Intenzioni
Declino della menzogna
Un’osservazione
Dialogo
PERSONAGGI: Cyril e Vivian.
SCENA: La biblioteca di una casa di campagna nel Nottinghamshire.
CYRIL (entrando dalla porta-finestra della terrazza): Mio caro Vivian, non stare tutto il giorno rintanato in biblioteca. Il pomeriggio è davvero bellissimo e l’aria è deliziosa. La nebbiolina sopra i boschi sembra quasi l’infiorescenza porporina che copre un frutto di prugna. Andiamo a stenderci sul prato a fumare una sigaretta e goderci la Natura.
VIVIAN: Godermi la Natura! Sono felice di poter affermare che questa facoltà io l’ho perduta completamente. Si dice che l’Arte riesca a farci amare la Natura più di quanto non possiamo fare da soli. Dicono che essa ci sveli i suoi segreti e che dopo un attento studio di Corot e Constable si riesca a scorgere particolari prima sfuggiti alla nostra osservazione. La mia esperienza personale mi dice che, al contrario, più si studia l’Arte, meno ci si cura della Natura. Ciò che l’Arte in realtà ci rivela è che la Natura manca di scopo, ci mostra la di essa strana brutalità, la sua straordinaria monotonia e la sua condizione di assoluta incompletezza. Naturalmente le sue intenzioni sarebbero buone, ma, come disse una volta Aristotele, essa non riesce a metterle in pratica. Guardando un paesaggio non posso evitare di notarne tutti i difetti; d’altra parte è una fortuna per noi che la Natura sia imperfetta, altrimenti l’Arte non esisterebbe affatto. L’Arte è la nostra vivace protesta, il nostro coraggioso tentativo di indicare alla Natura quale sia la sua vera condizione. Per quanto riguarda l’infinita varietà propria della Natura, non si tratta che di un semplice mito: non è dato riscontrare varietà nella Natura stessa, ma nell’immaginazione, nella fantasia o nella raffinata cecità di chi volge lo sguardo su di Lei.
CYRIL: Be’ non è necessario che tu ti metta ad ammirare il panorama, puoi semplicemente stenderti sull’erba a fumare e discorrere.
VIVIAN: Ma la Natura è talmente scomoda: l’erba non è morbida, il terreno è umido e accidentato e oltretutto è pieno di orribili insetti neri. Senti, persino l’operaio più povero di Morris sarebbe in grado di costruire un sedile più confortevole di quanto l’intera Natura possa fare. Essa impallidirebbe di fronte ai mobili della «strada che da Oxford ha preso il nome», come ha vilmente verseggiato il poeta che tu ami tanto. Non che io mi lamenti: se la Natura non fosse stata così scomoda, l’uomo non avrebbe mai creato l’architettura; e io preferisco le abitazioni all’aria aperta. In una casa noi tutti ci sentiamo nella giusta dimensione; ogni cosa è a noi subordinata, costruita per il nostro utilizzo e il nostro piacere. L’egotismo stesso, che è così necessario per ottenere il vero senso della dignità umana, non è che il risultato della vita domestica. Fuori si diventa astratti e impersonali, la nostra individualità ci abbandona completamente. E poi la Natura è così indifferente, ingrata: tutte le volte che mi reco a passeggio nel parco qui vicino, ho la sensazione che agli occhi della Natura io non sia molto diverso dal bestiame che bruca sul pendio o dalla lappa che fiorisce nel borro. È perfettamente evidente che la Natura odia la Mente. Il processo mentale del pensiero è una delle cose più insalubri che ci siano al mondo, e le persone ne muoiono proprio come muoiono di una qualsiasi altra malattia. Per fortuna, comunque, in Inghilterra il pensare non è contagioso: il nostro splendido fisico come popolazione è da attribuirsi unicamente alla nostra stupidità nazionale. Spero solo che saremo in grado di mantenere questo baluardo storico della nostra felicità ancora per molti anni a venire, ma ho il timore che stiamo cominciando a essere un po’ troppo colti. Almeno, tutti quelli che non sono capaci di imparare hanno preso a insegnare – ed ecco ciò a cui il nostro entusiasmo per la cultura ci ha portato. Nel frattempo tu faresti meglio a tornare alla tua noiosa e scomoda Natura e lasciarmi a correggere le mie bozze.
CYRIL: Scrivere articoli! Non trovo che sia molto coerente con ciò che hai appena finito di dire.
VIVIAN: E chi vuole essere coerente? Forse gli stupidi e i dottrinari, quella gente uggiosa che mette in pratica i suoi principi fino all’amaro esito dell’azione, fino alla «reductio ad absurdum» della pratica. Non io. Come Emerson, sulla porta della mia biblioteca io scrivo la parola «Capriccio». Inoltre il mio articolo costituisce un avvertimento veramente salutare e prezioso. Se gli verrà data attenzione, potrà esserci un nuovo Rinascimento dell’Arte.
CYRIL: Ma di che cosa tratta?
VIVIAN: Intendo intitolarlo «Il declino della menzogna: una protesta».
CYRIL: La menzogna! Pensavo che i nostri politici avessero conservato l’abitudine.
VIVIAN: Ti assicuro di no. Non vanno mai oltre il livello di erronea rappresentazione e in realtà accondiscendono a discutere, argomentare e fornire prove. Come sono diversi dagli autentici bugiardi con le loro franche e coraggiose affermazioni, la loro superba mancanza di responsabilità, il loro salubre e naturale sdegno nei confronti di qualsiasi tipo di prova! Dopo tutto, quale può dirsi una bugia perfetta? Semplicemente quella che è prova di se stessa. Se un uomo ha talmente poca immaginazione da dover esibire delle prove a supporto della sua menzogna, tanto vale che dica subito la verità. No, i politici non si comportano così. Forse, si potrebbe dire qualcosa per quanto riguarda l’Ordine degli avvocati. Il manto del Sofista è caduto sui suoi componenti. Sono deliziosi i loro finti fervori e la loro retorica irreale. Sono capaci di far apparire la peggiore, come la migliore delle cause, quasi fossero appena usciti dalla scuola leontina e sono noti per le lotte che intraprendono al fine di strappare a riluttanti giurie eclatanti verdetti di assoluzione per i loro clienti, anche quando quegli stessi clienti sono palesemente e indubitabilmente innocenti. Ma è la prosaicità che impartisce loro istruzioni, e non hanno vergogna di far ricorso a precedenti. Nonostante i loro sforzi la verità viene fuori. Persino i giornali hanno degenerato: adesso di essi ci si può fidare ciecamente. La sensazione che si prova è quella di essere in mezzo a un guado, fra le colonne dei loro articoli; è sempre l’illeggibile quello a cui si va incontro. Temo che non ci sia molto da dire né sui giornalisti né sugli avvocati; e inoltre ciò che io difendo è la Menzogna nell’arte. Vuoi che ti legga quello che ho scritto? Potrebbe farti un gran bene.
CYRIL: Certamente, se mi dai una sigaretta. Grazie. A proposito su quale rivista pensi di pubblicarlo?
VIVIAN: Sulla «Retrospective Review». Pensavo di averti già detto che gli eletti l’hanno fatta rinascere.
CYRIL: Chi intendi per «gli eletti»?
VIVIAN: Ma gli «Edonisti Stanchi» naturalmente, è un club di cui faccio parte; dobbiamo portare rose appassite all’occhiello quando ci incontriamo, e abbiamo una specie di culto per Domiziano. Temo che tu non potresti farne parte. Ti piacciono troppo i piaceri semplici.
CYRIL: Suppongo che verrei bocciato a causa del mio spirito animalesco?
VIVIAN: Probabilmente. E poi tu sei un po’ troppo vecchio, non ammettiamo nessuno che abbia un’età...
CYRIL: Be’ posso immaginare che vi annoierete un bel po’ fra di voi.
VIVIAN: È vero. Questo è uno degli obiettivi del club. Ora, se mi prometti di non interrompermi troppo spesso, ti leggerò il mio articolo.
CYRIL: Ti presterò tutta la mia attenzione.
VIVIAN (leggendo con voce molto chiara):
IL DECLINO DELLA MENZOGNA: UNA PROTESTA. Una delle cause principali a cui si può attribuire la curiosa convenzionalità di molta della letteratura dei nostri tempi, è senza dubbio il declino della menzogna come arte, come scienza e come diletto sociale. Gli storici antichi ci hanno lasciato invenzioni graziosissime in forma di fatti; i romanzieri moderni ci presentano fatti insignificanti sotto la forma di finzione. Il Libro Blu sta diventando rapidamente il loro ideale, sia per il metodo che per lo stile: possiedono il loro noioso «document humain», il loro meschino «coin de la création» che ognuno di loro scruta con il microscopio. Li troveremo alla Librairie Nationale o al British Museum a documentarsi senza vergogna sulle loro materie. Non hanno neanche il coraggio delle idee degli altri, ma insistono nell’andare direttamente alla realtà per qualsiasi cosa. Alla fine, tra enciclopedie ed esperienze personali toccano il fondo: traggono i propri personaggi dalla cerchia familiare o dalla lavandaia che viene una volta alla settimana, hanno acquisito ormai una tale quantità di informazioni utili di cui non potranno mai più liberarsi completamente, nemmeno nei momenti più meditabondi.
Non si considererà mai abbastanza la perdita che la letteratura subisce in generale da questo falso ideale dei nostri tempi. Si parla senza problemi di «bugiardi nati», come si parlasse di «poeti nati», ma in entrambi i casi si è in errore. La menzogna e la poesia sono arti – arti, come le vedeva Platone, non separate l’una dall’altra. Esse richiedono lo studio più accurato, la devozione più disinteressata. In verità anch’esse hanno le loro tecniche, proprio come le arti più materiali della pittura e la scultura hanno i loro sottili segreti di forma e colore, i segreti del mestiere, metodi artistici ponderati. Come si riconosce un poeta dalla musicalità dei suoi versi, così si può identificare il bugiardo dalla sua ricca espressione ritmica: in nessuno dei due casi può bastare la casuale ispirazione del momento. In questa occasione, come in qualsiasi altra, la pratica deve precedere la perfezione. Ma, ai giorni nostri, giorni in cui la moda di scrivere poesia è diventata davvero troppo diffusa e dovrebbe, quando possibile, essere scoraggiata, la moda del mentire è quasi caduta in disgrazia. Molti giovani sin dall’inizio della loro vita possiedono un dono naturale per l’esagerazione che, se ben curato in un ambiente adatto e comprensivo o con l’imitazione dei modelli migliori, può svilupparsi e crescere in qualcosa di davvero meraviglioso. Ma, di regola, non approda a nulla: o cade in noncuranti abitudini di precisione...
CYRIL: Caro amico!
VIVIAN: Per favore non interrompermi in mezzo alla frase.
... o cade in noncuranti abitudini di precisione o prende a frequentare la società degli anziani e dei ben informati. Ambedue le cose sono fatali in ugual modo per la sua immaginazione, e in verità lo sarebbero per l’immaginazione di chiunque. In breve tempo egli sviluppa la morbosa e insalubre capacità di dir la verità, inizia a verificare ogni affermazione venga fatta in sua presenza, non ha esitazioni nel contraddire chi è più giovane di lui e spesso finisce con lo scrivere romanzi verosimili e nessuno potrà mai credere nella loro presumibilità. Non sono esempi sporadici quelli che abbiamo. È semplicemente uno dei tanti. E se non si riesce a fare qualcosa per controllare, o almeno modificare, la mostruosa adorazione che abbiamo per i fatti, l’Arte diverrà sterile e la bellezza scomparirà dalla faccia della terra.
Persino Mr. Robert Louis Stevenson, quel delizioso maestro di prosa delicata e fantasiosa, è stato rovinato da questo vizio moderno, ché per esso non conosciamo altro nome. Cercare di rendere una storia troppo vera vuol dire derubarla della sua realtà, e La Freccia nera è così poco artistica da non contenere neanche un solo anacronismo di cui vantarsi, mentre la trasformazione di Mr. Jekyll ricorda pericolosamente gli esperimenti del Lancet. Quanto poi a Mr. Rider Haggard che davvero ha, o ha avuto in passato, la stoffa del bugiardo perfetto e straordinario, egli adesso teme talmente che lo si sospetti di genialità che, quando vuole raccontarci qualcosa di eccezionale, si sente costretto a inventarsi una sorta di reminiscenza personale e a porla a piè di pagina a mo’ di vile documentazione. Né si può dire che fra i nostri romanzieri ve ne siano di migliori di questi: Mr. Henry James scrive narrativa di fantasia come fosse per lui un penoso dovere e spreca il suo bello stile letterario, le sue frasi felici e la sua rapida satira caustica su meschini motivi e impercettibili «punti di vista». Mr. Hall Cain, è vero, punta al grandioso, ma poi finisce con lo scrivere urlando e fa un rumore tale che non si capisce ciò che dice. Mr. James Payn è un esperto nell’arte di celare ciò che non vale la pena trovare; dà la caccia all’ovvietà con l’entusiasmo di un investigatore miope. Sfogliando le pagine l’indecisione dell’autore diventa quasi insopportabile. I cavalli che tirano il carro di Mr. William Black non spiccano il volo verso il sole: essi semplicemente spaventano il cielo a sera, con violenti effetti cromolitografici. Al vederli arrivare i contadini trovano rifugio nel dialetto. Mrs. Oliphant chiacchiera amabilmente di curati, di partite di tennis su prato, affari domestici e altre noiosissime cose. Mr. Marion Crawford si è immolato sull’altare del color locale. È come la signora nella commedia francese che continua a parlare del «beau ciel d’Italie». Inoltre ha preso la brutta abitudine di proferire luoghi comuni sulla morale: è sempre a dire che esser buoni è bene ed esser cattivi è male. A volte egli è quasi edificante. Robert Elsmere è ovviamente un capolavoro – un capolavoro del «genre ennuyeux», l’unica forma letteraria che gli Inglesi sembrano gradire. Un nostro giovane amico, molto riflessivo, una volta ci ha detto che gli ricordava il tipo di conversazione che viene intrattenuta durante i tè serali in casa di una seria famiglia anticonformista, e possiamo benissimo credergli. L’Inghilterra è davvero l’unico posto dove si poteva scrivere un libro come quello. L’Inghilterra è la patria delle idee perdute. Per quanto riguarda poi quelle grandi scuole di romanzieri che crescono di giorno in giorno, per i quali il sole sorge sempre nell’East End, l’unica cosa che si può dire di loro è che essi trovano cruda la vita e la lasciano non cotta.
In Francia le cose non sono molto migliori sebbene non sia stato scritto niente di così deliberatamente noioso come Robert Elsmere. M. Guy de Maupassant con la sua ironia altamente mordente e il suo stile intensissimo strappa alla vita quei pochi stracci di cui è ancora ricoperta mostrandoci le sue orrende piaghe e le sue ferite purulente. Scrive piccole tragedie sinistre dove tutti sono ridicoli, commedie amare delle quali non si riesce a ridere dalle troppe lacrime. M. Zola fedele all’alto principio che si trova in uno dei suoi pronunciamenti sulla letteratura, «l’homme de genie n’a jamais d’esprit» – è determinato nel dimostrare che, se non ha ingegno può almeno essere sciocco. E come gli riesce bene! Egli ha del potere; a volte, come in Germinal, c’è davvero qualcosa di quasi epico nella sua opera, ma essa è completamente sbagliata dall’inizio alla fine. Sbagliata sul piano morale e sul piano dell’arte. Da un qualsiasi punto di vista etico, è proprio quello che dovrebbe essere. L’autore è perfettamente sincero e descrive gli avvenimenti proprio come accadono. Che cosa potrebbe desiderare di più un qualsiasi moralista? Non condividiamo affatto l’indignazione morale del nostro tempo contro Zola; si tratta semplicemente dell’indignazione del Tartufo per essere stato scoperto. Ma dal punto di vista artistico che cosa potremmo dire in favore dell’autore de L’Assommoir, Nanà e Pot Buille? Niente. Una volta Mr. Ruskin ha detto che i personaggi dei romanzi di George Eliot ricordano i rifiuti strascicati dall’omnibus di Pentonville, ma quelli di Zola non sono molto peggiori, hanno i loro tristi vizi e le loro ancor più tristi virtù. Il resoconto della loro vita è assolutamente privo di interesse. A chi importa cosa accade di loro? In letteratura ci vuole distinzione, fascino, bellezza e potenza immaginativa; non vogliamo esser tormentati e disgustati dal resoconto delle vicende del basso ceto. M. Daudet va meglio: ha ingegno, tocco leggero e stile divertente, ma di recente si è suicidato dal punto di vista letterario. Non potrebbe interessare di meno Delobelle con il suo «Il faut lutter pour l’art», o Valmajour col suo eterno ritornello sull’usignolo, o il poeta in Jack e i suoi «mots cruels» e adesso abbiamo imparato da Vingt Ans de ma Vie Littéraire che erano tutti personaggi presi dalla vita reale. A noi sembra che abbiano perduto improvvisamente ogni vitalità, tutte quelle poche qualità che hanno mai posseduto. I soli personaggi reali sono quelli che non sono mai esistiti, e se uno scrittore è talmente meschino da rivolgersi alla vita reale per trovare dei personaggi, egli dovrebbe almeno fingere che siano sue creazioni, e non vantarsi di aver copiato. Un personaggio entra in un romanzo non perché esistono persone come lui, ma perché lo scrittore ha voluto così, altrimenti il romanzo non è più un’opera d’arte. Per quanto riguarda M. Paul Bourget, il maestro del «roman psychologique», egli commette l’errore di pensare di poter analizzare l’uomo e la donna della vita attuale in una serie infinita di capitoli. Effettivamente ciò che è interessante della gente della buona società – e M. Bourget raramente si sposta dal Faubourg St. Germain, se non per venire a Londra – è la maschera che ognuno di loro indossa e non la realtà che si trova dietro la maschera. È una confessione umiliante, ma tutti noi siamo fatti della stessa pasta; in Falstaff c’è un qualcosa di Amleto e in Amleto c’è non poco di Falstaff. Il grasso cavaliere ha i suoi moti malinconici, e il giovane principe i suoi momenti di umorismo grezzo. Ciò in cui differiamo sono solo questioni fortuite: come vestiamo, i modi, il tono di voce, i credi religiosi, l’aspetto fisico, i giochetti delle abitudini e via dicendo. Più si analizzano le persone, più svaniscono le ragioni di analisi. Prima o poi tutti arriviamo a quella cosa terribile che è la natura umana. In realtà, come ben sa chi si è mai trovato a lavorare fra i derelitti, la fratellanza umana non è il mero sogno di poeti, ma è una delle realtà più deprimenti e umilianti; e se uno scrittore insiste nell’analizzare le classi abbienti, potrebbe allo stesso modo scrivere subito di ragazze da marito e ortolani ambulanti.
Comunque mio caro Cyril, non voglio trattenerti oltre. Sono d’accordo che molti romanzi moderni hanno aspetti lodevoli. Ciò su cui insisto è che sono del tutto illeggibili, nel complesso.
CYRIL: È una asserzione molto grave e devo dire che sei piuttosto ingiusto in alcuni dei tuoi rimproveri. A me piacciono The Deemster [Il Giudice], The Daughter of Heth [La figlia di Heth], e anche Le Disciple [Il Discepolo] e Mr. Isaac; per quanto riguarda poi Robert Elsmere, ne sono piuttosto affezionato. Non che io lo consideri un’opera particolarmente seria. Come constatazione dei problemi che un onesto cristiano si trova ad affrontare la trovo ridicola e antiquata. È semplicemente Letteratura e Dogma di Arnold privato della letteratura. Ed è molto arretrato rispetto a Le Evidenze di Paley, o al metodo di esegesi biblica di Colenso. Né potrebbe essere meno incisivo di uno sfortunato eroe nunzio di un’alba sorta molto tempo prima: egli perde completamente il suo vero significato tanto da proporre di continuare gli affari della vecchia ditta sotto un nome nuovo. D’altra parte, in esso ci sono diverse caricature intelligenti, un mucchio di citazioni divertenti e la filosofia greca addolcisce gradevolmente la pillola della narrativa fantastica dello scrittore. Non posso fare a meno di esprimere la mia sorpresa vedendo che non hai detto niente di due romanzieri che leggi in continuazione, Balzac e George Meredith. Sono certamente realisti, tutti e due?
VIVIAN: Ah! Meredith! Chi può definirlo? Il suo stile è caos rischiarato dai lampi di fulmine. Come scrittore è esperto di tutto tranne che di linguaggio; come romanziere riesce a fare qualsiasi cosa fuorché narrare una storia; come artista è tutto tranne che articolato. Qualcuno in Shakespeare – credo Touchstone – parla di un uomo che non fa altro che rompersi gli stinchi a causa della sua arguzia; mi sembra che questo possa costituire la base di una critica su Meredith. Ma qualunque cosa sia, egli non è un realista. O meglio, direi che è un figlio del realismo che non rivolge più la parola al padre. Ha fatto di se stesso un romantico per scelta deliberata. Si è rifiutato di inchinarsi di fronte a Baal, e dopo tutto, anche se il raffinato spirito dell’uomo non si è ribellato contro le rumorose asserzioni di realismo, basterebbe il suo stile a tenerlo a debita distanza dalla vita reale. Con questi mezzi ha piantato tutt’intorno al suo giardino una siepe piena di spine, e rossa di splendide rose. Riguardo a Balzac, egli era una apprezzabilissima combinazione di temperamento artistico e spirito scientifico. Quest’ultimo è quello che ha lasciato in eredità ai suoi discepoli, il primo era solo suo. La differenza che passa tra L’Assommoir di Zola e Illusions Perdues di Balzac equivale a quella che esiste tra il realismo non immaginativo e realtà immaginativa. Disse Baudelaire: «Tutti i personaggi di Balzac sono dotati dello stesso ardore per la vita che animava lui stesso. Tutti i personaggi di fantasia hanno lo stesso colore vivace dei sogni. Ogni mente è un’arma caricata di volontà fino all’orlo. Persino gli sguatteri hanno dell’ingegno». Una frequentazione assidua di Balzac riduce i nostri amici in vita a ombre e i nostri conoscenti all’ombre delle ombre. I suoi personaggi possiedono una sorta di esistenza dalla fervida colorazione ardente. Ci dominano e sconfiggono lo scetticismo. Una delle tragedie più grandi della mia vita è stata la morte di Lucien de Rubempré. È un dolore che non sono mai riuscito a scacciare completamente, mi perseguita nei momenti piacevoli, lo ricordo quando rido. Ma Balzac non è più realista di quanto lo fosse Holbein, ha creato la vita, non ne ha fatto una copia. Ammetto, comunque, che egli ha attribuito un valore ben troppo alto alla modernità della forma e che, di conseguenza, nessuno dei suoi lavori può esser collocato come capolavoro allo stesso livello di Salammbo o Esmond, o The Cloister and the Hearth [Il Chiostro e il Focolare], o il Vicomte de Bragelonne [Il Visconte di Bragelonne].
CYRIL: Hai dunque qualcosa da obiettare sulla modernità di forma?
VIVIAN: Sì. È un enorme prezzo da pagare per un magro risultato. La pura modernità della forma è sempre in qualche modo volgarizzante, non può essere che così.
Il pubblico immagina che, come lui, anche l’arte si interessi a ciò che la circonda da vicino, e che questo debba essere preso come soggetto. Ma il solo fatto che questa gente si interessi di ciò, la rende inadatta come soggetto d’arte. Le uniche cose belle, come ha detto qualcuno, sono le cose che non ci riguardano. Quando qualcosa è necessaria o utile, o in qualche modo ci coinvolge, vuoi per piacere che per dolore, oppure quando una cosa ci attira fortemente, o è una parte vitale dell’ambiente in cui viviamo, essa si colloca fuori dalla vera sfera dell’arte. Dovremmo provare più o meno indifferenza per il soggetto dell’arte. E dovremmo comunque essere imparziali, senza preferenze e pregiudizi, senza alcun sentimento partigiano. È proprio perché per noi non significa nient’altro che i suoi patimenti che Ecuba costituisce un soggetto tanto ammirevole per una tragedia. Non esiste niente di più triste nella storia della letteratura della carriera artistica di Charles Reade. Egli scrisse un solo bel libro, The Cloister and the Hearth [Il Chiostro e il Focolare], un libro che è superiore a Romola quanto Romola è superiore al Daniel Deronda, sprecando il resto della vita nello sciocco tentativo di diventare moderno, di attirare l’attenzione della gente sullo stato dei nostri bagni penali e la gestione dei manicomi privati. Charles Dickens, in tutta franchezza, era piuttosto deprimente quando cercava di suscitare le nostre simpatie per le vittime delle leggi sui poveri; ma Charles Reade, un artista, uno studioso, un uomo con un vero senso della bellezza, che inveisce e si scaglia contro gli abusi della vita contemporanea come un comune scribacchino o un giornalista di sensazione, è davvero uno spettacolo alla vista del quale gli angeli dovrebbero piangere. Credimi, mio caro Cyril, la modernità della forma e quella del soggetto sono completamente e assolutamente sbagliate. Si è confuso l’ordinaria livrea del nostro tempo con la veste delle Muse, trascorriamo le nostre giornate per strade sordide e nei sobborghi orribili delle nostre vili città, mentre dovremmo esser là sulla collina con Apollo. Certamente la nostra è una razza degradata, abbiamo venduto il nostro diritto di nascita per un mucchio di fatti.
CYRIL: C’è del vero in ciò che dici, e senza dubbio qualsiasi sia il tipo di divertimento che ci procura la lettura di un romanzo puramente moderno, raramente si prova lo stesso piacere nel rileggerlo. E questa è probabilmente la miglior prova sommaria per distinguere ciò che è letteratura da ciò che non lo è. Se non si gode nel leggere e rileggere un libro, tanto vale non leggerlo affatto. Ma cosa ne dici del ritorno alla Vita e alla Natura? Questa è la panacea che ci viene sempre raccomandata.
VIVIAN: Ti leggerò quello che ho scritto su questo argomento. È un brano che si trova più avanti nell’articolo ma te lo posso lo stesso proporre adesso:
Il grido più diffuso della nostra epoca è «Torniamo alla Vita e alla Natura»; esse ricreeranno per noi l’arte, facendo scorrere ancora nelle sue vene il sangue vermiglio; metteranno ali ai suoi piedi e renderanno la sua mano ferma. Ma, ahimè! Siamo in errore sforzandoci in modo così gentile e ben intenzionato. La Natura è sempre in ritardo. E per quanto riguarda la Vita, essa è il solvente che scioglie l’Arte, il nemico che le distrugge la dimora.
CYRIL: Cosa intendi dire con «la Natura è in ritardo»?
VIVIAN: Be’, forse è un po’ criptico. Voglio dir questo: se per Natura intendiamo il semplice istinto naturale opposto alla cultura cosciente di sé, l’opera che si produce sotto questa influenza è sempre antiquata, fuori moda, non attuale. Un tocco di Natura può rendere simile tutto il mondo, ma due tocchi di Natura distruggono qualsiasi opera d’arte. Se, d’altro canto, guardiamo la Natura come un insieme di fenomeni esterni all’uomo, troveremo in essa solo quello che a essa abbiamo portato. Da essa non abbiamo suggerimenti. Wordsworth andò al Distretto dei Laghi ma non fu mai un poeta di laghi. Trova nelle pietre i sermoni che egli stesso vi aveva nascosto. Se ne andò a moralizzare nel Distretto, ma il suo lavoro migliore lo produsse al suo ritorno non alla Natura ma alla Poesia. La Poesia gli dette Laodamia, i bei sonetti e la grande Ode così come sono. La Natura gli dette Martha Ray e Peter Rell e l’ode alla vanga di Mr. Wilkinson.
CYRIL: Credo che su questo si possa discutere. Sono piuttosto incline a credere «all’impulso del bosco estivo» anche se il valore artistico di quell’impulso dipende solamente dal tipo di carattere che lo riceve, cosicché il ritorno alla Natura verrebbe a significare solo il progresso verso una grande personalità. Ne converrai con me, suppongo. Comunque vai avanti col tuo articolo.
VIVIAN (leggendo):
L’Arte inizia con la decorazione astratta, con l’opera semplicemente immaginativa e gradevole che ha a che fare con ciò che è irreale e non-esistente. Questa è la prima fase. Poi la Vita viene affascinata da questa nuova meraviglia, e chiede di essere ammessa nel suo circolo incantato. L’Arte prende la vita come parte della sua materia prima, la ricrea, la rimodella in nuove forme, è assolutamente indifferente ai fatti, inventa, immagina, sogna e conserva fra se stessa e la realtà la barriera impenetrabile del bello stile, del trattamento decorativo o ideale. La terza fase è quando la Vita prende il sopravvento e porta l’Arte fuori, nel suo territorio selvaggio. Questa è la vera decadenza, ed è questo di cui noi soffriamo oggi. Prendiamo l’esempio del dramma inglese. All’inizio, nelle mani dei monaci, l’arte drammatica era astratta, decorativa e mitologica. Poi ha ingaggiato la Vita e, usando alcune delle sue forme esteriori, ha creato una razza completamente nuova di individui, i cui dolori erano più terribili di quelli che gli uomini abbiano mai provato, le cui gioie erano più intense di quelle dell’innamorato, che avevano la rabbia dei Titani e la calma degli dei, dai peccati meravigliosi e mostruosi, dalle meravigliose e mostruose virtù. Per essi ha creato un linguaggio diverso da quello di uso comune, un linguaggio pieno di musiche risonanti e dolci ritmi, reso imponente dalla solenne cadenza, o reso delicato dalla rima fantasiosa, ingioiellato di belle parole, e arricchito dall’elevata dizione. Essa ha dato strani abiti ai suoi figli, li ha forniti di maschere e al suo cenno il mondo del passato si è levato dalla sua tomba marmorea. Un nuovo Cesare cammina per le strade di una Roma risorta, e un’altra Cleopatra solca il fiume verso l’Antiochia con la sua vela porporina e i remi levati. I vecchi miti, le leggende e i sogni presero forma e sostanza. La storia fu interamente riscritta, e tutti i drammaturghi riconobbero che l’Arte ha come obbiettivo non semplicemente la verità ma la bellezza complessa. Su questo avevano perfettamente ragione. L’Arte stessa è in realtà una forma di esagerazione; e la selezione, che è il vero spirito dell’Arte, non è altro che un modo per intensificare la super-enfasi.
Ma la vita ha presto rovinato la perfezione della forma. Persino in Shakespeare è possibile vedere l’inizio della fine. Fa mostra di sé con la graduale imposizione del verso sciolto negli ultimi drammi, con la predominanza data alla prosa, con la eccessiva importanza che si dà allacaratterizzazione dei personaggi. I brani di Shakespeare – e ce ne sono molti – in cui la linguaè rozza, volgare, esagerata, fantastica e persino oscena, si rifanno interamente alla Vita che manda l’eco della sua voce e che rifiuta l’intervento del bello stile solo attraverso il quale la vita dovrebbe trovare espressione. Shakespeare non è assolutamente un artista privo di pecche. Ha troppo la passione di andar direttamente alla vita e di prenderne a prestito le espressioni. Egli dimentica che quando l’arte rinuncia al suo mezzo immaginativo, rinuncia a tutto. Goethe ha detto: «In der Beschränkung zeigt sich erst der Meister» [È nella limitazione che un maestro si rivela per primo].
È lavorando entro dei limiti che il maestro si rivela, e la limitazione, condizione stessa di ogni arte, è lo stile. Comunque non c’è necessità di trattenerci ancora sul realismo in Shakespeare. La Tempesta è la più perfetta delle palinodie. Ciò che ci premeva osservare è che le magnifiche opere degli artisti elisabettiani e giacomiani contenevano i semi della loro stessa distruzione, e che, se esse traevano forza dall’utilizzo della vita come materiale grezzo, la loro debolezza era dovuta all’utilizzo della vita come forma artistica. Come risultato inevitabile della sostituzione del mezzo creativo con quello imitativo, questa rinuncia alla forma immaginativa, si ha il melodramma moderno inglese. I personaggi, in queste opere, parlano sul palco esattamente nello stesso modo in cui parlano nella vita; non hanno ispirazioni né aspirazioni; sono presi direttamente dalla vita e ne riproducono la volgarità fin nel più piccolo dettaglio; essi presentano l’incedere, le maniere, i costumi e gli accenti della gente vera; passerebbero inosservati in una carrozza di terza classe. Eppure, come sono noiose! Non riescono nemmeno lontanamente a riprodurre quell’impressione di realtà che si prefiggono, e che è la sola ragione della loro esistenza. Come metodo, il realismo è un fallimento completo.
Ciò che è vero per i drammi e i romanzi è altrettanto vero per quelle che chiamiamo arti decorative. La storia di tali arti in Europa è il resoconto della lotta fra l’Orientalismo e il suo franco rifiuto dell’imitazione, il suo amore per le convenzioni artistiche, l’antipatia per la rappresentazione verosimile di un qualsiasi oggetto della Natura, e il nostro spirito imitativo. Ovunque i primi abbiano regnato, come a Bisanzio, in Sicilia e in Spagna per contatto diretto e nel resto d’Europa per influenza delle Crociate, si sono prodotte opere bellissime e immaginative, in cui le cose reali e visibili della vita sono state trasformate in convenzioni artistiche, e le cose che la vita non ha sono state inventate e modellate a loro piacere. Ma ogni volta che si torna alla vita e alla natura, l’opera diventa sempre volgare, ordinaria e poco interessante. La moderna arazzeria, con i suoi effetti aerei, il suo realismo fedele e laborioso, i suoi ampi stralci di cielo la sua prospettiva elaborata, non possiede la benché minima bellezza. Le vetrate dipinte tedesche sono assolutamente detestabili. Stiamo iniziando a tessere tappeti decenti, qui in Inghilterra, solo perché si è tornati al metodo e allo spirito orientale. I nostri tappeti e stoini di venti anni fa, con le loro solenni verità deprimenti, la loro insulsa adorazione della natura, le sordide riproduzioni di oggetti visibili, sono diventati fonte di scherno persino per i Filistei. Un colto maomettano una volta osservò: «Voi cristiani siete così impegnati a fraintendere il quarto comandamento che non vi è mai venuto in mente di applicare artisticamente il secondo». Aveva perfettamente ragione, e questa è la verità: «La vera scuola per imparare l’arte non è la vita ma l’arte».
E adesso lascia che ti legga un brano che mi sembra appiani tutta la questione in modo definitivo.
Non è sempre stato così. Non c’è bisogno di dire niente sui poeti, poiché essi, con la sfortunata eccezione di Wordsworth, sono rimasti veramente fedeli alla loro missione, e universalmente vengono riconosciuti come assolutamente inaffidabili. Ma, nelle opere di Erodoto – che nonostante i superficiali e ingenerosi tentativi dei pedanti contemporanei di verificare la sua storia, può ben esser chiamato «Padre della Menzogna» –; nei discorsi di Cicerone che ci sono giunti e nelle biografie di Svetonio; al meglio in Tacito; nella Storia Naturale di Plinio; nel Periplus di Annone; in tutte le cronache primeve; nelle Vite dei Santi; in Froissart e Thomas Malory; nei Viaggi di Marco Polo; in Olao Magno e Aldovrando; in Corrado Lychostene col suo magnifico Prodigiorum et Ostentorum Chronicon; nella autobiografia di Benvenuto Cellini; nelle memorie di Casanova; nella Storia della Peste di Defoe; nella Vita di Johnson di Boswell; nei dispacci di Napoleone; nelle opere del nostro Carlyle, la cui Rivoluzione francese costituisce uno dei romanzi storici più affascinanti che siano mai stati scritti, i fatti o sono mantenuti nella posizione subordinata che è loro propria, oppure sono esclusi completamente sulla base della loro generale stupidità. Adesso tutto è cambiato. I fatti non solo hanno un ruolo secondario nella storia, ma stanno usurpando il dominio della Fantasia, hanno invaso il regno del Romanzesco. Il loro tocco gelido si posa ovunque. Stanno volgarizzando l’umanità. La cruda commercializzazione dell’America, il suo spirito materialista, la sua indifferenza verso il lato poetico delle cose, la mancanza di immaginazione e di ideali di nobiltà attendibili sono dovuti interamente a quel paese che ha adottato come eroe nazionale un uomo che, secondo la sua stessa confessione, era incapace di dire una sola bugia, e non esageriamo a dire che la storia di George Washington e dell’albero di ciliegie ha fatto più danni, e nel minor tempo, di qualsiasi altro racconto morale di tutta la letteratura.
CYRIL: Caro mio!
VIVIAN: Ti assicuro che è così. E la parte più divertente di tutto questo è che la storia del ciliegio non è nient’altro che un mito. Comunque non devi pensare che io sia troppo pessimista riguardo al futuro artistico sia dell’America che del nostro paese. Ascolta questo:
Non v’è il benché minimo dubbio che un cambiamento dovrà aver luogo prima della fine del secolo. Annoiati dalla tediosa e continua conversazione di coloro che non possiedono né l’acutezza per esagerare né il genio per fantasticare, annoiati dalle persone intelligenti i cui ricordi sono sempre basati sulla memoria, le cui affermazioni sono invariabilmente limitate dalla probabilità, e che in qualsiasi momento un qualsiasi filisteo capitato per caso potrebbe confermare, la Società, prima o poi, dovrà tornare ai suoi perduti condottieri, i colti e affascinanti bugiardi. Chi fu il primo che, senza neanche uscire a caccia, narrò al rozzo cavernicolo sul calar del sole come avesse trascinato il megaterio fuori dalla purpurea oscurità della sua tana di diaspro, o come avesse ucciso il mammuth in un combattimento a due, riportando poi le sue zanne dorate, questo noi non possiamo saperlo, e nessuno dei moderni antropologhi, per quanto sia vasta la loro ostentata scienza, ha avuto il coraggio di dircelo. Qualunque sia stato il suo nome o la sua razza, egli fu per certo il vero fondatore dei rapporti sociali. Poiché lo scopo del mentitore è solo quello di affascinare, donar godimento. Egli è la vera base della società civilizzata e senza di lui una festa, anche se data in casa di grandi, è uggiosa come una conferenza alla Royal Society, come un dibattito alla società degli Autori o come una delle commedie farsesche di Burnand.
Né sarà solo la società ad accoglierlo con favore. L’Arte, liberandosi dalla prigione del realismo, gli correrà incontro per salutarlo e bacerà le sue bellissime e false labbra consapevole del fatto che lui, e lui solo, possiede il grande segreto di tutte le sue manifestazioni, e che la Verità è interamente e assolutamente una questione di stile. Mentre la Vita – la povera, prevedibile e noiosa vita umana – stanca di ripetersi a beneficio di Herbert Spencer, di storici scientifici e compilatori di statistiche in generale, lo seguirà mite e cercherà di riprodurre, col suo stile semplice e non colto, alcune delle meraviglie di cui egli parla. Indubbiamente ci saranno sempre critici che, come certi collaboratori del «Saturday Review», censureranno gravemente chi racconta storie di fate, con la motivazione che manca la conoscenza della storia naturale, scrittori che misureranno l’opera di fantasia con la loro propria mancanza di immaginazione e, inorriditi, alzeranno le mani macchiate d’inchiostro se qualche onesto gentiluomo, che non si è mai avventurato oltre il tasso del proprio giardino, scrive un avvincente libro di viaggi come John Mandeville, o come il grande Raleigh, oppure se pubblica una storia universale del mondo senza sapere una sola cosa del passato. Per scusarsi, cercheranno di difendersi dietro lo scudo di colui che ha creato Prospero il mago e gli ha dato come servitori Calibano e Ariele, che ha sentito i Tritoni suonare il corno sulle barriere coralline dell’Isola Incantata, che ha condotto i Re fantasma in processione triste per la brumosa brughiera scozzese e ha nascosto Ecate in una caverna insieme alle sue strane sorelle. Chiameranno in causa Shakespeare – lo fanno sempre – e citeranno quel brano controverso, dimenticando che l’infelice aforisma sull’Arte che tiene lo specchio dinanzi alla Natura, è pronunciato da Amleto intenzionalmente per convincere gli astanti della sua completa follia riguardo alle questioni d’arte.
CYRIL: Ehm, un’altra sigaretta, per piacere.
VIVIAN: Caro amico, qualunque cosa tu possa dire, essa è solo un’espressione teatrale ed è indicativa delle vere idee di Shakespeare sull’arte né più né meno di come lo è il discorso di Iago sulla morale. Ma fammi arrivare alla fine del mio paragrafo:
L’Arte trova la propria perfezione all’interno e non all’esterno di se stessa. Non deve essere giudicata con un qualsiasi metro di verosimiglianza. Essa è un velo, più che uno specchio. Possiede fiori che le foreste non conoscono, volatili che mai nessun bosco ha ospitato. Fa e disfà molti mondi e può tirar giù dal cielo la luna usando un nastro scarlatto. Sue sono le forme «più reali dell’uomo vivente», suoi sono i grandi archetipi di cui gli oggetti esistenti non sono che delle copie incompiute. Ai suoi occhi la Natura non ha leggi, non ha uniformità. Può far miracoli a suo piacere, e al suo appello i mostri escono dagli abissi. Può ordinare al mandorlo di fiorire in inverno e può mandare una nevicata sul campo di grano maturo. Una sua parola, e il gelo chiude con le sue dita argentee l’ardente bocca di Giugno, i leoni alati sgusciano fuori dalle cavità delle colline lidie. Le Driadi fanno capolino dai cespugli al suo passaggio, e i bruni fauni le sorridono stranamente quando essa si avvicina. Ha Dei dai volti di falco che l’adorano e i centauri le galoppano al fianco.
CYRIL: Questo mi piace, riesco quasi a vederli. È finito?
VIVIAN: No, c’è ancora un paragrafo, ma è puramente pratico. Suggerisce semplicemente alcuni metodi attraverso i quali potremmo far rivivere l’arte della menzogna.
CYRIL: Bene, prima che tu prosegua la tua lettura, vorrei porti una domanda. Cosa intendevi con le parole «la vita, la povera, prevedibile e noiosa vita» cercherà di riprodurre le meraviglie dell’arte. Posso comprendere le tue obiezioni sull’arte considerata come specchio. Tu pensi che ridurrebbe il genio alla stessa stregua di uno specchio frantumato. Ma non mi vorrai dire che davvero credi che la vita imiti l’arte, che, in pratica, la Vita è lo specchio, e l’Arte la realtà?
VIVIAN: Certo che è così. Nonostante sembri un paradosso, e i paradossi sono sempre pericolosi, è vero che la vita imita l’arte più di quanto l’arte non imiti la vita. Tutti oggigiorno in Inghilterra vediamo come un certo tipo di bellezza, curiosa e ammaliante, inventata ed enfatizzata da due pittori fantasiosi, abbia influenzato a tal punto la vita che ovunque si vada, si possono vedere là gli occhi mistici del sognante Rossetti, il lungo collo eburneo e la particolare mandibola squadrata, l’ondulata chioma sciolta che egli ha tanto amato, oppure la dolce purezza della Golden Stair, la bocca a corolla e la languida bellezza del Laus Amoris, il volto pallido di passione di Andromeda, le mani sottili e la flessuosa grazia del Vivian in Merlin’s Dream. È sempre stato così. Il grande artista crea una tipologia, e la vita cerca di copiarla, di riprodurla in forma popolare, come un editore intraprendente. Né Holbein né Van Dyck hanno trovato in Inghilterra ciò che ci hanno poi regalato. Avevano portato con loro le tipologie, e la vita con il suo spirito imitativo si è apprestata a fornir loro i modelli. I Greci, con il loro pronto istinto artistico, lo avevano capito, e mettevano nella camera della sposa una statua di Ermete o di Apollo, perché potesse dare alla luce dei figli belli come le immagini che aveva davanti agli occhi, nella gioia e nel dolore. Essi sapevano che la vita non solo trae vantaggio spirituale dall’arte, profondità di pensiero e di sentimento, turbinio o pace dell’anima, ma che essa può dar forma alle linee e ai colori dell’arte, può riprodurre la dignità di Fidia come la grazia di Prassitele. Da qui le loro obiezioni al realismo. Non lo amavano in base a motivi sociali; avevano la sensazione che inevitabilmente imbruttisse le persone, e avevano tutte le ragioni. Si cerca di migliorare le condizioni della gente dicendo loro di respirare aria buona, di prendere il sole liberamente, di bere acqua sana e si costruiscono orribili casamenti squallidi per dare accoglienza agli strati sociali più bassi. Ma tutto questo contribuisce alla buona salute, non alla bellezza. Per quest’ultima ci vuole l’arte e i veri discepoli del grande artista non sono i suoi copiatori da studio, ma coloro che diventano come le sue opere d’arte, siano plastici, come ai tempi dei Greci, sia pittorici come ai nostri tempi; in una parola, la Vita è la migliore, la sola allieva dell’Arte.
Così come con le arti visive, lo stesso accade con la letteratura. L’esempio più volgare e ovvio di dimostrazione di ciò è quello di quegli sciocchi ragazzini che, dopo aver letto le avventure di Jack Sheppard o di Dick Turpin, rubacchiano dal carretto della venditrice di mele sfortunata, si introducono nei negozi di dolciumi di notte e spaventano gli anziani gentiluomini che rincasano assaltandoli nei vicoli di periferia, con indosso maschere nere e pistole scariche. Quest’interessante fenomeno, di cui si sente sempre parlare dopo l’uscita di libri simili a quelli a cui facevo riferimento poc’anzi, è generalmente attribuito all’influenza che ha la letteratura sull’immaginazione. Ma questo è un errore. L’immaginazione è essenzialmente creativa, ed è sempre in cerca di nuove forme. Un ladruncolo è solo il risultato inevitabile dell’istinto imitativo della vita. Egli è un Fatto, e come tale è occupato come al solito a cercare di riprodurre la Fantasia, e ciò che vediamo in lui si ripete su scala maggiore lungo il corso di tutta la vita. Schopenhauer ha analizzato il pessimismo che caratterizza il pensiero contemporaneo, ma a inventarlo è stato Amleto. Il mondo è diventato triste perché un tempo una marionetta soffrì di malinconia. Il Nichilista, quello strano martire senza fede che senza entusiasmo sale il patibolo, e muore per ciò in cui non crede, è un prodotto puramente letterario. Fu inventato da Turgenief e completato da Dostoievsky. Robespierre è sortito dalle pagine di Rousseau come, sicuramente, il Palazzo del Popolo è nato dalle macerie di un romanzo. La letteratura anticipa sempre la Vita. Non la copia ma la modella secondo i suoi scopi. Il diciannovesimo secolo come noi lo conosciamo è, in larga misura, un’invenzione di Balzac. I nostri Lucien de Rubempré, i Rastignac e i de Marsay hanno fatto la loro prima apparizione sul palcoscenico della Comédie Humaine. Stiamo semplicemente portando avanti, con note a piè di pagina e inutili aggiunte, il capriccio, la fantasia o la visione creativa di un grande romanziere. Una volta chiesi a una signora che era in confidenza con Thackeray, se egli si fosse ispirato a qualcuno per creare il personaggio di Becky Sharp. Lei mi rispose che Becky era del tutto frutto della fantasia, ma che l’idea di quel personaggio gli era stata in parte suggerita da una governante che viveva nei pressi di Kensington Square, dama di compagnia di una signora anziana ricca ed egoista. Le chiesi cosa fosse accaduto in seguito della governante e lei mi rispose che, in modo piuttosto bizzarro, qualche anno dopo la pubblicazione di Vanity Fair, la giovane fuggì col nipote della ricca signora da lei accudita e per un breve periodo fece una gran vita di società, proprio come Mrs. Crowley. Infine cadde in disgrazia, partì per il continente, la si vide di tanto in tanto a Montecarlo e altri luoghi famosi per il gioco d’azzardo. Il nobile gentiluomo, da cui lo stesso gran sentimentale trasse il personaggio del Colonnello Newcome in The Newcomes, morì qualche mese dopo l’uscita della quarta edizione del libro, con sulle labbra le parole «Adsun». Poco tempo dopo la pubblicazione della curiosa storia psicologica sulla trasformazione di Stevenson, un mio amico, di nome Hyde, si venne a trovare nel nord di Londra. Aveva fretta di raggiungere la stazione, perciò imboccò quella che pensava fosse una scorciatoia; ma si perse e si ritrovò in un dedalo di vicoli tristi e malfamati. Cominciò a innervosirsi e prese a camminare sempre più svelto, quando all’improvviso, da sotto un’arcata, sbucò un ragazzino che correndo andò a finirgli fra le gambe. Il piccolo cadde, il mio amico inciampò calpestandolo. Spaventato e dolorante il bambino si mise a gridare e in pochi minuti l’intera strada si riempì di gentaglia che sciamava fuori dalle case come formiche. Lo circondarono, gli chiesero come si chiamasse. Lui stava quasi per dirlo, quando, d’un tratto, si ricordò l’incidente che apre il romanzo di Stevenson. Fu colto da un tale orrore nel rendersi conto che stava vivendo in prima persona quella scena così ben scritta e terribile, che inconsapevolmente aveva agito come il Mr. Hyde della finzione, che se la dette a gambe. Quella gente continuò a seguirlo da vicino e alla fine egli si rifugiò in un gabinetto medico la cui porta era rimasta aperta. Al giovane assistente che si trovava lì, egli spiegò nei dettagli ciò che era accaduto. La folla umanitaria fu persuasa ad andarsene dietro pagamento di una piccola somma di denaro e, appena la strada fu libera, egli se ne andò. Uscendo, l’occhio gli cadde sulla targa di ottone sulla porta del gabinetto medico. C’era scritto «Jekyll». O almeno avrebbe dovuto.
In questo caso l’imitazione, fin dove arriva, fu ovviamente accidentale. Nel caso che segue, l’imitazione è, invece, volontaria. Nel 1879, subito dopo aver lasciato Oxford, al ricevimento di un ministro degli Esteri, incontrai una donna dalla bellezza curiosa ed esotica. Diventammo grandi amici e trascorrevamo molto tempo insieme. Però quello che mi interessava di lei non era la sua bellezza, bensì il suo carattere, la totale vaghezza del suo carattere. Sembrava mancare completamente di una personalità, ma aveva la possibilità di averne moltissime. Una volta si dedicava all’arte anima e corpo, facendo del suo salotto uno studio, visitando gallerie e musei due o tre giorni alla settimana. Poi cambiava per interessarsi delle corse dei cavalli, indossava abiti da perfetta amazzone, e non parlava che di scommesse. Lasciava la religione per l’ipnotismo, l’ipnotismo per la politica, la politica per gli eccitamenti melodrammatici della filantropia. In effetti, lei era una sorta di Proteo, e il fallimento di tutte le sue trasformazioni ricorda quello straordinario Dio marino quando fu catturato da Odisseo. Un giorno, su una rivista francese, prese avvio un romanzo a puntate. A quel tempo ero solito leggerli e ben rammento quanto rimasi colpito dalla sorpresa dinanzi alla descrizione dell’eroina. Era così somigliante alla mia amica che le portai la rivista, lei vi si riconobbe immediatamente e rimase affascinata dall’analogia. Devo aggiungere che la storia era tradotta dal romanzo di un certo scrittore russo ormai morto, quindi l’autore non poteva certo essersi ispirato alla mia amica. Be’, per farla breve, qualche mese più tardi mi trovavo a Venezia, e nella sala di lettura del mio albergo trovai una copia di quella rivista. La presi, un po’ per caso, per vedere cosa era accaduto all’eroina. La storia era piuttosto triste, dal momento che la ragazza aveva finito per fuggire con un uomo assolutamente inferiore a lei, non solo per condizione sociale ma anche per carattere e intelligenza. Quella sera scrissi alla mia amica, le parlai delle mie opinioni su John Bellini, degli stupendi gelati del Florian, del valore artistico delle gondole per poi aggiungere un post scriptum che narrava della sua analoga del romanzo a puntate e del suo sciocco comportamento. Non so perché feci questa aggiunta, ma ricordo di aver avuto il presentimento che lei si sarebbe potuta comportare allo stesso modo. Prima ancora di ricevere la mia lettera, lei era fuggita con un uomo che l’avrebbe abbandonata sei mesi dopo. La rividi nel 1884, a Parigi, dove viveva con sua madre, e le chiesi se il romanzo avesse avuto qualche influenza sul suo comportamento. Lei mi rispose di aver provato l’impulso irrefrenabile di seguire passo per passo le azioni della protagonista nel suo bizzarro e fatale percorso. Era con una vera sensazione di terrore che aveva atteso gli ultimi capitoli della storia. Quando uscirono, si sentì obbligata a seguirli e riprodurli nella realtà, e così fece. È un chiaro esempio di istinto imitativo di cui ho parlato poc’anzi, ed è inoltre di un tipo estremamente tragico.
Comunque, non desidero soffermarmi oltre su questioni individuali. L’esperienza personale costituisce un circolo vizioso e limitato. Quello che mi preme sottolineare è il principio generale per cui la Vita imita l’Arte più di quanto l’Arte imiti la Vita, e sono certo che se ci pensi con attenzione, anche tu troverai che è vero. La Vita porge lo specchio all’Arte: o essa riproduce qualche strano tipo immaginato dallo scultore o dal pittore, o realizza di fatto ciò che nella finzione è stato sognato. Scientificamente parlando, la base della vita – l’energia della vita, come la chiamerebbe Aristotele – è semplicemente il desiderio di esprimersi, e l’arte ci presenta continuamente molteplici forme attraverso le quali l’espressione può realizzarsi. La vita si impossessa di esse e le usa anche se le possono recare danno. Ci sono stati giovani che si sono suicidati perché così è morto Rolla, si sono inflitti la morte perché la stessa cosa la fece Werther. Pensa solo a ciò che dobbiamo all’imitazione di Cristo, a quello che dobbiamo all’imitazione di Cesare.
CYRIL: Come teoria è davvero curiosa, ma per renderla completa dovresti dimostrare che la Natura, non meno della Vita, è imitazione dell’Arte. Sei pronto a dimostarlo?
VIVIAN: Caro amico, sono pronto a dimostrarti qualsiasi cosa.
CYRIL: La Natura, quindi, segue l’opera del paesaggista e ne subisce l’influenza?
VIVIAN: Certamente. Da dove, se non dagli Impressionisti, nascono quelle stupende nebbie che velano le nostre strade, rendono tremuli i lampioni a gas, trasformano le case in mostruose ombre? A chi, se non a loro e ai loro maestri, dobbiamo la graziosa nebbiolina argentea che indugia sul nostro fiume e trasforma in immagine indefinita di fugace grazia il curvo ponte e il barcone ondeggiante? La straordinaria variazione di clima avvenuta a Londra negli ultimi dieci anni è dovuta interamente a una scuola d’arte. Tu sorridi; considera la questione dal punto di vista scientifico o metaforico, e vedrai che ho ragione. Perché, che cosa è la Natura? Non è la grande madre che ci ha generato. È una nostra creatura. È nella nostra mente che essa prende vita subitanea. Le cose esistono perché noi le vediamo; quel che vediamo e come lo vediamo dipende dalle arti che ci influenzano. Guardare qualcosa è molto diverso da vedere qualcosa. Non si vede nulla se non si vede la bellezza della cosa. Allora, e solo allora, essa acquista esistenza. Oggigiorno, vediamo la nebbia non perché essa esista, ma perché pittori e poeti ci hanno insegnato quale sia la misteriosa grazia del suo effetto. La nebbia può sempre esserci stata a Londra, e devo dire che è così. Ma nessuno l’ha vista, e non ne sapevamo niente; essa non è esistita fintanto che l’Arte non l’ha inventata. Adesso dobbiamo ammettere che abbiamo l’eccesso opposto; è diventato il puro manierismo di una cricca di persone e l’esagerato realismo del loro metodo fa venire la bronchite ai più ottusi. Quando la persona colta riesce a prendere l’effetto, quella ignorante prende solo il raffreddore. Perciò, cerchiamo di essere umani, e invitiamo l’Arte a volgere il suo meraviglioso sguardo su qualcos’altro. In effetti essa l’ha già fatto: quella tremula bianca luce solare che vediamo in Francia di questi tempi, le sue strane screziature color malva, le ombre violette in costante movimento, queste sono le ultime trovate, e, in generale, la natura è capace di riprodurle piuttosto bene. Precedentemente essa era solita regalarci i Corot e i Daubigny, adesso ci offre dei deliziosi Monet e degli affascinanti Pissarro. Ci sono dei momenti, rari è vero ma occasionalmente ci sono, in cui la Natura diventa assolutamente moderna. Va da sé che non sempre ci si può fidare. Il fatto è che essa si trova in una posizione infelice: l’Arte crea un effetto unico e incomparabile, dopo di che passa ad altro. La Natura, da parte sua, dimenticando che è imitazione, può trasformarsi in una delle forme più schiette di insulto, e continuare a ripetere il suo effetto finché tutti noi non ne finiamo stanchi. Ad esempio, ai giorni nostri, nessuno che abbia una vera cultura parla mai della bellezza di un tramonto. I tramonti sono decisamente fuori moda. Appartengono a un’epoca in cui l’ultima moda era Turner, per l’arte. Ammirarli denota provincialismo di carattere. Comunque essi continuano a esserci. Ieri sera Mrs. Arundel ha insistito perché io andassi alla finestra ad ammirare il glorioso cielo, come lo chiama lei. Naturalmente ho dovuto guardarlo. Lei è una di quelle filistee così assurdamente graziose che è impossibile negarle qualcosa. E che cosa ho visto? Solo un Turner di second’ordine, un Turner del periodo minore, con tutti i peggiori difetti della sua pittura portati all’estremo, eccessivamente enfatizzati. Sono pronto ad ammettere che la Vita, molto spesso, commette gli stessi errori. Produce falsi René e Vautrin fittizi, proprio come ce li dona la Natura, un giorno ci dà un dubbioso Cuyps e il giorno dopo un più che discutibile Rousseau. Tuttavia la Natura è ancora più irritante quando si comporta così; sembra stupida, ovvia e inutile. Un falso Vautrin può essere delizioso. Ma un Cuyps di cui si dubiti è insopportabile. Comunque, non voglio essere severo con la Natura. Vorrei solo che il canale della Manica, specie a Hastings, non assomigliasse così tanto a un Henry Moore, grigio perla con sprazzi gialli; ma in seguito, quando l’Arte diverrà più varia, lo sarà anche la Natura. Che essa imiti l’Arte, a questo punto non lo negherebbe neanche il suo peggior nemico. È qualcosa che la tiene in contatto con l’uomo civilizzato. Pensi che ti abbia dimostrato la mia teoria in modo soddisfacente?
CYRIL: Sì, l’hai dimostrata, anche se non sono molto soddisfatto, il che è persino meglio. Ma, pur ammettendo lo strano istinto imitativo della Vita, sicuramente converrai con me che l’Arte esprime il carattere di un’epoca, lo spirito del suo tempo, le condizioni morali e sociali che la circondano, sotto l’influenza delle quali essa trova realizzazione pratica.
VIVIAN: Certo che no! Non esprime nient’altro che se stessa. Questo è il principio della mia nuova estetica; ed è questo, più che la connessione vitale fra forma e contenuto su cui punta Pater, che rende fondamentale la tipologia di tutte le arti. Ovviamente le nazioni e gli individui, con la naturale e salubre vanità che è il segreto della loro esistenza, hanno sempre la sensazione che sia di loro che le Muse stanno parlando; essi cercano sempre il riflesso delle loro torbide passioni nella calma dignità dell’arte immaginativa, dimenticando che il cantore della Vita non è Apollo ma Marsia. Lontana dalla realtà, lo sguardo distolto dalle ombre proiettate nella caverna, l’Arte rivela la propria perfezione. La folla incantata che osserva lo sbocciare della rosa dai mille petali, immagina che si stia parlando della sua storia, del proprio spirito che trova nuove forme di espressione. Ma non è così. L’Arte più alta rifiuta il fardello dello spirito umano, ottiene di più da un nuovo strumento, da una nuova materia che da un qualsiasi entusiasmo per l’arte, da una suprema passione, da un grande risveglio della coscienza umana. Essa cresce solo sulle proprie linee. Non è simbolo di nessuna epoca. Le epoche sono suoi simboli.
Persino coloro che sostengono che l’arte è rappresentativa del suo periodo storico, del suo popolo e del luogo dove nasce, non possono fare a meno di ammettere che più l’arte è imitativa, meno essa rappresenta per noi lo spirito del suo tempo. Le facce cattive degli imperatori romani ci guardano dal sudicio porfido e dal diaspro macchiato con i quali gli artisti realistici dell’epoca si dilettavano di lavorare; noi crediamo di ravvisare in quelle labbra crudeli, nelle pesanti e sensuali mandibole, il segreto della rovina dell’Impero. Ma non è così. I vizi di Tiberio non potevano distruggere quell’elevata civiltà, non più di quanto essa avrebbe potuto essere salvata dalle virtù degli Antonini. Essa cadde per altre, per ben meno interessanti ragioni. Le Sibille, i Profeti della Sistina possono davvero aiutare qualcuno di noi a interpretare la nuova nascita di quello spirito emancipato che chiamiamo Rinascimento. Ma cosa ci dicono gli zotici ubriachi e i contadini urlanti dell’arte olandese, riguardo alla grande anima di quel paese? Più astratta, più ideale è un’arte, tanto più essa ci rivela il carattere della sua epoca. Se desideriamo comprendere una nazione attraverso l’arte, prendiamo la sua architettura e la sua musica.
CYRIL: Su questo sono d’accordo. Lo spirito di un’epoca è espresso in modo migliore dalle arti astratte e ideali, poiché lo spirito stesso è astratto e ideale. D’altra parte, per quel che riguarda il lato visivo di un’epoca, per quanto concerne il suo aspetto, diciamo, dobbiamo ovviamente prendere in considerazione le arti imitative.
VIVIAN: Non credo. Dopo tutto ciò che ci offrono le arti imitative sono solo i vari stili di particolari artisti, o di certe scuole di artisti. Non crederai davvero che le persone del Medioevo avessero lo stesso aspetto delle figure che ci appaiono sulle opere in metallo di quel periodo, sugli arazzi o sui manoscritti miniati. Probabilmente si trattava di persone dall’aspetto del tutto comune, con niente di grottesco, di notevole o particolarmente fantastiche a vedersi. Il Medioevo, come noi lo conosciamo attraverso l’arte, è solo una forma ben definita di stile e non c’è nessuna ragione per la quale lo stesso tipo di artista non possa trovarsi nel diciannovesimo secolo. Nessun grande artista vede le cose come veramente sono. Se lo facesse cesserebbe di essere artista. Prendiamo un esempio dei nostri giorni. So che tu hai una passione per l’arte giapponese. Pensi forse che la gente giapponese sia così come la loro arte la rappresenta? Se sì, allora non hai capito niente dell’arte di quel popolo. I giapponesi sono una deliberata creazione di certi singoli artisti. Se metti un quadro di Hokusai o di Hokkei, o qualsiasi altro artista del genere, accanto a un uomo o una donna reali, vedrai che tra di loro non c’è la benché minima somiglianza. La vera gente che vive in Giappone non è dissimile, in generale, a quella inglese, cioè è estremamente ordinaria, non ha niente di straordinario o di curioso. In realtà tutto il Giappone non è che una pura invenzione. Quel Paese e il suo popolo non esistono. Uno dei nostri pittori più interessanti è stato recentemente nella Terra dei Crisantemi, nella sciocca speranza di vederne qualcuno. Tutto ciò che ha visto, tutto quello che ha avuto l’opportunità di dipingere, è stato alcune lanterne e qualche ventaglio. Gli è stato praticamente impossibile scoprire gli abitanti – come si può vedere anche troppo chiaramente dalla mostra tenutasi alla galleria delle signore Dowdswell! Lui non sapeva che, come ho già detto, i giapponesi sono solo un tipo di stile, una squisita fantasia artistica. Perciò, se vuoi avere una sensazione giapponese, non ti comportare da turista andando a Tokyo. Al contrario, resta a casa e immergiti nelle opere di certi artisti giapponesi; poi, quando avrai assorbito lo spirito del loro stile e afferrato la loro fantastica maniera di vedere, tornerai a casa un pomeriggio, ti siederai nel parco o passeggerai per Piccadilly e se là non riuscirai a percepire la sensazione del Giappone, allora non la percepirai da nessuna parte. Oppure, tornando al passato, prendiamo l’esempio degli antichi Greci. Pensi forse che l’arte greca abbia descritto come fosse la gente di quel paese? Credi che le donne di Atene siano state come quelle nobili e dignitose figure che ornano i fregi del Partenone, o come quelle meravigliose dee che siedono sulle basi triangolari dello stesso edificio? Se giudichi dall’arte, certo erano così. Ma leggi un’autorità come Aristofane, ad esempio. Scoprirai che le donne ateniesi si stringevano in busti, indossavano scarpe con i tacchi alti, si tingevano di giallo i capelli, si truccavano il viso di rosso ed erano esattamente come qualsiasi altra sciocca creatura alla moda dei nostri giorni. Il fatto è che guardiamo ai secoli passati solo attraverso il mezzo artistico e l’arte, per nostra gran fortuna, non ci ha mai detto una sola volta la verità.
CYRIL: Ma dei ritratti moderni dei pittori inglesi, cosa ne dici? Sono sicuramente molto somiglianti alle persone che hanno la pretesa di rappresentare.
VIVIAN: Esatto. Sono talmente somiglianti che, nel giro di cento anni, nessuno ci crederà. I soli ritratti credibili sono quelli che hanno poco della persona ritratta e molto dell’artista che li ha dipinti. I disegni di uomini e donne fatti da Holbein ci colpiscono per la sensazione di assoluta realtà che ci comunicano. Ma ciò accade perché Holbein ha costretto la vita ad accettare le sue condizioni, a rispettare i limiti da lui imposti, a riprodurre la sua tipologia e farli apparire come lui voleva che apparissero. È il suo stile che ci fa credere nelle cose, nient’altro che lo stile. La maggior parte dei nostri ritrattisti moderni sono condannati all’oblio assoluto. Dipingono ciò che vede il pubblico e il pubblico non vede mai niente.
CYRIL: Be’, dopo ciò credo che vorrò sentire la fine del tuo articolo.
VIVIAN: Con piacere. Se ti farà bene o male, questo davvero non saprei dirtelo. Il nostro è sicuramente il più prosaico e il più ottuso dei secoli. Persino il Sonno ci ha traditi, ha chiuso i suoi cancelli eburnei per spalancare quelli di corno. I sogni della grande classe media di questo paese, come ha rilevato Myers nei suoi due voluminosi tomi su quest’argomento e secondo i resoconti dell’Associazione Psicologica, sono fra i più deprimenti che io abbia mai letto. Fra di essi non c’è neanche un bell’incubo. Sono ordinari, squallidi e noiosi. Per quanto riguarda la Chiesa, non riesco a concepire niente di meglio, per la cultura di un paese, che la presenza di una corporazione di uomini il cui dovere è credere nel soprannaturale, eseguire quotidianamente miracoli e mantenere viva quella facoltà mitopoietica che è di fondamentale importanza per l’immaginazione. Purtroppo nella Chiesa d’Inghilterra un uomo può aver successo non per la sua capacità di fede, bensì per la sua capacità di scetticismo. La nostra è l’unica chiesa in cui lo scettico sta all’altare, e in cui San Tommaso è considerato l’apostolo ideale. Molti degni sacerdoti che trascorrono la vita dedicandosi ad ammirevoli opere di amabile carità, vivono e muoiono senza esser notati, del tutto sconosciuti; ma basta che qualunque diplomato ignorante e superficiale venuto da una università qualsiasi salga sul pulpito a esternare i suoi dubbi sull’arca di Noè o sull’asino di Balaam o su Giona e la balena, perché mezza Londra sciami là ad ascoltarlo a bocca aperta, rapita dall’ammirazione per quel superbo intelletto. La crescita del buon senso nella Chiesa d’Inghilterra è davvero qualcosa da rimpiangere. È una concessione degradante verso una profonda forma di realismo. E per di più sciocca. Essa nasce dalla completa ignoranza della psicologia. L’uomo può credere nell’impossibile, ma non crederà mai nell’improbabile. Comunque, devo leggerti la fine del mio articolo:
Ciò che dobbiamo fare, o in ogni caso è nostro dovere fare, è rinverdire la vecchia arte della Menzogna. Si può far molto a livello di istruzione del pubblico, a opera di appassionati nella cerchia domestica, ai pranzi letterari o ai tè del pomeriggio. Si tratta, però, dell’aspetto più lieve e divertente del mentire, come probabilmente accadeva a qualche riunione conviviale a Creta. Ci sono molte altre forme. Mentire per ottenere un qualche immediato vantaggio personale, ad esempio – mentire per scopi morali, come generalmente lo si definisce: anche se di recente questa forma sia stata piuttosto trascurata, era estremamente diffusa nel mondo antico. Atena ride quando Odisseo le dice «le sue parole elaborate con astuzia», come riporta William Morris; la gloria della mendacia illumina la pallida fronte dell’eroe senza macchia nella tragedia euripidea e fra le nobildonne del passato colloca la giovane sposa di una delle più delicate odi di Orazio. In seguito, quello che era iniziato semplicemente come istinto naturale assurse a scienza consapevole. Si svilupparono elaborate regole per guidare l’umanità, e sull’argomento crebbe un’importante scuola letteraria. Quando si ricorda l’eccellente saggio filosofico di Sanchez sulla questione, non si può davvero far a meno di lamentarsi del fatto che nessuno abbia mai pensato a pubblicarne un’edizione concisa ed economica. Il breve manuale Quando mentire e come, se edito in forma gradevole e poco costosa, porterebbe vendite notevoli e si dimostrerebbe di grande utilità pratica per molte oneste persone tutt’altro che superficiali. Mentire al fine di render migliori i giovani, basilare per l’istruzione domestica, è cosa che tuttora resiste e i suoi vantaggi sono tanto mirabilmente esposti nei primi libri della Repubblica di Platone, che è superfluo soffermarcisi adesso. È un tipo di menzogna per la quale le buone madri hanno una predisposizione particolare ma che potrebbe esser ulteriormente sviluppata se non fosse infelicemente trascurata dalla Commissione per l’Istruzione. Mentire per percepire uno stipendio mensile è cosa ben conosciuta a Fleet Street, naturalmente, e la professione di articolista politico non è senza vantaggi. Tuttavia dicono che come occupazione sia piuttosto noiosa e sicuramente non porta molto oltre a una sorta di ostentata oscurità. L’unica forma di menzogna, su cui non c’è nulla da obiettare, è la menzogna fine a se stessa, insieme al suo sviluppo più elevato che è, come già sottolineato, la Menzogna nell’Arte. Esattamente come coloro che non amano Platone più della Verità non possono oltrepassare la soglia dell’Accademia, allo stesso modo quelli che non amano la Bellezza più della Verità non conosceranno mai il tempio più intimo dell’Arte. Il solido e stolido intelletto britannico giace sulle sabbie del deserto come la Sfinge nel meraviglioso racconto di Flaubert, e la fantasia, chimère, vi danza intorno invocandolo con la sua mendace voce flautata. Può anche non udirla adesso, ma un giorno, di sicuro, quando ci saremo tutti stancati a morte dei personaggi tratti da luoghi comuni tipici della narrativa moderna, l’ascolterà e vorrà farsi prestare le sue ali.
E quando quel giorno spunterà, o rosseggerà il tramonto, come saremo tutti felici! I Fatti verranno considerati inattendibili, la Verità piangerà sulle proprie catene e il Romanzesco, col suo carattere di meraviglia, tornerà sulla nostra terra. L’aspetto stesso del mondo cambierà dinanzi ai nostri occhi stupiti. Dal mare si leveranno Behemoth e Leviatano, veleggeranno i galeoni dalle alte poppe, così come si vede sulle belle mappe dei tempi in cui i libri di geografia si potevano davvero leggere. I draghi vagheranno per le lande sperdute, la Fenice risorgerà dal suo nido di fuoco alzandosi al cielo. Potremo posar la mano sul basilisco e scorgere la gemma nella testa del rospo. Ruminando avena dorata, l’Ippogrifo starà nelle nostre stalle e sopra le nostre teste volerà l’Uccello azzurro cantando di cose bellissime e impossibili, delle belle cose che mai accadono, di cose che non esistono ma che dovrebbero. Però, prima che tutto questo avvenga, dobbiamo coltivare la perduta arte della Menzogna.
CYRIL: Allora, dobbiamo coltivarla subito. Per evitare di far errori, comunque, voglio che tu mi esponga le dottrine della nuova estetica.
VIVIAN: In breve, dunque, sono queste. L’Arte non esprime mai nient’altro che se stessa. Essa ha una vita a sé, proprio come l’ha il Pensiero, e trova sviluppo solo partendo dalle sue linee. Non è necessariamente realistica in un’epoca realistica, né spirituale in un’epoca di fede. Quindi, lungi dall’essere creazione dei suoi tempi, è invece di solito in diretta opposizione a essi, e la sola storia che conserva per noi è quella del suo proprio progredire. A volte essa torna sui suoi passi, fa rivivere alcune antiche forme, come è successo col movimento arcaico della tarda Arte greca e ai nostri giorni col movimento Preraffaellita. Altre volte addirittura anticipa i suoi tempi e produce in un secolo opere che saranno comprese solo il secolo successivo e solo allora apprezzate e godute appieno. In nessun caso essa riproduce la sua epoca. Mettere in relazione l’arte di un periodo storico e il periodo storico stesso è il grande errore commesso da tutti gli storici.
La seconda dottrina è la seguente. Tutta l’arte scadente deriva dal ritorno alla Vita e alla Natura e dalla elevazione di queste a ideali. Vita e Natura possono a volte essere usate come materia prima dell’Arte, ma prima che esse diventino di vero aiuto all’Arte devono esser tradotte in convenzioni artistiche. Nel momento in cui l’Arte rifiuta il mezzo immaginativo, essa rifiuta tutto. Come metodo il Realismo è un completo fallimento e le due cose che un artista dovrebbe evitare sono la modernità di forma e la modernità di soggetto. Per noi, che viviamo nel diciannovesimo secolo, ogni secolo è adatto come argomento, tranne il nostro. Le sole cose belle sono quelle che non ci riguardano. Per aver il piacere di citar me stesso, dirò che Ecuba è un argomento perfetto per una tragedia, giusto perché i suoi dolori sono lontani da noi. Inoltre solo il moderno ha la capacità di andar fuori moda. Zola si siede e ci offre l’immagine del Secondo Impero. A chi importa adesso del Secondo Impero? È fuori moda. La Vita va più veloce del realismo, ma il Romanticismo ha sempre vantaggio su di essa.
La terza dottrina è che la Vita imita l’Arte molto più di quanto l’Arte imiti la Vita. Questo è dovuto non solo all’istinto imitativo della Vita, ma al fatto che lo scopo cosciente della Vita è quello di trovar espressione, e che l’Arte le offre alcune bellissime forme attraverso le quali essa può metter in pratica la sua energia. È una teoria che non è mai stata espressa prima, ma è davvero proficua e getta una luce completamente nuova sulla storia dell’arte.
Ne segue, come corollario, che anche la Natura esterna imita l’Arte. Le sole impressioni che essa ci mostra sono quelle che già abbiamo visto attraverso la poesia o la pittura. Questo è il segreto del fascino della Natura, così come la ragione della sua debolezza.
La rivelazione finale è che la Menzogna, il raccontare cose bellissime e false, è lo scopo precipuo dell’Arte. Ma di questo credo di aver parlato a sufficienza. Adesso usciamo sulla terrazza, dove «come uno spettro si accovaccia il pavone bianco-latte», mentre la stella della sera «tinge d’argento il crepuscolo». Al tramonto la Natura offre delle sensazioni meravigliosamente suggestive, non senza bellezza, sebbene forse il suo utilizzo principale sia quello di illustrare le citazioni dei poeti. Vieni! Abbiamo conversato abbastanza.
Penna, matita e veleno
Uno studio in verde
Agli artisti e agli uomini di lettere viene costantemente rimproverata la mancanza di completezza e totalità di natura. Di regola dev’essere necessariamente così. Quella concentrazione della visione e intensità di scopo, che è la caratteristica del temperamento artistico, è essa stessa una limitazione. Per coloro che si preoccupano solo della bellezza della forma, nient’altro sembra avere importanza. Tuttavia ci sono molte eccezioni a questa regola. Rubens era ambasciatore, Goethe consigliere di Stato e Milton segretario latino di Cromwell. Sofocle aveva un ufficio pubblico nella sua città; gli umoristi, saggisti e romanzieri della moderna America non sembrano aver altro desiderio se non quello di diventare rappresentanti diplomatici del loro paese; e l’amico di Charles Lamb, Thomas Griffith Wainewright, soggetto di questa breve memoria, sebbene di temperamento estremamente artistico, seguì tutt’altri maestri e non l’arte, essendo egli non solo poeta e pittore, critico d’arte, antiquario, scrittore di prosa, amatore di cose belle e «dilettante» di cose incantevoli, ma anche un falsario dalle capacità né meschine né ordinarie, e un avvelenatore quasi senza rivali nella nostra epoca o in qualsiasi altra.
Questo notevole personaggio, così potente con «penna, matita e veleno», come un grande poeta contemporaneo ha ben detto di lui, nacque a Chiswick nel 1794. Suo padre era il figlio di uno stimabile avvocato di Gray’s Inn e Hatton Garden. Sua madre era la figlia del famoso Dr. Griffith, editore e fondatore della «Monthly Review», collaboratore in un’altra speculazione letteraria di Thomas Davies, il famoso libraio di cui Johnson ebbe a dire che non era un venditore di libri bensì «un gentiluomo che si occupava di libri», amico di Goldsmith e Wedgwood e uno degli uomini più noti ai suoi tempi. La signora Wainewright morì nel darlo alla luce, alla giovane età di ventun anni e un necrologio sul «Gentlemen’s Magazine» ci parla della sua «amabile disposizione di carattere e le sue numerose qualità» e aggiunge un po’ stranamente che «aveva compreso gli scritti di Locke forse più di ogni altra persona oggi vivente, uomo o donna che sia». Il padre non visse molto più della sua giovane moglie, il bimbo fu cresciuto dal nonno, e alla morte di quest’ultimo, nel 1803, da suo zio, George Edward Griffith, che fu in seguito da lui avvelenato. Trascorse la sua fanciullezza a Linden House, Turnam Green, una di quelle molte e belle dimore che sfortunatamente sono scomparse con l’invasione delle costruzioni di periferia; è da attribuire ai suoi bei giardini e al parco inalberato quell’amore semplice e spassionato per la natura che non lo avrebbe abbandonato per tutta la vita e che lo ha reso tanto particolarmente permeabile alle influenze spirituali della poesia di Wordsworth. Frequentò gli studi all’accademia di Charles Burney a Hammersmith. Mr. Burney era il figlio dello storico musicale e parente stretto del giovane artista che si sarebbe rivelato il suo allievo più rimarchevole. Sembra che fosse un uomo di grande cultura e negli anni che seguirono Mr. Wainewright con affetto parlò spesso di lui, come filosofo, come archeologo e insegnante degno di ammirazione. Egli, nel valutare l’aspetto intellettuale dell’educazione, non trascurava l’importanza di un precoce addestramento morale. È sotto la guida di Mr. Burney che iniziò a sviluppare il suo talento artistico; Mr. Hazlitt ci fa sapere che il blocco da disegno che usava a scuola esiste ancora e ci dimostra il suo grande talento e la sua naturale sensibilità. In effetti la prima arte che lo affascinò fu la pittura. Solo molto più tardi cercò di trovar espressione attraverso penna e veleno.
Prima di questo, comunque, sembra che si sia lasciato trasportare da puerili sogni cavallereschi e d’avventura tipici della vita militare e sia divenuto ufficiale di guardia. Ma la vita dissipata e dissennata condotta dai suoi compagni non soddisfaceva il raffinato talento artistico di colui che era destinato ad altre faccende. Dopo breve tempo si dimise dal servizio. «L’Arte», egli ci informa, usando parole che ancora commuovono più di una persona per la loro ardente sincerità e il particolare fervore, «l’arte ha toccato il suo rinnegato; le nebbie si sono dissipate grazie alla sua pura e suprema influenza; i miei sentimenti, inariditi, rinsecchiti e offuscati sono stati rinnovati grazie al fresco, nuovo fiore, semplice e meraviglioso per i più ingenui». Ma l’arte non fu la sola causa di quel cambiamento. Egli continua dicendo: «Gli scritti di Wordsworth fecero la loro parte nell’acquietare il turbinio confusionario che necessariamente seguì a tali mutamenti improvvisi. Su quei versi io versai lacrime di gratitudine e felicità». Di conseguenza lasciò l’esercito, la rozza vita delle baracche e le volgari chiacchiere della mensa per ritornare a Lindon House pieno del suo novello entusiasmo per la cultura. Una grave malattia che, con parole sue, «lo infranse come un vaso di argilla», lo colpì per un certo periodo. Il suo delicato organismo ormai provato, per quanto indifferente possa esser stato nell’infliggere pene agli altri, era assolutamente ricettivo al dolore. Egli soffriva dal dolore come se la sua natura umana ne venisse rovinata e mutilata, e sembrava dovesse vagare per quella terribile valle della depressione psichica dalla quale molti grandi, forse troppo grandi spiriti, non sono più riusciti a emergere. Ma era giovane, aveva solo venticinque anni, e presto riemerse dalle «nere acque morte», come lui stesso le chiamò, per entrare nell’area più vasta della cultura umanistica. Durante la convalescenza della malattia che lo portò quasi alle porte della morte, concepì l’idea di scegliere la letteratura come arte. Affermava: «Come John Woodvil, dico che era una vita da dèi il dimorare in un tale elemento» per vedere, sentire e scrivere cose ardite:
Questi sublimi e tempestosi piaceri della vita
non hanno sostanza di cose mortali.
È impossibile non percepire in quel brano l’espressione di un uomo che aveva una vera passione per le lettere. Vedere, sentire e scrivere cose ardite, questo era il suo obiettivo.
Scott, l’editore del «London Magazine», colpito dal genio del giovane, o sotto l’influenza dello strano fascino che egli esercitava su chiunque lo conoscesse, lo invitò a scrivere una serie di articoli di argomento artistico e firmandosi con una serie di pseudonimi fantasiosi, iniziò a contribuire alla letteratura dei suoi giorni. Janus Weathercock, Egomet Bonmot e Van Vinkvooms furono i nomi di alcune di quelle maschere grottesche dietro cui nascondeva la sua seriosità e con le quali rivelava la sua leggerezza. Una maschera ci dice più di un volto. Questi travestimenti intensificavano la sua personalità. In un tempo incredibilmente breve sembrò che fosse giunto all’apice. Charles Lamb ci parla di un «gentile e leggiadro Weinewright» la cui prosa è «eccelsa». Sappiamo che si intrattenne con Macready, John Forster, Maginn, Talfourd, Sir Wentworth Dilke, il poeta, John Clare e altri durante una colazione. Allo stesso modo di Disraeli, decise di far colpo sulla città come dandy e i suoi bellissimi anelli, il suo antico spillo da gilet di cammeo e i suoi guanti di pelle color limone pallido li conoscevano tutti; e in realtà erano guardati da Hazlitt come segno distintivo di una nuova moda in letteratura. Dall’altro lato, la sua folta capigliatura riccia, i begli occhi, e le fini mani pallide gli conferivano la particolare e pericolosa caratteristica di esser diverso dagli altri. In lui si riconosceva qualcosa del Lucien Rubempré di Balzac. A volte ricordava Julien Sorel. Un giorno De Quincey lo vide, erano a cena da Charles Lamb. «Tra i componenti della compagnia, tutti uomini di lettere, sedeva un assassino», ci racconta, e continua a descrivere come quel giorno lui si fosse sentito male e avesse odiato per quello i volti degli uomini e delle donne. Eppure si era scoperto a guardare con interesse intellettuale, all’altro lato della tavola, quel giovane scrittore sotto le cui maniere affettate egli scorgeva una sensibilità del tutto spontanea, e riflette su «quale improvvisa nascita di un differente interesse» gli avrebbe fatto cambiare umore, se avesse saputo il terribile segreto dell’ospite a cui Lamb prestava così tanta attenzione, che era sin d’allora colpevole.
Tutte le opere della sua vita rientrano naturalmente nelle tre categorie suggerite da Mr. Swinburne, e si può parzialmente ammettere che, se non si considerano i suoi risultati nel campo dei veleni, ciò che ci ha effettivamente lasciato giustifica a stento la sua reputazione. Ma in fondo, solo i filistei valutano una personalità dalla volgare prova della sua produzione. Questo giovane dandy cercava di essere qualcuno, non di fare qualcosa. Aveva capito che la vita stessa è un’arte e possiede i suoi modelli di stile non diversamente dalle arti che cercano di esprimerla. Né il suo lavoro è privo di interesse. Sappiamo che William Blake, fermandosi alla Royal Academy dinanzi a un suo quadro, pronunciò il giudizio «molto bello». I suoi saggi preannunciano molto di quello che poi si è realizzato. Sembra che abbia anticipato alcuni di quegli incidenti nella cultura moderna che molti considerano veritieri ed essenziali. Scrive della Gioconda, dei poeti primitivi francesi e del Rinascimento. Ama le gemme greche, i tappeti persiani e le traduzioni elisabettiane di Cupido e Psiche, la Hypnerotomachia, le rilegature dei libri, le prime edizioni e le stampe a largo margine. È profondamente sensibile al valore delle belle ambientazioni, e non si stanca mai di descriverci le stanze in cui ha vissuto o nelle quali avrebbe voluto vivere. Ha quel curioso amore per il verde, che denota sempre, negli individui, un temperamento artistico e nelle nazioni una certa fiacchezza, se non rilassatezza morale. Come Baudelaire era estremamente appassionato di gatti e, come Gautier, lo affascinavano quei «dolci mostri di marmo» di ambo i sessi che possiamo ancora ammirare a Firenze o al Louvre. Naturalmente c’è molto nelle sue descrizioni, e nei suoi suggerimenti di arredamento, che ci rivela che egli non si era del tutto liberato dal falso gusto dei suoi tempi. Ma è chiaro che lui fu davvero uno dei primi a riconoscere la nota principale dell’eclettismo estetico, voglio dire, la vera armonia di tutte le cose veramente belle al di là dell’età, del luogo, di scuola o di maniera. Egli aveva chiaro che arredare una stanza, una stanza in cui vivere e non solo da mostrare, non significava ricostruire archeologicamente il passato, né accollarci del peso della precisione storica come capricciosa necessità. In questo tipo di percezione artistica, egli aveva perfettamente ragione. Tutte le cose belle appartengono alla stessa età.
Così, nella sua biblioteca privata, come egli stesso ci descrive, troviamo il delicato vaso greco di terracotta, con le sue figure squisitamente dipinte e un quasi impercettibile Καλός [Bello] finemente tracciato sul lato; dietro di esso pende un’incisione della Sibilla Delfica di Michelangelo, o della Pastorale di Giorgione. Qui un pezzo di maiolica fiorentina, là una grezza lampada da una tomba romana. Sul tavolo c’è un libro delle Ore, «rilegato con una copertina di argento massiccio dorato, lavorato a intreccio con bizzarria e tempestato di piccoli brillanti e rubini», e accanto a quello «è accasciato un mostriciattolo, un Laro, forse, recuperato dallo scavo in un campo di grano assolato della Sicilia». Alcuni scuri bronzi antichi contrastano «con il pallido chiarore di due nobili Christi Crucifixi», uno scolpito in avorio l’altro modellato in cera. Ha i suoi vassoi con le gemme del Tassie, piccole scatole Luigi XIV con le miniature di Pettitot, le pregiate «teiere di bisquit bruno, lavorate a filigrana», la scatola da lettere in pellame color limone, e la sua sedia «verde pomona».
Possiamo quasi immaginarcelo steso là in mezzo ai suoi libri, i modelli e le incisioni, un vero virtuoso1, sottile conoscitore, che sfoglia la sua collezione di Marcantoni, e il suo Liber Studiorum di Turner, che lui ammira tanto. Oppure mentre esamina, con la lente d’ingrandimento, alcune delle sue gemme e cammei antichi, «la testa di Alessandro in onice doppio strato» o «il superbo altissimo rilievo2 in corniola, Giove Egioco». È sempre stato un grande amatore di incisioni e fornisce alcune informazioni davvero utili su qual è il modo migliore di formare una collezione. In realtà mentre apprezza grandemente l’arte moderna, non perde mai di vista l’importanza delle riproduzioni dei grandi capolavori del passato, e ciò che sostiene sul valore dei modelli in gesso è assolutamente degno di nota. Come critico d’arte è interessato principalmente alle complesse impressioni prodotte dall’opera d’arte, e certamente il primo passo nella critica estetica è costituito dal rendersi conto delle proprie impressioni. Non lo interessavano affatto le disquisizioni astratte sulla natura del Bello, e il metodo storico, che ha in seguito dato tanti frutti, non apparteneva ai suoi tempi, ma non perse mai di vista la grande verità che la prima attrattiva dell’arte non sollecita né l’intelletto né le emozioni, ma semplicemente il temperamento artistico. Più di una volta egli sottolinea che questo temperamento, questo «gusto», come lo chiama, con l’esser guidato inconsciamente e reso perfetto dal frequente contatto con le opere migliori, diventa alla fine una forma di giusto giudizio. Va da sé che nell’arte come per l’abbigliamento ci sono delle mode e forse nessuno di noi potrà mai esser completamente libero dall’influenza delle abitudini e delle novità. Certamente non poté lui, che francamente ammise quanto fosse difficile valutare le opere contemporanee. Ma, nel complesso, il suo gusto era sano e buono. Fu ammiratore di Turner e Constable a un tempo in cui ancora non erano considerati come lo sono oggi, e notò che per realizzare un paesaggio sublime c’è bisogno di qualcosa di più di «semplice maestria e accurata trascrizione». Per quanto riguarda Heath Scene near Norwich [Una brughiera vicino a Norwich] di Crome, egli commenta che in essa si vede «quanto possa fare una accuratissima osservazione degli elementi, nella loro espressione più selvaggia, per una landa del tutto priva di interesse». Rispetto al tipo di paesaggio che era diffuso ai suoi tempi egli lo giudica «solo una enumerazione di colli e valli, ceppi d’albero, cespugli, acque, prati, villini e case; qualcosa di più della topografia, una specie di cartografia pittorica in cui non ci sono arcobaleni, scrosci di pioggia, nebbie, aloni, grandi raggi di luce che trafiggono le nuvole, bufere, luci stellari, tutti i materiali più preziosi del vero pittore». Aveva una avversione completa per tutto ciò che è ovvio o luogo comune in arte, e mentre gli faceva piacere intrattenere Wilkie a cena, non gli importava gran che dei quadri di Sir David, non più di quanto gli importasse delle poesie di Crabbe. Non aveva simpatia con le tendenze realistiche e imitative della sua epoca e ci racconta con franchezza che la sua grande ammirazione per Fuseli era dovuta in gran parte al fatto che il piccolo svizzero non considerava necessario che un artista dipingesse ciò che realmente vedeva. Le qualità che egli cercava in un dipinto erano la composizione, la bellezza e la dignità delle linee, la ricchezza di colore e la potenza immaginativa. D’altro canto non era un dottrinario. «Ritengo che un’opera d’arte non si possa giudicare se non in base alle leggi che da essa stessa si possono dedurre. È solo questione di vedere se essa è coerente». Questo è uno dei suoi eccellenti aforismi. E criticando pittori tanto diversi fra loro come Landseer, Martin, Stothard ed Etty, ci dimostra che, per usare una frase ormai classica, egli tenta di «vedere un oggetto come davvero è in se stesso».
Comunque, come abbiamo già rilevato, non si trovava completamente a suo agio nella critica delle opere contemporanee. «Il presente», egli afferma, «è un’accozzaglia quasi piacevole come l’Ariosto alla prima lettura... Le cose moderne mi abbagliano. Devo guardarle attraverso il telescopio del tempo. Elia si lamenta di trovare incerto il merito di un poema manoscritto; “la stampa” come dice molto bene “gli dà stabilità”. Una sfumatura di cinquant’anni ha lo stesso effetto su un quadro». È più contento quando scrive di Wattau e Lancret, di Rubens e Giorgione, di Rembrandt, Correggio e Michelangelo. Ancora più felice quando scrive di cose greche. Il Gotico lo appassionava molto poco ma gli furono sempre care l’arte classica e quella del Rinascimento. Sapeva quanto la scuola inglese potesse guadagnare dallo studio dei modelli greci e non si stancava mai di sottolineare ai giovani studenti le potenzialità artistiche celate nei marmi e nei metodi di lavoro ellenici. Nei suoi giudizi sui grandi maestri italiani, dice De Quincey, «appariva un tono di sincerità e di sensibilità innata, come in qualcuno che parli di se stesso, e non è un semplice copista di libri». La più grande lode che possiamo fargli è che cercò di rinnovare lo stile come tradizione consapevole. Ma vedeva bene che nessuna conferenza sull’arte, nessun congresso, o «piano per il progresso delle belle arti», avrebbe prodotto questo risultato. La gente, diceva molto saggiamente seguendo il vero spirito di Toynbee Hall, deve sempre avere «i migliori modelli costantemente davanti agli occhi».
Come ci si può aspettare da lui, che era un pittore, egli è spesso molto tecnico nella sua critica d’arte. Riguardo a San Giorgio che libera la principessa egiziana dal drago di Tintoretto, egli osserva:
La veste di Sabra, caldamente lucida di blu Prussia, si stacca dallo sfondo verde pallido con il vermiglio della sciarpa; e le tinte piene di entrambi echeggiano meravigliosamente, come in chiave minore, sulle stoffe di lacca purpurea e sulla azzurrina armatura del santo. Inoltre a bilanciare il vivace drappeggio blu in primo piano vi sono le ombre indaco del bosco selvaggio che circonda il castello.
In un altro punto egli parla in modo erudito di «un delicato Schiavone, vario come un’aiuola di tulipani, dalle ricche tinte irregolari», di «un ritratto luminoso, notevole per la sua morbidezza3 nel raro Moroni» e di un altro quadro in cui i «garofani sono polposi».
Ma, di regola, considera le sue impressioni sulle opere come un insieme artistico e si sforza di tradurre in parole quelle impressioni per donarci, quasi, un equivalente letterario del risultato immaginativo e mentale. Fu lui uno dei primi a sviluppare quella che è stata chiamata l’arte-letteratura del diciannovesimo secolo, la forma di letteratura che ha trovato i suoi più perfetti esponenti in Ruskin e Browning. La sua descrizione del Repas Italien di Lancret, dove «una ragazza dagli scuri capelli, “innamorata del male”, giace sull’erba spruzzata di margherite», è sotto certi aspetti molto attraente. Ecco un resoconto della Crocifissione di Rembrandt. È estremamente caratteristica del suo stile:
L’oscurità – la nera, portentosa oscurità – avvolge l’intera scena; solo, sopra al maledetto bosco, come da un cretto orrido del soffitto tenebroso, scroscia giù violentemente un diluvio di pioggia – «acqua sbiadita di screpolato nevischio», e spande un’orribile luce spettrale, ancor più orrenda della palpabile notte. Già la terra ansima forte e profondo! La Croce oscurata trema! I venti si sono placati e l’aria è stagnante – un rombo rumoroso si muove sotto i loro piedi, e parte di quella folla miseranda inizia a fuggire dal monte. I cavalli fiutano l’incombente terrore e sono resi indomabili dalla paura. Rapidamente si avvicina il momento in cui, quasi dilaniato dal suo stesso peso, indebolito dalla perdita di sangue che adesso scorre in rivoli dalle vene recise, le tempie e il petto inondati di sudore e la nera lingua pendente per la feroce mortale febbre, Gesù grida: «Ho sete» e il mortale aceto gli è porto.
Gli cade il capo, e il sacro cadavere «pende privo di sensi dalla croce». Una lingua di fuoco vermiglio guizza nell’aria e svanisce; le rocce del Carmelo e del Libano si spaccano; il mare gonfia le nere onde tumultuose dalle sabbie. La terra si spalanca e le tombe sputano i loro abitanti. I morti e i vivi si mescolano in una innaturale promiscuità e corrono attraverso la città santa. E nuovi prodigi là li attendono. Il velo del tempio – l’impenetrabile velo – è squarciato da cima a fondo e quello spaventoso angolo che racchiude i misteri degli Ebrei, l’arca fatale con le tavole e il candelabro a sette braccia, viene dischiuso dalla luce di fiamme soprannaturali alla moltitudine abbandonata da Dio.
Rembrandt non ha mai dipinto questa scena, e a ragione. Essa avrebbe perso molto del suo fascino perdendo quel preoccupante velo di indistinzione che fornisce così ampio campo in cui la dubbiosa immaginazione può speculare. Adesso è come una cosa in un altro mondo. Tra noi c’è un oscuro abisso. Non lo si può toccare fisicamente. Ci si può avvicinare solo con lo spirito.
In questo brano scritto, l’autore ci informa – con timorosa reverenza – che c’è molto di terribile e moltissimo di orribile, ma sempre con una certa cruda forma di potenza, o, comunque, una certa cruda violenza nelle parole, una qualità che la nostra epoca dovrebbe ampiamente apprezzare, dato che di essa fa difetto. È più piacevole, in ogni caso, passare a questa descrizione del Cefalo e Procri di Giulio Romano:
Dovremmo leggere il lamento di Mosco per Bione, dolce pastore, prima di osservare questo quadro, o studiarlo come preparazione del lamento. Abbiamo in entrambi quasi le stesse immagini. Per tutte e due le vittime mormorano gli alti cespugli e le valli boscose; dai loro bocci, i fiori esalano tristi profumi; piange l’usignolo sulla landa scoscesa, e così la rondine nelle strette valli tortuose; anche «i satiri e i fauni velati piangono», e le ninfe delle sorgenti si sciolgono in lacrime. Le greggi e le capre abbandonano i pascoli e le oreadi «che amano scalare le vette più inaccessibili delle più ripide montagne» lasciano a corsa il canto dei pini corteggiati dal vento. Mentre le driadi pendono dai rami vicini, i fiumi gemono per la bianca Procri «con correnti scosse dai singhiozzi».
Riempiono di voce l’oceano in lontananza.
Le api dorate tacciono sull’Imetto coperto di timo; e il funebre corno dell’amore di Aurora non disperderà più il freddo crepuscolo sulla cima dell’Imetto. In primo piano nel nostro quadro c’è la sponda erbosa di un fiume bruciata dal sole, infranta in cavità e bozzi come onde (una specie di grandi onde terrestri), resa ancor più accidentata da molte radici che intralciano il passo e ceppi di albero prematuramente mozzati dall’ascia, che di nuovo buttano germogli di tenero verde. Questa riva si alza piuttosto improvvisamente alla destra di un fitto cespuglio che le stelle non riescono a penetrare, e al cui ingresso sta un esterrefatto re Tessalo che tiene fra le ginocchia l’eburneo corpo di lei che solo un momento prima partiva i ruvidi rami con la morbida fronte, e camminava allo stesso modo su spine e fiori, col piede scosso dalla gelosia. E adesso sperduta, pesante, vuota di ogni movimento se si esclude quello che le fa sollevare i capelli dal vento, schernendola. Dai rami uniti strettamente, le ninfe attonite si affollano gridando forte.
E satiri avanzano in pelli di cervo, le teste cinte di
corone d’edera;
strana pietà pervade il loro agire.
Lelapo giace là sotto, e il suo ansare preannuncia lo svelto passo della morte. All’altro lato del gruppo, l’Amore Virtuoso, con «le vele accasciate», punta la freccia a un branco di gente silvana che avanza: fauni, alci, capre, satiri e satiri-madri che cercano di raccogliere i figli con animo tremante di paura, correndo da sinistra lungo un sentiero affondato tra il primo piano e il muro di roccia; dalla cresta più bassa di quest’ultimo una guardiana del ruscello versa acque che parlano di dolore dalla sua urna. Più sopra e più lontana dell’Efidriade, un altro personaggio femminile che si strappa i capelli appare fra le colonne ornate di tralci di un cespuglio intonso. La parte centrale del quadro è carica di prati ombrosi e affonda verso la bocca del fiume; più in là è la «vasta potenza delle correnti oceaniche» dal cui fondo, la spegnitrice di stelle, la rosea Aurora, fa impennare i destrieri lavati dalla brina per vedere le sofferenze di morte della sua rivale.
Se fosse accuratamente riscritta, questa descrizione potrebbe suscitare una qualche ammirazione. Il concetto del creare un poema in prosa ispirato a un quadro è eccellente. Molta della letteratura moderna nasce dallo stesso scopo. In un’epoca brutta e ragionevole le arti si ispirano a vicenda.
Le sue simpatie erano anch’esse molto varie. Fu sempre molto interessato a tutto ciò che aveva a che fare con il palcoscenico, per fare un esempio, e sosteneva strenuamente la necessità dell’accuratezza archeologica nei costumi e nella decorazione delle scene. Dice in uno dei suoi saggi: «In arte, tutto ciò che riteniamo degno di essere fatto, è degno di essere fatto bene», e fa notare che una volta permessa l’intrusione degli anacronismi, diventa molto difficile definirne i limiti. Di nuovo, in letteratura, egli era, come Lord Beaconsfield in una famosa occasione, «dalla parte degli angeli». Fu uno dei primi ad ammirare Keats e Shelley – «il tremulo e sensibile, il poetico Shelley», come ebbe a chiamarlo. La sua ammirazione per Wordsworth era sincera e profonda. Apprezzava moltissimo anche William Blake. Una delle migliori edizioni dei Songs of Innocence and Experience, tuttora esistenti, fu commissionata per lui. Amava Alain Chartier, Ronsard, i drammaturghi elisabettiani, Chaucer, Chapman e Petrarca. Per lui esisteva un’unica arte. «I nostri critici», egli osserva molto saggiamente, «hanno difficoltà a rendersi conto della reale identità dei semi fondamentali della poesia e della pittura e a capire che il vero progresso nello studio serio di un’arte genera contemporaneamente una perfezione proporzionata nell’altra». In un altro punto egli afferma che se qualcuno dice di non ammirare Michelangelo e di adorare invece Milton, egli non fa che ingannare o se stesso o coloro che lo stanno ad ascoltare. Fu sempre molto generoso con i suoi colleghi collaboratori del «London Magazine», lodando Barry Cornwall, Allan Cunningham, Hazlitt, Elton e Leigh Hunt, senza alcuna malizia di falsa amicizia. Alcuni dei suoi schizzi di Charles Lamb sono a modo loro ammirevoli, e con la maestria del vero commediante, prende a prestito lo stile dal suo stesso soggetto:
Cosa posso io dire di te, più di ciò che so? Che è in te la gaiezza puerile e il sapere di un uomo: mai un cuor tanto gentile ha riempito gli occhi di lacrime.
Con che astuzia sembrava fraintendere ed enunciava un concetto opportuno nel momento che lo era meno. Il suo parlare non affettato era serrato fino a essere oscuro, come quello dei suoi adorati elisabettiani. Le sue frasi, come granelli di oro fino, potevano esser battute fino a trasformarsi in larghe foglie. Aveva poco riguardo per la falsa fama, ed era ricorrente la sua caustica osservazione sulla «moda degli uomini di genio». Sir Thomas Browne era uno dei suoi più intimi amici, così come Burton e il vecchio Fuller. Quando era di umore amoroso, si trastullava con quell’impareggiabile duchessa dal profumo dei molti in folio, e con le commedie amene di Beaumont e Fletcher induceva a sogni leggeri. Era solito rilasciare su quest’ultime commenti critici, come ispirato, ma era bene che gli lasciassero scegliere il gioco; se era qualcun altro a iniziare, fosse anche qualcuno della sua cerchia più stretta, era capace di interromperlo, o piuttosto riprenderlo, in maniera difficile da definire accidentale o con cattiveria. Una sera a casa di C. i suoi amici drammaturghi, poco sopra citati, erano soggetto temporaneo di una conversazione. Mr. X encomiava la passione e l’elevato stile di una tragedia (non so quale), ma subito fu ripreso da Elia che gli disse: «Questo non è niente; le liriche sono grandi, le liriche!».
Un lato della sua carriera letteraria merita una nota particolare. Il giornalismo moderno può esser in debito verso di lui come verso qualsiasi altro dell’inizio di questo secolo. Egli fu un pioniere della prosa «asiatica», si deliziava di epiteti pittoreschi ed esagerazioni pompose. Il possedere uno stile tanto prodigioso da riuscire a nascondere il vero soggetto di cui si parla è uno delle imprese più alte che un articolista della scuola di Fleet Street può raggiungere, e si può dire che questa scuola l’abbia inventata «Janus Weathercock». Scoprì anche che era relativamente facile riuscire a interessare il pubblico con la sua propria personalità, per mezzo della continua ripetizione. Questo straordinario giovane, nei suoi articoli puramente giornalistici informa il mondo su ciò che ha mangiato per cena, dove compra i vestiti, quali sono i suoi vini preferiti, il suo stato di salute proprio come se stesse scrivendo note settimanali per un qualche giornale popolare dei nostri tempi. Essendo questo il lato meno apprezzabile della sua opera, è quello che ha avuto la più ovvia influenza. Un pubblicista, oggi, è colui che annoia la comunità con i dettagli delle illegalità della sua vita privata.
Come la maggior parte delle persone false, aveva un grande amore per la natura. «Sono tre le cose per cui nutro grande stima», egli afferma da qualche parte, «sedere pigramente su un’altura che domini un bel paesaggio; stare all’ombra di fitti alberi mentre il sole splende attorno a me; godere della solitudine essendo consapevole della gente che mi circonda. La campagna me le offre tutte». Scrive delle sue passeggiate in mezzo alle fragranti ginestre e sulla brughiera, ripetendo l’Ode alla sera di Collins, col solo scopo di cogliere la qualità del momento; del suo «immergere il viso nelle aiuole di primule, molli della rugiada di maggio»; del piacere di vedere il bestiame dal dolce fiato «andare lentamente verso la stalla contro il tramonto», di ascoltare «il distante scampanio delle pecore». Una sua frase, «il polianto riluceva sul suo freddo letto di terra, come un solitario quadro del Giorgione, su uno scuro pannello di quercia», è particolarmente caratteristica del suo temperamento e il seguente brano è piuttosto grazioso:
La corta e tenera erba era coperta di margherite, quelle che nelle nostre città si chiamano pratoline, fitte come stelle in una notte d’estate. Il verso gracchiante dei corvi indaffarati giungeva gradevolmente ammorbidito da un alto boschetto di olmi, e un po’ distante, di tanto in tanto, si sentiva la voce di un ragazzo che scacciava gli uccelli dai semi appena buttati. Le azzurre profondità avevano il colore ultramarino più profondo; non una nuvola venava il calmo etere, solo sul filo dell’orizzonte si stendeva un leggero e caldo strato di vapore nebbioso contro il quale si stagliava il bianco accecante di pietra antica della chiesa del vicino villaggio. Pensai ai Versi scritti in Marzo di Wordsworth.
Comunque, non dobbiamo dimenticare che il colto giovane che compose queste righe, così sensibile alla influenza di Wordsworth, fu anche, come già detto all’inizio di questa memoria, uno dei più subdoli e nascosti avvelenatori della nostra o di qualsiasi altra epoca. Non ci rivela come fu affascinato da questo strano peccato, e il diario sul quale annotava accuratamente i risultati dei suoi terribili esprimenti e dei metodi da lui adottati, sfortunatamente è andato perduto. Persino negli ultimi giorni rimase reticente in merito alla questione, preferiva parlare dell’«Escursione» e dei «Versi basati sull’affetto». Non v’è dubbio alcuno, tuttavia, che il veleno da lui usato fosse stricnina. In uno dei suoi meravigliosi anelli di cui andava tanto fiero e che gli servivano per far bella mostra delle sue delicate mani eburnee, egli era solito nascondere cristalli di noce vomica indiana, un veleno, come osserva uno dei suoi biografi, «quasi insapore, difficile da scoprire e diluibile quasi all’infinito». I suoi omicidi sono stati, come dice De Quincey, molto più numerosi di quanto si sia venuti a sapere in sede di giudizio. Su questo non c’è dubbio, e alcuni di essi sono senz’altro degni di menzione. La sua prima vittima fu suo zio Thomas Griffith. Lo avvelenò nel 1829 per entrare in possesso di Linden House, la casa a cui è sempre stato molto attaccato. Nell’agosto dell’anno successivo uccise Mrs. Abercrombie, la madre di sua moglie, e il seguente dicembre fu la volta della graziosa Helen Abercrombie, sua cognata. Non fu mai accertato il motivo per cui uccise Mrs. Abercrombie. Può esser stato per capriccio, o per accelerare un certo oscuro senso di potere che covava in lui, o perché sospettava qualcosa, o senza ragione. Ma l’omicidio di Helen Abercrombie fu compiuto da lui e sua moglie per circa 18.000 sterline, somma per la quale avevano assicurato la vita di Helen presso varie compagnie. Queste furono le circostanze: il 12 dicembre lui con sua moglie e il figlio vennero a Londra da Linden House, e presero alloggio al numero 12 di Conduit Street, vicino a Regent Street. Insieme a loro c’erano le due sorelle Helen e Madeleine Abercrombie. La sera del 14 andarono tutti insieme a teatro e quella stessa sera a cena Helen si sentì male. Il giorno seguente stava molto male e fu chiamato il Dr. Locock di Hanover Square per curarla. Rimase in vita fino a lunedì 20, giorno in cui dopo la visita mattutina del dottore, Mr. e Mrs. Wainewright le portarono della marmellata avvelenata, poi uscirono a fare una passeggiata. Al loro ritorno Helen Abercrombie era morta. Era una ragazza di circa vent’anni, alta, graziosa, dai capelli biondi. Esiste ancora un bel ritratto di lei fatto a sanguigna da suo cognato, dove si può notare quanto il suo stile sia stato influenzato da Sir Thomas Lawrence, pittore per cui lui aveva lavorato e verso il quale provava una grande ammirazione. De Quincey dice che la signora Wainewright non era veramente presente all’omicidio. Speriamo che sia così. Il peccato dovrebbe rimanere solitario, non avere complici.
Le compagnie di assicurazione, sospettando le vere cause dell’accaduto, si rifiutarono di pagare le polizze adducendo il motivo tecnico della falsa dichiarazione e della mancanza di interessi. Con curioso coraggio l’avvelenatore fece causa alla Corte Imperiale presso la Cancelleria, convenendo che una decisione presa così avrebbe chiuso il caso. Il processo, comunque, non si fece per cinque anni, quando, dopo uno scontro, venne emesso un verdetto in favore delle compagnie assicurative. In quell’occasione il giudice era Lord Abinger. I legali che rappresentavano Egomet Bonmot erano Mr. Erle e Sir William Follet; il Procuratore Generale e Sir Frederick Pollock sostenevano l’altra parte. Il querelante, per sfortuna, non era presente a nessuno dei processi. Il rifiuto da parte dell’assicurazione di pagare le diciottomila sterline lo aveva messo in una posizione pecuniaria decisamente imbarazzante. In realtà, alcuni mesi dopo l’omicidio di Helen Abercrombie, fu effettivamente arrestato per debiti, mentre corteggiava la bella figlia di un suo amico per le strade di Londra. Questi problemi furono risolti in tempo, ma poco dopo pensò fosse meglio andarsene all’estero fino a che non si fossero raggiunti degli accordi pratici con i suoi creditori. Di conseguenza andò a Boulogne, in visita al padre della giovane di cui sopra, e durante il suo soggiorno lì convinse l’amico ad assicurarsi la vita per la somma di 3.000 sterline. Non appena furono espletate le formalità necessarie, e la polizza fu effettiva, egli lasciò cadere alcuni cristalli di stricnina nel caffè di lui, mentre erano seduti insieme una sera dopo cena. Per sé non ottenne nessun vantaggio economico da tutto ciò. Il suo solo scopo era quello di vendicarsi della prima compagnia che aveva rifiutato di pagargli ciò che pensava di guadagnare col suo peccato. Il suo amico morì il giorno seguente, davanti ai suoi occhi, ed egli partì da Boulogne per fare un giro nei luoghi più pittoreschi della Bretagna a dipingere. Per un po’ di tempo fu ospite di un vecchio gentiluomo francese che possedeva una splendida casa di campagna a St. Omer. Da lì si trasferì a Parigi, dove rimase molti anni, vivendo nel lusso, dicono alcuni, mentre altri parlano del suo «furtivo appartarsi con il veleno nella tasca, temuto da tutti quelli che lo conoscevano». Nel 1837 ritornò in Inghilterra segretamente, qualcosa di pazzo e strano lo riportò a casa. Stava seguendo la donna di cui si era innamorato. Era giugno ed era sceso a un hotel a Covent Garden. Il suo soggiorno era al piano terreno e prudentemente egli teneva le tende tirate nel timore di essere visto. Tredici anni prima, quando collezionava maioliche e Marcantoni, aveva falsificato le firme dei suoi fiduciari per un mandato di procura che gli permetteva di entrare in possesso di una somma di denaro che aveva ereditato dalla madre e aveva deciso di impegnarla come dote matrimoniale. Era a conoscenza del fatto che la sua contraffazione era stata scoperta e che tornare in Inghilterra per lui significava mettere in pericolo la sua vita. Tuttavia egli tornò. Dovremmo stupirci? Si disse che quella donna fosse molto bella e inoltre non lo amava.
Venne scoperto per un caso del tutto fortuito. La sua attenzione fu attratta da un rumore che veniva dalla strada; egli spinto dal suo interesse artistico per la vita reale, tirò le tende per un momento. Qualcuno gridò da fuori: «È Wainewright, il falsario». Era Forrester, il fattorino di Bond Street.
Il 5 luglio fu portato al tribunale. Sul Times apparve il seguente resoconto degli atti processuali:
Dinanzi al Giudice Vaughan e al Barone Alderson è comparso Mr. Thomas Griffith Wainewright, ventiquattro anni, uomo dall’aspetto signorile, accusato di aver contraffatto un mandato di procura per 2.259 sterline con l’intento di frodare il Governatore e la Compagnia della Banca d’Inghliterra.
Cinque sono i capi di accusa di cui l’accusato è imputato, e per ognuno di essi si è dichiarato non colpevole davanti al Sergente Arabin durante il corso della mattinata. Condotto dinanzi ai giudici, tuttavia, chiese di poter ritirare la dichiarazione precedente e si confessò colpevole per due dei capi di accusa che non prevedevano la pena capitale.
Il legale della banca aveva spiegato che c’erano altre tre accuse nei suoi confronti, ma che la banca desiderava non vi fosse spargimento di sangue, quindi fu preso nota della confessione per i due reati minori e alla chiusura dell’udienza il prigioniero fu condannato alla deportazione a vita.
Fu portato di nuovo a Newgate, in attesa del trasferimento nelle colonie. In un brano di un suo fantasioso saggio, egli si immagina «sdraiato nella prigione di Horsemonger, condannato a morte» per non aver resistito alla tentazione di rubare dei Marcantoni dal British Museum per completare la sua collezione. La sentenza che adesso pendeva su di lui era, per un uomo di cultura del suo stampo, una vera condanna a morte. Se ne lamentava amaramente con gli amici e faceva loro notare, a ragione, può immaginare qualcuno, che il denaro era praticamente suo, essendogli giunto da sua madre, che la contraffazione, di fatto, era stata compiuta tredici anni prima, e che, usando una sua frase, questa era come minimo una «circonstance atténuante». Il permanere della personalità è un problema metafisico molto sottile e certamente la legge inglese lo risolve in modo estremamente sbrigativo. Esiste, comunque, qualcosa di drammatico nel fatto che la pesante condanna gli fu inflitta non certo per il peggiore dei suoi peccati, se ricordiamo la sua influenza fatale sulla prosa del giornalismo moderno.
Mentre si trovava in prigione, Dickens, Macready e Hablot Browne lo videro per caso. Stavano compiendo delle visite alle prigioni di Londra alla ricerca di spunti artistici e a Newgate improvvisamente lo incontrarono. Li salutò con uno sguardo di sfida, ci racconta Forster, ma Macready era «orripilato nel riconoscere un uomo a lui familiare, conosciuto anni addietro, alla cui tavola egli aveva cenato».
Altre persone erano più curiose, e per qualche tempo la sua cella divenne una specie di sala alla moda. Furono molti gli uomini di lettere che andarono a far visita al loro vecchio compagno letterario. Ma lui non era più quel giocoso Janus che Charles Lamb aveva ammirato. Sembrava diventato decisamente cinico.
All’agente di una compagnia di assicurazioni che un pomeriggio andò a trovarlo, e che pensava di cogliere l’occasione di sottolineare quanto il crimine fosse, in fondo, una cattiva speculazione, egli replicò: «Signore, voi uomini della City intraprendete le vostre speculazioni, e tentate la sorte; alcune hanno successo, altre falliscono. Le mie speculazioni sono state un fallimento, mentre alle vostre è capitato di vincere. In questo sta la sola differenza, signore, fra me e chi mi è venuto a visitare. Ma vi dirò, signore, una cosa in cui il mio successo è stato totale. Mi sono riproposto, durante la vita, di mantenere una reputazione di gentiluomo. Ci sono riuscito in passato, e continuo a farlo. In questo posto c’è l’abitudine, ogni mattina, di fare a turno per spazzare la cella. Divido la cella con un carpentiere e uno spazzino, ma mai mi hanno porto la scopa!». Quando un amico lo rimproverò per l’omicidio di Helen Abercrombie, lui scosse le spalle e disse: «Sì, la cosa è stata davvero orribile da fare, ma lei aveva le caviglie così grosse».
Da Newgate fu trasportato al bagno penale di Portsmouth, e da lì fu mandato a bordo della Susan alla terra di Van Diemens insieme ad altri trecento condannati. Il viaggio sembra essere stato fra i più disastrosi per lui; in una lettera spiega con amarezza a un amico l’ignominia subita per esser stato costretto a mescolarsi con «rozzi zoticoni», lui «frequentatore di poeti e artisti». La frase riferita ai compagni di lettere non deve sorprenderci. In Inghilterra raramente il crimine è da attribuirsi al peccato. È quasi sempre da attribuirsi alla fame. Probabilmente non avrebbe trovato nessun ascoltatore comprensivo fra quelli che viaggiavano su quella nave, e nemmeno nessuno dalla natura psicologicamente interessante.
Il suo amore per l’arte, tuttavia, non lo abbandonò mai. A Hobart Town mise su uno studio e tornò a fare schizzi e dipingere ritratti, la sua conversazione e le sue maniere sembrava non avessero perduto il fascino solito. Né aveva perduto l’abitudine degli avvelenamenti. Ci sono due casi in cui cercò di togliere di mezzo persone che lo avevano offeso. Ma era come se le sue mani avessero perso di abilità. Ambedue i tentativi furono fallimentari, e nel 1844, del tutto insoddisfatto della società tasmaniana, presentò un memoriale al governatore di quell’insediamento, Sir John Eardley Wilmot, supplicando un permesso di libertà provvisoria. In questo memoriale egli parla di essere «tormentato da idee che lottano per potersi realizzare e prendere forma esteriore, impedite dall’aumento di conoscenza e private dell’esercizio di una, se non vantaggiosa, almeno decorosa conversazione». La sua richiesta, comunque, fu respinta e il collega di Coleridge si consolò con la creazione di quei magnifici «paradis artificiels» i cui segreti sono rivelati solo agli oppiomani. Nel 1852, egli morì di apoplessia con, per compagno vivente, solo un gatto, per il quale aveva dimostrato un affetto straordinario.
Pare che i suoi delitti abbiano giovato molto alla sua arte. Hanno fornito al suo stile una forte personalità, qualità che certo mancava nei suoi lavori giovanili. In una nota alla Vita di Dickens, Forster fa menzione del fatto che nel 1847 Lady Blessington ricevette da suo fratello, il Maggiore Powell, incaricato presso Hobart Town, un ritratto a olio di una giovane signora eseguito dal suo abile pennello. Si dice che «sia stato in grado di conferire l’espressione della sua stessa malvagità al ritratto di una graziosa e pura fanciulla». Zola ci narra, in un suo romanzo, di un giovane che dopo aver commesso un omicidio, si dà all’arte dipingendo ritratti impressionisti dai colori verdastri che ritraggono persone perfettamente rispettabili, ma tutti con una curiosa rassomiglianza con la sua vittima. Lo sviluppo dello stile di Mr. Wainewright mi sembra molto più sottile e suggestivo. Si può pensare a un’intensa personalità creata dal peccato.
Questa figura strana e affascinante che aveva per alcuni anni abbagliato la Londra letteraria, e aveva debuttato così brillantemente nella vita e nelle lettere, costituisce indubbiamente un soggetto di studio interessante. Mr. W. Carew Hazlitt, il suo ultimo biografo, al quale devo molte delle informazioni contenute in questa memoria, il cui libretto è sotto certi aspetti di valore inestimabile, ritiene che il suo amore per l’arte e la natura sia stato solo una pretesa e una finzione, e anche altri gli hanno negato ogni capacità letteraria. A me sembra che questo punto di vista sia superficiale, o, almeno, errato. Il fatto di essere un assassino avvelenatore non va a scapito della sua prosa. Le virtù domestiche non sono alla vera base dell’arte, sebbene possano servire da eccellente pubblicità per artisti di seconda scelta. Forse De Quincey esagerava sulle sue capacità critiche, non posso far a meno di sostenere ancora che molto di ciò che ha pubblicato è troppo impudente, ordinario, troppo giornalistico nel cattivo senso di quella brutta parola. Qua e là è distintamente volgare nelle sue espressioni, ed è costantemente privo del senso del limite che caratterizza i veri artisti. Ma la responsabilità di alcuni dei suoi errori va attribuita ai tempi in cui visse e, tutto sommato, la prosa che Charles Lamb riteneva «capitale» ha un interesse storico non trascurabile. Ch’egli avesse un sincero amore per l’arte e la natura mi sembra assolutamente certo. Non esiste incongruenza essenziale fra delitto e cultura. Non si può riscrivere un’intera storia con lo scopo di gratificare il nostro senso morale di ciò che dovrebbe essere.
Naturalmente, egli ci è davvero troppo vicino nel tempo per poterci permettere di formulare un giudizio puramente artistico su di lui. È impossibile non provare un forte pregiudizio contro un uomo che avrebbe potuto avvelenare Lord Tennyson, o Gladstone e il maestro di Balliol. Ma se questi avesse indossato abiti diversi, o parlato una lingua diversa dalla nostra, se fosse vissuto nell’antica Roma o al tempo del Rinascimento italiano, o in Spagna nel sedicesimo secolo, o in qualsiasi altro paese o tempo che non fosse questo luogo o questo tempo, saremmo in grado di arrivare a una stima perfettamente libera da pregiudizi della sua posizione e del suo valore. So che ci sono molti storici, o almeno scrittori di argomenti storici, che credono ancora necessario formulare giudizi di tipo etico sulla storia, e che distribuiscono le loro lodi o i loro rimproveri compiacendosi solennemente come un maestro di scuola. Questo è, comunque, un atteggiamento sciocco, e dimostra solo che l’istinto morale può esser portato a un tale livello di perfezione da far la sua comparsa ovunque questa non sia richiesta. Nessuno con un vero senso storico si sognerebbe mai di dar colpa a Nerone, o rimproverare Tiberio, o censurare Cesare Borgia. Questi personaggi sono diventati le marionette di una commedia. Ci possono riempire di terrore, o orrore, oppure stupore, ma non ci faranno del male. Non sono in relazione diretta con noi. Da loro non abbiamo nulla da temere. Sono passati nella sfera dell’arte, della scienza e né l’arte né la scienza conoscono niente che abbia bisogno di approvazione o di disapprovazione morale. Così sarà un giorno per il compare di Charles Lamb. Adesso ho la sensazione che sia un po’ troppo moderno per esser trattato con lo spirito di curiosità disinteressata al quale dobbiamo molti affascinanti studi sui grandi criminali del Rinascimento italiano scaturiti dalla penna di John Addington Symonds, Mary F. Robinson, Vernon Lee e altri illustri scrittori. Comunque sia, l’arte non lo ha dimenticato. È lui l’eroe di Hunted Dawn di Dickens, della Lucrezia di Vareny de Bulwer; ed è gratificante notare che la narrativa ha reso omaggio a qualcuno che fu tanto abile con «penna, matita e veleno». Essere fonte di ispirazione per un romanzo significa essere più importante di un avvenimento.
Il critico come artista
PARTE PRIMA
Con alcune note sull’importanza del non fare nulla
Dialogo
PERSONAGGI: Gilbert ed Ernest.
SCENA: la biblioteca di una casa a Piccadilly, che si affaccia su Green Park.
GILBERT (al piano): Mio caro Ernest, di che cosa stai ridendo?
ERNEST (sollevando lo sguardo): Di una eccellente storia in cui mi è capitato di imbattermi leggendo quel volume di Ricordi che ho trovato sul tuo tavolo.
GILBERT: Che libro è? Ah, vedo. Non l’ho ancora letto. È bello?
ERNEST: Mentre tu suonavi l’ho sfogliato con divertimento, sebbene, di regola, non ami i libri di ricordi moderni. Sono scritti generalmente da persone che o hanno perso completamente la memoria o non hanno mai fatto niente che valga la pena di ricordare; il che è senza dubbio la spiegazione del loro successo, visto che il pubblico inglese si trova perfettamente a suo agio quando a parlargli è una mediocrità.