ATTO SECONDO
Sala delle feste nel Palazzo Ducale decorata con arazzi che rappresentano Venere e la sua corte.
Un’ampia porta al centro immette su un corridoio rivestito di marmo rosso; da questo si vede il panorama della città di Padova. Sulla destra un grande baldacchino sovrasta tre troni, uno dei quali è posto leggermente più in basso degli altri. Nel soffitto si alternano lunghe travi dorate.
Mobili d’epoca, sedie ricoperte di cuoio dorato, stipi intarsiati d’oro e d’argento e cassoni dipinti con scene mitologiche. Un gruppo di cortigiani è nel corridoio e guarda dalle due finestre nella strada sottostante.
Dall’esterno arriva un clamore di grida e di folla: «Morte al Duca» è la frase ricorrente.
Dopo una breve pausa entra in scena il Duca che si appoggia al braccio di Guido Ferranti. Insieme a lui entra anche il Cardinale. Fuori, la folla continua a inveire.
DUCA: No, Eminenza, non ne posso più di lei. È peggio che brutta: è buona.
MAFFIO (concitatamente): Altezza, nella via ci sono duemila persone e le loro grida diventano di momento in momento più esasperate.
DUCA: Via, hanno voglia di sprecare la loro energia attraverso i polmoni! Quelli che urlano in questo modo non sono pericolosi, signori miei. Io temo soltanto gli uomini che tacciono. (Urla dalla folla.) Vedete, Eminenza quanto sono amato dalla folla? Questa è la loro serenata, che preferisco agli sfilacciati sussulti d’un liuto d’amore. Com’è dolce ascoltarli! (Altro urlo della folla minacciosa.) Mi pare che comincino a stonare. Dirò ai miei uomini di sparare addosso a loro. Non riesco a tollerare la cattiva musica. Petrucci, andate a ordinare al capitano delle guardie di far sgomberare la piazza. Mi avete udito, messere? Eseguite i miei ordini.
(Petrucci esce.)
CARDINALE: Supplico Vostra Altezza di prestar orecchio alle loro parole.
DUCA (prendendo posto sul trono): Già, le pesche quest’anno non sono grosse come l’anno passato. Chiedo scusa, Eminenza: credevo che mi parlaste di pesche. (Dalla folla arrivano convinte acclamazioni.) Che costa sta succedendo?
GUIDO (dopo essere andato di corsa alla finestra): La Duchessa è uscita sulla piazza. S’è messa tra le guardie e il popolo. Non vuole che sparino.
DUCA: Che il diavolo la porti!
GUIDO (ancora alla finestra): Ora rientra a Palazzo, seguita da un gruppo di cittadini.
DUCA (balzando in piedi): Per San Giacomo! La nostra Duchessa diventa temeraria!
BARDI: Ecco la Duchessa.
DUCA: Chiudete quella porta. L’aria è fredda quest’oggi. (Chiudono la porta sul corridoio. Entra [da sinistra] la Duchessa, seguita da una folla di cittadini miseramente vestiti.)
(La Duchessa si inginocchia davanti al Duca.)
DUCHESSA: Supplico Vostra Altezza di darci udienza.
DUCA: Son forse un sarto, signora, visto che mi presentate una combriccola di cenciosi?
DUCHESSA: I loro stracci esprimono la loro condizione con miglior eloquenza di quanto potrei dirvi io.
DUCA: E quali sono le loro condizioni?
DUCHESSA: Purtroppo, signori, riguardano la qualità, d’una cosa tanto comune che né voi, né io, né alcuno di questi nobili signori abbiamo mai necessità di porvi mente. Dicono che il pane, il pane che mangiano ogni giorno, è fatto con misera crusca.
PRIMO CITTADINO: Proprio così! Tutta crusca!
DUCA: È un ottimo alimento. Lo do ai miei cavalli.
DUCHESSA (dominandosi): Dicono che in conseguenza della rottura dell’acquedotto, nelle cisterne pubbliche, ove si raccoglie l’acqua per loro, non ci sono ormai che stagnanti pozzanghere di fango.
DUCA: Che bevano vino se l’acqua è malsana.
SECONDO CITTADINO: Purtroppo, Altezza, i dazi che i gabellieri fan pagare alle porte della città son diventati così alti che è impossibile acquistare vino.
DUCA: Dovreste esser grati ai dazi che vi impongono la temperanza.
DUCHESSA: Mentre noi sediamo nella fastosa nostra Corte e nulla ci manca di quanto la ricchezza può procurare e per ogni necessità possiamo contare su tutta la servitù che desideriamo, nei loro vicoli senza sole c’è solo tremenda miseria, che affonda proditoriamente affilati coltelli nelle trepide gole dei loro figli, senza che nessuno ve ne faccia parola. Pensateci.
TERZO CITTADINO: È vero. Mio figlio, ieri, è morto di fame. Aveva sei anni appena e son così povero che non posso neanche dargli una sepoltura.
DUCA: Se sei povero, non è forse un dono del cielo? La povertà è una virtù cristiana. (Si volge al Cardinale.) Non è vero? Io so, Eminenza, che voi avete enormi rendite, ingenti benefizi e dècime e vaste tenute per il vostro compito di predicare la povertà volontaria...
DUCHESSA: Siate generoso, mio Duca e signore. Mentre noi stiamo qui in una nobile casa circondata da porticati che la riparano dal sole, con mura e tetti che la difendono dal gelo dell’inverno, vi sono tante persone a Padova che vivono in miseri tuguri così mal ridotti che la fredda pioggia e la neve e il rude soffio dei venti vi abitano insieme a loro; altri dormono sotto gli archi dei ponti per tutte le notti d’autunno sinché l’umida nebbia irrigidisce le loro membra, la febbre li colpisce, e allora...
DUCA: E allora tornano tra le braccia del gran padre Abramo, signora; dovrebbero ringraziarmi visto che andranno in Paradiso a causa dell’infelicità patita. (Al Cardinale:) Sbaglio o in qualche luogo delle Scritture c’è scritto che ogni uomo deve accontentarsi delle condizioni di vita in cui l’ha posto Iddio? Perché mai dunque dovrei mutare le loro condizioni od oppormi alla provvidenza di Chi tutto sa, che ha così diviso i beni del mondo in modo che taluni siano costretti alla fame e altri a rimpinzarsi? Non sono io che ho creato il mondo.
PRIMO CITTADINO: Il suo cuore è un macigno.
SECONDO CITTADINO: Sta’ zitto, amico. Vedrai che il Cardinale parlerà in nostro favore.
CARDINALE: È vero: i Cristiani debbono sopportare tutte le sofferenze, perché è dalla sofferenza che Dio trae il bene. Ma è anche da Cristiani esser generosi, nutrire gli affamati, risanare gli infermi. Credo che in questa città vi siano tanti mali a cui voi, signor Duca, potreste porre rimedio con la vostra saggezza.
PRIMO CITTADINO: Che significa porre rimedio?
SECONDO CITTADINO: Significa lasciar le cose come sono. [Questo discorso] non m’è piaciuto.
DUCA: Porre rimedio, avete detto proprio «voi», Eminenza questa parola? Porre rimedio, cioè riformare. C’è un uomo in Germania, un certo Lutero che vorrebbe porre rimedio ai guasti della Chiesa Cattolica. Non l’avete dichiarato eretico, non avete pronunciato anatemi contro di lui?
CARDINALE: Avrebbe voluto far uscire la pecore dall’ovile, mentre noi vi chiediamo soltanto di provvedere ai loro bisogni.
DUCA: Quando le avrò tosate a dovere, allora potrò pensare ai loro bisogni. Quanto a questi ribelli...
(La Duchessa rivolge a lui un gesto di supplica.)
PRIMO CITTADINO: Comincia bene... Forse ha intenzione di darci qualche cosa...
SECONDO CITTADINO: Ma davvero?
DUCA: Quanto a questi ribaldi cenciosi che si presentano al mio cospetto, con parole che rivelano i loro tradimenti...
TERZO CITTADINO: Mio buon signore, riempite di pane le nostre bocche e non udrete più quelle parole.
DUCA: Non le voglio udire più, sia che crepiate di fame o no. Miei signori questo secolo s’è fatto così lassista che il più vile dei bifolchi non si toglie più nemmeno il cappello se non con le percosse; un rozzo operaio può prendere un nobile a gomitate nella pubblica strada. Io sono il flagello di questa marmaglia, mandato da Dio a fustigare i loro peccati.
DUCHESSA: Siete certo d’averne il diritto? Siete senza peccati?
DUCA: Quando i peccati son puniti dalla virtù, ha poca importanza, ma quando il peccato punisce il peccato, allora Iddio si rallegra.
DUCHESSA: Oh, non avete paura?!
DUCA: E di che? Se son nemico degli uomini, son amico di Dio. (Ai cittadini:) Ebbene, miei bravi e fedeli cittadini di Padova, dal momento che la nostra graziosa Duchessa ci ha tanto pregati e che opporre un rifiuto a una dama supplichevole di tale bellezza sarebbe come mancare e di cortesia e di amore, per quanto riguarda le vostre lagnanze, prometto che...
PRIMO CITTADINO: Sta a vedere che diminuisce le imposte...
SECONDO CITTADINO: O forse ci farà distribuire un’elemosina di pane a ciascuno?
DUCA: ... vi prometto che domenica prossima Sua Eminenza il Cardinale, dopo la Santa Messa, vi predicherà un sermone sulla Bellezza dell’Obbedienza.
(I cittadini mormorano.)
PRIMO CITTADINO: In fede mia questo non ci sfamerà!
SECONDO CITTADINO: Ben misera salsa è un sermone, se non c’è niente con cui mangiarla.
DUCHESSA: Gente mia, come vedete io non ho potere alcuno presso il Duca, ma se vorrete andare nel cortile fuori, il mio elemosiniere dividerà tra voi cento ducati dalla mia borsa privata, che d’oro non è mai ricolma.
ELEMOSINIERE: A Vostra Altezza rimangono solamente cento ducati.
DUCHESSA: Date tutto quello che posseggo.
PRIMO CITTADINO: Dio salvi la Duchessa, dico io.
SECONDO CITTADINO: La salvi Iddio.
DUCHESSA: E ogni lunedì si distribuirà del pane a coloro che non ne hanno.
(I cittadini applaudono ed escono.)
PRIMO CITTADINO (uscendo): Ancora una volta Dio salvi la Duchessa.
DUCA (richiamandolo): Vieni qui, uomo! Come ti chiami?
PRIMO CITTADINO: Domenico, signore.
DUCA: Gran bel nome. E perché t’han chiamato così?
PRIMO CITTADINO: Perché son nato il giorno di San Giorgio.
DUCA: Ottima ragione. Eccoti un ducato. Non vuoi gridare «Dio salvi il Duca» in onor mio?
PRIMO CITTADINO (fiocamente): Dio salvi il Duca.
DUCA: No. Più forte, più forte!
PRIMO CITTADINO (appena un po’ più forte): Dio salvi il Duca!
DUCA: Ancora più forte, uomo! Mettici più sentimento. Eccoti un altro ducato.
PRIMO CITTADINO (entusiasticamente): Dio salvi il Duca!
DUCA (beffardo): Sì, signori: l’amore di questo semplice popolo mi commuove proprio. (Al cittadino, con asprezza:) Va via! (Il cittadino esce inchinandosi.) Ecco, oggi così si può comperare la popolarità. O si è democratici o non lo si è. (Alla Duchessa:) Molto bene: così, signora, sobillate i miei sudditi e con le elemosine e le elargizioni quotidiane avete acquistato il favore del popolino. Insomma: io non voglio che vi si ami.
DUCHESSA (guardando Guido): In verità, signore, nessuno mi ama.
DUCA: Non voglio che diate pane ai miserabili solo perché hanno fame.
DUCHESSA: Signore, i poveri hanno diritti che voi non potete sopprimere: il diritto alla pietà e il diritto alla misericordia.
DUCA: Vi mettete a discutere con me? Sarebbe questa la mite Duchessa per cui cedetti tre fra le più belle città italiane: Pisa, Genova e Orvieto?
DUCHESSA: Avete promesso di cederle, non le avete cedute. Avete mancato di parola anche in questa trattativa, come sempre.
DUCA: Ci fate torto, signora. Ci sono state ragioni di stato.
DUCHESSA: Quali ragioni di stato possono autorizzare a rompere promesse formali fatte a un altro Stato?
DUCA: In una foresta vicino a Pisa ci sono cinghiali. Quando promisi Pisa al vostro nobile padre, uomo sempre in assoluta buona fede, dimenticai che lì c’era una splendida tenuta di caccia.
DUCHESSA: Chi dimentica cos’è l’onore, dimentica tutto, mio signore.
DUCA: A Genova dicono, e certo non metto in dubbio la loro parola, che le triglie più grosse dei mari italiani si trovano in quel porto. (Voltandosi verso un cortigiano:) Voi, che avete un solo dio quello della pancia, potete confermare alla duchessa che dico la verità.
DUCHESSA: E Orvieto?
DUCA: Non ricordo adesso per qual motivo non ho ceduto Orvieto, secondo quanto prevedeva il contratto. Forse, perché ho cambiato idea. (Avvicinandosi alla Duchessa:) Ascoltatemi bene, signora. Voi qui siete sola. Da qui alla vostra grigia Francia ci sono molte leghe di strada polverosa e lì vostro padre ha appena un centinaio di cavalieri male in arnese al suo seguito. Che sperate mai? C’è qualcuno di questi gentiluomini padovani che parteggia per voi?
DUCHESSA: Nessuno.
(Guido freme, ma si domina.)
DUCA: E non ci sarà mai nessuno sinché io sarò Duca di Padova. Datemi ascolto, Signora, comincio a stancarmi del vostro comportamento e delle vostre grazie. Dato che siete mia, dovete piegarvi alla mia volontà e se questa è che voi non usciate da qui, questo palazzo diventerà la vostra prigione; e se la mia volontà sarà che voi andiate a passeggio, ebbene prenderete aria dalla mattina alla sera.
DUCHESSA: Con quale diritto, Signore?
DUCA: La mia seconda Duchessa mi rivolse una volta la stessa domanda: la sua tomba è nella cappella di San Bartolomeo, tutta di porfido rosso, davvero splendida. Guido, il tuo braccio. Venite, signori, andiamo a preparare i nostri falconi per la caccia di mezzogiorno. Ricordatevi, Signora: siete sola qui.
(Il Duca esce, sempre appoggiandosi a Guido e seguito dagli altri cortigiani.)
DUCHESSA (seguendoli con lo sguardo): È strano che un uomo così leale in apparenza si mostri tanto attaccato al Duca: pende dalle sue labbra crudeli, ne approva le velenose parole e non si scosta mai dal suo fianco. Quasi lo amasse. Ma questo non mi riguarda. Sono sola e l’amore non può raggiungermi. Il Duca ha detto la verità: sono sola, isolata, disonorata, diffamata. C’è mai stata una donna altrettanto sola? Quando gli uomini ci corteggiano ci chiamano fanciulle graziose, ci dicono che non abbiamo abbastanza senno per affrontare la vita, e così si dedicano loro a straziarcela. Ho detto: ci corteggiano?
No, siamo i loro giocattoli, le loro schiave per le incombenze d’ogni giorno, a loro meno care dell’ultimo cane che lecca le loro mani, meno accarezzate del falco che tengono sul polso. Ho detto: ci corteggiano? No, piuttosto ci comperano e vendono e mercanteggiano, il nostro stesso corpo diventa una merce.
So che il destino comune delle donne è che ciascuna vada sposa senza amore a un uomo e infranga la propria vita contro l’egoismo di lui, ma il fatto che questo destino è comune non lo rende meno crudele. Credo di non aver mai udito ridere una donna di sincera allegria, tranne una. E fu di notte, su una strada pubblica. Infelice, aveva le labbra truccate e sul viso la maschera del piacere. Non vorrei mai ridere come lei. Mai, meglio la morte.
(Inosservato, entra Guido dal fondo. La Duchessa si prostra davanti a un’immagine della Vergine.)
Oh, Maria madre, dal viso pallido e dolce, chino tra le teste degli angeli che ti volano attorno, non hai un aiuto da darmi? Madre di Dio, non hai un aiuto per me?
GUIDO: Non posso più resistere. L’amo e le parlerò.
Signora, sono io escluso dalle vostre preghiere?
DUCHESSA (alzandosi): Solo gli infelici possono aver bisogno delle mie preghiere.
GUIDO: Allora io ne ho un grande bisogno.
DUCHESSA: Come mai? Gli onori che vi tributa il Duca non vi bastano? Volete a Corte una posizione più importante? Signore, io non posso aiutarvi in questo, dal momento che sono tenuta in nessun conto io medesima.
GUIDO: Altezza, non m’interessano i favori del Duca, che il mio animo disprezza così come disprezza tutto ciò che è malvagio. Vengo in ginocchio a offrirvi i miei leali servigi fino alla morte.
DUCHESSA: Son da compiangere al punto che posso offrirvi solamente una piccola ricompensa di gratitudine.
GUIDO (prendendole la mano): Non potreste darmi il vostro amore? (La Duchessa ha una reazione di sorpresa; Guido si getta subito ai piedi di lei.)
O dolcissima amata. Perdonami se sono stato troppo audace! La tua bellezza infiamma il mio sangue giovane, e quando le mie labbra reverenti sfiorano la tua candida mano, ogni mia fibra è corsa da tali fremiti di passione impetuosa che non c’è cosa che non farei per ottenere il tuo amore!
(S’alza in piedi d’un balzo.) Ordinami di lottare con un leone e affronterò la belva Nemea nell’arido deserto! Lancia nel profondo viluppo d’una battaglia un tuo gioiello, un nastro, un fiore appassito, qualsiasi cosa t’abbia solo sfiorato una volta, e io la riporterò a te intatta anche se avessi contro tutti gli eserciti della Cristianità! E di più: dimmi di scalare le solitarie rupi innevate dell’Inghilterra e da quello scudo arrogante toglierò i gigli della tua Francia, di cui il leone marino inglese ti ha derubato! Oh, Beatrice, non scacciarmi dalla tua presenza! Senza di te i pesanti minuti avanzano con piedi di piombo, ma quando poso gli occhi miei sulla tua grazia allora le ore volano come dèi dai piedi alati, tingendo d’oro tutta la vita.
DUCHESSA: Non credevo che sarei mai stata amata; davvero il vostro amore è grande come dite?
GUIDO: Chiedi all’uccello marino se ama il mare, chiedi alle rose se aman la pioggia, chiedi all’allodola – che è muta nel buio – se ami vedere la luce del giorno... ma queste sono ancora semplici immagini, tenui riflessi del mio amore: è un rogo così immenso che neppure tutte le acque degli oceani riuscirebbero a spegnerlo. [Una pausa.] Non vuoi dunque parlare?
DUCHESSA: Non so che cosa dovrei dirvi.
GUIDO: Non vuoi dirmi che mi ami?
DUCHESSA: Questa è la lezione che dovrei ripetere? E dirla subito, tutta d’un fiato? Se v’amassi, signore, sarebbe un’ottima lezione. Ma se non v’amo, che dire?
GUIDO: Dite egualmente che m’amate perché sulle vostre labbra la bugia, vergognandosi di se stessa, potrebbe mutarsi in verità.
DUCHESSA: E se non parlassi? Dicono che gli amanti son più felici quando rimangono nel dubbio.
GUIDO: No. Il dubbio m’ucciderebbe e se è destino che muoia, fatemi morire di gioia e non di dubbio. Ditemi dunque: mi concedete di restare o devo andar via?
DUCHESSA: Non vorrei né l’una né l’altra cosa. Se rimani, mi rubi il mio amore e se te ne vai porti l’amor mio lontano da me. Oh, Guido, anche se tutte le stelle del mattino potessero cantare, non saprebbero esprimere la misura del mio amore.
Io ti amo.
GUIDO (alzando una mano): Oh, non cessate di parlarmi; credevo che gli usignuoli cantassero solo di notte. Ma se proprio devi cessare, lascia che le mie labbra sfiorino quelle capaci di spargere una musica tanto soave!
DUCHESSA: Sfiorare le labbra non è sfiorare il cuore.
GUIDO: Me ne chiudete le porte?
DUCHESSA: Mio signore, non ho più il mio cuore; vi permisi di portarmelo via il primo giorno che vi vidi; ladro inconsapevole che, senza rendertene conto, facesti irruzione dov’era custodito il mio tesoro e mi rapisti il monile più prezioso! Strano furto, che ti fece più ricco, sebbene ignaro, e fece me più povera, sebbene lieta!
GUIDO (stringendola tra le braccia): Oh, amore, amore, amore! No, mia adorata; solleva la testa, lascia che apra dolcemente quelle piccole porte scarlatte che si chiusero su così dolci note; lascia che mi tuffi in traccia di coralli tra le tue labbra e ne trarrò una conquista più ricca del tesoro aureo che il Grifone custodisce nella rozza Armenia.
DUCHESSA: Tu sei il mio signore, tutto quello che ho è tuo e quel che non ho è la tua fantasia a donarmelo, riversando prodigalmente la sua ricchezza su quel che non ha nessun valore. (Lo bacia.)
GUIDO: Forse è un eccesso di audacia guardarti così com’io ti guardo: la timida viola s’asconde tra le foglie e ha paura di fissare l’immenso sole a causa del suo fulgore troppo violento, ma i miei occhi – oh, occhi temerari! – hanno un tal gusto per il rischio che ti ammirano come stelle fisse e, immoti, si saziano della tua bellezza.
DUCHESSA: Amore mio, vorrei tu potessi rimirarmi per l’eternità perché i tuoi occhi son simili a lucidi specchi e quando guardo dentro di loro vedo me stessa e so che la mia immagine vive dentro di te.
GUIDO: O tu, astro che corri nell’alto cielo... (La prende tra le braccia) fermati! Fermati e rendi immortale quest’attimo.
(Un lungo silenzio, [mentre rimangono abbracciati]).
DUCHESSA: Siediti qui, un poco più in basso di me, amore, in modo che possa passar le mie dita tra i tuoi capelli e vedere il tuo volto ergersi come un fiore a incontrare il mio bacio.
Hai fatto caso che quando apriamo una stanza che per lungo tempo era rimasta inabitata, piena di parecchia polvere, di sudiciume e di muffa perché nessuno vi metteva piede da anni e togliamo dai supporti la sbarra arrugginita e spalanchiamo all’aria aperta le fredde imposte per lasciar entrare il sole, hai fatto caso a come quella luce muti ogni particella di polvere in un granello d’oro che danza nel suo raggio? Guido, il mio cuore è quella camera da tempo inabitata, ma tu vi hai fatto entrare l’amore e col suo splendore hai reso più bella la mia vita. Non credi che l’amore possa riempire tutta un’esistenza?
GUIDO: Sì! Senz’amore la vita non vale più della grezza pietra chiusa nella cava prima che lo scultore la renda divina. Senz’amore la vita è muta come le canne che crescono di solito in palude o lungo un fiume e son vuote d’ogni musica.
DUCHESSA: E con esse, tuttavia, quel gran musico che è Amore sa creare una fistula e trarne melodie. E così penso che Amore sappia far musica d’ogni vita umana, non trovi?
GUIDO: Le donne, mia amata, fanno che avvenga questo miracolo. Vi sono uomini che dipingono quadri o scolpiscono statue. Paolo da Verona o il figlio del tintore3 o il loro grande rivale che presso il mare a Venezia ha messo la fanciullina di Dio in cima alla scala, candida come il suo bianco giglio, e non più alta oppure Raffaello che dona divinità alle Madonne rendendole madri e non altro... Ma io penso che le donne siano i maggiori artisti del mondo perché sanno modificare la comune vita d’un uomo, insozzato dalla brama di danaro tipica del nostro secolo, e renderla sublime per virtù d’amore.
DUCHESSA: Guido, io vorrei che tu e io fossimo molto poveri; i poveri che s’amano son ricchi solo del loro amore.
GUIDO: Dimmi ancora che m’ami, Beatrice.
DUCHESSA (giocando col collare di lui): Come ti sta bene questo collare attorno alla gola.
(Dalla porta del corridoio i due vengono spiati dal Conte Moranzone.)
GUIDO: Ripetimi che mi ami.
DUCHESSA: Ricordo che quand’ero bambina nella mia cara Francia alla Corte di Fontainbleau, il Re portava un collare simile a questo...
DUCHESSA: Proprio non vuoi dirmi che mi ami?
DUCHESSA (sorridente): Aveva un’innata regalità, re Francesco4 ma non aveva una nobiltà pari alla tua. Perché dovrei dirti che ti amo? (Gli prende la testa tra le mani e la solleva verso di sé.) Non sai già che t’appartengo per sempre, anima e corpo? (Lo bacia, poi intravede Moranzone, balza in piedi.) Oh, chi c’è laggiù? (Moranzone scompare.)
GUIDO: Cosa stai dicendo, amore?
DUCHESSA: M’era sembrato di vedere un volto dagli occhi di fiamma che ci spiava dalla portiera.
GUIDO: No, non era nessuno, forse l’ombra d’un uomo di guardia che passava.
(La Duchessa resta in piedi con lo sguardo verso la portiera.)
Non era niente, mia amata.
DUCHESSA: Ma sì! Che cosa potrà mai nuocerci ora che siamo approdati alla terra di Amore? Credo che non m’importerebbe nulla quand’anche il Mondo indegno, con l’aiuto della Calunnia sua serva, riuscisse a metter sotto di sé la mia vita e la calpestasse: perché mai dovrebbe importarmene? Si dice che i rozzi fiori dei campi danno un profumo più forte quando vengono calpestati che non quando fioriscono in solitudine e che altre erbe prive di ogni fragranza, appassiscono, pestate, diffondendo all’intorno tutti gli aromi di Arabia. Lo stesso accade alle giovani vite che questo mondo crudele tenta di schiacciare: non fa che valorizzare la loro dolcezza e spesso renderle più belle. Più di qualsiasi cosa, quando si ha l’amore, come l’abbiamo noi, si ha il meglio dell’esistenza, vero?
GUIDO: Cara, dobbiamo suonare o cantare? Credo che saprei cantare adesso.
DUCHESSA: Non parlare. Vi sono istinti in cui ogni vita si compendia in un’estasi irrepetibile e la Passione pone un suggello alle labbra.
GUIDO: Oh, lascia che spezzi quel suggello con le mie labbra. Mi ami, Beatrice?
DUCHESSA: Sì... e non è strano che debba amare il mio nemico?
GUIDO: E chi sarebbe?
DUCHESSA: Tu! Tu, che con la tua freccia m’hai trafitto il cuore! Povero cuore che visse la sua piccola vita solitaria finché non incontrò la tua freccia!
GUIDO: Mia amata, sono anch’io ferito da quella stessa freccia che morrò di piaghe lasciate aperte, se non mi curi tu, Dottoressa adorata.
DUCHESSA: Non voglio curarti perché soffro del tuo stesso male.
GUIDO: Quanto t’amo! vedi son costretto a rubare la voce al cuculo e ripetere sempre la tua stessa parola.
DUCHESSA: Non dire altro, poiché se quella è la voce del piccolo cuculo, allora l’allodola è rauca e l’allodola canora ha perduto ogni musicalità.
GUIDO: Baciami, Beatrice! (La Duchessa gli prende il volto tra le mani, si china su di lui e lo bacia. Nello stesso istante si sente picchiare forte alla porta e Guido balza in piedi. Entra un servo.)
UN SERVO: Un plico, per voi, signore.
GUIDO (con tono indifferente): Ah, dammelo.
(Il servo porge un pacco avvolto in seta vermiglia ed esce. Guido è sul punto d’aprirlo, ma la Duchessa gli si avvicina da dietro le spalle e scherzosamente glielo strappa di mano.)
DUCHESSA (sorridente): Scommetto che lo manda una ragazza che desidera farti indossare un suo dono; sono così gelosa che non sono disposta a cedere nemmeno una piccola parte del mio bene, ma voglio tenerti tutto per me come l’avaro e tenerti in modo tale da non sciuparti.
GUIDO: Non è nulla.
DUCHESSA: No, te lo manda qualche ragazza.
GUIDO: Sai che non è vero.
DUCHESSA (gli volta le spalle e apre il pacco): Che significa questo? Un pugnale con due leopardi incisi nell’acciaio!
GUIDO (prendendo il pugnale dalle mani di lei): Mio Dio!
DUCHESSA: Guarderò dalla finestra e cercherò di vedere quale livrea indossava il servo che ha consegnato il plico. Non mi darò pace sinché non avrò scoperto il tuo segreto.
(Va via ridendo dal corridoio.)
GUIDO: Orrore! Avevo in così breve tempo dimenticato la morte di mio padre e in così breve tempo fatto entrare l’amore nell’animo mio e ora devo bandirlo per far spazio all’assassinio che batte alla mia porta urlando! Sì, devo farlo! L’ho giurato, ma non stanotte. Invece sì, proprio stanotte! Addio dunque alla gioia e alla luce della vita, addio a tutte le care memorie custodite nel cuore, addio e addio all’amore. Potrei forse accarezzare e stringere le innocenti mani di lei con le mie imbrattate di sangue? Potrei baciarla sulle labbra con le mie ancora frementi di discorsi omicidi? potrei guardare coi miei occhi iniettati di sangue quelle pupille viola, la cui purezza m’accecherebbe condannandomi a una eterna notte? No, il delitto ha alzato una barriera troppo alta tra noi due perché ci si possa baciare al di sopra di essa.
[Rientra la Duchessa.]
DUCHESSA: Guido!
GUIDO: Beatrice, devi dimenticare il mio nome e allontanarmi per sempre dalla tua esistenza.
DUCHESSA (avvicinadosi a lui): Amore...
GUIDO (indietreggiando): C’è tra noi una barriera che non possiamo superare.
DUCHESSA: Con te vicino affronterei qualsiasi cosa.
GUIDO: Ma è appunto questo. Io non posso rimanerti vicino, non posso respirare l’aria che tu respiri, non posso rimanere accanto alla tua bellezza che toglie ogni forza al mio animo trepido e fa che la mia mano disperata manchi ai suoi proponimenti. Lascia che m’allontani, te ne prego. Dimentica d’aver mai posato gli occhi su di me.
DUCHESSA: Come? Coi tuoi baci infuocati sulle mie labbra, dovrei dimenticare i voti d’amore che hai pronunciato?
GUIDO: Li rinnego!
DUCHESSA: No, non puoi, Guido! In virtù di quelle tue promesse ora sono parte dalla natura, l’aria vibra ancora della loro musica e fuori gli uccelli cantano con maggior dolcezza.
GUIDO: S’è alzato un muro tra noi, un muro di cui non mi rendevo conto o che avevo dimenticato.
DUCHESSA: Questo muro non esiste, Guido. Mi vestirò di miseri panni e ti seguirò in capo al mondo.
GUIDO: Nel mondo non c’è posto per tutti e due. Addio, addio per sempre.
DUCHESSA (imponendosi d’esser calma): Allora perché sei entrato nella mia vita e nell’arido giardino del mio cuore hai seminato quel candido germoglio?
GUIDO: Beatrice...
DUCHESSA: ... quel germoglio che ora vorresti sradicare e distruggere anche se ogni sua minima fibra occupa così a fondo il mio cuore che se ne spezzi una sola mi spezzi il cuore con essa. Perché sei entrato nella mia vita? Perché hai aperto le segrete sorgenti dell’amore che avevo murate? Perché?
GUIDO: Dio, aiutami!
DUCHESSA (congiungendo le mani): Hai fatto in modo che la passione abbattesse ogni argine come l’onda che, quando i fiumi straripano, travolge foreste e casolari. Amore, nella stupenda valanga della sua forza, ha travolto la mia vita! Vuoi che raccolga tutta quest’acqua a goccia a goccia e la renda alle sorgenti murandole di nuovo? Ahimè! Ogni goccia sarà una lagrima e con la sua salsedine renderà amara come fiele tutta la mia esistenza.
GUIDO: Ti scongiuro: non continuare a parlare perché io debbo uscire dalla tua vita e dal tuo amore per prendere una strada in cui non puoi seguirmi.
DUCHESSA: Ho sentito dire che i marinai morenti per sete su una zattera, poveri derelitti persi nel gran deserto marino, sognano prati verdi e dolci ruscelli e poi si destano con rovente sete in gola e muoiono anche più disperati poiché il sonno li ha tratti in inganno; muoiono maledicendo il sonno che ha concesso a loro quei sogni. Io non ti maledirò, anche se sono perduta in questo mare che gli uomini chiamano Disperazione.
GUIDO: O Dio, Dio!
DUCHESSA: Ma tu rimarrai. Ora ascoltami: io ti amo, Guido. (Attende qualche attimo.) È dunque morta l’eco? Non c’è risposta alla mia offerta.
GUIDO: Ogni cosa è morta, tranne una. E morrà anch’essa stanotte.
DUCHESSA: Le mie labbra debbono dunque apprendere a pronunciare la parola «addio». Eppure penso che non riusciranno a farlo, perché quando sto per profferire quella parola, dicono sempre: «Guido, ti amo!». Che debbo fare? Rimproverarle? E potrà una metà della mia bocca rimproverare l’altra, se entrambe sono colpevoli e si rifiutano di dire quella parola?
GUIDO: Dovrò dunque dirla io per loro. Addio, non ci potremo vedere mai più.
DUCHESSA: Se devi andar via, non sfiorarmi neppure. Va via e basta.
(Guido esce.)
Mai più. Ha detto: mai più. E sia. So quel che mi resta da fare. Muterò la fiamma d’amore in torcia funebre e cospargerò la mia bara coi fiori della passione. E dei canti erotici farò una nenia funebre. Così morrò cantando, come un cigno.
Oh, infelicità, se eri così vogliosa della mia vita, perché non hai assunto un’altra forma? Non la maschera dell’amore, ma quella del dolore; non la voce dell’usignolo, ma quella del corvo, non quegli occhi di lapislazzulo, ma quelli ciechi della talpa... I suoi occhi erano così azzurri che potevo pensare di vedere in essi il riflesso di Dio!
In questo modo, infelicità, ti avrei riconosciuta. Una barriera? Una barriera! Perché ha detto che c’è una barriera? Tra noi due non ci sono barriere. Mi ha dunque mentito. E dovrò perciò detestare chi amo, odiare l’oggetto della mia adorazione? Le donne non amano in questo modo, io credo. Perché se mi strappo a forza la sua immagine dal cuore, il cuore la seguirà come un pellegrino sanguinante sino in capo al mondo e la richiamerà con piccole grida di amore.
(Entra il Duca in abito da caccia, seguito da falconieri [dai cortigiani e da servi] con i cani.)
DUCA: Signora, ci fate aspettare. Fate aspettare i miei cani.
DUCHESSA: Oggi non verrò alla caccia.
DUCA: Come? Che volete dire?
DUCHESSA: Non posso, mio signore.
DUCA: Ehi, dico, faccia pallida, come osi opporti al mio volere? Potrei metterti in sella a una spelacchiata giumenta e farti girare per la città sinché la plebaglia che proteggi butterà i cappelli in aria e si farà beffe di te!
DUCHESSA: Quando mai avrò da voi una parola gentile?
DUCA: Le parole gentili sono vischio con cui impastoiare i nemici. Io ti tengo nel cavo della mano e non m’occorre di sperperare con te parole gentili!
DUCHESSA: Bene. Verrò.
DUCA (battendosi uno stivale col frustino): No. Ho cambiato idea: rimarrai qui e da moglie fedele aspetterai il nostro ritorno alla finestra. Non sarebbe terribile se la mala sorte facesse colpire accidentalmente il tuo nobile e devoto sposo?
[Ai cortigiani:] Venite, signori, i miei cani cominciano a spazientirsi e io pure, visto che ho una moglie paziente. Dov’è il giovane Guido?
MAFFIO: Mio signore da più d’un’ora non ho avuto il bene di vederlo.
DUCA: Non importa, son certo che l’incontreremo tra poco. [Alla Duchessa:] Allora, signora, restate a casa a filare. Vi dichiaro signori miei che le virtù domestiche sono una gran bella cosa. Negli altri! (Esce coi cortigiani.)
DUCHESSA: Il destino è contro di me; così stanotte, quando il mio signore dormirà, mi getterò su un pugnale e la mia vita avrà fine. Il cuore è più duro d’una pietra e solo la punta affilata d’un pugnale potrà raggiungerlo: quando l’avrà fatto si vedrà qual nome v’è inciso. Ecco, stanotte il Duca otterrà il divorzio da me. Eppure stanotte potrebbe morire anche lui: è molto vecchio. Perché non dovrebbe morire? Ieri le sue mani tremavano come per l’inizio d’una paralisi. Altri uomini sono morti in questo modo... e perché non lui? E non ci sono febbri, terzane, polmoniti e altri mali tutti frequenti nella vecchiaia? No, no, non morrà; il peccato lo terrà in vita; solo gli onesti muoiono innanzi tempo. I buoni muoiono, persone al cui confronto il Duca in tutta l’ignominia della sua esistenza è come un lebbroso. Donne e fanciulli muoiono, ma il Duca non morrà: è troppo immerso nel peccato. Come può essere che il peccato sia immortale e la virtù perisca? Come può il malvagio trarre vitalità dalla morte altrui, simile in questo, alle piante velenose che prosperano nella putredine?
No, non posso credere che Dio tolleri questo. Eppure il Duca non morrà: è troppo immerso nel peccato. Sarò io a morire, celebrerò questa notte le nozze con la tenebrosa morte e sarà la tomba il luogo segreto dell’amor mio. Cosa c’è mai di strano in questo? Il mondo è un cimitero e tutti gli uomini, simili a bare, nascondono scheletri.
(Entra il Conte Moranzone, tutto vestito di nero. Attraversa il fondo della scena guardandosi attorno con viva ansietà.)
MORANZONE: Dov’è Guido? M’è impossibile ritrovarlo.
DUCHESSA (vedendolo): Dio! Voi mi avete strappato il mio amore!
MORANZONE (con gioia improvvisa): Allora v’ha abbandonata!
DUCHESSA: Lo sapete bene. Rendetemelo, vi dico di restituirmelo! Altrimenti vi lacererò membra a membra e inchioderò la vostra testa alla forca comune, sinché i corvi, divoratori di carogne, non l’avranno interamente spolpata! Meglio per voi se aveste incontrato una leonessa affamata piuttosto che intromettervi tra me e l’oggetto della mia passione. (Più supplichevole:) Restituitemelo! Non sapete quanto io lo ami. Poco più di mezz’ora fa egli era qui inginocchiato davanti al trono e a me: proprio qui, e mi guardava... Questa è la mano che ha baciato, queste le labbra che sono state devastate dalle sue, queste le orecchie in cui ha riversato una storia d’amore tanto melodiosa che gli uccelli hanno smesso di cantare. Oh, restituitemelo!
MORANZONE: Non ama voi, signora.
DUCHESSA: La peste dissecchi la lingua che ha pronunciato queste parole! Rendetemelo!
MORANZONE: Signora, vi dico che non lo rivedrete mai più. Né questa notte, né alcun’altra notte.
DUCHESSA: Qual è il vostro nome?
MORANZONE: Il mio nome è Vendetta. (Esce.)
DUCHESSA: Vendetta! Io credo di non aver mai fatto del male a nessuno. E perché mai allora la Vendetta batte alla mia porta? Ma poco importa, dal momento che la Morte è già qui in attesa di farmi luce con la sua lugubre face.
È ben vero che gli uomini ti odiano, o Morte; e tuttavia credo che sarai più dolce con me che non il mio amore. Fa dunque che i tuoi messaggeri si mettano subito in cammino, sprona i lenti destrieri del giorno che indugia e manda al posto suo la sorella Notte, che avvolga nel lutto il mondo intero. Dalla torre ululi il gufo tuo ministro, si dèsti il rospo con le sue strida, aleggi lo schiavo dell’atra Persefone, il pipistrello che su ali irrequiete traversa l’aria buia. O Notte, strappa dalla terra le stridule mandragore, ingiungi loro di cantare per noi e di’ alla talpa di scavare un letto freddo e angusto perché stanotte io dormirò tra le tue braccia.
Sipario
3 Allusioni a Paolo Caliari detto Paolo Veronese (1528-1588) e a Jacopo Robusti detto il Tintoretto (1518-1594) (N.d.T.).
4 Francesco II (1546-64), il giovane sposo di Maria Stuarda, era appunto nato a Fontainebleau (N.d.T.).