Nota introduttiva
Quando L’importanza di essere Onesto debuttò trionfalmente a Londra il 14 febbraio 1895 Oscar Wilde aveva già scritto per il palcoscenico sei testi, e altri due ne aveva in cantiere. Delle sei opere precedenti due, Vera o i Nichilisti (1880) e La duchessa di Padova (1883), appartenenti al suo periodo giovanile, erano state eseguite solo in America. Allestendo Vera nel 1883, un impresario newyorchese aveva pensato di giovarsi della notorietà del giovane Wilde, reduce dal suo lungo e fortunato giro di conferenze negli Stati Uniti, ma il lavoro non piacque e chiuse dopo poche repliche. Sempre durante le conferenze americane, un’attrice di lì, Mary Anderson, aveva inoltre commissionato a Wilde una tragedia, ma quando se la vide arrivare, la rifiutò. La duchessa di Padova andò in scena solo nel 1891, sempre a New York, questa volta con una star di sesso maschile e con il nuovo titolo di Guido Ferranti, rinnovando l’insuccesso di Vera. I due testi appaiono immaturi rispetto alla produzione successiva di Wilde almeno quanto sono dissimili fra loro. Vera, malgrado la presenza di un commentatore che, secondo un procedimento ripreso in seguito da Wilde, pronuncia spiritosi paradossi (alcuni dei quali riutilizzati in seguito), è una commedia romantica o tragicommedia, ambientata nel mondo dei rivoluzionari russi: è un contesto che all’epoca faceva spesso parlare di sé, ma Wilde non sembra averlo esplorato con troppo impegno. Anni dopo l’esteta avrebbe manifestato interesse per l’illustre agitatore russo Petr Kropotkin, esule in Inghilterra (è ricordato in De Profundis, e parte delle sue idee sono riecheggiate nel saggio anarchico «L’anima dell’uomo sotto il socialismo»): in Vera però i cospiratori sono personaggi convenzionali, molto più vicini al mondo improbabile dell’operetta che a quello della letteratura realistica, e la trama pur contenendo qualcosa di fondamentalmente wildiano nel caso di un personaggio che all’improvviso cambia opinione in modo radicale, chiede forse troppo alla credibilità dello spettatore quando propone il caso di un’eroina che all’ultimo momento rinnega per amore la sua fede politica, e si immola per salvare da un attentato il giovane zar di cui si è invaghita. A qualcuno tornerà in mente Rigoletto, e infatti Wilde era stato un attento lettore di Le Roi s’amuse di Victor Hugo, dal quale è tratta l’opera verdiana. Non per nulla echi di questa e di altre tragedie rinascimentali dell’autore dei Miserabili si trovano anche nella Duchessa di Padova, composta nel blank verse di Shakespeare e degli altri grandi drammaturghi elisabettiani, nell’uso del quale Wilde mostra una notevole abilità mimetica unita purtroppo a una sostanziale mancanza di ispirazione e di originalità.
Ben diversa la qualità dei lavori successivi, scritti dopo un lasso di alcuni anni di grande produttività e maturazione. Fra questi Salomé (1892) costituisce un caso a parte, composta come fu a Parigi (di getto, e lo testimonia un quaderno riempito frettolosamente a matita, oggi alla Fondazione Bodmer di Ginevra) e in francese. Non concepito per la rappresentazione, almeno in origine, il dramma nacque dal desiderio di affidare alla carta uno dei raccontini paradossali, spesso di argomento biblico, che Wilde amava improvvisare per i suoi ascoltatori, rovesciando provocatoriamente una situazione tradizionale (vedi fra i «Poemi in prosa», per esempio, la storia del profeta che piange perché pur avendo predicato verità e compiuto miracoli, non è stato crocefisso): qui abbiamo una Salomè ninfetta perversa che chiede la testa di Giovanni non, come vorrebbe la tradizione, dietro istigazione della madre assetata di vendetta, ma solo perché, incapricciata del profeta e da lui respinta, desidera baciarne la bocca. Il personaggio di Salomè aveva affascinato molti decadenti, e le tele del pittore visionario Gustave Moreau con la danza sensuale della principessina, molto ammirate nella Parigi frequentata da Wilde, figuravano in À rebours di J.K. Huysmans, libro di cui Wilde si era nutrito avidamente prima di metterlo in mano al protagonista del Ritratto di Dorian Gray, il quale lo prende a modello di vita. Anche lo stile della prosa di Salomé si ispira alla fine secolo francese, presentando in particolare delle affinità con quello dei drammi del belga Maurice Maeterlinck (Pelleas et Mélisande), vedi il contrasto fra una lingua ostentatamente ingenua, quasi elementare, da esercizio di conversazione (alcuni recensori parlarono di Ollendorf, che era il Baedecker dell’epoca), e una materia, invece, estenuata, corrotta, raffinatissima. La grande attrice Sarah Bernhardt si invaghì del testo e annunciò l’intenzione di interpretarlo a Londra, ma poco prima dell’andata in scena la rappresentazione fu vietata dal censore in base a una legge risalente addirittura al tempo della Riforma protestante, quando per combattere la voga delle sacre rappresentazioni popolari si era vietato di mettere sul palcoscenico personaggi delle Sacre Scritture. Si trattava ovviamente di un cavillo, lo scopo essendo quello di perseguitare il reprobo Wilde, che aveva appena dato scandalo col Ritratto di Dorian Gray. Wilde protestò pubblicamente, fra l’altro minacciando di emigrare definitivamente in Francia e prendere quella cittadinanza, ma non ci fu niente da fare. Salomé fu così allestita per la prima volta solo nel 1896, a Parigi, nel teatro indipendente di A. Lugné-Poë, durante l’incarcerazione di Wilde, al quale l’artista francese intese così rendere omaggio. In precedenza un’edizione a stampa del lavoro, in una traduzione inglese di Lord Alfred Douglas che non piacque all’autore (vedi De Profundis) e con le illustrazioni del giovane genio Aubrey Beardsley, aveva rinnovato un’atmosfera di scandalo intorno a questo testo che Richard Strauss avrebbe musicato integralmente nel 1905, cogliendo un enorme successo internazionale che oltre a consentire al compositore di costruirsi una lussuosa villa a Garmisch avrebbe cominciato a pagare gli ingenti debiti lasciati da Wilde, e contribuito al mantenimento dei suoi figli.
Quando la controversia su Salomé scoppiò, era da poco andato in scena il primo dei tre «Society Dramas» scritti da Wilde fra il 1893 e il 1895: Il ventaglio di Lady Windermere, Una donna senza importanza e Un marito ideale, tutti accolti trionfalmente. Con questi tre lavori, la cui fortuna sulle scene non è mai venuta meno fino ai nostri giorni, Wilde svolse una funzione quasi di rifondatore del teatro inglese, per dargli atto della quale è necessario riportarsi alle condizioni in cui agì. Da pochi anni infatti, neanche una ventina, il teatro era ridiventato un passatempo dell’alta borghesia, quale era stato nel Settecento: infatti in epoca romantica le sale si erano dilatate fino a diventare quasi dei circhi, e il pubblico, molto misto, aveva richiesto drammoni a effetto con gran dispiego di sollecitazioni spettacolari come cavalli e cani ammaestrati; le classi dirigenti avevano spostato le loro predilezioni sull’opera lirica, e gli scrittori, anche quelli innamorati della scena come Dickens, avevano preferito dedicarsi al romanzo. Nella seconda metà del secolo però l’iniziativa di attori e impresari creò sale intime e arredate confortevolmente, con poltrone imbottite ed eleganti foyer, tali da attirare nuovamente gentiluomini e signore benvestite, ai quali fu offerto inizialmente soprattutto un repertorio importato dalla Francia, magari con gli adattamenti opportuni. Il ritorno a teatro del pubblico «bene» stimolò alla lunga la nascita di nuovi autori, e dopo la generazione dei pionieri – Tom Robertson, Tom Taylor – venne quella dei veri professionisti, come A.W. Pinero e H.A. Jones, in attesa dell’iconoclasta G.B. Shaw.
Ora, fu proprio Wilde ad aprire la strada tanto ai commerciali Jones e Pinero, quanto al talento rivoluzionario di Shaw, dimostrando ai primi la possibilità di una variazione autarchica del teatro salottiero alla francese, e al secondo, quella di un teatro di idee, dove promuovere qualcosa di simile alla discussione di problemi sociali impostata da Ibsen sul Continente. In superficie, con i tre «Society Dramas» Wilde non si peritò di ricalcare le situazioni canoniche e i personaggi messi in circolazione da Alexandre Dumas figlio e da Victorien Sardou, descrittori di un milieu altoborghese o aristocratico in cui minacciano di venire alla luce segreti compromettenti o legami inconfessabili, di solito manovrati da o concernenti una cosiddetta «donna con un passato», ossia un’avventuriera senza scrupoli oppure una ex appartenente della buona società, estromessane per la sua condotta riprovevole, che tenta il tutto per tutto pur di rientrarvi. Fanno parte del contorno, spesso, un figlio illegittimo; un marito integerrimo con un cadavere nell’armadio che può esporlo ai ricatti; una moglie leale ma poco elastica; un dandy cinico e seduttore; una gran dama anziana e autorevole; nonché, ovviamente, un coro di personaggi salottieri.
In Lady Windermere la «donna con un passato» nel suo tentativo di riconquistare rispettabilità insospettisce la figlia, la quale credendosi a torto tradita dal marito sta per compiere un passo irreparabile, da cui la salva il sacrificio definitivo della madre. Nella Donna senza importanza la protagonista riemerge nel momento in cui suo figlio sta per intraprendere una promettente carriera come segretario di Lord Illingsworth, senza sapere che costui è suo padre. Il cinico Lord tenta di sedurre l’innamorata del giovane, il quale lo affronta e farebbe di peggio se la madre non lo fermasse all’ultimo momento, rivelandogli tutto; nell’ultim’atto il giovane e la fidanzata riparano in America, e Lord Illingsworth è ripagato dal disprezzo universale. Nel Marito ideale, il capolavoro del terzetto, la «donna con un passato» ricompare per ricattare Sir Robert Chiltern, ora in predicato per diventare ministro, e uomo incorruttibile; minacciando di rivelare un’antica scorrettezza che peraltro fruttò a Sir Robert il suo patrimonio, la donna vuole che costui rinunci a smascherare una speculazione con denaro pubblico. Per fortuna però la donna presta a sua volta il fianco a essere ricattata...
Uno scrupoloso studio di K. Hartley dimostrò una volta per tutte l’ampiezza dei debiti di Wilde nei confronti del teatro francese di boulevard, cosa che del resto lo stesso Wilde non dissimulò mai. Senonché le sue commedie si distinsero subito e definitivamente da tante altre di supina imitazione innanzitutto per la competenza e la maestria dell’ambientazione nell’alta società britannica, che l’autore mostrava di conoscere da vicino; poi per la vivacità dei dialoghi, scintillanti e torniti come non avveniva di sentire sulle scene inglesi dal tempo di Sheridan; infine per l’introduzione, come portavoce dell’autore, di un personaggio secondario (che però nel Marito ideale assume la funzione di deus ex machina) cui sono affidati i bons mots provocatori e le affermazioni argutamente trasgressive per cui lo stesso Wilde andava famoso – ammesso a partecipare a una conversazione così scoppiettante il pubblico si sentiva in certo modo stuzzicato nella sua vanità. A Shaw, che all’epoca faceva il critico drammatico e che dedicò al Marito ideale una delle sue rare recensioni entusiastiche, Wilde mostrò inoltre la condizione alla quale era possibile parlare di argomenti seri se non addirittura scottanti davanti a un pubblico che aveva respinto Ibsen, il grande fustigatore della borghesia, accusandolo di rovistare nel putridume: questa condizione era l’ironia, l’umorismo. Si può dire a un inglese qualunque cosa, pur di farlo scherzando, concluse l’apostolo del socialismo, del femminismo, del vegetarianesimo e di cento altre campagne, e da allora in avanti si regolò di conseguenza; ma questa è un’altra storia.
Quanto all’Importanza di essere Onesto – che fu accolta da ovazioni interminabili la sera della prima ma che dovette interrompere le rappresentazioni dopo appena sessantasei repliche, quando anche le altre commedie di Wilde furono smontate in seguito al cattivo andamento del processo intentato dall’esteta contro il Marchese di Queensberry – deluse Shaw, il quale in un articolo la definì divertente, ma fredda, «senza cuore». Escludiamo che il futuro autore di Pigmalione avesse sofferto di qualcosa di simile all’invidia e alla rivalità davanti a un testo destinato a diventare uno dei tre o quattro più amati e rappresentati di tutta la storia del teatro inglese; e limitiamoci a osservare che dal punto di vista della battaglia per un teatro di idee, quale egli stesso era sul punto di intraprendere, questa commedia gli parve un passo indietro in quella evoluzione di Wilde che aveva seguito con tanto entusiasmo. Perdoniamolo dunque se gli sfuggirono almeno in parte i meriti imperituri di questo gioiello impeccabile, che è in se stesso l’essenza più pura del caratteristico paradosso wildiano in quanto ribalta capricciosamente tutte le convenzioni del teatro in generale, e del «Society Drama» in particolare. Questo ribaltamento comincia con la sanzione del predominio della parola sull’azione. Laddove nei drammi alla francese che Wilde aveva fino a quel momento ostentato di imitare è la storia ad avere, almeno in teoria, la parte predominante, qui conta quello che i personaggi dicono e non quello che fanno; per esempio, come si chiamano e non chi sono. Giulietta aveva detto a Romeo (più o meno), «cambia il tuo nome, e potremo amarci; una rosa ha lo stesso profumo anche se la chiami in un altro modo». Invece Gwendoleen e Cecily sono disposte ad amare un uomo, qualsiasi uomo, solo a condizione che si chiami Ernest; e i due eroi ritenendosi sprovvisti di tale appellativo decidono subito di farsi ribattezzare, allo scopo di attribuirselo. È il mondo dell’upper class, dove apparire vale ben più che essere; e quindi come pretendente Jack, pur provvisto di rispettabilità, patrimonio e dell’amore di Gwendoleen, è inaccettabile quando si scopre che, in quanto trovatello, non è provvisto di un vero nome. Non per nulla Lady Bracknell è pronta, qualora la casa offerta alla figlia si dimostri trovarsi sul lato «sbagliato» di Belgrave Square, a far cambiare la moda. Così, i personaggi tradizionali del «Society Drama» ci sono tutti, ma mutati di segno: le femmine comandano, anche in amore, e i maschi obbediscono; la «donna con un passato» è l’inappuntabile Miss Prism.
Insomma in questa commedia, che va recitata con imperturbabilità (gli attori non debbono far sospettare di ritenerla comica), la decorazione è più importante della struttura, e la maliziosa novità del capovolgimento sconcertò i suoi primi spettatori, che nell’intervallo dissero di aver sentito parlare solo di tramezzini al cetriolo. Ma il loro gradimento fu indiscutibile, tanto che il lavoro fu il primo di Wilde a esser ripreso dopo la morte dell’esteta, da George Alexander con cui aveva debuttato, prima nel 1902 e poi nel 1909, nel 1911 e nel 1913; in seguito i nuovi allestimenti in tutto il mondo non si contarono più. Un buon documento della tradizione inglese a proposito di questa britannicissima commedia è nel film di A. Asquith (1952) con Michael Redgrave, Michael Denison, Dorothy Tutin, Joan Greenwood, e le insuperate Edith Evans (Lady Bracknell) e Miss Prism (Margaret Rutherford).
Qualcosa si può aggiungere sul testo, che Wilde ridusse da quattro atti a tre su richiesta di Alexander, per far posto a un lever de rideau di tale Langdon E. Mitchell (allora si usava far precedere le commedie da un atto unico comico); che peraltro l’autore considerasse l’edizione abbreviata come quella definitiva lo conferma il fatto che ristampò questa, quando curò l’edizione in volume dell’Importanza, nel 1899. Nel 1956 tuttavia la New York Public Library pubblicò la versione dattiloscritta con correzioni di Wilde in suo possesso degli atti I, III e IV, e in facsimile il manoscritto del II (il dattiloscritto corretto del II è scomparso); e nel 1957 Vyvyan Holland curò a Londra una redazione dell’Importanza in quattro atti, basata su questa edizione e sul confronto della medesima con una versione tedesca del 1903, proveniente dalla versione più lunga. Si vide allora che, condensando, Wilde aveva accorpato gli atti II e III, eliminato nel finale una serie di effusioni fra il dottor Chasuble e Miss Prism, soppresso due personaggi secondari, il giardiniere Moulton e il legale Gribsby, che a un certo punto viene per arrestare per debiti l’inesistente Ernest. Wilde aveva anche modificato nomi di personaggi e varie battute, non di rado migliorandole. La versione in tre atti appare insomma la migliore, anche se si può rimpiangere il sacrificio dell’episodio di Gribsby, che ha notevoli spunti comici e che alcune edizioni moderne stampano in appendice.
Non è dato sapere se Wilde, il cui gusto di scrivere per il teatro fu irrimediabilmente stroncato dall’arresto e dall’incarcerazione, avrebbe proseguito nella vena inaugurata con l’Importanza. In ogni caso, i progetti che aveva in cantiere e che abbandonò si riallacciavano a sue maniere precedenti. Una tragedia fiorentina – che per la verità manca solo di qualche tocco definitivo; doveva far parte di un trittico di atti unici sul tema dell’amore – scritta in blank verse, fa pensare addirittura alla Duchessa di Padova, anche se qui il tema è caratteristicamente wildiano: per accorgerci che una cosa nostra è desiderabile abbiamo bisogno di vederla desiderata da altri. Dal canto suo, la Sainte Courtisane, ispirata dalla Thaïs di Anatole France, era un altro apologo pseudobiblico alla maniera di Salomé. Qui un anacoreta converte una donna di piacere, ma poi le parti si invertono. Il frammento sopravvissuto è appena un inizio. Ne esisteva, pare, anche una versione molto più ampia, che uno degli amici di Wilde ritrovò e riportò all’esteta quando, a Parigi, egli tentava con poca voglia di rimettersi a lavorare; ma Wilde dimenticò immediatamente il manoscritto in una vettura pubblica, e poi disse, senza rimpianti, che tutto sommato quello era il posto ideale dove lasciarlo.
MASOLINO D’AMICO