La duchessa di Padova

Tragedia in cinque atti

1883

 

 

 

 

Premessa

 

La prima edizione a stampa è del 1883, con il titolo The Duchess of Padua: A Tragedy of the XVI Century. Si tratta di un’edizione privata, di cui certo non si produssero più di venti copie. La prima edizione pubblica si trova nell’opera completa pubblicata da Methuen nel 1908.

Il dramma fu portato in scena per la prima volta nel 1891 al Broadway Theatre, a New York, sotto il titolo Guido Ferranti e senza l’indicazione del nome dell’autore. Vi fu comunque chi non ebbe difficoltà a riconoscere la mano di Oscar Wilde. Alla fine di una lunga recensione il New York Tribune scriveva:

 

L’autore del Guido Ferranti non è stato divulgato. Ma non c’è dubbio su chi sia, dato che è uno scrittore bravo ed esperto. Riconosciamo in questo lavoro una commedia che abbiamo avuto il piacere di leggere alcuni anni fa, in un manoscritto. Allora si chiamava La Duchessa di Padova. L’autore è Oscar Wilde.

 

La tragedia ebbe un discreto successo e fu replicata per 21 sere. Nel 1904 e nel 1906 venne rappresentata in Germania, nella traduzione di Max Meyerfield. Anche in Francia vi furono almeno due edizioni importanti: quella dovuta a un’iniziativa personale di Lugné-Poë negli anni immediatamente precedenti la fondazione dell’Oeuvre e una ventina d’anni dopo un tentativo di breve durata con Vera Korène protagonista.

In Italia la prima esecuzione è quella curata con notevole dispendio di mezzi da Maria Melato nel marzo 1942, prima rappresentazione al Teatro Manzoni di Milano, regia di Alessandro Brissoni, scene e costumi della grande Titina Rota e musiche di Guido Soresina.

Ecco quanto riferisce su quella rappresentazione, coronata da un vero successo, Renato Simoni sul Corriere della Sera:

 

Come nelle commedie del Wilde, la costruzione è sempre artificiosa e di seconda mano, ed è un semplice pretesto alla viva iridescenza delle parole, al gioco dei motteggi, a una critica spiritosamente impertinente dei costumi dell’aristocrazia e della ricca borghesia britanniche: anche ne La duchessa di Padova l’impalcatura della tragedia è fatta di grossi pezzi di teatro romantico e romanzesco messi insieme con evidente sforzo e per imitazione. Padova è un mero nome; quella Italia del Cinquecento che ci si presenta è fuori dalla storia. E su una trama di rudi e vecchi contrasti, sono ricamate immagini amorose e sanguinose con un’eloquenza raffinata e armoniosa, che talora raggiunge il calore del dibattito drammatico, non mai la potenza e la profondità della tragedia. [...] La tragedia si impernia su quella esaltazione dell’amore che rende mite Guido e tanto barbara la duchessa da farla per un momento somigliare, un po’ alla larga e assai diminuita, a Lady Macbeth. Molti ricordi shakespeariani ci sono in quest’opera; impalliditi riflessi di una luce molto lontana. Ma quel tratto di opposta casistica amorosa resta esteriore, descritto, non vivente; e perciò appare arbitrario quasi capriccioso. È sempre il grande accento tragico che manca; e solo nelle scene del processo e della morte i personaggi si rimodellano teatralmente e l’azione riprende interesse.

 

Accanto alla vibrante Maria Melato, attrice dannunziana per eccellenza, gli altri interpreti principali (probabilmente inadeguati) erano l’esangue Gino Sabbatini e il colorito Enzo Gainotti. Con una pruderie degna d’un Lord Ciambellano, il regista Brissoni aveva provveduto a eliminare alcuni interessanti (e coraggiosi) accenni alla passione omosessuale che lega il protagonista, Guido Ferranti, al suo giovane amico Ascanio Cristofano.

 

PAOLO BUSSAGLI E LUCIO CHIAVARELLI

 

 

PERSONAGGI

 

Simone Gesso, duca di Padova

Beatrice, sua moglie

Andrea Pollajuolo, cardinale di Padova

Maffio Petrucci,

Jeppo Vitellozzo

Taddeo Bardi

{ gentiluomini al seguito del Duca

 

Guido Ferranti [Tre armigeri]

Ascanio Cristofano, suo amico

Conte Moranzone, un vecchio nobile

Bernardo Cavalcanti, Gran Cancelliere di Padova

Ugo, il boia

Lucia, l’acconciatrice

[Primo cittadino]

[Secondo cittadino]

[Terzo cittadino]

[Il mazziere]

[L’usciere]

[L’elemosiniere]

Servi, cittadini, armigeri, monaci, falconieri con falchi e cani

 

Nella seconda metà del Cinquecento.

 

SCENE DELLA TRAGEDIA

 

Atto I, piazza del Mercato di Padova; atto II, salone di gala del Palazzo Ducale; atto III, vestibolo del Palazzo Ducale; atto IV, il Tribunale; atto V, una cella nelle Carceri.

 

 

ATTO PRIMO

La Piazza del Mercato a Padova, a mezzogiorno.

Nello sfondo la grande Cattedrale in architettura romanica, intarsiata di marmi bianchi e scuri. Una scalinata di marmo conduce alla porta della chiesa; ai piedi di questa due grandi leoni di pietra. Dalle case poste di fianco sporgono panni colorati. Nella parte sottostante due porticati.

A destra una fontana pubblica con un tritone di bronzo verde che fa zampillare l’acqua dalla sua conchiglia; intorno alla fontana è posto un sedile di pietra.

S’odono i rintocchi della campana e i cittadini – uomini, donne e fanciulli – entrano nella Cattedrale a piccoli gruppi. Da destra appaiono Guido Ferranti e Ascanio Cristofano.

 

ASCANIO: Per la mia vita, Guido! Adesso basta! Un altro passo e non avrò più fiato per bestemmiare; al diavolo questa tua balorda spedizione! (Si siede sul sedile attorno alla fontana.)

GUIDO: Credo che sia proprio qui. (S’avvicina a un passante e si toglie il cappello.) Scusatemi, messere: è questa la piazza del mercato? è quella la chiesa di Santa Croce? (Il passante fa cenno di sì.) Grazie.

ASCANIO: Allora?

GUIDO: Sì. Ci siamo.

ASCANIO: Preferirei di no: qui non vedo taverne.

GUIDO (traendo di tasca una lettera e leggendola): L’ora: mezzodì; la città: Padova; il luogo: il mercato. E il giorno: San Filippo.

ASCANIO: Ma come faremo a riconoscere quell’uomo?

GUIDO (continuando a leggere): «Indosserò un mantello viola che avrà ricamato sulla spalla un falco d’argento». Un abbigliamento magnifico, Ascanio.

ASCANIO: Preferisco il mio giustacuore di pelle. E pensi che potrà darti notizie di tuo padre?

GUIDO: Certo! Un mese fa, ricordi?, stavo nella vigna proprio nel punto più prossimo alla strada da dove entrano le capre, quando mi si avvicina un uomo a cavallo e mi chiede se mi chiamo Guido, poi mi dà questa lettera firmata «un amico di tuo padre» e mi dice di farmi trovare qui oggi se voglio conoscere il segreto della mia nascita. Così m’ha indicato in che maniera riconoscere l’uomo che ha scritto la lettera. Io avevo sempre creduto che il vecchio Pietro fosse mio zio, ma poi mi ha detto di non esserlo e che m’aveva affidato a lui, quand’ero ancora bambino, una persona che poi non s’era più fatta vedere.

ASCANIO: Non sai chi possa essere tuo padre?

GUIDO: No.

ASCANIO: Non ti ricordi nulla?

GUIDO: Nulla, Ascanio, proprio nulla.

ASCANIO: Adesso capisco perché non hai preso tutte le busse che mio padre ha dato a me!

GUIDO (con un lieve sorriso): Sono sicuro che non le meritavi!

ASCANIO: No di certo, quello era il peggio. Non ricordavo mai una colpa che potesse tenermi su il morale. Che ora dici che ha fissato?

GUIDO: Mezzogiorno.

(Rintoccano dodici colpi all’orologio della Cattedrale.)

ASCANIO: È l’ora e il tuo uomo non è venuto. Io non credo a lui. Penso che sia qualche ragazza che t’ha messo gli occhi addosso e com’è vero che ti son venuto dietro da Perugia a Padova, ti giuro che adesso mi verrai dietro tu fino alla taverna più vicina. (Si alza in piedi.) Per tutti gli dèi della buona tavola, sono affamato come una vedova lo è del marito, sono stanco come una verginella lo è dei buoni consigli e sono stufo come lo è un frate delle giaculatorie. Via, non restar imbambolato come uno sciocco che cerca di leggere nei pensieri altrui. Il tuo uomo non verrà.

GUIDO: Sì. Forse hai ragione. Ah! (Mentre sta per uscire insieme ad Ascanio, entra il conte Moranzone, avvolto in un mantello viola, con un falco d’argento ricamato sulla spalla; egli attraversa la piazza dirigendosi verso la Cattedrale, quando Guido gli si avvicina di corsa e lo tocca.)

MORANZONE: Sei giunto in tempo, Guido Ferranti.

GUIDO: Mio padre è vivo?

MORANZONE: Sì: vive in te. Gli sei simile in tutto, nei lineamenti, nella statura, nel portamento e in ogni altro aspetto: spero che tu sia eguale a lui anche per la nobiltà dell’animo.

GUIDO: Oh, parlatemi di mio padre. La mia vita ha avuto un senso solo per questo istante.

MORANZONE: Dobbiamo esser soli.

GUIDO: Questi è il mio più caro amico, mi ha accompagnato sino a Padova a causa dell’affetto che ha per me. Siamo più che fratelli: non ho segreti per lui.

MORANZONE: Ma c’è un segreto che non potete condividere. Digli che si allontani.

GUIDO (ad Ascanio): Ritorna qui tra un’ora. Costui non sa che nulla può offuscare il limpido specchio del nostro amore. Tra un’ora.

ASCANIO: Non parlare con lui. La sua faccia incute terrore.

GUIDO (ridendo): Via, sono sicuro che è venuto ad annunciarmi che sono un nobile italiano di grande stirpe. Passeremo molti lieti giorni insieme, io e te. Tra un’ora, Ascanio caro.

(Ascanio esce.)

E adesso ditemi di mio padre. (Siede sul sedile di pietra.) Era alto? Sono sicuro che doveva avere una figura imponente quando montava a cavallo. Con i capelli bruni? O forse d’un biondo rossiccio, come oro arrossato dalla fiamma. Aveva una voce suadente? Uomini eminenti sono spesso dotati d’un timbro musicale. O urlava come una tromba capace di terrorizzare tutti i suoi nemici? Cavalcava da solo? O con molte persone del seguito, tutti valenti gentiluomini di suo gradimento? E infatti sento spesso pulsarmi nelle vene del sangue blu... era un re?

MORANZONE: Sì, fra tutti gli uomini il più regale.

GUIDO (con orgoglio): Ma allora, quando avete veduto per l’ultima volta il mio nobile padre, egli era molto sopra il capo di ogni altro uomo?

MORANZONE: Sì, alto sopra il capo d’ogni altro uomo. (Si avvicina a Guido e gli mette una mano sulla spalla.) Stava su un palco coperto da stoffa scarlatta, davanti a un ceppo da macellaio su cui avrebbe poggiato il suo collo!

GUIDO (balzando in piedi): Sei un uomo diabolico che simile a un corvo o a un gufo della mezzanotte mi porta da una tomba quest’orrido messaggio!

MORANZONE: Sono qui conosciuto come Conte Moranzone, il signore d’un tetro castello in cima a una roccia con qualche campo di ingrata terra attorno e sei servi mal ridotti. Ma sono stato tra i più eminenti principi di Parma e soprattutto sono stato amico di tuo padre.

GUIDO (stringendogli la mano): Parlatemi di lui.

MORANZONE: Sei figlio del grande duca Lorenzo, vittorioso in molte battaglie contro i Saraceni e contro gli eretici Turchi; era Principe di Parma e duca di gran parte della bella Lombardia, sino alle porte di Firenze1. Anzi, Firenze stessa soleva rendergli tributo...

GUIDO: Ditemi della sua morte.

MORANZONE: Purtroppo ne avrai notizia prima di quel che tu creda. Si trovava in guerra, era un nobile leone di guerra che non poteva tollerare ingiustizia alcuna nella sua Italia e stava conducendo il fior fiore della cavalleria contro l’immondo signore di Rimini, l’adultero Giovanni Malatesta – che sia maledetto! – quando fu catturato da questi in un’imboscata proditoria. Venne avvinto in catene come un qualsiasi malfattore e assassinato sul patibolo2.

GUIDO (stringendo il pugnale): Vive ancora il Malatesta?

MORANZONE: No. È morto.

GUIDO: Morto! Troppo veloce è il passo tuo, o morte! Se avessi atteso per breve ora la mia venuta, avrei obbedito al tuo cenno!

MORANZONE (afferrandolo al polso): Puoi farlo ancora. Colui che ha tradito tuo padre è vivo.

GUIDO: Tradito? Mio padre è stato venduto?

MORANZONE: Sì, trattarono il suo prezzo come per una vile merce, è stato tradito per una certa somma, venduto e contrattato in modo vergognoso da uno che egli stimava come fedelissimo amico a cui poteva esser confidato ogni segreto: uno che egli amava teneramente, uno che aveva stretto a sé con vincoli di bontà... Chi semina bontà in questo mondo raccoglie ingratitudine, e non altro!

GUIDO: E colui che vendette mio padre è vivo?

MORANZONE: Ti condurrò da lui.

GUIDO: Giuda, sei dunque vivo... farò di questo mondo il tuo campo di sangue; affrettati a comprarlo perché sarai costretto a rimanervi.

MORANZONE: Hai detto Giuda, ragazzo? Sì, un Giuda per il tradimento ma fu molto più avveduto di Giuda e non si accontentò di trenta monete d’argento.

GUIDO: Cosa ebbe in cambio della vita di mio padre?

MORANZONE: Che cosa? Città, feudi, principati, terre e vigneti.

GUIDO: E gli resteranno solo sei piedi di terra in cui marcire. Dov’è quest’empio assassino, questo immondo demone? Dov’è? Mostrami l’uomo e avanzi pure catafratto d’acciaio, con tutta la burbanza della guerra, venga pur circondato da mille uomini armati... io lo raggiungerò attraverso le loro alabarde e udrò l’ultima goccia nera del sangue sgorgato dal suo cuore colare lungo la mia lama. Ti dico: mostramelo e l’ucciderò!

MORANZONE (con freddezza): Sciocco! E che vendetta sarebbe questa? Tutti dobbiamo incontrare la morte e quanto più essa sopravviene all’improvviso, meno è crudele. (Si avvicina a Guido.) Tuo padre è stato tradito. Ricordati di questo, poiché a tua volta dovrai vendere il venditore. Farò di te uno del suo séguito, ti siederai alla sua tavola, mangerai il suo stesso pane...

GUIDO: Amaro pane!

MORANZONE: Hai il palato troppo delicato. Il sapore della vendetta ti farà gradito quel pane. La sera brinderai con lui bevendo il suo vino dalla sua coppa; diverrai suo intimo confidente in modo da farti coprire di regali, da farti amare e confidare i segreti più gelosi! Se ti chiederà d’esser allegro, dovrai ridere e se sarà di cattivo umore lo sarai anche tu. Poi, quando sarà arrivato il tempo giusto... (Guido stringe la spada.) No, non mi fido di te: il tuo sangue giovane e caldo, la tua natura impetuosa, la tua ira troppo violenta non saprebbero indugiare sino al momento della grande vendetta; tu cederesti alla passione.

GUIDO: Voi non mi conoscete. Ditemi il nome di quell’uomo e vi obbedirò in tutto.

MORANZONE: Quando il tempo sarà maturo, quando la vittima avrà piena fiducia, quando l’occasione sarà certa, ti manderò un segnale per mano d’un messaggero rapido e segreto.

GUIDO: Ditemi... come l’ucciderò?

MORANZONE: Quella notte ti insinuerai nelle sue stanze segrete; solo quella notte, ricordatelo.

GUIDO: Non lo dimenticherò.

MORANZONE: Non so se i colpevoli dormano; ma se dovessi trovarlo addormentato, ricordati di svegliarlo e mettigli una mano sulla gola – sì, così! – poi, dopo avergli detto di chi sei figlio e assetato di quale vendetta, chiedigli di invocare pietà, e quando lo farà, domandagli un prezzo per la sua vita, e quando si sarà spogliato di tutto il suo oro, digli che non hai bisogno d’oro e che non hai pietà, poi compi l’opera tua senza altri indugi. Giurami che non l’ucciderai sinché non te lo dirò io, altrimenti tornerò alla mia casa e tu non saprai nulla e tuo padre rimarrà invendicato.

GUIDO: Per la spada di mio padre...

MORANZONE: Il boia dei malfattori la spezzò in due sulla pubblica piazza.

GUIDO: Giuro allora sulla tomba di mio padre...

MORANZONE: Tomba? Quale tomba? Il tuo nobile padre non ha tomba. Ho veduto io la sua cenere sparsa nel vento turbinare nelle strade come vile pulviscolo, quello che si ficca negli occhi dei mendicanti e li fa lacrimare; ho veduto la sua testa, la sua nobile testa infissa alla porta del carcere, coronata per beffa d’una corona di carta perché la sozza plebaglia le mostrasse la lingua!

GUIDO: Avvenne davvero questo? Per l’immacolata memoria di mio padre, allora, e per l’immondo tradimento del suo amico, poiché questo almeno rimane, su questo io giuro che non spegnerò la sua vita finché tu non lo dirai, poi... Dio aiuti l’anima sua perché morrà come nessun cane è mai morto ancora.

Adesso: quale sarà il segnale?

MORANZONE: Questo pugnale, ragazzo. Appartenne a tuo padre.

GUIDO: Lasciamelo guardare. Ricordo ora che quello che credevo mio zio, il buon contadino che ho lasciato al paese, mi disse che un mantelletto in cui ero stato avvolto da bambino portava anch’esso il ricamo di leopardi lavorati in oro. Li preferisco in acciaio: come questi, son più adatti al mio scopo. Ditemi, signore, mio padre v’affidò qualche messaggio per me?

MORANZONE: Mio povero ragazzo, tu non vedesti mai il tuo nobile padre poiché quando il falso amico lo vendette, soltanto io, tra tutti i suoi gentiluomini, scampai alla morte e potetti così portare la notizia della sventura a Parma, a tua madre.

GUIDO: Ditemi di mia madre.

MORANZONE: Quando tua madre, più pura d’un santo in paradiso, ebbe udita la triste notizia cadde svenuta e presa da fremiti prematuri – era sposa da sette mesi soltanto – ti fece nascere prima del tempo, poi la sua anima salì in cielo per aspettare tuo padre sulla soglia del paradiso.

GUIDO: La madre morta, il padre tradito e venduto! Mi sembra di trovarmi sulle mura d’una città cinta d’assedio quando un messaggero e poi un altro mi vengono a portare notizie sempre più terribili: datemi un po’ di respiro, le mie orecchie sono stanche.

MORANZONE: Quando tua madre morì, per il timore dei nostri nemici, feci credere che anche tu eri morto. Ti portai in segreto da un nostro vecchio servo che viveva nelle vicinanze di Perugia. Il resto lo conosci.

GUIDO: E dopo avete riveduto mio padre?

MORANZONE: Sì, una volta andai a Rimini in incognito, travestendomi con le misere vesti d’un vignaiolo.

GUIDO (afferrandogli una mano): Oh, amico generoso!

MORANZONE: Rimini è una città dove ogni cosa ha un prezzo, io comperai i carcerieri. Quando tuo padre seppe che gli era nato un erede maschio, il suo schietto viso s’illuminò come un rogo che si veda in lontananza sul mare. Mi prese tutte e due le mani e m’ordinò di allevarti in modo da farti degno di lui. Io t’ho cresciuto perché tu vendicassi la sua morte sull’amico che lo vendette.

GUIDO: Avete agito bene e ve ne ringrazio a nome del padre mio. Adesso ditemi quel nome.

MORANZONE: Come ravvivi in me il ricordo di tuo padre. Gli somigli in ogni gesto!

GUIDO: Il nome del traditore?

MORANZONE: Tra poco lo saprai. Il Duca e la sua corte avanzano verso di noi.

GUIDO: Che m’importa? Il suo nome?

MORANZONE: Non danno l’impressione d’un gruppo di degni gentiluomini senza macchia?

GUIDO: Il nome, signore!

(Entrano il Duca di Padova, il conte Bardi, Maffio Petrucci e altri gentiluomini della Corte del Duca.)

MORANZONE (rapidamente): L’uomo davanti al quale mi inginocchierò è colui che vendette tuo padre. Non perdermi d’occhio.

GUIDO (stringendo il pugnale): Il Duca!

MORANZONE: Non toccare il pugnale! Hai già dimenticato? (Va ad inginocchiarsi davanti al Duca.)

DUCA: Benvenuto, conte Moranzone. È qualche tempo che non vi facevate vedere a Padova. Siamo andati a caccia ieri proprio nelle vicinanze del vostro castello... Voi lo chiamate castello quello squallido maniero in cui vi siete rintanato a borbottar rosari, ripensando com’è dell’età vostra, ai peccati di gioventù. Ho la speranza di non diventare un bravo vecchio: chissà come si stancherebbe Iddio se provassi a raccontargli tutti i miei peccati. (Lo sguardo gli cade su Guido e subito si ritrae sussultando.) Chi è questo giovane?

MORANZONE: Il figlio di mia sorella, Altezza. È ora in età di portare le armi e sosterebbe volentieri per qualche tempo alla vostra Corte.

DUCA (continuando a fissare Guido): Come si chiama?

MORANZONE: Guido Ferranti.

DUCA: Di dove viene?

MORANZONE: È mantovano di nascita.

DUCA (avvicinandosi a Guido): Avete gli occhi d’un tale ch’io conobbi, ma morì senza figli. E allora, messere, vorreste entrare al mio servizio? E in verità siamo a corto di soldati. Siete onesto, ragazzo? Sì, bene non sprecatela la vostra onestà, tenetela per voi... qui a Padova pensiamo all’onestà come a un’ostentazione. Non è di moda... Guardate questi signori profumati allo zibetto e alle erbe aromatiche...

BARDI (a parte): Ecco un’altra freccia avvelenata contro di noi.

DUCA: Sì, ognuno di costoro ha un suo prezzo, ma per render loro giustizia devo aggiungere che alcuni son molto cari.

BARDI (a parte): Eccone un’altra che ha fatto centro.

DUCA: E perciò non siate onesto. Non bisogna mai incoraggiare l’eccentricità, anche se in questo nostro tempo balordo la cosa più eccentrica in un uomo è l’aver cervello. E così il popolo lo disprezzerà, si farà beffe di lui. Quanto al popolo va disprezzato, così come faccio io. Stimo talmente poco i loro effimeri elogi e i loro mutevoli favori che la popolarità è l’unica offesa che non riesco a tollerare

MAFFIO (a parte): Se ci tiene, odio ne suscita quanto ne vuole!

DUCA: Nei vostri rapporti col mondo siate prudente, mai precipitoso; agite a ragion veduta, ma i primi impulsi generalmente sono i migliori!

GUIDO (fra sé): Deve avere sulle labbra un rospo che gli fa sputare tanto veleno.

DUCA: Abbiate cura di scegliervi bene qualche nemico, se no il mondo riterrà che valete poco assai; la forza delle persone vien giudicata in questo modo. Ma mostrate a tutti la maschera dell’amicizia almeno sinché non li avrete saldamente in pugno, poi vi concederete il lusso di schiacciarli.

GUIDO (fra sé): Questo saggio filosofo si scava una tomba profonda con le sue stesse mani.

MORANZONE (a Guido): Presti attenzione alle sue parole?

GUIDO: Certo, non dubitate.

DUCA: E non siate troppo scrupoloso. Le mani pulite e vuote sono un ben misero spettacolo. Se nella vita si vuol far la parte del leone, bisogna indossar pelle di volpe. Vi starà a meraviglia: è un abito che s’adatta a ogni uomo, ai grassi come ai magri, agli spilungoni e ai nani. Chiunque taglia quell’abito, ragazzo mio, è un sarto a cui non mancheranno mai i clienti.

GUIDO: Ricorderò tutto, Altezza.

DUCA: Bene, ragazzo mio, molto bene. Non mi piace circondarmi di una combriccola di stupidi, gente che pesa l’oro della vita con meschinità e che a furia di esitazioni e dubbi finisce con l’esser sconfitta. L’unico delitto che non ho mai commesso è questo. Mi piace vedere «uomini» accanto a me. Quanto alla coscienza, per me essa è solo il nome che la viltà, evitando la lotta, scrive sopra il suo scudo. Ma tu mi capisci, ragazzo?

GUIDO: Certamente, Altezza e metterò in pratica quel che mi avete insegnato.

MAFFIO: Non ho mai sentito Vostra Altezza predicare con tanto slancio. Il Cardinale si sentirà minacciato nel suo campo, Signore!

DUCA: Il Cardinale! Gli uomini seguono il mio credo e fingono di biascicare il suo. Non stimo il Cardinale, anche se è un sant’uomo di chiesa e anche se la sua ottusità mi fa comodo. Bene, giovanotto, da questo momento potete considerarvi uno dei nostri. (Tende la mano a Guido perché la baci. Guido esita, inorridito, ma a un cenno del conte Moranzone piega i ginocchi e la bacia.) Daremo ordini affinché vi diano le vesti che si convengono alla nostra dignità e al fasto della nostra Corte.

GUIDO: Ringrazio di cuore Vostra Altezza.

DUCA: Riditemi ancora il vostro nome.

GUIDO: Guido Ferranti, signore.

DUCA: E siete mantovano? Tenete d’occhio le vostre donne, signori miei, quando arriva a Padova un giovanotto aitante come questo. Voi avete ragione di ridere, conte Bardi. Ho già notato quanto siano gai i mariti che lasciano accanto al focolare una moglie priva di qualsiasi attrattiva.

MAFFIO: Se posso contraddire Vostra Altezza: le mogli, qui a Padova, son superiori a ogni sospetto.

DUCA: Come sarebbe? Son tanto brutte dunque? Andiamo, andiamo... questo Cardinale sta trattenendo troppo a lungo la nostra pia duchessa. Sia il suo sermone che la sua barba hanno necessità di qualche buon taglio. Maranzone: volete venir con noi, messere, a udire un testo tratto da san Gerolamo?

MORANZONE (inchinandosi): Signore, dobbiamo adempiere ad alcune faccende.

DUCA (interrompendolo): Non occorrono giustificazioni per perdere una Messa. Signori, seguitemi.

(Il Duca, col suo seguito, entra nella Cattedrale.)

GUIDO (dopo una lunga pausa): Fu il Duca dunque a vendere mio padre! E io ho baciato la sua mano!

MORANZONE: Dovrai farlo molte altre volte.

GUIDO: È proprio necessario?

MORANZONE: Sì! L’hai giurato.

GUIDO: Quel giuramento mi ha reso duro come il marmo.

MORANZONE: Addio, ragazzo. Ci rivedremo quando sarà opportuno.

GUIDO: Vi prego di ritornare presto.

MORANZONE: Verrò quando sarà tempo. Tu sii preparato.

GUIDO: Non temete.

MORANZONE: Ecco il tuo amico. Devi bandirlo dal tuo cuore. E da Padova.

GUIDO: Da Padova, non dal mio cuore.

MORANZONE: No. Anche dal tuo cuore. Non andrò via se non lo avrai fatto.

GUIDO: Non posso amarlo?

MORANZONE: Puoi amare solo la vendetta. Non hai bisogno d’altri.

GUIDO: E sia.

(Entra Ascanio Cristofano.)

ASCANIO: Mio caro Guido, t’ho preceduto in tutto, poiché mi son bevuto un boccale di vino, ho mangiato un pasticcio di selvaggina e ho baciato la ragazza che me l’ha servito. Ma cosa c’è? Sei corrucciato come uno scolaretto che non ha potuto comperarsi le mele o come un politico che non riesce a vendere il suo voto. Che novità ci sono, Guido mio?

GUIDO: Questa. Dobbiamo separarci, Ascanio.

ASCANIO: Sarebbe certo una novità... ma non ci credo.

GUIDO: È vero, fin troppo vero. Devi andar via da qui e non rivedermi mai più.

ASCANIO: No, no! Tu non mi conosci allora. È vero che sono figlio d’un rozzo contadino e che d’educazione io non m’intendo, ma se tu sei di famiglia nobile, non potrei farti da servitore? Mi occuperò di te con tutto quell’amore di cui un prezzolato non sarebbe mai capace.

GUIDO (stringe la mano dell’amico, poi uno sguardo di Moranzone lo fa desistere da quel gesto): Ascanio! Non è possibile.

ASCANIO: Come puoi esser capace di questo? Credevo che l’amicizia intesa nel senso antico non fosse ancora morta e che il costume romano trovasse anche in questa miserabile epoca una rispondenza di sinceri affetti. Per l’amore che ci ha travolti insieme come il mare d’estate, quale che sia la sorte che t’è stata riservata, perché non posso condividerla?

GUIDO: Condividerla?

ASCANIO: Sì!

GUIDO: No, non è possibile.

ASCANIO: Cos’hai ereditato? Un gran castello? Un forziere ricolmo di oro?

GUIDO (con amarezza): Sì, ho avuto un’eredità. O sanguinoso retaggio, obolo mortale! come un sordido avaro debbo custodirti e riserbarti a me solo. Ti prego, separiamoci subito.

ASCANIO: Come! Non ci sederemo mai più come un tempo, la mano nella mano, chini su qualche libro d’antiche gesta cavalleresche; non scapperemo più dalla scuola per una vacanza all’aria aperta, non seguiremo più i cacciatori nei boschi autunnali per vedere i falconi strappare le loro pastoie infiocchettate quando la lepre sbuca dalle piante?

GUIDO: Mai più.

ASCANIO: Devo andar via senza un ricordo del nostro amore?

GUIDO: Devi andar via. Possa finir così anche l’amore.

ASCANIO: Sei ingeneroso e disumano.

GUIDO: Disumano e ingeneroso, se vuoi. A che servirebbero altre parole? Separiamoci subito.

ASCANIO: Non devi lasciarmi almeno un messaggio?

GUIDO: Nessuno. Il mio passato è stato solo il sogno d’un bambino. La mia vita comincia oggi. Addio.

ASCANIO: Addio. (Esce lentamente.)

GUIDO: Soddisfatto, adesso? Mi avete veduto scacciare il mio amico più caro, il mio compagno prediletto, come se fosse stato un vile servo o no? Oh, perché mai l’ho fatto? Non siete contento?

MORANZONE: Sì, sono soddisfatto di te. Adesso vado via e ritorno al mio castello solitario in cima alla roccia. Non dimenticare il segnale, il pugnale di tuo padre. Quando te lo manderò dovrai fare quel che dev’essere fatto. (Esce.)

GUIDO: Oh, eterno cielo! Se nell’animo mio c’è un impulso spontaneo di tenera pietà o di benevolenza, fa che si spenga. Distruggilo! Annientalo! O se non vuoi, allora io stesso estirperò la pietà dal mio cuore con un coltello ben affilato. Strozzerò la misericordia, la notte, anche nel sonno, per timore che possa parlarmi. È la tua ora, Vendetta! Sii tu la mia sola amica, la sola compagna del mio letto. Vendetta, sii al mio fianco, vieni a caccia con me, quando sono stanco cantami dolci canzoni, scherza con me quando sono allegro, e quando sogno bisbigliami all’orecchio il tremendo segreto d’un padre assassinato. Assassinato, ho detto? (Sguaina il suo pugnale.) Ascoltami, terribile Iddio. Tu che punisci ogni giuramento infranto, fa che un angelo scriva il mio con lettere di fuoco: che da quest’ora sino a che non avrò vendicato nel sangue l’assassinio del padre mio, io rinnego qualsiasi legame di pur nobile amicizia, rinnego le gioie della compagnia prediletta, ogni vincolo d’affetto e di gratitudine. Non solo da quest’ora rinnego ogni amore di donna, rinnego quella vana apparenza che gli uomini chiamano bellezza.

(Un organo suona nella Cattedrale. Sotto un baldacchino di seta sorretto da quattro paggi vestiti di stoffa scarlatta, la Duchessa di Padova scende dalla scalinata. Mentre attraversa la piazza gli occhi di lei incontrano per un attimo quelli di Guido. Mentre sta per uscire dalla piazza ella si volta ancora a guardarlo. A Guido sfugge il pugnale di mano.)

GUIDO (a un passante): Chi è quella donna?

UN CITTADINO: La Duchessa di Padova!

 

Sipario

 

 

 

1 Le cognizioni geografiche di Wilde sono all’epoca molto approssimative (N.d.T.).

2 Altrettanto erronee sono anche le circostanze storiche a cui il dramma fa allusione. Nella seconda metà del sedicesimo secolo dopo l’espulsione di Pandolfo Malatesta da parte di Cesare Borgia nel 1500, nonostante tre inutili tentativi dei Malatesta di tornare nelle loro terre, la signoria di Rimini rimase definitivamente alla Santa Sede (N.d.T.).

 

 

Questo ebook appartiene a lidia barone - 1124737 Edito da Newton Compton Editori Acquistato il 01/08/2011 13.50.20 con numero d'ordine 63790
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