Nota introduttiva
De Profundis è la lettera che Oscar Wilde, detenuto per omosessualità nel carcere di Reading, scrive nei primi mesi del 1897 a colui che egli ritiene il principale responsabile della tragedia che lo ha colpito: il suo giovane amante Bosie (al secolo Lord Alfred Douglas).
Soltanto al termine della detenzione (19 maggio 1897), tramite il suo fedele amico e futuro curatore letterario Robbie Ross, Wilde riesce a far pervenire la missiva al destinatario. Che la distrugge, dopo averne scorso appena poche righe, illudendosi forse – considerata la natura personale del messaggio – di avere tra le mani l’originale. Non è così: Ross gli ha inviato una copia e conserverà gelosamente il documento per affidarlo poi, nel 1909 (Wilde sarà morto ormai da più di otto anni), al British Museum di Londra, sotto espressa condizione che esso non venga reso pubblico prima che trascorra mezzo secolo. È solo dal l962 che disponiamo del testo integrale. Vicende complesse, come si vede, e in buona parte fortuite, ci hanno permesso di leggere De Profundis nella forma qui presentata.
Appurato dunque che né lo scrivente né, tantomeno, il destinatario avrebbero auspicato la nostra compagnia, esiste il rischio che, attratti da un triste capitolo di cronaca, possiamo sentirci proiettati nella disagevole condizione di voyeurs intenti a scrutare indebitamente tra le pieghe di destini altrui.
Masolino d’Amico, che di Oscar Wilde è lettore attento e competente, rifiuta di prendere in considerazione una tale ipotesi, perlomeno in forza del fatto che il testo, prodotto da un uomo dotato di una «congenita incapacità» di non produrre letteratura1, è di per sé degno di attenzione critica.
De Profundis in realtà è degno d’attenzione anche in termini più generali. È una lettura ricca e stimolante che presenta un coacervo di contraddizioni, poiché è l’autentico specchio della personalità elusiva e problematica di Oscar Wilde, testimonianza di un temperamento mercuriale e sfuggente, sospeso fra i vecchi sogni estetici di un’arte impalpabile e sdegnosa dei comuni crucci mortali e la nuova materialità con cui, forzatamente, l’esperienza carceraria impone di scendere a patti.
1. L’altra metà del giardino. Chi dell’autore abbia presente almeno la produzione più nota (Il ritratto di Dorian Gray, ad esempio, oppure L’importanza di essere Onesto o qualcuna delle sue celeberrime favole, come Il principe felice e Il giovane re), avvertirà immediatamente il cambiamento avvenuto nella scrittura di Wilde. Tanto è vero che la prima tentazione è quella di ripetere l’esercizio, un po’ frusto ma forse inevitabile, di rilevare il contrasto fra Wilde l’esteta brillante, il maestro del paradosso che il grande W.B. Yeats aveva definito il «miglior conversatore della sua epoca»2, e la persona a volte fiaccata, piegata, immiserita che sigla questo messaggio dall’inferno.
La provocatoria inversione fra arte e vita con cui il brioso dandy deliziava scandalizzati contemporanei può essere infatti invocata o per sottolineare le molteplici ironie cui l’esistenza ci sottopone o (peggio) quale esempio del sarcastico contrappasso nella carriera di un libertino. È come se un destino beffardo accordasse all’uomo che era solito considerare «l’Arte la realtà suprema e la vita una semplice forma di invenzione» (p. 904) quanto in altre circostanze avrebbe costituito un trionfo estetico: ciò che infatti gli si presenta – in termini però crudelmente ingarbugliati – è una quasi letterale verifica del libro che gli ha dato la fama, Il ritratto di Dorian Gray. Si ricorderà che in questo romanzo, con un patto faustiano, la degenerazione fisica e morale del protagonista viene provvisoriamente «delegata» a una sua copia dipinta, al suo ritratto, appunto. Anche in De Profundis si conferma che il capolavoro è intriso di sangue. Lord Douglas, prestando il proprio corpo alla figura di carta di Dorian, mostra un suo «ritratto» nascosto che, smentendo le scintillanti apparenze esteriori, altro non svela che egoismo, corruzione, morte:
Avrei potuto straziarti con le maledizioni. Avrei potuto metterti uno specchio davanti, e mostrarti una tale immagine di te che non l’avresti riconosciuta come tua propria fino a che non l’avessi trovata a scimmiottare i tuoi gesti di orrore, e allora avresti capito di chi era la forma riflessa, odiandola e odiando te stesso per sempre (p. 892).
Per l’Oscar Wilde poseur e provocatore la vita era teatro e non viceversa: la natura, in un rapporto di sudditanza, avrebbe dovuto reggere lo specchio all’universo più compiuto e inattingibile della creazione artistica, scoprendosi inadeguata al compito.
Allorché la maschera era tutto, la presenza del volto quasi non contava più. Ora invece, dopo la dura prova della reclusione, la prospettiva muta completamente. È ben percepibile un retrogusto autobiografico nella sarcastica osservazione rivolta a Bosie:
Una faccia di bronzo è una cosa importante da mostrare al mondo, ma di tanto in tanto, quando sei solo e non hai pubblico, devi, suppongo, toglierti la maschera, se non altro per respirare. Credo altrimenti che finiresti soffocato (p. 931).
Adesso è la maschera a incrinarsi, a dimostrarsi labile; ora, fuor di metafora, va rinegoziato l’intero rapporto fra arte e vita:
Vedo nuovi sviluppi nell’Arte e nella Vita, ognuno dei quali è un nuovo esempio di perfezione. Desidero ardentemente vivere per potere esplorare ciò che per me non rappresenta niente di meno che un nuovo mondo. [...] Il dolore [...] e tutto ciò che insegna è il mio nuovo mondo.
Dietro la Gioia e il Riso può esserci un’indole rozza, dura e insensibile [...]. La Sofferenza, diversamente dal Piacere, non porta maschera (pp. 909-910).3
Il male, il peccato, il fango (e difficilmente può passare inosservata l’opprimente ricorrenza di quest’ultima immagine in tutto De Profundis)4 si stampano sulla pagina del nostro autore, incidono su un prodotto del suo ingegno. È, in questo senso, molto eloquente l’ennesimo rimprovero che egli rivolge al suo amico, traendo i suoi archetipi dall’universo shakespeariano: «Come artista avevo a che fare con Ariele. Tu mi facesti trovare alle prese con Calibano» (p. 926). Dalle sfere di un’arte aerea e musicale si viene trascinati giù, a contatto con la materialità e la cruda corporeità dell’uomo e del mondo.
Il mondo, appunto, «l’altra metà del giardino» (p. 912), come lo scrittore definisce quegli aspetti oscuri dell’esistenza da lui ignorati quando scendeva «per la via del piacere al suono del flauto» e viveva «di favi di miele» (p. 912), s’impone con prepotente tangibilità alla sua attenzione. L’identità, non più volatile, è oramai saldamente ancorata alla terra. Il nuovo fulcro della personalità è la sofferenza5, tanto che Wilde sembra pensare alla formulazione teorica di un’arte incardinata sul dolore («[...] il dolore è l’esempio ultimo sia nella Vita che nell’Arte», p. 910).
2. L’ultimo paradosso. Ma non basta ipotizzare che la scoperta e l’innesto della forza mediatrice, della tremenda funzione equilibrante e maieutica del dolore avrebbero aperto all’arte del nostro autore prospettive inedite6: Wilde non è tutto qui. Si tende infatti a dimenticare (e bene fa a ricordarcelo Jacques Barzun)7 che, nonostante l’indubbia, devastante drammaticità dell’esperienza della galera, che letteralmente stroncherà l’autore sul piano fisico e su quello morale, la precedente produzione di Wilde non consisteva solo di arguti ribaltamenti concettuali8 diretti a stupire il borghese «filisteo» del periodo vittoriano. La compresenza di una esilarante, irresponsabile leggerezza «settecentesca» e di una riflessione più seria sui problemi sociali può essere sinteticamente, simbolicamente, indicata da quella che sembra una semplice coincidenza di date: nel medesimo anno, il 1895, erano comparsi L’importanza di essere Onesto e L’anima dell’uomo sotto il socialismo.
Wilde può insomma a buon diritto rivendicare9 la presenza di un’estetica della partecipazione anche nei suoi momenti apparentemente più lievi: non era forse Il principe felice anche un inno alla solidarietà e all’abnegazione? E nel Giovane re, altro piccolo gioiello, non si opponeva già alle attrazioni del mondo materiale – al gusto per un’arte estenuata, al lusso, alle pietre preziose, armamentario indispensabile di ogni buon decadente – una cristiana fraternità del dolore? Non è paradossale dire che accanto a una lettura che veda in De Profundis l’avvio traumatico di una possibile «seconda fase» wildiana potrebbe legittimamente figurarne un’altra che indichi, più che le fratture, il filo di sotterranea coerenza e unità che percorre la produzione di Wilde. La lettera dal carcere non contiene infatti solo ritrattazioni; vi figurano anche stati d’animo spesso violentemente contraddittorii: al pentimento più acre s’alterna la fierezza delle proprie acquisizioni passate; il biasimo nei confronti di Bosie, strapazzato sulla base della enorme inferiorità morale e culturale che Wilde non si stanca di rinfacciargli, si stempera infine nella struggente disponibilità a una riconciliazione che, per inciso, avrà poi luogo nella vita reale. Infine, la scoperta di una dimensione religiosa, che potrebbe essere per l’autore un elemento di novità, è a tal punto filtrata da una consapevolezza letteraria che, forse ingiustamente, siamo indotti a metterne in dubbio l’autenticità.
3. Una religione «a misura di Wilde». «Per tutta la vita», scrive Vyvyan Holland, figlio di Wilde, «mio padre avvertì una forte inclinazione nei confronti del misticismo religioso e fu fortemente attratto dalla Chiesa Cattolica, nel cui seno venne accolto in punto di morte nel 1900».10 Sicuramente De Profundis ridonda, soprattutto nell’ultima parte, di accorate professioni di fede, ma il problema della religiosità di Wilde sembra destinato a rimanere insoluto. Il testo porta tracce esili e discordanti del supposto misticismo dello scrittore che spesso è vicino all’animo pagano («La Religione non mi aiuta. La fede che altri ripongono in ciò che non si vede, io la dedico a quello che si può guardare e toccare. I miei Dèi dimorano in templi fatti con le mani e il mio credo è reso perfetto e completo entro il cerchio dell’esperienza reale.» – p. 905), o escogita una religione a propria misura, in cui elemento estetico ed elemento metafisico sono chiaramente in lotta per il predominio.
Nello stesso elogio di Cristo si avverte il caratteristico «tono» wildiano. La vicenda umana del «giovane contadino della Galilea che immagina di poter portare sulle proprie spalle il fardello del mondo»11 viene infatti contemplata come un sublime capolavoro artistico, viene vagliata con gli strumenti che un fine critico applicherebbe alla lettura di un testo letterario o di un perfetto copione teatrale. Gli stessi Vangeli diventano «i quattro poemi in prosa su Cristo» (p. 918). Il Redentore di Wilde, opponendosi all’«arido Rinascimento classico» (p. 917), diventa un romantico12. Ma anche in queste circostanze lo scrittore stupisce e affascina, poiché riesce a infondere un alto calore emotivo a un’operazione che parrebbe designata (secondo dinamiche non certo sconosciute all’universo vittoriano)13 a ridurre la religione a un puro fenomeno estetico e culturale (il valore della Messa consisterebbe sia nel suo essere un sacrificio incruento, sia nella sua teatralità, poiché l’interazione tra officiante e comunità rappresenterebbe l’ultima sopravvivenza del Coro della tragedia classica – p. 914).
E s’accumulano contrasti su contrasti: se nel discorso religioso di Wilde convince la sicura identificazione del Cristo con l’amore e il perdono, le carte non tardano però a rimescolarsi poiché l’egocentrismo è sempre in agguato. La considerazione che per Cristo «non c’erano leggi: ma semplicemente eccezioni» (p. 920) suona infatti un po’ sospetta se ricordiamo che lo scrittore ha applicato la frase a se stesso in termini pressoché identici («L’Etica non mi aiuta. Sono un antinomico nato. Sono uno di quelli che sono fatti per le eccezioni, non per le regole» – p. 905); tanto più che poi scopriamo che dello stesso criterio egli si serve per identificare uno degli elementi più tipici dell’arte moderna («Nell’Arte non ci occupiamo più del tipo, ma abbiamo a che fare con l’eccezione» – p. 923). Insomma: sarebbe l’arte a costituire il medio termine, ad accomunare in una zona franca Wilde e Cristo. Ma non basta: il poeta desolatamente esposto al ludibrio pubblico nella stazione di Clapham Junction vede palesemente se stesso come una replica di Gesù, dalla cui figura di sofferente artista romantico traspare per converso in controluce quella di Wilde stesso.
Arte e santità sono quindi alla fine quasi sinonimi. Paradossalmente, lungi dal segnalare ripensamenti, queste considerazioni sembrano riprendere e anzi corroborare le posizioni dell’Oscar Wilde prima maniera.
Non si esaurisce qui la ricchezza di De Profundis, testo che agisce a più livelli. Chi vi si accosti animato da interessi specificamente letterari si troverà di fronte a un grande critico e a molte intuizioni lungimiranti. Tali sono le riflessioni di Wilde sull’inevitabile isolamento che obbliga l’artista moderno, sradicato da tradizioni accettate, a reinventare in ogni opera le proprie coordinate; o le sue importanti considerazioni sulla morte della tragedia nel mondo contemporaneo e sull’accamparsi, in suo luogo, di una dimensione grottesca (p. 924). Allo studioso della scena teatrale dei nostri giorni non sfuggirà che proprio in De Profundis è presente, già delineata con mano sicura, la matrice di una notissima opera contemporanea come Rosencrantz and Guildenstern are Dead (1967) di Tom Stoppard (pp. 88 ss.).
Anche il lettore che non esamini De Profundis come oggetto di studio vi troverà però diverse sorprese. Molte attese moralistiche o pruriginose saranno deluse dalla scoperta che un documento nato da una dolorosa storia di omosessualità tocca i suoi vertici emotivi quando lo scrivente, dopo tante e troppo spesso monetizzate recriminazioni, manifesta nei confronti del suo amico un sentimento di perdono per amore che suona delicatamente paterno: è sintomatico, da questo punto di vista, che il terzo protagonista (e senz’altro egli merita il titolo di comprimario, anche solo in virtù della frequenza con cui viene evocato) sia una figura di genitore «sbagliato», quella di Lord Douglas senior, padre biologico di Bosie. Non mancano inoltre nel testo provocazioni intellettuali di ogni genere, come quel peculiare Gesù trasformato in campione e icona di un romanticismo senza tempo. Si potrà essere turbati dalla forza dei sentimenti e dagli atteggiamenti contrastanti assunti da Wilde il quale, alternativamente, si cosparge il capo di cenere e difende le proprie scelte passate o assume valenze quasi demoniache per proporsi subito dopo come controfigura di un Cristo/Artista perseguitato dagli eterni filistei di ogni epoca e nazione. In una lettera che dovrebbe essere la quintessenza dell’intimità si esibiscono uno stupefacente repertorio di citazioni bibliche e letterarie e, qua e là, notevoli finezze retoriche.
Ma, come si è accennato, da De Profundis emerge soprattutto, nella sua complessità straordinaria, quell’autentica erma bifronte che è l’uomo Oscar Wilde, capace di essere lezioso nel suo dolore e profondamente inquietante nelle sue favole, abile nel far convivere artificiosità e verità, maschera e volto, serietà morale e civetteria teatrale, nell’alternare ad aspri umori penitenziali orgogliose, virili rivendicazioni della propria grandezza di artista.
GUIDO BULLA
1 Cfr. Masolino d’Amico, «Introduzione» a Oscar Wilde, De Profundis, trad. Oreste Del Buono, Mondadori, Milano 1992, p. XI.
2 «La tavola era per Wilde la grande occasione che faceva di lui il miglior conversatore della sua epoca. Quanto di pregevole vi è nelle sue commedie e nei suoi dialoghi è ora un’imitazione, ora una trascrizione dei suoi discorsi.» W.B. Yeats, «The Trembling of the Veil» (1914), ora in The Autobiography of William Butler Yeats, Macmillan, New York 1965, [p. 93]. Anche Vyvyan Holland, figlio di Wilde, ricorda il giudizio che Max Beerbohm espresse su suo padre nel 1954: «Ho avuto il privilegio di ascoltare molti maestri della conversazione – Meredith e Swinburne, [...] Gilbert Chesterton e [...] Hilaire Belloc – tutti splendidi a modo loro. Ma Oscar era il più grande di tutti, il più spontaneo e il più raffinato, il più accattivante eppure il più sorprendente [...]. Nessuno era disposto a interrompere la musica di un così magnifico virtuoso». «Introduction» a The Complete Works of Oscar Wilde (1948), Collins, London and Glasgow 1984, [p. 11].
3 Non sfugga, nell’ultima parte della citazione, l’uso delle maiuscole: stati d’animo e qualità morali sono personificati come nelle «Moralità» medioevali in cui vizi e virtù popolavano la scena. L’ambito è dunque quello teatrale; ed è a un altro paragone teatrale che Wilde opportunamente fa appello per sottolineare che nella sua esperienza ha avuto luogo una transizione dalla commedia alla tragedia («Anche io avevo le mie illusioni. Pensavo che la vita fosse una brillante commedia, e tu uno dei suoi molti eleganti personaggi. Mi accorsi che era una tragedia rivoltante e repellente [...]» p. 877).
4 È questa una tipica incombenza da computer, ma una rilettura rapida rivela che la sola parola mire (fango, melma) compare almeno sette volte nel testo, in cui abbondano anche termini tratti da campi semantici affini come gutter (fogna), sewer (cloaca), marsh (palude).
5 Si vedano le pp. 910 ss.
6 Holbrook Jackson, testimone scrupoloso degli anni Novanta, ipotizza che le possibili strade artistiche che l’esperienza carceraria avrebbe aperto a Wilde se una morte desolata e precoce non glielo avesse impedito, sarebbero state plausibilmente quelle che egli riscontra nella Ballata del carcere di Reading – la cui stesura cominciò quattro mesi dopo la scrittura di De Profundis – e cioè: «l’accettazione di un atteggiamento realistico» accompagnata a «quella che forse sarebbe stata [...] la conversione a un’accettazione naturale e umana della vita». Cfr. Holbrook Jackson, The Eighteen Nineties (1913), Penguin Books, Harmondsworth 1939, p. 74.
7 Sua l’interessante introduzione a De Profundis, trad. Camilla Salvago Raggi, Feltrinelli, Milano 1993.
8 William Gaunt fornisce la ricetta di molti paradossi wildiani (e decadenti in generale): «Se naturale era la saggezza dei proverbi e delle massime accettate, allora per convertire la saggezza in arte bastava rovesciare il tutto, mettere sotto quel che era sopra, dentro quel che era fuori. Di conseguenza Wilde riuscì, e con lieve esercizio della sua singolare scaltrezza, a produrre l’effetto d’una verità fresca, sinora nascosta, portata alla luce da un’apparente profondità di pensiero». (William Gaunt, L’avventura estetica, tr. it. Luciano Bianciardi, Einaudi, Torino 1962, p. 126).
9 È l’autore stesso, infatti, a intravedere lucidamente alcuni elementi di un possibile filo di continuità all’interno della sua opera (v. p. 912).
10 Vyvyan Holland, «Introduzione» ai Complete Works of Oscar Wilde, Collins, London 1984, p. 14.
11 P. 913. Si vedano comunque anche le pagine che seguono, tra le più belle del libro.
12 «Ma dovunque ci sia un movimento romantico nell’Arte, lì in qualche modo e sotto qualche forma, c’è Cristo, o l’anima di Cristo. Egli è in Romeo e Giulietta, nel Racconto d’inverno, nella poesia provenzale, nella Ballata del vecchio marinaio, ne La Belle Dame sans Merci [...]» (p. 917).
13 Sul rapporto fra estetismo e religione si veda Kenneth Clark, Il Revival Gotico, tr. it. Renzo Federici, Einaudi, Torino 1970.