Vera o i Nichilisti

Tragedia in un prologo e quattro atti

1880

 

 

 

 

Premessa

 

È stata edita per la prima volta nel 1880, con il titolo Vera or the Nihilists. A Drama in Four Acts, a Londra, Ranken & Co. Si tratta di una edizione ridotta agli usi di scena e non è nota con precisione la tiratura.

Viene ripubblicata nel 1882, con l’aggiunta di un prologo e infine nella collezione delle opere complete dell’edizione Methuen.

Doveva essere rappresentata nel dicembre 1881 a Londra, dalla signora Bernard Beere e dall’impresario Norman Forbes Robertson, dopo i rifiuti di Ellen Terry e della Modezka, ma ragioni di opportunità politica spinsero Wilde a rimandare la produzione. L’opera andò in scena a New York, nell’agosto 1883, ad opera della compagnia di Marie Prescott. Tuttavia la commedia non ebbe successo e non superò la settimana di repliche.

Anche i giudizi critici furono tutt’altro che favorevoli:

 

Si tratta di un marciume in forma drammatica, strascicato troppo a lungo, una sequenza sconnessa di disgustosa retorica con una costruzione di stampo grossolano e ordinario (New York Herald); la commedia è irreale, pesante e noiosa (New York Times); una sconclusionata storia d’amore, d’intrighi e di politica [...] quasi un fiasco (New York Tribune).

 

Ci fu tuttavia chi seppe cogliere, al di là della mancata riuscita della messa in scena, le nascenti capacità drammaturgiche di Oscar Wilde:

 

La commedia Vera di Oscar Wilde non sembra un successo: ma che sia uno spettacolo vuoto, o stupido, o debole, come dichiarano alcuni critici, non è assolutamente vero, almeno per quanto riguarda Oscar Wilde. Abbiamo letto Vera e crediamo che con una buona messa in scena sarebbe un grande successo. Il signor Wilde ha affidato la sua commedia a un’attrice mediocre, capace solo di fare la bisbetica, sulla scena e nella vita. Per salvarsi costei sta ora cercando di convincere l’autore a interpretare uno dei personaggi. Da parte di lui sarebbe una totale follia accettare. Un giovane può sopravvivere anche a una brutta messa in scena; ma ci sono limiti che non possono essere oltrepassati (Pilot).

 

Ci fu infine anche chi dette un giudizio positivo sullo spettacolo, e volle porre un collegamento tra l’insuccesso della commedia e l’ostilità di cui Oscar Wilde era fatto oggetto da parte della critica e del pubblico americano sin dall’epoca del suo precedente viaggio in America:

 

C’era una grande sorpresa ad attendere la gente convenuta all’Union Square Theatre lunedì sera. Erano venuti a ridere. Sono rimasti ad applaudire. Se Oscar Wilde desiderava un qualche tipo di soddisfazione per le ingiurie, il ridicolo e il disprezzo con cui si era scontrato nel suo primo viaggio in questo paese, ne ha ottenuto in abbondanza, perché la sua commedia ha trionfato, per quanto le condizioni fossero così avverse – come spesso accade a quegli autori i cui fini sono seri e onesti. Attaccare il signor Wilde a ogni costo, con offese di bassa lega, indecenti e grossolane è stato la gioia di giornali e di quella parte del pubblico che nella sua ignoranza sfrontata rivela solo quanto sia volgare. Senza la capacità o la volontà di carattere che lo ha spinto a dedicare le sue notevoli capacità allo sviluppo di un gusto universale, cioè la bellezza sulla terra, costoro hanno frainteso i suoi fini e aiutato i suoi tentativi. Non è caso nuovo nella storia, che un uomo di valore venga crocifisso sulla gogna del pregiudizio popolare e dell’incredulità. In queste circostanze la fede del signor Wilde nell’intelligenza del pubblico americano – dimostrata dall’aver affidato la sua commedia al suo giudizio – era certamente la fede di una natura straordinariamente generosa. Che quanto sia poi avvenuto provi che la sua fiducia non era mal riposta, non intacca in nessun modo il coraggio della sua fede.

Sia da un punto di vista letterario che drammatico, Vera è un lavoro che si colloca nella rosa delle migliori opere della stagione. La trama, il dialogo, lo spirito del dramma hanno tutti carattere così elevato da dargli diritto a prendervi posto. L’argomento è magistrale, e richiedeva un trattamento magistrale. L’autore ha saputo darglielo. Naturalmente (come apparirà in quest’articolo), ha fatto degli errori, ma si tratta di errori che nascono dall’inesperienza, e per di più in numero minore di quelli che di consueto si rinvengono nei primi tentativi di scrittura drammatica. Così come è scritta – senza alcuna indulgenza per gli errori – Vera è il più nobile contributo alla letteratura drammatica che la scena abbia ricevuto da molti anni (New York Mirror, 25.8.1883).

 

In Vera o i Nichilisti, oltre agli ipotetici pregi sottolineati dalla troppo enfatica recensione del New York Mirror, si intravedono qua e là le linee essenziali delle posizioni future dello scrittore. Sin dalla prima scena si afferma che «le idee sono inutili e si può vivere benissimo senza di loro», o che «fare una buona insalata significa che si è un brillante diplomatico; il problema è identico in entrambi i casi: sapere con esattezza quanto olio mescolare col proprio aceto».

Non siamo a conoscenza di riprese moderne del dramma wildiano dopo la prima rappresentazione ad opera di Andrea Maggi e Clara Della Guardia (Milano, Teatro Diana, 1890): fu un insuccesso senza attenuanti e la Compagnia riprese, dopo tre sole repliche, I fossili di François De Curel.

Più che i riferimenti alla attualità (lo zar Alessandro II era stato assassinato da un anarchico proprio in quegli anni), è il plot romantico-passionale che sembra aver ispirato Wilde, come risulta chiaramente da una sua lettera all’attrice Marie Prescott:

 

Ho tentato di esprimere qui, entro i limiti dell’arte, quel grido titanico dei popoli per la libertà, che nell’Europa dei nostri giorni minaccia troni e rende instabili i governi dalla Spagna alla Russia, e dai mari del Nord a quelli del Sud. Ma non è un dramma politico, bensì di passione. Non si tratta di teorie di governo, ma semplicemente di uomini e di donne: e la moderna Russia nichilista, con tutto il terrore della sua tirannia e la meraviglia dei suoi martiri, non è che il fiero e fervente sfondo davanti al quale vivono e amano le persone del mio sogno.

 

PAOLO BUSSAGLI e LUCIO CHIAVARELLI

 

 

PERSONAGGI DEL PROLOGO

 

Pietro Sabouroff, locandiere

Vera Sabouroff, sua figlia

Michele, contadino

Demetrio Sabouroff

Nicola

Colonnello Kotemkin

 

PERSONAGGI DELLA TRAGEDIA

Lo Zar Ivan

Principe Paolo Maraloffski, Primo Ministro di Russia

Principe Petrovic

Conte Rouvaloff

Marchese di Poivrard

Barone Raff

Generale Kotemkin

Un Paggio

Un Colonnello della Guardia

 

NICHILISTI

Pietro Tchernavic, Presidente dei Nichilisti

Michele

Alessio Ivanacievic, noto come studente di Medicina

Professor Marfa

Vera Sabouroff

Soldati, Cospiratori, ecc.

 

SCENE DELLA TRAGEDIA

 

Prologo, una locanda russa; atto I, una grande soffitta a Mosca; atto II, sala del Consiglio nel palazzo imperiale; atto III, la stessa scena del primo atto; atto IV, anticamera dell’appartamento dello Zar.

 

PROLOGO

 

Scena: una locanda russa. In fondo alla scena una grande porta che si apre su un paesaggio nevoso. Pietro Sabouroff e Michele.

 

PIETRO (scaldandosi le mani alla stufa): Vera non è ancora tornata, Michele?

MICHELE: No, papà Pietro, non ancora; ci son tre miglia buone, di qui all’ufficio postale; e deve anche mungere le vacche, e la grigia è una bestia particolarmente difficile, per una ragazza.

PIETRO: Perché non sei andato con lei, scioccone? Non ti amerà mai, se non le stai sempre appresso; alle donne piace essere importunate.

MICHELE: Lei dice che l’annoio già abbastanza, papà Pietro, e ho paura che, tutto sommato, non mi amerà mai.

PIETRO: Via, via, ragazzo, perché non dovrebbe amarti? Sei giovane, e non saresti nemmeno brutto, se il Signore Iddio o tua madre, ti avessero dato un’altra faccia.

Non sei forse un guardacaccia del principe Maraloffski? e non possiedi un buon pascolo, e la vacca migliore del paese? Che altro può desiderare una ragazza?

MICHELE: Ma Vera, papà Pietro...

PIETRO: Vera, figliolo mio, ha troppe idee in testa; io, per mio conto, le idee le trovo inutili, ho vissuto benissimo senza; perché i miei figli non potrebbero fare lo stesso? Guarda Demetrio! Poteva star qui ed occuparsi della locanda; molti giovanotti avrebbero fatto salti di gioia davanti a una simile offerta in questi tempi difficili; ma lui, testa leggera e scervellata, ha avuto bisogno di andarsene a Mosca a studiar legge!

Cosa vuol sapere della legge? Quando un uomo fa il proprio dovere, dico io, nessuno gli dà noia.

MICHELE: Ah! però, papà Pietro, si dice che un buon avvocato può gabbare la legge quanto gli pare, senza che nessuno trovi niente a ridire. Se uno sa la legge, sa quel che ha da fare.

PIETRO: È vero, Michele; se uno conosce la legge, non c’è cosa illegale che egli non possa fare quando gli garba: ecco perché ci sono gli avvocati. Più o meno servono soltanto a questo e lui se ne sta laggiù e non ci scrive più un rigo da quattro mesi. Che bravo figlio, eh?

MICHELE: Andiamo, andiamo, papà Pietro, le lettere di Demetrio devono essersi smarrite;... forse il nuovo postino non sa leggere; ha un’aria così stupida. E, quanto a Demetrio, come! era il più bravo giovane del villaggio! Ricordate come sparò all’orso, vicino al granaio, in quell’inverno di gran freddo?

PIETRO: Bel colpo; io stesso non ne ho mai tirato uno migliore.

MICHELE: E quanto a ballare, saranno due anni a Natale, riuscì a stancare tre suonatori di violino.

PIETRO: Eh, sì; era un giovanotto allegro. È la ragazza che è seria;... va attorno solenne come un prete, a volte per giorni interi.

MICHELE: Vera pensa sempre agli altri.

PIETRO: È proprio lì che sbaglia, figliolo. Lasciamo che al mondo ci pensino Iddio e il nostro piccolo Padre, lo Zar. Non è affar mio riparare il tetto del vicino. L’anno scorso, il vecchio Michele morì congelato nella sua slitta durante la tormenta, e sua moglie ed i figli morirono poi di fame, quando vennero i tempi difficili; ma era forse affar mio? Il mondo non l’ho fatto io. Lasciamo che ci pensino Iddio e lo Zar. Poi venne la golpe, e con essa la peste, tanto che i preti non facevano a tempo a seppellire i morti che rimanevano per le strade, uomini o donne che fossero. Ma era forse affar mio? Il mondo non l’ho fatto io. Lasciamo che ci pensino Iddio e lo Zar. Oppure due anni fa, d’autunno, quando il fiume straripò improvvisamente e si portò via la scuola con tutti i bambini, maschi e femmine, che affogarono. Il mondo non l’ho fatto io... lasciamo che ci pensino Iddio e lo Zar.

MICHELE: Ma, papà Pietro...

PIETRO: No, no, figliolo; non vive più chi si addossa i guai del prossimo. (Entra Vera in abiti da contadina.) Be’, figlia mia, sei stata fuori un pezzo;... dov’è la lettera?

VERA: Oggi non c’era, babbo.

PIETRO: Lo sapevo.

VERA: Ci sarà domani, babbo.

PIETRO: Sia maledetto quel figlio cattivo.

VERA: Oh, babbo, non dir così; dev’essere malato.

PIETRO: Sì! di dissolutezza, forse.

VERA: Come puoi parlare così di lui, babbo? Lo sai, che non è vero.

PIETRO: Allora dove se ne vanno i soldi? Ascolta, Michele. Ho dato a Demetrio metà della fortuna di sua madre, per pagare gli avvocati di Mosca. Ci ha scritto soltanto tre volte, e sempre per chiedere altro denaro. Gli è stato mandato, non per mia volontà, ma perché l’ha voluto lei (indicando Vera), e adesso fanno cinque mesi, quasi sei, che non sappiamo più nulla di lui.

VERA: Tornerà, babbo.

PIETRO: Ahimè! il figliol prodigo ritorna sempre; ma lui non farà più ombra alla mia porta.

VERA (sedendo, pensierosa): Deve essergli successa qualche disgrazia; forse è morto! Oh! Michele, son tanto preoccupata per Demetrio.

MICHELE: Non amerai mai altri che lui, Vera?

VERA (sorridendo): Non so; ci sono tante altre cose da fare al mondo oltre l’amore.

MICHELE: Nessuna che valga la pena, Vera.

PIETRO: Cos’è questo rumore, Vera? (Si sente un tintinnìo metallico.)

VERA (alzandosi e dirigendosi verso la porta): Non so, babbo, non sono campani di mucche, altrimenti potrebbe essere Nicola che torna dalla fiera. Oh! babbo, sono soldati che vengono giù dalla collina; uno è a cavallo. Come sono belli! Con loro, però, ci son degli uomini incatenati! Devono essere briganti. Non lasciarli entrare, babbo, non li potrei guardare.

PIETRO: Uomini incatenati! Perbacco, è una fortuna, figlia mia! Avevo sentito dire che sarebbe passata di qui la nuova strada da far percorrere ai prigionieri destinati alle miniere della Siberia; ma non l’avevo creduto. La mia fortuna è fatta! Lesta, Vera, lesta! Finirò col morire ricco, dopo tutto. D’ora in poi non ci mancheranno i buoni clienti. Un uomo onesto può cogliere ogni tanto l’occasione di guadagnarsi il pane a spese delle canaglie.

VERA: Quegli uomini sono canaglie, babbo? Che hanno fatto?

PIETRO: Suppongo che si tratti di alcuni di quei Nichilisti contro i quali ci ha messo in guardia il prete. Non stare lì incantata, figlia mia.

VERA: C’è da credere, allora, che siano uomini cattivi.

(Rumore di soldati dall’esterno; grida di «Alt». Entrano un ufficiale russo con qualche soldato e otto uomini in catene, vestiti di cenci; uno di essi, entrando, si alza lesto il bavero sulle orecchie e nasconde la faccia; qualche soldato rimane di guardia alla porta, altri si siedono; i prigionieri restano in piedi.)

COLONNELLO: Locandiere!

PIETRO: Eccomi, Colonnello.

COLONNELLO (indicando i Nichilisti): Date un po’ di pane e dell’acqua a questi uomini.

PIETRO (tra sé): Non caverò molto da questa ordinazione.

COLONNELLO: E per me, cosa avete da mangiare?

PIETRO: Della buona selvaggina ben frollata, Eccellenza, e della buona vodka di segale.

COLONNELLO: Nient’altro?

PIETRO: Ma,... dell’altra vodka, Eccellenza.

COLONNELLO: Che tangheri, questi contadini! C’è una stanza migliore di questa?

PIETRO: Sì, signore.

COLONNELLO: Mostratemela. Sergente, mettete fuori un picchetto, e badate che queste canaglie non comunichino con nessuno. Niente bigliettini, cani! altrimenti sarete sferzati. E adesso vediamo questa cacciagione. (A Pietro chino dinanzi a lui.) Levatevi dai piedi, imbecille! Chi è questa ragazza? (Vede Vera.)

PIETRO: Mia figlia, Altezza.

COLONNELLO: Sa leggere e scrivere?

PIETRO: Sì, signore.

COLONNELLO: Allora è una donna pericolosa. A nessun contadino dovrebbero essere permesse cose del genere. Coltivate i vostri campi, stivate i vostri raccolti, pagate le vostre tasse, e obbedite ai vostri padroni: è questo il vostro dovere.

VERA: Chi sono i nostri padroni?

COLONNELLO: Ragazza; questi uomini vanno ai lavori forzati a vita, per aver fatta la stessa domanda sciocca.

VERA: Allora sono stati condannati ingiustamente.

PIETRO: Vera, tieni la lingua a posto. È una grullina che parla troppo, signore.

COLONNELLO: Tutte le donne cianciano troppo. Andiamo; dov’è questa cacciagione? Conte, vi sto aspettando. Cosa potete trovare di bello in una ragazza con le mani incallite? (Entra, con Pietro e il suo aiutante di campo, in una stanza vicina.)

VERA (rivolta a un Nichilista): Non volete sedere? Dovete essere stanco.

SERGENTE: Andiamo, ragazza, non parlate ai miei prigionieri.

VERA: Parlerò, invece. Quanto volete?

SERGENTE: Quanto avete?

VERA: Li lascerete sedere, se vi dò questo? (Si toglie la collana da contadina.) Non ho altro; era di mia madre.

SERGENTE: Be’, mi sembra graziosa, e anche pesante. Cosa volete da questi uomini?

VERA: Sono affamati e stanchi. Lasciate che mi avvicini a loro.

UNO DEI SOLDATI: Lasciala fare, se ci paga.

SERGENTE: Va bene, andate. Ma se il Colonnello vi vede, dovrete venire con noi, carina mia.

VERA (va verso i Nichilisti): Sedete; dovete essere stanchi. (Distribuisce loro qualcosa da mangiare.) Chi siete?

UN PRIGIONIERO: Nichilisti.

VERA: Chi vi ha messo in catene?

PRIGIONIERO: Nostro Padre, lo Zar.

VERA: Perché?

PRIGIONIERO: Per aver troppo amato la libertà.

VERA (al prigioniero che nasconde la faccia): Cosa volevate fare?

DEMETRIO: Dare la libertà a trenta milioni di esseri umani schiavi di un uomo solo.

VERA (con voce agitata): Come vi chiamate?

DEMETRIO: Non ho nome.

VERA: Dove sono i vostri amici?

DEMETRIO: Non ho amici.

VERA: Lasciatemi vedere la vostra faccia!

DEMETRIO: Vi scorgerete soltanto patimento. Mi hanno torturato.

VERA (gli tira giù il bavero dalla faccia): Mio Dio! Demetrio! fratello mio!

DEMETRIO: Sst! Vera; stai calma. Non devi dirlo al babbo; sarebbe la sua morte. Ho creduto di poter liberare la Russia. Una sera, in un caffè, c’erano degli uomini che parlavano di Libertà. Prima di allora non avevo mai sentito quella parola. Sembrava che parlassero di un nuovo Dio. Mi unii a loro. Tutto il denaro è andato lì. Cinque mesi fa ci arrestarono. Mi trovarono mentre stampavo il giornale. Adesso vado ai lavori forzati a vita. Non ho potuto scrivere. Pensavo fosse meglio lasciarvi credere che fossi morto; tanto, ci portano in una tomba di vivi.

VERA (guardandosi attorno): Devi fuggire, Demetrio. Prenderò io il tuo posto.

DEMETRIO: Impossibile! Tu puoi soltanto vendicarci.

VERA: Vi vendicherò.

DEMETRIO: Ascolta! c’è una casa a Mosca...

SERGENTE: Prigionieri, attenzione!... viene il Colonnello... ragazza, basta!

(Entrano il Colonnello, l’Aiutante di Campo e Pietro.)

PIETRO: Spero che vostra Altezza sia stata contenta della selvaggina. L’avevo uccisa io stesso.

COLONNELLO: Sarebbe stata migliore se non ne aveste parlato tanto. Sergente, siete pronto? (Dà una borsa a Pietro.) Tenete, briccone!

PIETRO: La mia fortuna è fatta! Lunga vita a vostra Altezza. Spero che vostra Altezza tornerà sovente da queste parti.

COLONNELLO: Per San Nicola, spero di no. Fa troppo freddo per me. (A Vera.) Non far più domande su cose che non ti riguardano. Non dimenticherò la tua faccia.

VERA: Nemmeno io la vostra, e ciò che fate.

COLONNELLO: Voialtri contadini state diventando troppo insolenti da quando non siete più servi; e lo staffile è il miglior sistema per insegnarvi la politica. Avanti, sergente.

(Il Colonnello si volta e va in fondo alla scena. I prigionieri escono per due; quando Demetrio passa davanti a Vera, lascia cadere in terra un pezzo di carta; essa vi mette sopra un piede, e resta immobile.)

PIETRO (che aveva contato il denaro datogli dal Colonnello): Lunga vita a vostra Altezza. Spero di veder presto un’altra infornata. (Improvvisamente scorge Demetrio, nel momento in cui esce dalla porta, e si slancia gridando.) Demetrio! Demetrio! Mio Dio! Che fai qui? Egli è innocente, ve lo dico io. Pagherò per lui. Riprendetevi i vostri soldi (li getta in terra), prendetevi tutto ciò che possiedo, ma rendetemi mio figlio. Furfanti! Furfanti! dove lo portate?

COLONNELLO: In Siberia, vecchio.

PIETRO: No, no; prendete me al suo posto.

COLONNELLO: È un Nichilista.

PIETRO: Mentite! Mentite! È innocente. (I soldati lo respingono con i fucili, e gli chiudono l’uscio in faccia. Egli vi batte sopra con i pugni.) Demetrio! Demetrio! Nichilista! Nichilista! (Cade a terra.)

VERA (che era rimasta immobile, raccoglie il pezzo di carta sotto il piede, e legge): «99 via Tchernavaya, Mosca. ... Di soffocare i miei istinti; di non amare e non essere mai amata; di non aver pietà né di essere compatita; di non sposarmi, né di essere data in sposa, finché non sia giunta la fine». Fratello mio, terrò fede al giuramento. (Bacia il pezzo di carta.) Sarai vendicato!

(Vera rimane immobile, col foglietto nella mano alzata. Pietro giace sul pavimento. Michele, che è appena entrato, si china sopra di lui.)

 

Fine del Prologo

 

 

Questo ebook appartiene a lidia barone - 1124737 Edito da Newton Compton Editori Acquistato il 01/08/2011 13.50.20 con numero d'ordine 63790
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