungo inedita, perché il manoscritto fu rubato all’epoca dell’incarcerazione di Wilde e riapparve solo nel 1920. Partendo da una ingegnosa e tutt’altro che banale, benché indimostrabile, proposta di soluzione all’affascinante quesito sulla vera identità del giovane destinatario dei sonetti di Shakespeare, Wilde vi sviluppa un suo concetto caratteristico (e alla base di altre sue narrazioni, vedi per esempio il testo teatrale incompiuto La Sainte Courtisane), secondo cui quando qualcuno convince qualcun altro della validità di qualcosa in cui crede, cessa di crederci a sua volta.
Infine, le «Phrases and Philosophies for the Use of the Young», accostabili agli aforismi messi a mo’ di introduzione di Dorian Gray, furono scritte per una rivista di studenti di Oxford, «The Chameleon», di cui uscì un numero solo, nel dicembre 1894. Fu un contributo che costò caro all’autore, perché oltre a esso e a due poesie di Lord Alfred Douglas il fascicolo della rivista conteneva un racconto anonimo, intitolato «Il prete e il chierichetto» (lo aveva scritto John Francis Bloxham, amico di Douglas e direttore del giornale); e questo racconto dal contenuto scandaloso e omosessuale fu molto sbandierato come dimostrazione della presunta depravazione di Wilde in occasione del processo.
MASOLINO D’AMICO