Nota introduttiva
Dorian Gray è un personaggio ingiustamente calunniato. Considerato, da quando è apparso (1890), come l'esemplare umano dedito alla nequizia, è stato colpito dagli strali della riprovazione generale: se ne è fatto il san Sebastiano della malvagità. Il primo dei suoi calunniatori è stato proprio l'autore. Si può dire che Oscar Wilde abbia scritto II ritratto di Dorian Gray con una evidente malafede. Lo ha costruito in modo che diventasse facile bersaglio degli impulsi di rivalsa del «lettore ipocrita», di cui ha parlato Baudelaire. Il bello è interpretato come portatore del male. Dorian Gray paga l'eccezionalità della sua bellezza con la perversità della sua vita. È l'uomo delinquente per eccellenza. Non è così. Dorian Gray, più che perpetrare i delitti che gli vengono attribuiti, li ha subiti. Soprattutto non si tratta di delitti deliberati e gratuiti, come si è voluto far credere.
Vediamo, prima di tutto, la sua storia. Dorian Gray è un giovane bellissimo, che avrebbe fatto della sua bellezza un culto narcisistico e insano, da vero decadente. Egli si rende conto del privilegio della sua bellezza quando Basil Hallward, pittore suo amico, gli regala un ritratto che lo riproduce nel colmo della gioventù e della bellezza. Lo stesso Dorian Gray, nel vedersi così perfetto, ne è completamente sconvolto. Diventa subito preda del dolore al pensiero che il tempo distruggerà questi suoi doni di natura. È preso allora da un possente desiderio che egli formula come un voto: di rimanere perennemente giovane e bello come lo sarebbe rimasto per sempre il ritratto; mentre proprio il ritratto avrebbe registrato su di sé la decadenza riservata al corpo. Il suo voto viene esaudito, senonché il ritratto assumerà non tanto le veci del corpo, ma la rappresentanza dell'anima. Un'anima corrotta. Il ritratto riprodurrà in un crescendo di bruttezza la progressiva corruttela della coscienza, che il giovane Dorian Gray rimuove relegando il suo ritratto in una stanza segreta, nell'intento, non riuscito, di occultare a se stesso e agli altri i propri vizi.
Così Dorian, insieme a Lord Henry Wotton, altro suo amico, un elegante cinico le cui massime contribuiranno a contaminarlo e a corromperlo, conduce una vita dissoluta. Gli accade di calpestare l'amore di una giovinetta, Sybil Vane, che lo avrebbe potuto salvare e che invece, a causa della di lui crudeltà, si uccide. Dopo questo fatto l'esistenza di Dorian Gray diventa sempre più degradata e ignobile. Finisce così per uccidere il pittore Basil quando questi gli rimprovera la sua vergognosa condotta. Ma resta il ritratto che ricorda a Dorian la menzogna della sua vita, ponendogli davanti agli occhi il suo vero volto, diventato una maschera atroce. Sopraffatto dall'angoscia, Dorian colpisce il ritratto con il pugnale e muore: aveva colpito se stesso. Il ritratto ridiventa bellissimo come nel giorno in cui era stato dipinto; sul pavimento rimane un cadavere, in abito da sera, con un pugnale nel cuore, appassito, rugoso. Solo dagli anelli si riconoscerà chi sia. Un finale moralista, che culmina con un messaggio di condanna e di diffidenza: «Diffidate di un Dorian Gray. Mettete al bando da voi stessi la tentazione di somigliare a un simile personaggio». Così, pressappoco.
È un anatema che oggi non ha motivo di essere. Non è più il caso di temere il contagio della figura di Dorian Gray. Il suo modello di comportamento non è più proponibile. In questo nostro scorcio di fine secolo, nessuno potrebbe rivestire i suoi panni, tagliati su misura di un altro secolo. Oggi, se mai, ci si può scandalizzare non tanto della sua immoralità, quanto del suo contrario. Dorian Gray, in fondo, è un idealista. Un idealista e un martire. Egli diventa un eroe del male perché ha dovuto subire il male. La sua vita è sempre stata esposta al pericolo della sofferenza. Pur avendo sempre cercato il piacere, la felicità non gli è mai stata concessa. Costretto a custodire, a coltivare e a protrarre la sfida per l'eterna giovinezza, non ha mai avuto un momento di pace. Si può dire che la vita di Dorian Gray è stata dominata dal senso del dovere e dell'obbligo. Il suo compito è quello di mantenersi in stato di perfezione. Il suo è stato il peccato dell'idealismo.
La tragedia di Dorian Gray deriva quindi da una motivazione nobile. Il suo scopo finale era diventato quello di far coincidere l'arte con la vita. Ci era quasi riuscito attraverso la storia d'amore con Sybil Vane. Dorian Gray se ne innamora effettivamente perché la sente e la vede recitare in teatro, interprete di Giulietta. Una interpretazione così riuscita da renderlo convinto di aver trovato in Sybil Vane colei che esprime nel mondo lo spirito superatore delle cose. Era indispensabile, per lui, che Sybil Vane sapesse continuare nel miracolo di una simile recitazione. Non è stato così. Ma è stata lei a venir meno per prima. È importante tenere conto di questo passaggio. Vale perciò la pena di prendere in esame attentamente l'episodio in cui Dorian Gray si sente tradito nella sua aspettativa ideale. Comincia da qui la sua vita immorale, non prima. La delusione da lui provata sarà talmente forte da uccidere moralmente se stesso e insieme uccide l'amore per Sybil Vane, alla quale non resta altra sorte che quella di uccidersi.
Una sera Dorian Gray aveva portato a teatro i due amici, il pittore Basil Hallward, il responsabile della traslazione della sua anima sulla tela, e Lord Henry Wotton, il fatuo maestro di dandysmo. Ve li aveva portati per mostrare proprio a loro la fanciulla di cui era innamorato e che intendeva sposare, definendola «la cosa più bella che abbia mai visto». Quindi anche più bella di lui, che pur sapeva di essere l'uomo più bello che si fosse mai visto. Inoltre era per lui estremamente importante, addirittura indispensabile, convincere i due amici che Sybil Vane, come attrice, era un genio. Era per lui la prova del suo teorema estetico: la bellezza è virtù che può diventare un tutt'uno con la realtà della vita. Era la sua contrapposizione al teorema di Lord Henry Wotton, il quale, invece, questa unità la nega. Per colpa, sia pure inconsapevole di Sybil Vane, che quella sera recita senz'arte, pensando che questa non era più necessaria una volta conseguito il risultato migliore della vita: l'amore, saranno l'incredulità e lo scetticismo di Lord Henry Wotton ad avere ragione.
Vediamo l'episodio come Oscar Wilde lo racconta. «Non appena fu finito Dorian Gray si precipitò dietro le scene, nel ridotto. La fanciulla stava in piedi, sola, e aveva sul volto un'espressione di trionfo; era come circonfusa di un alone luminoso. Le labbra semiaperte sorridevano a un segreto noto a esse sole. Lo guardò mentre entrava, e sul suo volto si dipinse una gioia infinita. - Come ho recitato male stasera, Dorian! - gridò. - Orribilmente! - rispose lui, fissandola stupefatto. - Orribilmente! È stata una cosa tremenda. [...] La fanciulla sorrise: Amor mio, amor mio, Principe Azzurro, Principe della Vita, sono stanca di ombre. Tu sei per me molto di più di quanto possa essere tutta l'arte. Che m'importano le marionette del dramma? Stasera quando sono entrata in scena non riuscivo a capire come mai tutto se ne fosse andato da me. Credevo che sarei stata meravigliosa e mi sono accorta di non esser buona a niente. Improvvisamente all'anima mia è balenato il significato di tutto questo, e il saperlo era per me una delizia. Li ho sentiti fischiare e ho sorriso: che mai poteva capire quella gente di un amore come il nostro? Portami via, Dorian. Portami via con te, in qualche posto dove possiamo esser soli. Odio il palcoscenico. Potevo simulare una passione che non provavo, ma non posso simulare una passione che mi brucia come il fuoco. Oh, Dorian, capisci ora che cosa significa? Recitare una parte d'innamorata, anche se potessi farlo, sarebbe per me una profanazione: Tu me l'hai fatto vedere.»
Egli intendeva, invece, farle capire il contrario. D'altronde è per un equivoco che Romeo e Giulietta si uccidono. Sybil Vane si rivela una grande attrice perché non è stata in grado di uscire dalla tragedia, cioè dal teatro. E anche per Dorian Gray fu una vera tragedia. Incomincia dalla morte spirituale di Sybil il disfacimento di Dorian, questo «giovane così precoce da mietere le messi a primavera» e che fino a quel momento si era proposto il compito di «spiritualizzare la propria epoca». Ma Oscar Wilde non si accontenta di farlo morire a causa di questa sua mancata realizzazione verso l'ideale, lo fa proseguire, invece, verso una vita degenerata. Gli attribuisce delitti orrendi, però senza mostrarli e senza dimostrarli. Oscar Wilde fa vivere male il suo personaggio per tutto il resto della sua vita, fino al tragico epilogo del suicidio procurato attraverso la pugnalata al proprio ritratto.
I delitti di Dorian Gray si riducono a ben poca cosa. Gli vengono ingigantiti addosso a causa del suo atteggiamento esteriore. Dorian Gray, più che altro, ha commesso dei reati di opinione. Si macchia di un solo omicidio, quello del pittore Basil Hallward, l'artista che stava all'origine della sua sorte maledetta. Giuridicamente parlando si può dire che si è trattato di un caso di legittima difesa. O se si vuole, di inevitabile vendetta. Al pittore, in fondo, è capitato quello che gli spettava. Dipingendo il ritratto aveva compiuto un'opera di stregoneria, era legittimo che gli capitasse di essere messo a morte come uno stregone. Quella di Basil Hallward è una morte alchemica. Il suo corpo verrà dissolto nell'acido nitrico. La sua morte, in apparenza così orrenda, più che orrenda è rituale. Risponde bene all'intento allegorico che domina tutta la storia. Ed è in questa allegoricità riuscita che Oscar Wilde ha avuto la penna particolarmente felice. Non va dimenticato che Il ritratto di Dorian Gray non è propriamente un romanzo-romanzo, ma un romanzo-fiaba. Oscar Wilde è un grande favolista, non un grande romanziere. E la celebrità di cui gode, giustamente, l'invenzione del Dorian Gray, è dovuta principalmente all'eccellenza dell'ideazione simbolica che la sorregge. Il tema del ritratto, in quanto oggetto magico, è la dimostrazione che la letteratura è essenzialmente un gioco regolato dall'autonomia, arbitraria fino all'assurdità, del libero uso del significante. Quale in effetti è ogni costruzione che culmini in una allegoria.
Anche la storia di Basil Hallward, come quella di Sybil Vane, merita di essere rimarcata. A ben pensare, tutto è opera sua. Pittore tecnicamente valente, ma artisticamente mediocre, si imbatte, miracolosamente e demoniacamente, nel suo capolavoro. Riesce a ottenere la congiunzione tra il bello di natura e il bello dell'arte. La sua è una concezione ingenua, ma Basil Hallward è un personaggio ingenuo. Fa dell'arte, ma non sa che cosa è l'arte. Succedaneo dei preraffaelliti, egli ragiona per afflato. Crede nella trasmutazione delle anime e delle cose. Il ritratto di Dorian Gray è concepito come un duplicato del modello. È naturale che Dorian Gray consideri questo ritratto come il suo sostituto. E se il pittore vi ha messo l'abilità dell'arte, va da sé che il modello, inserendosi in esso vitalmente, lo renda reale per via di sortilegio: «— Che tristezza! - mormorò Dorian Gray, continuando a tenere gli occhi fissi sul suo ritratto. - Che tristezza! Io diventerò vecchio, orribile, spaventoso, ma questo ritratto rimarrà sempre giovane. Non sarà mai più vecchio di quel che non sia in questo particolare giorno di giugno... Oh, se fosse il contrario! se fossi io a restare sempre giovane e il ritratto a invecchiare! Per questo... per questo darei qualunque cosa; sì, non c'è nulla al mondo che non sarei disposto a dare! Darei perfino l'anima mia, per questo!».
Siamo nella falsariga faustiana: al baratto e al rendiconto dell'anima. Alla fine della vicenda terrena di Dorian Gray, a Basil Hallward viene in mente di chiedergli di rendere palese lo stato della sua anima, come se spettasse a lui, il diavolo buono (il buon diavolo), il compito di redimerla. Ha voluto vederla l'anima di Dorian Gray? Peggio per lui. Sarà accontentato. Messo di fronte al ritratto ne deve constatare l'orrore. Non potrebbe trattarsi dell'orrore della sua arte? Il che equivale, per lui, al suo morire. E infatti ci muore. Altro che rapporto con il massimo della bellezza, come erroneamente si credeva! Ma a ben pensare, quel ritratto, anche deturpato, un vero capolavoro probabilmente lo era. Nella sua paradossalità Oscar Wilde era molto vicino ad adottare l'estetica del brutto come espressione vera dell'arte. Ma il suo personaggio, Basil Hallward, non lo sapeva. Costui non era in grado di vedere una concezione del genere. Il brutto, per lui, era l'equivalente del male morale. Ciò che egli vide nel suo quadro era la dissoluzione dell'anima. Ha pagato questo suo volerla vedere con la dissoluzione del suo corpo. Egli infatti sparirà, dopo lo strano trattamento chimico, senza lasciare traccia. Probabilmente il suo quadro non era affatto l'effetto di un sortilegio e di un maleficio, ma piuttosto la prefigurazione profetica dell'espressionismo. Forse era un quadro alla Francis Bacon (un irlandese, come Oscar Wilde). Forse il quadro «degenerato» era veramente un capolavoro. Ma Basil Hallward non era in grado di saperlo.
Per quanto riguarda un giudizio più complessivo del libro, niente di meglio che riportare direttamente il «ritratto» che ne fa Philippe Jullian, forse il migliore biografo di Oscar Wilde, dopo H. Montgomery Hyde, nel suo Oscar Wilde (1967) (Einaudi 1992): «È stato rimproverato al Ritratto di Dorian Gray di essere un seguito di centoni, quasi una compilazione: materiali presi in prestito da Balzac (La peau de chagrin, Splendeurs et misères), da Gautier (Mademoiselle de Maupin), da Edgar Allan Poe (Il ritratto ovale), da Stevenson (Lo strano caso del dottor Jekyll). Vi riappare anche qualcosa dei terrificanti racconti di Sheridan Le Fanu che hanno impressionato la gioventù di Dublino. Non manca una certa affinità con Conan Doyle; Sherlock Holmes e Dorian Gray s'incontrano nella bruma di Londra in cerca del delitto o del piacere: Wilde ha fatto conoscere Doyle alla rivista americana Limpicott che ha ordinato nello stesso tempo un racconto misterioso all'uno e all'altro. Pochi mesi dopo nascono Il ritratto di Dorian Gray e Il segno dei Quattro dove appare per la prima volta Sherlock Holmes. Il debito con Walter Pater è immenso sia nei riguardi del soggetto - Dorian e Sybil somigliano ai giovani amanti dei Ritratti immaginari -, sia per lo stile così spesso malinconico a dispetto della porpora e dei fili d'oro di cui è intessuto».
Continua sempre Philippe Jullian: «Tanti gioielli, tanti profumi - è noto - derivano direttamente da À Rebour, quel "libro avvelenato dalla copertina gialla ", che Lord Henry fa leggere a Dorian. Il duca Floressas des Esseintes è il vero padre di Dorian Gray, ma possiamo trovargli anche molti cugini nella Parigi bizantina e decadente. Le scene, ad esempio, devono molto al Crépuscule des Dieux di Elémir Bourges; l'amore per i ninnoli e per l'abbrutimento sono molto fin de siècle e Jean Lorrain li sfrutta fin dal 1855. [...] Questa nostalgie de la boue (nostalgia del fango) è dunque molto francese, tanto francese che l'espressione è diventata corrente in inglese, ma è Oscar a introdurla nel campo estetico: "La bruttezza diviene la sola realtà, il litigio osceno, l'infame tugurio, la violenza brutale del vizio e perfino l'abiezione della teppa erano più vive nella vivacità della loro espressione di tutte le grazie dell'arte, di tutti i sogni della poesia". Come Huysmans, Lorrain e Bourges, anche Wilde conduce il suo eroe nei tuguri e dagli antiquari, ma qui è come un bambino lasciato libero in una pasticceria, e si rimpinza di parole rare, di citazioni tratte dalla Cabala o da autori minori elisabettiani».
E più oltre: «Veramente suo anche quel narcisismo che è il vero soggetto del romanzo; Wilde è in adorazione davanti alle proporzioni sovrumane del suo corpo e del suo intelletto. Se per gli intenditori di letteratura comparata è stato un facile gioco trovare quanto non appartiene a Wilde in un libro che ha avuto forse il maggior numero di riedizioni e di traduzioni, il pubblico e i critici vittoriani riconoscono Oscar in ogni pagina all'apparire del Dorian Gray in appendice del Lippincott nel giugno del 1890 e in volume nell'aprile dell'anno seguente. Al momento del processo, il romanzo, spulciato dai giudici, diventerà un vero corpo del reato. L'amara filosofia di quelle pagine deliziose è anch'essa wildiana; non la troveremo nei paradossi o nelle riflessioni elaborate, ma nella melanconia che emana dal racconto. Una vita consacrata alla Bellezza, tanto lusso, tante opere d'arte, nascondono solo impostura, marciume, e ci vien fatto di pensare a Charlus in Proust. Sembra che Oscar sia stato preavvertito della sua rovina, sempre ritardata dai successi, ma inevitabile, allorché ci mostra la bellezza di Dorian che va d'un tratto in putrefazione. La disarmonia tra la vita che conduce, quei suoi piaceri così materiali, e la vita che sogna, può portare soltanto alla catastrofe».
CESARE MILANESE