Nota introduttiva
Un piccolo volume del 1891 raccolse sotto il titolo Lord Arthur Savile’s Crime and other Stories quattro racconti che Wilde aveva scritto negli anni precedenti, due dei quali molto brevi. I due lunghi – quello che diede il titolo alla raccolta, e «Il fantasma di Canterville» – hanno poco bisogno di una introduzione, si tratta infatti di campioni nitidissimi dell’umorismo più lieve e scanzonato dell’autore di Onesto, applicato all’alta società vittoriana in chiave di spregiudicatezza paradossale. Nel primo i bersagli sono l’imperturbabilità, la mancanza di umorismo e la distratta arroganza della classe cosiddetta dirigente; nel secondo la decrepita Inghilterra con le sue fatiscenti tradizioni è messa a ironico confronto con la trionfante innocenza degli Americani, che ora sbarcano a riconquistare il Paese dei loro progenitori a forza di dollari e di mancanza di complessi. In entrambi questi spiritosi racconti si può dire che Wilde faccia le prove di quello che sarà il suo teatro, e infatti tanto «Il delitto di Lord Arthur Savile» quanto l’altro pezzo avrebbero conosciuto in seguito molta fortuna tramite adattamenti a opera di altri, per le scene ma anche per il cinematografo e per la Tv. Il caratteristico gusto di Wilde narratore vi si manifesta tanto nell’uso di dialoghi scoppiettanti (alcune delle cui battute saranno poi riciclate nelle commedie), quanto nella concezione di situazioni di ottima resa visiva.
A due raccolte distinte appartengono anche le fiabe di Wilde, delle quali peraltro solo quelle riunite nel volume intitolato The Happy Prince, uscito nel 1888 (sono «Il principe felice», «L’usignolo e la rosa», «Il gigante egoista», «L’amico devoto» e «Il ragguardevole razzo»), possono considerarsi rivolte a un pubblico di bambini; le altre quattro, «Il giovane re», «Il compleanno dell’Infanta», «Il pescatore e la sua anima» e «Il figlio delle stelle», riunite in origine in A House of Pomegranates (1891), sono per stile e per argomenti alquanto più complesse. Non per nulla una di esse, «Il pescatore e la sua anima», era stata concepita per il Lippincott’s Monthly Magazine, la rivista per la quale poi invece Wilde scrisse Il ritratto di Dorian Gray. La Pall Mall Gazette mosse degli appunti a questo libro, in particolare su quello che definì «l’ultra-estetismo» delle illustrazioni e sullo stile della scrittura, secondo lei «carnoso», giudicando entrambi inadatti all’infanzia; e Wilde rispose con una lettera da Parigi, in cui dichiarava di avere avuto «all’incirca altrettanta intenzione di compiacere il fanciullo inglese quanta ne ho avuta di compiacere il pubblico inglese... Nessun artista riconosce alcun criterio di bellezza se non quello che gli è suggerito dal suo stesso temperamento. L’artista cerca di realizzare in un certo materiale la sua idea immateriale di bellezza, e così di trasformare un’idea in un ideale. Così un artista crea delle cose. Per questo un artista crea delle cose. Creando delle cose, l’artista non ha altro obiettivo» (dicembre 1891). Wilde, che teneva molto anche alla veste grafica dei libri, aveva fatto illustrare The Happy Prince da un giovane, Jacomb Hood (1857-1929), e principalmente da Walter Crane (1845-1915), artista influenzato dai Preraffaelliti e notissimo specialista in questo campo (aveva collaborato con William Morris e con Edward Burne-Jones). Per A House of Pomegranates si era rivolto invece alla coppia formata da Charles Ricketts (1866-1931) e Charles Shannon (1863-1937), che diventarono i suoi disegnatori preferiti, responsabili delle scene e dei costumi per la mai rappresentata Salomé, nonché autori, uno di loro, di una squisita miniatura di giovane elisabettiano, «alla maniera di Clouet», ispirata dallo pseudoritratto di Willie Hughes nel Ritratto di Mr. W.H., scomparsa da casa di Wilde dopo la vendita all’asta dei suoi beni.
Di cinque delle nove fiabe, quelle di The Happy Prince, si può pensare che fossero destinate in origine ai figli di Wilde, benché al tempo in cui il libro uscì Cyril avesse solo tre anni e Vyvyan non ancora due; Vyvyan ha comunque lasciato il ricordo di un Wilde padre affettuosissimo, sempre pronto a giocare con i bambini e a inventare storie per loro. All’epoca di A House of Pomegranates Wilde si era invece già disamorato della vita domestica, e i quattro racconti del libro, dedicato a sua moglie Constance, recano il nome di altrettante dame altolocate – Lady Brooke, Ranee di Sarawak (ricordate il James Brooke di Salgari?); Mrs. Grenfell, poi Lady Desborough; la principessa Alice di Monaco; e Miss Margot Tennant, che avrebbe poi sposato il futuro primo ministro Anthony Asquith. Più lunghi e più articolati degli altri, questi racconti presentano anche, qua e là, dei cosiddetti «purple patches», «passi vermigli», ovvero campioni di bella scrittura in chiave decadente, oggi evocanti agli inglesi un senso di saturazione e di ostentato cattivo gusto non dissimile da quello che in noi può suscitare il dannunzianesimo: sono esibizionismi nei quali la prosa di Wilde avrebbe presto imparato a non cadere più. Le cinque fiabe di The Happy Prince sono invece campioni di scrittura limpida, «facile» anche per dei principianti di inglese, cui vengono offerte oggi come ai loro tempi: il surricordato Vyvyan Holland ha ricordato di averle trovate col fratello nei testi scolastici che gli furono messi in mano in Germania, quando i piccoli Wilde furono costretti a trasferirsi all’estero e a cambiare cognome per via dello scandalo paterno.
Pur con le evidenti differenze di tono e di stile, le due raccolte hanno in comune una fondamentale unità di temi. Otto fiabe su nove – l’eccezione è il «Ragguardevole razzo», sulla comica albagia di un fuoco d’artificio dalle polveri bagnate – sono incentrate su di un sacrificio, e sempre con l’intenzione di mostrare, wildeanamente e al contrario di quanto sembra insegnare l’etica cristiana dell’abnegazione e della rinuncia, come il sacrificio non paghi. Abbiamo un duplice sacrificio nel «Principe felice», quello del giovane sovrano mai sfiorato dal dolore in vita, ma – ora che è diventato una statua preziosa – afflitto dalla contemplazione delle disgrazie altrui; e quello della rondine, che diventando strumento dell’autodistruzione del principe, agisce per amore verso di lui e nell’indifferenza della missione di cui si incarica. È un sacrificio quello del fanciullino che intenerisce il Gigante, ottenendo l’accesso al giardino per i suoi compagni; si sacrifica il piccolo Hans nell’«Amico devoto», annegando nello stagno a favore del Mugnaio egoista; si immola l’Usignolo nell’«Usignolo e la rosa»; si umilia il Giovane Re; scoppia il cuore del Nano nel «Compleanno dell’Infanta»; muore dopo essersi purificato l’erede al trono nel «Figlio delle stelle»; e il riconoscimento della bontà del legame fra il Pescatore e la Sirena nel «Pescatore e la sua anima» avviene solo dopo la tragica scomparsa dei due. Tutti questi sacrifici sono più o meno sterili, né sarebbe potuto esser altrimenti. Wilde infatti non approva, del sacrificio, né l’autonegazione, né la presunta utilità sociale, vedi nel saggio «L’anima dell’uomo sotto il socialismo» la visione dell’altruismo come una finta panacea, che invece di curare il male serve a prolungarlo, rendendo per soprammercato infelice chi lo pratica.
Nelle fiabe di Wilde chi soffre ottiene in cambio ben poco, spesso anzi si dà la zappa sui piedi. Quando il Nano muore col cuore spezzato, l’Infanta ordina che in futuro i suoi compagni di giochi siano sprovvisti di quell’organo. Dure prove consentono al Figlio delle Stelle di accedere al trono purificato; ma subito dopo muore, e al suo posto viene un re malvagio. L’Usignolo perisce allo scopo di far sbocciar una rosa rossa stupendissima per lo Studente al quale l’innamorata ha promesso di ballare con lui in cambio di un fiore così; ma quando il fiore arriva, l’incostante ragazza ha dimenticato la promessa, e accetta invece i gioielli del figlio del Ciambellano. Dal canto loro, la Rondine e il Principe Felice si distruggono reciprocamente senza aiutare veramente nessuno: lo zaffiro piovuto dal cielo attenua i disagi economici del giovane scrittore, ma non gli insegna la modestia; tornando a casa con una gemma nella mano, la piccola fiammiferaia riuscirà al massimo a evitare le busse; e scomparsa la statua del Principe Felice che veglia su di lei, la città resta gretta come prima. Infine, benché il Prete che ha maledetto il Pescatore e la Sirena sia costretto a ricredersi, nessuno nel futuro si gioverà della lezione: i fiori miracolosi cresciuti sulla sepoltura dei tragici amanti non si riprodurranno mai più, e anche il popolo degli abissi scomparirà dalla baia per sempre. Naturalmente, la funzione delle storie non è didascalica, di regola il racconto si presenta come pura invenzione, gioco, magari sollecitato da un estro come quello di collegare con una vicenda due celebri quadri di Velaźquez rappresentanti un nano e un’infanta, appesi l’uno accanto all’altro al Prado. Ma in Wilde sonnecchia spesso un’antimorale, ovvero la morale wildiana dell’immoralità. Il piccolo Hans resta vittima dell’altruismo che i ricchi impongono ai poveri per tenerli al loro posto; il Pescatore recupera la sua anima e perde la felicità; lo studente perde l’amore, e diventa un uomo di paglia. La vita è bella, sembra volerci dire obliquamente l’esteta, dunque godiamocela, senza cercare complicazioni.
MASOLINO D’AMICO