Il ritratto di Mr. W. H.
1. Avevo pranzato con Erskine nella sua graziosa villetta sulla Birdcage Walk, ed eravamo seduti in biblioteca con i nostri caffè e le sigarette, quando ci trovammo a parlare del problema dei falsi letterari. Al momento non riesco a ricordare come ci imbattemmo in questo argomento, piuttosto curioso per quel periodo, ma so che avemmo una lunga discussione su Macpherson, l’Irlanda e Chatterton e che, con riferimento a quest’ultimo, io insistetti che i cosiddetti falsi erano semplicemente il risultato del desiderio artistico della rappresentazione perfetta; che non avevamo alcun diritto di biasimare un artista per le modalità che sceglie per presentare il suo lavoro; e che, essendo l’arte in certo qual modo una messa in scena, un tentativo di realizzare la propria personalità su un piano fantastico, al di fuori della portata degli impedimenti e delle limitazioni della vita reale, censurare un artista per un falso significava confondere un problema etico con un problema estetico.
Erskine, che era molto più vecchio di me e mi era stato a sentire con la divertita deferenza di un quarantenne, d’un tratto mi mise una mano sulla spalla e mi disse: «Che cosa diresti di un giovanotto che aveva una strana teoria su una certa opera d’arte, credeva nella sua teoria e realizzò un falso al fine di provarla?».
«Ah! Questa è tutt’altra cosa!», risposi.
Erskine tacque alcuni istanti, osservando le sottili tracce di fumo grigio che si levavano dalla sua sigaretta. «Sì», disse dopo una pausa, «tutt’altra cosa».
C’era qualcosa nella sua voce, forse una lieve amarezza, che suscitò la mia curiosità. «Hai mai conosciuto qualcuno che l’abbia fatto?», esclamai.
«Sì», rispose gettando la sigaretta nel fuoco, «un mio caro amico, Cyril Graham. Era molto affascinante, molto sciocco e molto spietato. A ogni modo, a lui debbo il solo lascito che abbia mai ricevuto in vita mia».
«Che cos’era mai?», esclamai ridendo. Erskine si alzò dalla sua poltrona, si avvicinò a un alto armadietto intarsiato che si trovava tra le due finestre, lo aprì e tornò verso di me con una piccola pittura su tavola, incastonata in un’antica cornice elisabettiana alquanto sciupacchiata.
Era il ritratto di un giovane in costume del tardo XVI secolo, in piedi accanto a un tavolo, con la mano destra appoggiata su un libro aperto. Avrà avuto diciassette anni ed era di una bellezza straordinaria, per quanto evidentemente un po’ effeminato. Invero, se non fosse stato per l’abito e per i capelli tagliati cortissimi, si sarebbe detto che quel volto, con i suoi occhi languidi e sognanti e le sue delicate labbra scarlatte, fosse il volto di una fanciulla. La maniera, e in particolare la trattazione delle mani, ricordavano le ultime opere di François Clouet. Il farsetto di velluto nero con le impunture d’oro e lo sfondo blu pavone, sul quale si stagliava con un effetto così gradevole e dal quale acquisiva un valore tonale così luminoso, erano davvero dello stile di Clouet; e le due maschere della tragedia e della commedia che pendevano in modo alquanto formale dal piedistallo marmoreo avevano quella dura severità di tocco – così diversa dalla facile grazia degli Italiani – che il grande maestro fiammingo non perdette mai neppure alla corte di Francia e che, di per sé, è sempre stata una caratteristica del temperamento nordico.
«È una cosa affascinante», esclamai, «ma chi è questo meraviglioso giovane la cui bellezza l’arte ha così felicemente preservato per noi?»
«È il ritratto di Mr. W. H.», disse Erskine con un sorriso triste. Può darsi che fosse per effetto della luce, ma mi parve che i suoi occhi si stessero riempiendo di lacrime.
«Mr. W. H.!», ripetei; «e chi era Mr. W. H.?»
«Non ricordi?», rispose; «guarda il libro sul quale è appoggiata la sua mano.»
«Vedo che c’è scritto qualcosa, ma non riesco a capire cosa», risposi.
«Prendi questa lente d’ingrandimento, e prova», disse Erskine, con lo stesso sorriso triste che gli aleggiava sulle labbra.
Presi la lente e, avvicinando un po’ la lampada, cominciai a decifrare quell’arzigogolata calligrafia del XVI secolo. «To the Onlie Begetter of These Insuing Sonnets1... Mio Dio!», esclamai, «È il Mr. W. H. di Shakespeare?»
«Così diceva Cyril Graham», bisbigliò Erskine.
«Ma non somiglia per niente a Lord Pembroke», ribattei. «Conosco benissimo i ritratti Wilton; c’ero vicino poche settimane fa.»
«Credi davvero che i Sonetti siano dedicati a Lord Pembroke?», mi domandò.
«Ne sono sicuro», risposi. «I tre personaggi dei Sonetti sono Pembroke, Shakespeare e Mrs. Mary Fitton: non c’è alcun dubbio.»
«Be’, io sono d’accordo con te», replicò Erskine, «ma non l’ho sempre pensata così. Un tempo credevo... be’, probabilmente credevo a Cyril Graham e alla sua teoria.»
«Di che cosa si trattava?», gli chiesi osservando quel meraviglioso ritrat-to che già esercitava su di me uno strano fascino.
«È una storia lunga», mormorò, allontanando da me il quadro – un po’ bruscamente, pensai allora – «una storia molto lunga; se ti interessa, comunque, te la racconto.»
«Le teorie sui Sonetti mi hanno sempre affascinato», esclamai, «ma non penso che sia facile convertirmi a un’idea nuova. Questa storia non è più un mistero per nessuno. Invero, mi sorprende che lo sia mai stata.»
«Poiché personalmente non credo in questa teoria, non è facile che riesca a convertirti», disse Erskine ridendo; «ma forse ti potrà interessare.»
«Certo, raccontamela», risposi: «se è bella anche soltanto la metà del quadro, ne sarò più che soddisfatto.»
«Ebbene», esordì Erskine accendendosi una sigaretta, «debbo cominciare col dirti qualcosa su Cyril Graham. Eravamo nello stesso dormitorio, a Eton. Io avevo un anno o due di più, ma eravamo grandissimi amici e facevamo insieme tutti i nostri compiti e tutti i nostri giochi. Erano più giochi che compiti, naturalmente, ma non posso dire che mi dispiaccia. È sempre un vantaggio non aver ricevuto una solida istruzione pratica, e quanto ho imparato sui campi da gioco di Eton mi è stato utile quanto tutto ciò che mi hanno insegnato a Cambridge. Dovrei dirti che il papà e la mamma di Cyril erano entrambi morti: erano annegati al largo dell’isola di Wight in seguito a un orribile incidente che aveva colpito il loro yacht. Suo padre era un diplomatico, e aveva sposato una figlia, anzi l’unica figlia dell’anziano Lord Crediton, il quale alla morte dei genitori di Cyril ne divenne il tutore. Non credo che a Lord Crediton gliene importasse un granché di Cyril: non aveva mai perdonato alla figlia il fatto di avere sposato un uomo senza titoli nobiliari. Era un vecchio aristocratico eccentrico, che bestemmiava come un venditore ambulante e aveva i modi di un contadino. Ricordo di averlo visto, una volta, per la cerimonia di chiusura dell’anno scolastico. Bofonchiò qualcosa, mi dette una sterlina e mi disse di non diventare un “maledetto radicale” come mio padre. Cyril non gli era molto affezionato ed era anche troppo contento di trascorrere la maggior parte delle sue vacanze con noi, in Scozia. Non andarono mai d’accordo. Cyril lo considerava un orso, ed egli considerava Cyril effeminato. E in alcune cose era davvero effeminato, credo, per quanto andasse a cavallo e tirasse di scherma in modo eccezionale. Era però molto languido, nei suoi modi, e non poco vanitoso dei suoi begli occhi, e nutriva una forte avversione nei confronti del calcio, che amava definire un gioco adatto soltanto ai figli della borghesia. Le due cose che gli piacevano davvero erano la poesia e la recitazione. A Eton non faceva altro che mascherarsi e recitare Shakespeare, e quando passammo al Trinity egli divenne socio del circolo filodrammatico sin dal primo semestre. Ricordo di essere sempre stato molto geloso di questa sua passione per la recitazione: gli ero assurdamente devoto, penso perché eravamo così differenti in tante cose. Io ero un ragazzino goffo e deboluccio, con i piedi enormi e la faccia orribilmente lentigginosa. Le lentiggini sono comuni nelle famiglie scozzesi come la gotta in quelle inglesi. Cyril diceva sempre che, tra le due, egli preferiva la gotta; ma ha sempre attribuito un’importanza assurdamente eccessiva all’apparenza e una volta, a una riunione del nostro circolo, tenne un intervento per dimostrare come fosse meglio essere belli che essere buoni. Certo, egli era meravigliosamente bello. Coloro ai quali non piaceva, filistei e tutors del collegio, o studenti di teologia, dicevano sempre che era soltanto carino; ma il suo volto era ben più che soltanto carino. Io credo che sia la creatura più bella che io abbia mai visto, e niente poteva superare la grazia dei suoi movimenti e il fascino dei suoi modi. Affascinava chiunque fosse degno di essere affascinato e anche molti di coloro che non lo erano. Era spesso volitivo e petulante, e io lo consideravo terribilmente insincero, soprattutto per via del suo sfrenato desiderio di piacere, credo. Povero Cyril! Una volta gli dissi che si accontentava di trionfi molto a buon mercato, ma egli si limitò a scuotere la testa e a sorridere. Era orribilmente viziato. Immagino che tutte le persone affascinanti siano viziate. È il segreto della loro attrazione.
Comunque, debbo dirti della passione di Cyril per la recitazione. Tu sai che nei circoli filodrammatici le donne non potevano recitare o, quanto meno, non potevano ai miei tempi. Non so come sia adesso. Bene, naturalmente Cyril interpretava sempre parti femminili e, quando fu messa in scena Come vi pare, a lui toccò la parte di Rosalinda. Fu uno spettacolo meraviglioso. Ti farà ridere, ma ti assicuro che Cyril Graham fu l’unica Rosalinda perfetta che io abbia mai visto. Sarebbe impossibile descriverti la bellezza, la delicatezza, la raffinatezza della cosa. Lo spettacolo riscosse un successo immenso, sensazionale, e quell’orrido teatrino era sovraffollato tutte le sere. Ancora oggi, quando leggo questa commedia, non posso fare a meno di pensare a Cyril: la parte di Rosalinda avrebbe potuto essere stata scritta per lui, che la recitava con grazia e distinzione straordinarie. Il semestre successivo egli conseguì la laurea e venne a Londra per prepararsi a entrare in diplomazia. Ma invece di lavorare, passava le giornate a leggere i Sonetti di Shakespeare, e le serate a teatro. Com’è naturale, desiderava ardentemente prendere la via del palcoscenico. Lord Crediton e io facemmo tutto il possibile per impedirglielo. Forse se avesse fatto l’attore adesso sarebbe ancora vivo. Dare consigli è sempre una sciocchezza, ma dare un buon consiglio è assolutamente fatale. Spero che tu non commetta mai quest’errore: te ne pentiresti.
Ebbene, eccoci al punto della storia: un pomeriggio ricevetti una lettera in cui Cyril mi chiedeva di recarmi da lui la sera stessa. Egli aveva uno splendido appartamento a Piccadilly, che dava su Green Park, e io andavo da lui quasi tutti i giorni, così fui abbastanza sorpreso che si fosse dato pena di scrivermi. Naturalmente andai, e al mio arrivo lo trovai in uno stato di grande eccitazione. Mi disse che aveva finalmente scoperto il grande segreto dei Sonetti di Shakespeare; che tutti gli studiosi e i critici si erano completamente ingannati e che egli era il primo ad avere scoperto chi fosse davvero Mr. W. H., basandosi su prove completamente interne. Era fuori di sé dalla gioia, e per un po’ non volle comunicarmi la sua teoria. Poi tirò fuori un fascio di appunti, prese dal camino la sua copia dei Sonetti, si sedette e mi fece una lunga lezione sull’argomento.
Cominciò sottolineando come il giovane cui Shakespeare aveva dedicato questi componimenti stranamente appassionati dovesse essere stato qualcuno di realmente vitale per lo sviluppo della sua arte drammatica, e come questo non potesse affermarsi né di Lord Pembroke né di Lord Southampton. Invero, di chiunque si trattasse, non poteva essere di nobili natali, come risulta evidente dal sonetto XXV, in cui Shakespeare si mette a confronto con quegli uomini che sono “i favoriti dei grandi principi” e dice francamente:
Che coloro ai quali arridono propizie le stelle
menino vanti dei pubblici onori e dei loro titoli
rimbombanti;
io, cui la sorte interdisce simili trionfi,
gioisco in disparte di colui che maggiormente onoro2
e termina il sonetto dichiarandosi felice per la bassa estrazione sociale dell’uomo da lui tanto adorato:
Felice me dunque che amo e sono riamato,
il che né io né altri può mutare.
Secondo Cyril, questo sonetto sarebbe stato del tutto incomprensibile se dedicato al conte di Pembroke o al conte di Southampton, perché entrambi erano tra le più alte personalità dell’Inghilterra dell’epoca e del tutto degni dell’appellativo di “grandi principi”; a mo’ di conferma della sua opinione, mi lesse i sonetti CXXIV e CXXV, in cui Shakespeare ci dice che il suo amore non è “figlio della grandezza”, che “non si altera in mezzo alle pompe festose”, ma è “creato al riparo da ogni accidente del caso”. Io ascoltavo con grande interesse, anche perché non credo che il problema fosse mai stato sollevato da nessuno; ma quanto seguì fu ancora più curioso, e mi parve liquidare definitivamente l’ipotesi Pembroke. Sappiamo da Meres3 che i Sonetti sono stati scritti prima del 1598, e il sonetto CIV ci informa che l’amicizia tra Shakespeare e Mr. W. H. durava già da tre anni. Orbene, Lord Pembroke, che era nato nel 1580, non venne a Londra fino all’età di diciotto anni, cioè non prima del 1598, e Shakespeare deve aver conosciuto Mr. W. H. nel 1594, al massimo nel 1595. Di conseguenza Shakespeare può aver conosciuto Lord Pembroke soltanto dopo che i Sonetti erano già stati scritti.
Cyril sottolineò anche come il padre di Pembroke non fosse morto prima del 1601, mentre è evidente dal verso:
Aveste un padre; fate che vostro figlio possa dire altrettanto
che nel 1598 il padre di Mr. W. H. era morto; attribuiva molta importanza alle prove fornite dai ritratti Wilton, in cui Lord Pembroke è rappresentato come un uomo dalla carnagione e dai capelli scuri, mentre Mr. W. H. aveva i capelli d’oro filato, e sul suo volto si incontravano il “candore del giglio” e il “vivo incarnato della rosa”, mentre egli stesso era “biondo” e “rosso” e“bianco e rosso” e “di bell’aspetto”. Era inoltre assurdo immaginare chequalsiasi editore dell’epoca, e la prefazione è opera dell’editore, si sarebbemai sognato di chiamare Mr. W. H. William Herbert conte di Pembroke; e non possiamo definire parallelo il caso di Lord Buckhurst interpellato comeMr. Sackville, perché Lord Buckhurst, il primo a essere insignito di questo titolo, era semplicemente Mr. Sackville quando contribuiva al Mirror for Magistrates, mentre Pembroke, finché visse suo padre, era conosciuto come Lord Herbert. Fin qui per Lord Pembroke, la cui supposta identità con Mr. W. H. Cyril demolì facilmente mentre io stupefatto gli sedevo accanto. Con Lord Southampton Cyril ebbe anche meno difficoltà. Southampton divenne giovanissimo l’amante di Elizabeth Vernon, per cui non occorreva supplicarlo di sposarsi; non era bello e non assomigliava alla madre, com’era il caso di Mr. W. H.:
Tu sei lo specchio di tua madre, alla quale
ricordi il leggiadro aprile della sua età fiorente;
e soprattutto si chiamava Henry, mentre dai giochi di parole dei sonetti CXXXV e CXLIII risulta che l’amico di Shakespeare si chiamava come lui: Will.
Quanto alle altre ipotesi avanzate da sfortunati commentatori, che Mr. W. H. sia un refuso per Mr. W. S., cioè Mr. William Shakespeare; che “Mr. W. H. all”4 si debba leggere “Mr. W. Hall”; che Mr. W. H. sia Mr. William Hathaway; che Mr. W. H. stia per Mr. Henry Willobie, il giovane poeta di Oxford, con le iniziali invertite; e che vada messo un punto fermo dopo “augura”, cosicché Mr. W. H. diventerebbe l’autore, invece che il destinatario, della dedica, Cyril se ne sbarazzò molto in fretta; e non vale la pena di citare le sue ragioni, anche se ricordo che mi fece ridere a crepapelle leggendomi, sono felice di poter dire non nell’originale, alcuni passi da un commentatore tedesco di nome Barnstorff, il quale insisteva nell’affermare che Mr. W. H. era niente meno che “Mr. William Himself”5. Né sarebbe mai stato disposto a concedere che i Sonetti fossero esclusivamente satire delle opere di Drayton e di John Davies of Hereford. Per lui, come per me, erano componimenti seri e tragici, che sgorgavano dall’amarezza del cuore di Shakespeare ed erano addolciti dal miele delle sue labbra. Ancora meno avrebbe ammesso che fossero semplicemente allegorie filosofiche e che in essi Shakespeare si rivolgesse al suo io ideale, o alla sua umanità ideale, o allo spirito della bellezza, o al logos divino, o alla chiesa cattolica. Egli sentiva, come a mio parere tutti dobbiamo sentire, che i Sonetti sono rivolti a una persona, a un determinato giovane la cui personalità, per qualche motivo, sembra aver colmato l’anima di Shakespeare di una gioia terribile e di una disperazione non meno terribile.
Avendo così sgombrato la strada, Cyril mi chiese di abbandonare qualsiasi idea preconcetta che potessi nutrire sull’argomento e di ascoltare con equa-nimità, senza prevenzioni. Egli pose il problema in questi termini: chi eramai questo giovane contemporaneo di Shakespeare che, senza essere di no-bili natali o anche solo di nobile natura, era da lui invocato con tale passioneche noi non possiamo far altro che meravigliarci di questa strana adorazione,e abbiamo tanta paura a girare la chiave che sveli il mistero del cuore delpoeta? Chi era colui la cui bellezza fisica era tale che divenne la vera pietraangolare dell’arte di Shakespeare; la fonte stessa dell’ispirazione di Shake-speare; l’incarnazione stessa dei sogni di Shakespeare? Considerarlo sempli-cemente il destinatario di determinate poesie d’amore significava fraintende-re completamente tutta l’opera. L’arte di cui Shakespeare parla nei Sonetti, infatti, non è l’arte dei Sonetti stessi, che egli considerava soltanto un capriccio: egli allude di continuo all’arte del drammaturgo, e colui al quale Shakespeare disse:
Tu sei tutta la mia arte e innalzi
fino alla scienza la mia grossolana ignoranza;
al quale egli promise l’immortalità
dovunque più intensa spira la vita: sulla bocca degli uomini;
che fu per lui la “decima musa” e
dieci volte più degna
di quelle nove antiche che i rimatori invocano
non era sicuramente altri che l’attore-fanciullo per il quale creò Viola e Imogene, Giulietta e Rosalinda, Porzia e Desdemona, e persino Cleopatra.»
«L’attore-fanciullo del teatro di Shakespeare?», esclamai.
«Sì», rispose Erskine. «Questa era la teoria di Cyril Graham, sviluppata, come vedi, esclusivamente dai Sonetti stessi, che dipendeva non tanto da prove dimostrabili o dall’evidenza formale, quanto da una certo senso spirituale e artistico che, a suo dire, era l’unico mezzo per discernere il vero significato di quei componimenti. Rammento che mi lesse quel bel sonetto
Come può alla mia musa mancar soggetto
fin tanto che tu vivi, che te stesso profondi
quale dolcissimo argomento nei miei versi, argomento eccellente troppo
per essere trattato in uno scritto volgare purchessia?
Oh! a te stesso porgi grazie, se qualcosa di mio
ti vien sotto gli occhi che sia degno d’esser letto,
poiché chi può esser di mente sì ottusa che non sappia scriver di te,
se tu stesso dai alimento alla poesia?
e sottolineò come esso confermasse completamente il suo punto di vista; e invero passò a una minuziosa disamina di tutti i Sonetti, dimostrando – o immaginando di dimostrare – come grazie a questa nuova spiegazione anche le cose che erano sempre sembrate oscure o brutte o esagerate diventassero chiare e razionali, e di grande valore artistico, testimonianza della concezione shakespeariana dei veri rapporti intercorrenti tra l’arte dell’attore e l’arte del drammaturgo.
Naturalmente è ovvio che nella compagnia di Shakespeare dovesse esserci qualche attore-fanciullo di straordinaria bellezza cui egli affidava le parti delle sue nobili eroine; Shakespeare era infatti un valente impresario teatrale oltre che un grande poeta, e Cyril Graham aveva anche scoperto il nome dell’attore-fanciullo. Si chiamava Will o, come egli preferiva chiamarlo, Willie Hughes. Il nome di battesimo l’aveva trovato, naturalmente, nei sonetti con i giochi di parole, il CXXXV e il CXLIII; il cognome era nascosto, a suo parere, nel settimo verso del sonetto XX, dove Mr. W. H. è descritto come:
A man in hew, all Hews in his controwling6.
Nella prima edizione dei Sonetti, “Hews” era stampato in maiuscolo e corsivo, e questo, a suo parere, dimostrava chiaramente che dietro c’era un gioco di parole; questa opinione trovava conferma in quei sonetti in cui compaiono strani giochi di parole con “use” e “usury” e da versi come:
Thou art as fair in Knowledge as in hew7.
Naturalmente io mi convertii all’istante e Willie Hughes divenne per me reale come lo stesso Shakespeare. Gli mossi una sola obiezione: il nome di Willie Hughes non compare nell’elenco degli attori della compagnia di Shakespeare stampato sulla prima pagina delle sue opere. Cyril sottolineò come l’assenza del nome di Willie Hughes da quell’elenco confermasse invece la sua teoria, perché dal sonetto LXXXVI era evidente che egli avesse abbandonato la compagnia di Shakespeare per recitare in un teatro rivale, probabilmente in alcune delle opere di Chapman. Era per questo che nel grande sonetto su Chapman Shakespeare diceva a Willie Hughes:
Ma quando di voi si fecero rigogliosi i suoi versi,
allora venne a mancarmi la materia e la mia poesia languì
laddove l’espressione “quando di voi si fecero rigogliosi i suoi versi” si riferisce chiaramente alla bellezza del giovane attore che conferisce vita e realtà e aggiunge fascino ai versi di Chapman; la stessa idea ricorre peraltro nel sonetto LXXIX:
Finché fui solo a invocare il tuo aiuto,
soltanto i versi miei possedevano il tuo dolce favore,
ma ora il favore è mancato alla mia poesia
e la mia musa inferma cede a un’altra il posto;
e nel sonetto immediatamente precedente, in cui Shakespeare dice:
tutte l’altre penne hanno seguito il mio esempio
e diffondono pel mondo la loro poesia sotto il tuo patronato,
laddove il gioco di parole è evidente8 e l’espressione “e diffondono pel mondo la loro poesia sotto il tuo patronato” significa “con la tua assistenza di attore portano le loro opere davanti alla gente”.
Fu una serata meravigliosa, e continuammo a leggere e rileggere i Sonetti fino alle prime luci dell’alba. Dopo qualche tempo, tuttavia, io cominciai ad accorgermi che se volevamo presentare questa teoria al mondo in forma davvero perfetta, dovevamo procurarci qualche prova indipendente dell’esistenza di questo giovane attore, Willie Hughes. Se l’avessimo trovata, non sarebbero più stati possibili dubbi sulla sua identità con Mr. W. H.; altrimenti la teoria sarebbe caduta nel vuoto. Lo dissi a Cyril con grande convinzione, ed egli fu molto seccato da quello che definì il mio atteggiamento filisteo, rimanendone davvero amareggiato. A ogni modo gli feci promettere, nel suo interesse, di non dare alle stampe la sua scoperta prima che tutta la storia fosse al di là di ogni dubbio; e per settimane e settimane perlustrammo i registri delle chiese della City, i manoscritti Alleyn a Dulwich, l’ufficio del registro, i libri del Lord Ciambellano: in breve tutto ciò che potesse contenere qualche allusione a Willie Hughes. Naturalmente non scoprimmo niente, e di giorno in giorno l’esistenza di Willie Hughes mi sembrava più problematica. Cyril era in uno stato spaventoso, e tornava di continuo sulla faccenda, supplicandomi di credergli; ma io vedevo l’unico punto debole della teoria e rifiutai di convincermi finché non fosse stata dimostrata, al di là di ogni dubbio o cavillo, l’esistenza di Willie Hughes, attore-fanciullo del teatro elisabettiano.
Un giorno Cyril lasciò la città, per andare dal nonno, pensai allora, maseppi poi da Lord Crediton che le cose non stavano così; e circa quindicigiorni dopo ricevetti un suo telegramma, proveniente da Warwick, in cui michiedeva di pranzare assolutamente con lui nel suo appartamento, quellasera stessa, alle otto. Quando arrivai, mi disse: “Il solo apostolo che non simeritava una prova era San Tommaso, e San Tommaso fu l’unico che l’eb-be”. Gli chiesi che cosa intendesse. Mi rispose che era stato in grado nonsolo di accertare l’esistenza, nel XVI secolo, di un attore giovinetto di no-me Willie Hughes, ma anche di dimostrare in modo conclusivo che egli era il Mr. W. H. dei Sonetti. Per il momento non volle dirmi altro; ma dopo pranzo mi esibì solennemente il quadro che ti ho mostrato, e mi disse di averlo scoperto per purissimo caso, inchiodato sul lato di una cassapanca che aveva comprato in una fattoria del Warwickshire. Naturalmente aveva portato con sé anche la cassapanca, un bellissimo mobile elisabettiano, sicuramente autentico; al centro del pannello frontale erano sicuramente incise le iniziali W. H. Era stato questo monogramma ad attrarre la sua attenzione, e mi disse che fu soltanto dopo che possedeva la cassapanca ormai da diversi giorni che aveva pensato a esaminarne attentamente l’interno. Una mattina, infatti, si era accorto che il lato destro della cassapanca era molto più spesso di quello sinistro e, guardando meglio, scoprì che vi era fissata una tavola con cornice. Fu estraendola che scoprì il quadro che si trova adesso sul sofà. Era molto sporco, e coperto di muffa; ma riuscì a pulirlo e, con sua grande gioia, vide che si era imbattuto per puro caso nell’unica cosa che stava cercando. Era un ritratto autentico di Mr. W. H., con la mano appoggiata sulla pagina della dedica dei Sonetti, mentre sull’angolo del quadro si intravedeva il nome del giovane, scritto in dorate lettere onciali sullo sfondo bleu de paon, un po’ sbiadito: “Mister Will Hews”.
Orbene, che cosa dovevo dire? È evidente, dal sonetto XLVII, che Shakespeare possedeva un ritratto di Mr. W. H., e mi sembrava più che probabile che avessimo qui quello stesso “banchetto dipinto” alla cui festa egli invitava il suo occhio; quel quadro che suscitava nel suo cuore “la gioia del cuore e dell’occhio”. Non pensai neppure per un istante che Cyril Graham mi stesse ingannando o che stesse cercando di provare la sua teoria per mezzo di un falso.»
«Ma è un falso?», domandai.
«Certo che lo è», disse Erskine. «Un falso molto ben fatto, ma pur sempre un falso. Pensai, all’epoca, che Cyril non fosse poi troppo entusiasta; ma ricordo che continuava a dire che lui non aveva bisogno di prove e che la sua teoria era completa anche senza di esso. Io gli risi in faccia e gli dissi che, senza di esso, la sua teoria sarebbe caduta nel vuoto, congratulandomi caldamente per la sua meravigliosa scoperta. Decidemmo allora che del quadro si facesse una copia, per collocarla sull’edizione dei Sonetti che Cyril avrebbe pubblicato; e per tre mesi non facemmo nient’altro che analizzare ogni sonetto, verso per verso, finché non venimmo a capo di ogni difficoltà di testo o di significato. Un giorno sfortunato mi trovavo in un negozio di stampe di Holburn quando vidi, sopra il bancone, alcuni disegni realizzati con punta d’argento. Ne fui così attratto che li acquistai; e il proprietario del negozio, un uomo di nome Rawlings, mi disse che erano opera di un giovane pittore di nome Edward Merton, molto bravo ma povero in canna. Qualche giorno dopo andai a trovare Merton, avendone avuto l’indirizzo dal venditore di stampe; e trovai un giovane pallido e interessante, con una moglie di aspetto volgare; seppi poi che era la sua modella. Gli dissi quanto ammiravo i suoi disegni, cosa questa che gli fece molto piacere, e gli chiesi di mostrarmi alcune delle sue opere. Mentre sfogliavamo una cartella, piena di cose davvero belle, perché Merton aveva un tocco delizioso e delicatissimo, improvvisamente lo sguardo mi cadde su un disegno del ritratto di Mr. W. H. Non poteva esserci dubbio. Era quasi una copia; l’unica differenza consisteva nel fatto che le due maschere della tragedia e della commedia non pendevano dal tavolo di marmo come nel quadro ma si trovavano sul pavimento, ai piedi del giovane. “Dove diavolo l’ha preso?”, domandai. Egli rispose, in preda all’imbaraz-zo: “Oh, non è niente. Non sapevo che fosse in questa cartella. È un oggetto di nessun valore”. “È quello che hai fatto per il signor Cyril Graham”, interloquì sua moglie; “se questo signore lo vuole comprare, daglielo.” “Per il signor Cyril Graham?”, ripetei. “È stato Lei a dipingere il ritratto di Mr. W. H.?” “Non capisco a che cosa Lei si riferisca”, ribatté arrossendo. Ebbene, fu una cosa orribile. La moglie spiattellò tutto. Andandomene, le lasciai cinque sterline. Ora non ci posso pensare, ma allora ero furibondo. Mi recai immediatamente da Cyril, aspettai tre ore prima che arrivasse, con quell’orrida menzogna davanti agli occhi, e gli dissi che avevo scoperto il suo falso. Egli impallidì, e mi disse: “L’ho fatto solo per te. Non c’era altro modo per convincerti. La cosa non influenza minimamente la verità della teoria”. “La verità della teoria!” esclamai; “Meno ne parliamo, meglio è. Neppure tu ci hai mai creduto, dentro di te. In caso contrario non avresti prodotto un falso per provarla.” Volarono parole grosse; avemmo una lite tremenda. Oso dire che fui ingiusto, e la mattina dopo egli era morto.»
«Morto!», esclamai.
«Sì, si tirò un colpo di pistola. Quando arrivai – il suo domestico mi mandò subito a chiamare – la polizia era già lì. Aveva lasciato una lettera per me, scritta evidentemente in uno stato di massima agitazione e sconforto.»
«Che cosa diceva?», domandai.
«Oh, che egli credeva assolutamente in Willie Hughes; che aveva prodotto il quadro falso soltanto per farmi piacere e che questo non sminuiva mini-mamente la verità della sua teoria; e che per dimostrarmi quanto ferma e incrollabile fosse la sua fede in tutta la storia, egli avrebbe offerto la sua vita in sacrificio per il segreto dei Sonetti. Era una lettera stupida, pazza. Ricordo che terminava dicendo che mi affidava la teoria di Willie Hughes, che toccava a me presentarla al mondo e svelare il segreto del cuore di Shakespeare.»
«È una storia davvero tragica», esclamai, «ma perché non hai rispettato il suo desiderio?».
Erskine scrollò le spalle. «Perché è una teoria perfettamente assurda, dal principio alla fine», rispose.
«Mio caro Erskine», esclamai balzando in piedi, «ti sbagli su tutta la linea. È la sola chiave perfetta per i Sonetti di Shakespeare che ci sia mai stata offerta. Combacia con tutti i particolari. Io credo in Willie Hughes.»
«Non dirlo», rispose Erskine gravemente; «io credo che in questa idea ci sia qualcosa di fatale, e intellettualmente non c’è nessun elemento in suo favore. Io l’ho analizzata accuratamente, questa teoria, e ti assicuro che è completamente fallace. È plausibile fino a un certo punto. Poi basta. Per l’amore del cielo, mio caro ragazzo, non cominciare con Willie Hughes. Ti spezzerà il cuore.»
«Erskine», risposi, «è tuo dovere dare questa teoria al mondo. Se non lo farai, sarò io a farlo. Tenendola per te offendi la memoria di Cyril Graham, il più giovane e il più splendido di tutti i martiri della letteratura. Ti supplico, compi questo semplice atto di giustizia. È morto per questo: fa’ che non sia morto invano».
Erskine mi guardò stupito: «Ti stai lasciando trascinare da tutto il sentimento di questa storia», disse. «Dimentichi che una cosa non è necessariamente vera perché un uomo è morto per essa. Io ero affezionatissimo a Cyril Graham. La sua morte fu per me un colpo terribile, da cui non mi sono ripreso per anni; anzi, non credo di essermi mai ripreso completamente. Ma Willie Hughes! Non c’è niente, nell’idea di Willie Hughes. Non è mai esistito qualcuno che si chiamasse così. Quanto a presentare questa teoria al mondo... il mondo pensa che il colpo che uccise Cyril Graham sia partito accidentalmente dalla sua pistola. La sola prova del suo suicidio era contenuta nella lettera per me, e di questa lettera il pubblico non ha mai sentito parlare. A tutt’oggi Lord Crediton è convinto che sia stato un incidente.»
«Cyril Graham ha sacrificato la sua vita per una grande idea», risposi: «se non vuoi rivelare il suo martirio, rivela almeno la sua fede».
«La sua fede», disse Erskine, «era rivolta a una cosa che era falsa, a una cosa che era assurda, a una cosa che nessuno studioso di Shakespeare accetterebbe per un solo istante. La sua teoria susciterebbe soltanto ilarità. Non farti ridere dietro per seguire una traccia che non porta da nessuna parte. Cominci dando per scontata l’esistenza di una persona la cui esistenza è la cosa da essere provata. Inoltre, tutti sanno che i Sonetti sono dedicati a Lord Pembroke. Il problema è risolto, una volta per tutte.»
«Il problema non è risolto», esclamai. «Riprenderò la teoria dove Cyril Graham l’ha lasciata, e dimostrerò al mondo che aveva ragione.»
«Sciocco!», disse Erskine. «Va’ a casa, sono le tre passate, e non pensare più a Willie Hughes. Mi rincresce di avertene parlato, e ancor più di averti convertito a una teoria nella quale io non credo.»
«Mi hai dato la chiave del più grande mistero della letteratura moderna», risposi, «e non avrò requie finché non avrò fatto ammettere a te e a tutti che Cyril Graham è stato il più acuto critico shakespeariano dei nostri giorni».
Stavo per lasciare la stanza quando Erskine mi richiamò. «Mio caro ragazzo», mi disse, «ti prego di non perdere il tuo tempo con i Sonetti. Sono serissimo. Dopo tutto, che cosa ci dicono di Shakespeare? Semplicemente che era schiavo della bellezza.»
«Be’, è questo che significa essere artisti!», replicai.
Per alcuni minuti ci fu uno strano silenzio. Poi Erskine si alzò e, guardandomi con occhi semichiusi, disse: «Ah! Quanto mi ricordi Cyril! Era proprio questo il genere di cose che mi diceva sempre». Cercò di sorridere, ma la sua voce tradiva una profonda emozione, che ricordo ancora, come si ricorda il suono di un certo violino che ci affascinò o il tocco della mano di una donna. I grandi eventi della vita ci lasciano spesso impassibili, perché si svolgono al di fuori della coscienza e, quando si ripensa a essi, divengono irreali. Persino il fiore scarlatto della passione sembra crescere nello stesso campo dei papaveri dell’oblio. Il fardello della loro memoria ci fa male, e contro di loro facciamo ricorso ai nostri antidoti. Ma le cose piccole, le cose di nessun momento, quelle rimangono con noi. In qualche minuscola celletta eburnea il cervello custodisce le impressioni più delicate e più fuggevoli.
Mentre tornavo a casa attraverso St. James’s Park, su Londra stava spuntando l’alba. I cigni dormivano sulla liscia superficie del lago scintillante, come bianche piume cadute su uno specchio d’acciaio nero. Il desolato Palace si stagliava violaceo contro il cielo verde pallido, e nel giardino di Stafford House gli uccellini stavano appena cominciando a cantare. Pensai a Cyril Graham, e i miei occhi si empirono di lacrime.
2. Era mezzogiorno passato quando mi svegliai; il sole filtrava attraverso le tende della mia camera, lunghi raggi polverosi di tremulo oro. Dissi al mio domestico che non ero in casa per nessuno e, dopo aver ingurgitato una tazza di cioccolata e un petit-pain, presi dalla biblioteca la mia copia dei Sonetti di Shakespeare, e il facsimile dell’edizione in quarto di Mr. Tyler, e cominciai ad analizzarli attentamente. Mi pareva che ogni componimento confermasse la teoria di Cyril Graham. Mi sembrava di aver messo la mano sul cuore di Shakespeare e di poter contare ogni singolo battito e pulsazione della passione. Pensavo al meraviglioso attore-fanciullo, e in ogni verso vedevo il suo volto.
Debbo ammettere che in precedenza, in quelli che potrei definire i tempi di Lord Pembroke, avevo trovato sempre molto difficile comprendere come il creatore di Amleto e Lear e Otello potesse aver rivolto espressioni così esa-gerate di lode e di passione a uno che era semplicemente un giovane nobi-luomo come tanti altri. Come la maggior parte degli studiosi di Shakespeare, ero stato costretto a considerare i Sonetti un’opera del tutto a sé stante rispet-to all’evoluzione dello Shakespeare drammaturgo e assolutamente indegnadell’aspetto intellettuale della sua natura. Ma adesso cominciavo a render-mi conto della verità della teoria di Cyril Graham, vedevo che gli umori e lepassioni che i Sonetti riflettevano erano del tutto essenziali alla perfezione dell’artista che scriveva per il teatro elisabettiano, e che era proprio dalle curiose condizioni di questo teatro che quei componimenti traevano la loro origine. Ricordo la gioia da me provata nel sentire che questi meravigliosi Sonetti:
sottili come la sfinge, dolci e musicali
come il liuto intrecciato coi capelli del radioso Apollo,
non erano più isolati rispetto alle grandi energie estetiche della vita di Shakespeare ma costituivano parte essenziale della sua attività di drammaturgo e ci rivelavano qualcosa del segreto del suo metodo. Avere scoperto il vero nome di Mr. W. H. non era niente, rispetto a tutto questo, potevano averlo fatto altri e forse l’avevano fatto9: la vera rivoluzione critica consisteva nell’aver scoperto la sua professione.
Rammento che fui colpito in particolare da due sonetti. Nel primo di questi (LIII) Shakespeare, complimentandosi con Willie Hughes per la versatilità della sua recitazione nell’ampia gamma delle sue parti, che come sappiamo andava da Rosalinda a Giulietta, da Beatrice a Ofelia, gli dice:
Qual è la vostra sostanza, di che cosa siete dunque fatto,
che milioni di strane ombre vi fanno corteggio?
Ché ciascuno di noi ha bensì un’unica ombra,
ma voi, che siete uno solo, come potete dar corpo a ogni ombra?
Versi che sarebbero inintelligibili se non fossero rivolti a un attore, perché la parola «ombra» aveva, ai tempi di Shakespeare, un significato tecnico relativo al palcoscenico. «Le cose migliori non sono altro che ombre», dice Teseo degli attori del Sogno di una notte di mezza estate;
La vita non è altro che un’ombra in cammino, un povero attore
che si dimena e si agita, alla sua ora, sulla scena;
grida Macbeth nel momento della sua disperazione, e nella letteratura dell’epoca si trovano molte allusioni analoghe. Questo sonetto, evidentemente, apparteneva alla serie in cui Shakespeare discuteva la natura dell’arte dell’attore e di quel temperamento strano e raro essenziale al perfetto attore di teatro. «Come può essere», dice Shakespeare a Willie Hughes, «che tu abbia tante personalità?» e poi passa a evidenziare che la sua bellezza è tale da realizzare ogni forma e fase della fantasia, incarnare ogni sogno dell’immaginazione creativa; idea questa che è ulteriormente ampliata nel sonetto immediatamente successivo, dove, cominciando con questo bel pensiero:
Oh! quanto più bella sembra la bellezza
quando ne sia la verità dolce ornamento!
Shakespeare ci invita a notare come la verità della recitazione, la verità della presentazione visibile sul palcoscenico, contribuisca alla magia della poesia, dando vita alla sua bellezza e realtà concreta alla sua forma ideale. E tuttavia, nel sonetto LXVII, Shakespeare esorta Willie Hughes ad abbandonare il palcoscenico, con la sua artificialità, la sua vita irreale fatta di facce dipinte e mimici travestimenti, le sue influenze e i suoi suggerimenti immorali, la sua lontananza dal mondo reale delle azioni nobili e delle affermazioni sincere.
Ah! perché dovrebbe egli vivere in mezzo alla corruzione,
e con la sua presenza far bella l’empietà,
sì che il peccato per opera sua trionfi
e si faccia un vanto della sua compagnia?
Perché dovrebbero colori artificiali simulare quelli della sua guancia,
e tòrre al suo colorito naturale l’apparenza di morte?
Perché dovrebbe la bellezza, meschinella, andare in cerca
di rose fallaci se le rose del suo volto son vere?
Può sembrare strano che un grande drammaturgo come Shakespeare, che realizzò la sua perfezione di artista e la sua piena umanità proprio su questo piano ideale, scrivendo e recitando per il teatro, abbia parlato del teatro in questi termini; ma dobbiamo ricordare che nei sonetti CX e CXI Shakespeare ci rivela che anch’egli era stanco di questo mondo di burattini e si vergognava per aver fatto di sé «un pagliaccio». Particolarmente amaro è il sonetto CXI:
Deh! sgridate per conto mio la fortuna,
la dea colpevole delle mie azioni malvage,
la quale non provvide alla mia vita
meglio che con proventi ricavati dal pubblico e che traggono
origine da pubbliche costumanze.
Da ciò viene il marchio che bolla il mio nome,
e perciò la mia natura, come la mano del tintore,
si è quasi sformata col lavoro cui s’è costretta.
Compassionatemi dunque e fate voti perché io sia rinnovato;
e anche altrove si trovano molti indizi dello stesso sentimento, indizi ben noti a tutti i veri studiosi di Shakespeare.
Un punto mi sconcertò immensamente, mentre leggevo i Sonetti, e fu il giorno prima che mi imbattessi nella vera interpretazione, interpretazione che anche Cyril Graham pare aver mancato. Non capivo perché Shakespeare ritenesse tanto importante che il suo giovane amico si sposasse. Lui si era sposato giovane, trovando solo infelicità: pare improbabile che potesse chiedere a Willie di commettere lo stesso errore. Il giovinetto che impersonava Rosalinda non aveva niente da guadagnare dal matrimonio, o dalle passioni della vita reale. I primi sonetti, con le loro strane suppliche perché avesse figli, sembravano una nota discordante.
La spiegazione del mistero mi venne in mente tutto d’un tratto, e la trovai nella curiosa dedica. Si ricorderà che la dedica suonava così:
TO. THE. ONLIE. BEGETTER. OF.
THESE. INSUING. SONNETS.
MR. W. H. ALL. HAPPINESS.
AND. THAT. ETERNITIE.
PROMISED.
BY.
OUR. EVER-LIVING. POET.
WISHETH.
THE. WELL-WISHING.
ADVENTURER. IN.
SETTING.
FORTH
T.T.10
Alcuni studiosi hanno supposto che la parola «begetter» significhi qui semplicemente colui che procurò i Sonetti a Thomas Thorpe, l’editore; ma quest’opinione è oggi generalmente abbandonata e le maggiori autorità sono d’accordo nell’affermare che vada intesa come «ispiratore», che sia cioè una metafora tratta dall’analogia con la vita fisica. Orbene, mi accorsi che la stessa metafora era usata da Shakespeare in tutta l’opera, e questo mi mise sulla strada giusta. Alla fine feci la mia grande scoperta. Il matrimonio che Shakespeare propone a Willie Hughes è il «matrimonio con la sua musa», espressione usata nel sonetto LXXXII dove, nell’amarezza del suo cuore per la defezione dell’attore-fanciullo per il quale egli aveva scritto le sue parti più belle, parti che gli erano state addirittura suggerite dalla sua bellezza, apre il suo lamento dicendo:
So bene che non sei legato alla mia musa col nodo maritale.
I figli che gli chiede di generare non sono figli della sua carne e del suo sangue, ma i figli più immortali di una fama imperitura. Tutto il ciclo dei primi sonetti è semplicemente l’invito che Shakespeare rivolge a Willie Hughes affinché egli salga sul palcoscenico e intraprenda la carriera dell’attore. Che cosa arida e inutile, gli dice, è questa tua bellezza se non ne fai uso:
Quando quaranta inverni avranno assediato la tua fronte
e scavate profonde trincee nel campo della tua bellezza,
la giovinezza che superbamente ti veste, ora tanto ammirata,
sarà ritenuta cencio inutile.
Se si chiedesse allora dove sia tutta la tua bellezza,
dove tutto il tesoro dei tuoi giorni fiorenti,
sarebbe per te una vergogna tentatrice e vana lode
il rispondere: «Entro i miei occhi infossati».
Devi creare qualcosa di artistico: il mio verso «è tuo e nacque da te», basta che tu mi ascolti e io
troverò accenti immortali che vivano fino alle più tarde età
e tu popolerai con forme della tua stessa immagine il mondo immaginario del palcoscenico. Questi figli che genererai, continua, non sfioriranno come i figli mortali, perché tu vivrai in loro e nelle mie opere:
Procrea, per amor mio, un altro simile a te,
sì che la bellezza possa vivere eterna in te e nei tuoi.
Non aver paura di rinunziare alla tua personalità, di dare le tue «sembianze a qualcun altro»:
Concedendovi, voi vi conservereste per sempre;
e voi dovete continuare a vivere, ritratto della vostra stessa maestria.
Non sono un esperto di astrologia, eppure, nelle «stelle fisse dei tuoi occhi»,
leggo questa verità:
«Bellezza e virtù alligneranno insieme
se tu vorrai farti vivaio della natura».
Che ti importa degli altri?
Lascia che coloro che la natura non destinò a rifornirla,
gli esseri bruti, informi e villani muoiano senza prole;
tu sei diverso, la natura
ti scolpì per suo sigillo, e con ciò intese
che tu t’imprimessi in altri, non che tu lasciassi perire l’originale.
Ricorda anche che presto ci abbandona la bellezza. La sua azione non è più forte di quella di un fiore, e come un fiore essa vive e muore. Pensa alle «tempestose raffiche dei giorni invernali» e alla «sterile rabbia dell’eterno irrigidimento della morte» e
prima che da te sia distillata l’essenza;
rendi fragranti alcune fiale; riponi in alcun luogo, che ne diverrà prezioso,
il tesoro della tua bellezza, prima ch’essa da sé si estingua.
Neppure i fiori muoiono completamente. Quando le rose appassiscono
la loro dolce morte si muta in dolcissimi profumi
e tu che sei «la mia rosa» non te ne andrai senza aver lasciato la tua forma nell’arte. L’arte possiede infatti il segreto stesso della gioia:
ché si moltiplicherebbe la sua felicità per dieci,
se dieci come te ti riproducessero altrettante volte.
Tu non hai bisogno dei «bastardi segni della bellezza», la faccia dipinta, i fantasiosi camuffamenti degli altri attori:
le trecce d’oro dei morti,
legittima preda dei sepolcri,
non dovranno essere recise per te. In te...
si riveggono quelle sante antiche età,
spoglie d’ogni ornamento, genuine e sincere,
in cui non si simulava l’estate con un verde rubato.
È necessario soltanto «copiare ciò che in te è scritto»; collocarti sulla scena come sei nella vita reale. Tutti quegli antichi poeti che hanno scritto di «dame e amabili cavalieri che più non sono» sognavano uno come te, e
tutte le loro lodi non sono quindi che profezie
riguardanti l’epoca nostra e tutte raffiguranti voi fin d’allora.
La tua bellezza sembra infatti appartenere a tutte le età e a tutte le terre. La tua ombra mi visita la notte, ma io voglio alzare lo sguardo sulla tua «ombra» alla luce del giorno, voglio vederti calcare il palcoscenico. Una tua semplice descrizione non sarà sufficiente:
Se io potessi descrivere la bellezza dei vostri occhi
e in nuovi versi numerare tutte le vostre grazie,
l’età futura direbbe: «Questo poeta mente;
sì divini tratti non si posarono mai su un volto terreno».
È necessario che «un vostro figlio», qualche creazione artistica che ti incarni e alla quale la tua immaginazione dia vita, ti presenti agli occhi pieni di ammirazione del mondo. I tuoi figli sono i tuoi pensieri, germogli di sensibilità e di spirito; da’ loro una qualche espressione e troverai...
che i figli partoriti dal tuo cervello vi saranno accolti.
I miei «figli» sono quindi i miei pensieri. Sono generati da te, e il mio cervello è
il ventre in cui furono concepiti.
Questa nostra grande amicizia, infatti, è un matrimonio, «il matrimonio di due menti sincere».
Raccolsi tutti i brani che mi sembravano confermare questa opinione, ed essi mi fecero uno strano effetto, mostrandomi quanto fosse davvero completa la teoria di Cyril Graham. Vidi anche che era molto facile distinguere i versi in cui Shakespeare parla degli stessi Sonetti da quelli in cui parla della sua grande opera drammatica. Si tratta di un punto che era stato completamente trascurato da tutti i critici, fino ai tempi di Cyril Graham. E tuttavia era uno dei più importanti di tutta la raccolta. Shakespeare era più o meno indifferente ai Sonetti: non desiderava fondare la sua fama su di loro. Costituivano per lui la sua «musa modesta», come li definisce egli stesso, ed erano pensati, ci informa Meres, soltanto per circolare in un ristrettissimo gruppo di amici. D’altra parte egli era estremamente consapevole dell’alto valore artistico delle sue opere teatrali, e mostra una nobile fiducia nel suo genio drammatico. Quando dice a Willie Hughes:
Ma la tua estate eterna non verrà mai meno,
né sarà privata della bellezza che tu possiedi;
né la morte si vanterà che t’aggiri nell’ombra sua,
se tu vivrai nel tempo futuro in versi eterni.
Finché uomo respiri od occhio veda,
questi vivranno e daran vita a te.
L’espressione «versi eterni» allude evidentemente all’opera teatrale che gli stava inviando, proprio come il distico conclusivo si riferisce alla sua fiducia nella probabilità che le sue opere sarebbero state sempre rappresentate. Troviamo lo stesso sentimento nella sua invocazione alla musa drammatica (sonetti C e CI).
Dove sei dunque, o musa, che sì da lungo tempo dimentichi
di parlar di colui da cui trai tutta la tua potenza?
Impieghi forse il tuo ardore in qualche spregevole canto,
avvilendo il tuo potere per gettar luce su vili argomenti?
egli esclama, e passa poi a rimproverare la signora della tragedia e della commedia perché «trascura la verità vestita della bellezza», e afferma:
Te ne starai muta perché egli non ha bisogno di lodi?
Non giustificare così il tuo silenzio, ché sta in te
far ch’egli sopravviva ai sepolcri dorati
e sia lodato da genti ancor non nate.
Fa’ dunque il tuo dovere, o musa; io t’insegnerò
a farlo vedere altrui quale ora egli è in tempi dai nostri ben lontani.
È forse nel sonetto LV che Shakespeare dà più compiutamente espressione a questa idea. Immaginare che «i possenti carmi» del secondo verso si riferiscano al sonetto stesso significava fraintendere completamente le intenzioni di Shakespeare. Mi sembrava estremamente probabile, dal carattere generale del sonetto, che egli si riferisse a un’opera particolare, che altro non era se non Romeo e Giulietta.
Non marmi, non dorati monumenti
di principi sopravviveranno a questi miei possenti carmi;
mai voi risplenderete di più viva luce in essi
che in una pietra abbandonata, guasta e lorda dal tempo.
Quando la guerra devastatrice abbatterà le statue
e i tumulti raderanno al suolo l’opere di pietra,
né la spada di Marte né l’ardente fuoco della guerra potranno distruggere
il vivente ricordo di voi.
A dispetto della morte e del nemico oblio,
voi procederete nel futuro; le vostre lodi troveranno accoglienza
presso la posterità più lontana,
che trascinerà questo mondo fino al giorno del giudizio finale.
Così, finché non sia sentenziato nel gran giorno che voi risorgiate dai morti,
sarete vivo quaggiù agli occhi degli amanti.
A questo proposito è suggestivo anche sottolineare che qui, come altrove, Shakespeare promette a Willie Hughes l’immortalità in una forma che attiri gli occhi umani: cioè in forma di spettacolo, di un’opera teatrale da guardare.
Per due settimane lavorai sodo ai Sonetti, senza quasi mai uscire e rifiutando ogni invito. Ogni giorno mi sembrava di scoprire qualcosa di nuovo e Willie Hughes divenne per me una specie di presenza spirituale, una personalità costantemente incombente. Mi sembrava quasi di vederlo nell’ombra della mia stanza, tanta era la precisione con cui Shakespeare l’aveva ritratto, con i suoi capelli d’oro, la sua tenera grazia floreale, i suoi occhi languidi e sognanti, le sue membra agili e delicate e le sue mani bianche come gigli. Ero affascinato dal suo stesso nome. Willie Hughes! Willie Hughes! Che suono musicale! Sì, chi se non lui avrebbe potuto essere il signore e la signora della passione di Shakespeare11, il signore del suo amore cui era legato da vassallaggio12, il delicato favorito del piacere13, la rosa del mondo intero14, l’araldo della primavera15, con indosso la superba livrea della gioventù16, il delizioso ragazzo la cui voce era una dolce musica17 e la cui bellezza era il vero ornamento del cuore di Shakespeare18, oltre che la pietra angolare della sua arte drammatica? Come sembravano amare, adesso, la tragedia della sua diserzione e la sua vergogna... vergogna che egli rese dolce e bella19 con la magia della sua personalità ma che, nondimeno, restava una vergogna. Eppure, giacché Shakespeare lo perdonò, non dovremmo perdonarlo anche noi? Non m’importava di carpire il mistero del suo peccato o del peccato, se tale fu, del grande poeta che tanto teneramente l’aveva amato. «Io sono ciò che sono», dice Shakespeare con nobile disdegno in un sonetto:
Io sono quello che sono, e coloro che stigmatizzano
i miei errori non fanno che mettere in mostra i propri;
io posso ben essere onesto, se anche essi nol sono;
la mia condotta non dev’essere giudicata alla stregua dei loro pensieri impuri.
Che Willie Hughes avesse abbandonato il teatro di Shakespeare era tutt’altra storia, e le dedicai molta attenzione. Giunsi infine alla conclusione che Cyril Graham si fosse sbagliato nell’identificare con Chapman il drammaturgo rivale del sonetto LXXX, in cui si alludeva evidentemente a Marlowe. Nel periodo in cui furono composti i Sonetti, cioè tra il 1590 e il 1595, un’espressione come «la superba vela spiegata del suo grande verso» non si sarebbe potuta riferire al teatro di Chapman, mentre invece sarebbe stata applicabile allo stile delle opere che scrisse poi sotto gli Stuart. No: il poeta rivale di cui Shakespeare parlava in termini così elogiativi era chiaramente Marlowe; l’inno da lui scritto in onore di Willie Hughes era l’incompiuto Ero e Leandro, e
quello spirito familiare che gli è propizio
e che ogni notte gli fornisce un’ingannevole ispirazione
era il Mefistofele del suo Doctor Faustus. Non c’è dubbio, Marlowe era rimasto affascinato dalla bellezza e dalla grazia dell’attore-fanciullo e con le sue lusinghe lo convinse a lasciare il Blackfriars Theatre perché recitasse la parte di Gaveston nel suo Edward II. Che Shakespeare avesse qualche diritto legale a trattenere Willie Hughes nella propria compagnia risulta evidente dal sonetto LXXXVII, laddove dice:
Addio! Tu sei troppo prezioso perché io possa possederti
e sai, probabilmente, quello che vali;
il capitolato dei tuoi pregi ti dà facoltà di scioglierti;
i patti che mi uniscono a te sono tutti scaduti.
Infatti io non ti posseggo che per tua spontanea concessione;
ora, quali meriti ho io per possedere tale ricchezza?
Non v’è ragione perché io abbia questo splendido dono
perciò mi viene rivolto il mio privilegio.
Tu stesso mi ti donasti, ignorando allora il tuo valore,
o credendo me, cui ti donavi, altro da quello che sono;
così il tuo splendido dono, fatto per errore,
è ripreso, dopo migliori riflessioni, dal donatore.
Perciò io ti ho posseduto come si possiede nei sogni lusinghieri;
re nel sogno, ma desto tutt’altra cosa.
Ma non voleva possedere per forza chi non poteva possedere per amore. Willie Hughes entrò a far parte della compagnia di Lord Pembroke e forse recitò la parte del delicato favorito di Re Edoardo nel cortile della Red Bull Tavern. Alla morte di Marlowe pare sia tornato da Shakespeare che, noncurante di ciò che i suoi colleghi potevano pensare sull’argomento, non ci mise tanto a perdonare l’ostinazione e il tradimento del giovane attore.
E con quanta finezza Shakespeare aveva ritratto il temperamento dell’attore! Willie Hughes era uno di coloro che
non esercitano quel poter che in maggior grado mostrano d’avere;
coloro che, mentre commovono altri, rimangono essi stessi come pietra.
Egli sapeva recitare l’amore, ma non poteva provarlo, sapeva inscenare la passione senza comprenderla.
In molti la storia dei tradimenti del cuore è scritta negli sguardi,
nelle smorfie, nell’aggrottar delle ciglia, nelle inconsuete rughe;
ma per Willie Hughes le cose non stavano così. «Il cielo», dice Shakespeare in un sonetto di folle idolatria,
quando ti creò, stabilì
che il dolce amore splendesse eterno nel tuo viso,
e che, quali che fossero i tuoi pensieri o i sentimenti del tuo cuore,
dal tuo aspetto non trasparisse che dolcezza.
Nella sua «mente incostante» e nel suo «cuore falso» era facile riconoscere l’insincerità e il tradimento che, in certo qual modo, sembrano inseparabili dalla natura artistica, come nel suo amore per le lodi, nel desiderio di riconoscimento immediato che caratterizzano tutti gli attori. E tuttavia, più fortunato in questo di altri attori, Willie Hughes avrebbe in parte conosciuto l’immortalità. Intimamente legato alle opere teatrali di Shakespeare, egli avrebbe vissuto in loro e della loro produzione.
Il tuo nome avrà vita eterna da questi versi
anche se io, quando non sarò più, sparissi dalla memoria di tutti.
A me la terra non potrà dare che una tomba comune,
mentre tu, anche nella tomba, vivrai agli occhi degli uomini.
Sarà tuo monumento il mio verso affettuoso
che occhi non ancora creati leggeranno;
e bocche di là da venire diranno di te
quando tutti coloro che respirano l’aria del mondo più non saranno.
Nash, con la sua lingua velenosa, aveva inveito contro Shakespeare perché aveva «collocato l’eternità in bocca a un attore», riferendosi evidentemente ai Sonetti.
Ma per Shakespeare l’attore era un collega dotato di autonomia e capacità decisionali proprie, che dava forma e sostanza all’immaginazione del poeta e immetteva nel dramma gli elementi di un nobile realismo. Il suo silenzio poteva essere eloquente come le parole e i suoi gesti altrettanto espressivi; in quei terribili momenti di lotta titanica o di divina sofferenza, quando il dolore supera ogni possibilità di espressione, quando l’anima in preda all’angoscia balbetta o ammutolisce, e le vesti stesse del discorso sono strappate dalle tempeste della passione, allora l’attore poteva diventare, anche solo per un istante, un artista creativo, e unicamente con la sua presenza e la sua personalità toccare quelle sorgenti di terrore e pietà cui si rivolge la tragedia. Questo pieno riconoscimento dell’arte dell’attore e del potere dell’attore fu una delle cose che distinse il dramma romantico da quello classico e, di conseguenza, una delle cose che dobbiamo a Shakespeare il quale, fortunato in molte cose, fu fortunato anche in questo, che fu capace di trovare Richard Burbage20 e di foggiare Willie Hughes.
Con quale piacere si soffermava sull’influenza di Willie Hughes sul suo pubblico (i «contemplatori», come li definisce); con quale fascino e fantasia egli analizza tutta l’arte! Persino nel Lamento dell’amante egli parla della sua recitazione, e ci dice che la sua natura era così sensibile alle caratteristiche delle situazioni drammatiche che poteva assumere tutte «le forme strane»
di rossori infuocati, o di pianti dirotti,
o pallori di deliquio
spiegando poi più compiutamente che cosa intendesse, laddove ci dice come Willie Hughes potesse ingannare gli altri grazie alla sua meravigliosa capacità di
arrossire per le volgarità, piangere per le sventure,
o impallidire e venir meno davanti alla tragedia.
Nessuno, in precedenza, aveva mai notato come il pastore di questa deliziosa pastorale, la cui «gioventù nell’arte e arte nella gioventù» sono descritte con tanta sottigliezza di espressione e di passione, altri non fosse se non il Mr. W. H. dei Sonetti. E tuttavia non c’è dubbio che le cose stiano così. Non soltanto i due giovani hanno lo stesso aspetto: identici sono anche il loro temperamento e la loro natura. Quando il falso pastore sussurra alla volubile fanciulla:
Tutti gli errori che mi hai visto commettere
sono errori del sangue, non della mente;
non fu amore a farli;
quando dice delle sue amanti:
Danni ne ho fatti, ma mai fui danneggiato;
misi cuori in livrea, ma il mio fu sempre libero,
monarca assoluto nel suo regno;
quando parla dei «sonetti assai cerebrali» che una di costoro gli aveva inviato ed esclama, nel suo orgoglio fanciullesco:
I cuori infranti che mi appartengono
hanno vuotato tutte le loro fonti nella mia sorgente;
è impossibile non sentire che a parlarci è Willie Hughes. Era stato Shakespeare, in realtà, a dedicargli «sonetti assai cerebrali», «gioielli» che ai suoi occhi incuranti erano solo «sciocchezze», per quanto
ogni pietra
incastonata con bravura, sorridesse o emettesse lamenti;
ed egli avesse vuotato la dolce fontana del suo canto nel pozzo della bellezza. Che in entrambi i passi si alludesse a un attore era altrettanto chiaro. La ninfa tradita ci parla del «falso fuoco» sulle guance dell’amante, del «tuono forzato» dei suoi sospiri e della sua «commozione presa in prestito»: di chi, se non di un attore, si potrebbe dire che in lui «pensiero, carattere e parole» erano «soltanto arte» o che
per far rider chi piange, e pianger chi ride,
avea la favella e ogni abilità
cogliendo tutte le passioni a volontà.
Il gioco di parole dell’ultimo verso21 è lo stesso usato in alcuni sonetti ed è proseguito nelle successive stanze del poema, dove del giovane ci è detto che
regnava nel cuore
di giovani e vecchi, e incantava ambo i sessi;
e che c’erano persone che
gli preparavano i dialoghi da dire,
interrogavano la propria volontà e piegavano la loro22.
Sì: l’«Adone dalle guance rosa» del poema di Venere, il falso pastore del Lamento dell’amante, il «tenero villano», il «bell’avaro» dei Sonetti altri non era se non un giovane attore; e leggendo le varie descrizioni date di lui mi avvedevo che l’amore che Shakespeare gli portava era l’amore di un musicista per un delicato strumento che si diletti a suonare, l’amore di uno scultore per un materiale raro e squisito che gli suggerisca una nuova forma di bellezza plastica, un nuovo modo di espressione plastica. Perché ogni arte ha i suoi mezzi, i suoi materiali, siano essi parole ritmiche o colori piacevoli o suoni dolci ed elegantemente scanditi; e, come ha messo in evidenza uno dei critici più affascinanti dei nostri giorni, è alle qualità inerenti a ciascun materiale e sue proprie che dobbiamo l’elemento sensuale dell’arte e, con esso, tutto ciò che nell’arte è essenzialmente artistico. Che dire, allora, del materiale che il dramma richiede per una presentazione perfetta? Che dire dell’attore, il solo mezzo attraverso il quale il dramma possa davvero rivelarsi? Sicuramente in quella strana emulazione della vita da parte dei viventi che costituisce il modo e il metodo dell’arte teatrale ci sono elementi sensuali di bellezza che nessuna delle altre arti possiede. Da un certo punto di vista i comuni attori sui palcoscenici color zafferano sono gli strumenti più completi e più soddisfacenti dell’arte. Non c’è passione nel bronzo né movimento nel marmo. Lo scultore deve rinunziare al colore e il pittore alla pienezza della forma. L’epos trasforma azioni in parole e la musica trasforma parole in suoni. È soltanto il dramma, per citare la bella espressione di Gervinus, a usare tutti i mezzi simultaneamente e, rivolgendosi sia all’occhio che all’orecchio, ad avere a sua disposizione e al suo servizio forma e colore, suono, apparenza e parola, la rapidità del movimento e l’intenso realismo dell’azione visibile.
Può essere che proprio nella completezza dello strumento risieda il segreto di una certa debolezza di quest’arte. Le arti più felici sono quelle che impiegano materiali lontani dalla realtà, e nell’assolutà identità di mezzo e materiale c’è un pericolo, il pericolo di un realismo ignobile e di un’imitazione inimmaginifica. Tuttavia Shakespeare era egli stesso un attore, e scriveva per gli attori. Vedeva le possibilità celate in un’arte che, fino ai suoi tempi, si era espressa soltanto nella magniloquenza o nella buffoneria. Egli ci ha lasciato le più perfette regole di recitazione che siano mai state scritte. Ha creato parti che possono esserci davvero rivelate soltanto sul palcoscenico, ha scritto opere che per essere realizzate appieno hanno bisogno del teatro: non dobbiamo meravigliarci, quindi, che adorasse tanto colui che era l’interprete della sua visione, perché era l’incarnazione dei suoi sogni.
Nella sua amicizia c’era comunque qualcosa di più della semplice delizia procurata al drammaturgo da chi lo aiuta a raggiungere il suo fine. C’era davvero un sottile elemento di piacere, se non di passione, e la nobile base di una solidarietà artistica. Ma non era tutto qui, quello che i Sonetti ci rivelavano. C’era qualcos’altro. C’era l’anima, e la lingua, del neo-platonismo.
«Il timor di Dio è il principio della saggezza», dice l’austero profeta ebreo. «Il principio della saggezza è l’amore», era il leggiadro messaggio dei Greci. E lo spirito del Rinascimento, così affine all’ellenismo già in tanti punti, afferrando l’intimo significato di questa frase e intuendone il segreto, cercò di elevare l’amicizia all’alta dignità dell’antico ideale, di renderla un fattore vitale della nuova cultura e un mezzo di consapevole evoluzione intellettuale. Nel 1492 apparve il Simposio di Platone tradotto da Marsilio Ficino, e il suo meraviglioso dialogo, forse il più perfetto di tutti i dialoghi platonici, oltre che il più poetico, iniziò a esercitare una strana influenza sugli uomini e a colorare le loro parole e i loro pensieri, nonché il loro modo di vivere. Nei suoi sottili riferimenti a un sesso dell’anima, nelle curiose analogie che suggerisce tra entusiasmo intellettuale e la passione fisica dell’amore, nel suo sogno dell’incarnazione dell’idea in una bella forma vivente e di un vero concepimento spirituale, che dopo un travaglio porta alla nascita, c’era qualcosa che affascinò poeti e studiosi del XVI secolo. Shakespeare ne fu certamente affascinato, e aveva letto il dialogo, se non nella traduzione di Ficino, molte copie della quale erano giunte in Inghilterra, forse nella traduzione francese di Leroy, di cui Joachim du Bellay fornì tante graziose versioni in metrica. Quando dice a Willie Hughes:
Colui che fa appello a te, trovi
accenti immortali che vivano fino alle più tarde età,
egli sta pensando alla teoria di Diotima secondo la quale la bellezza è la dea che presiede alla nascita e porta alla luce del giorno quanto è stato concepito nell’oscurità dell’anima; quando ci parla dell’«unione di due anime fedeli» ed esorta l’amico a generare figli che il tempo non possa distruggere, non sta facendo altro che ripetere le parole con cui la profetessa ci dice che «gli amici sono coniugati da un legame più stretto di coloro che generano figli mortali, perché più belli e più immortali sono i figli che costituiscono i loro comuni rampolli». Anche Edward Blount, nella sua dedica di Ero e Leandro parla delle opere di Marlowe come dei suoi «veri figli», essendo il «frutto del suo cervello»; e quando Bacone rivendica che «le opere migliori e di maggior successo tra il pubblico procedono da uomini non sposati e senza figli, che hanno sposato e arricchito il pubblico con i loro strumenti e il loro affetto», egli sta parafrasando un passo del Simposio.
Davvero l’amicizia non avrebbe potuto desiderare per la sua permanenza o per i suoi ardori un garante migliore della teoria – o fede, come sarebbe meglio chiamarla – platonica secondo cui il vero mondo era il mondo delle idee e che queste idee assumevano una forma visibile e si incarnavano nell’uomo; e soltanto quando comprendiamo l’influenza del neo-platonismo sul Rinascimento possiamo capire il vero significato delle frasi e delle parole d’amore che gli amici erano soliti rivolgersi all’epoca. C’era una specie di trasferimento mistico delle espressioni del mondo fisico a una sfera che era spirituale, lontana dai volgari appetiti fisici, la cui signora era l’anima. Certo, l’amore era entrato nell’oliveto della nuova Accademia, ma indossava le stesse vesti color fiamma e aveva sulle labbra le stesse parole di passione.
Michelangelo, il «più eccelso spirito d’Italia», come è stato definito, si rivolgeva al giovane Tommaso Cavalieri con tale fervore e passione che alcuni hanno pensato che i sonetti in questione fossero rivolti a quella giovane dama, la vedova del marchese di Pescara, per baciare la cui bianca mano di moribonda egli si era inginocchiato. Ma il fatto che essi fossero stati scritti per Cavalieri, e che la loro interpretazione giusta fosse quella letterale, è evidente non soltanto dai giochi di parole che Michelangelo introduce sul nome del suo giovane amico, proprio come Shakespeare gioca con quello di Willie Hughes, ma dalla testimonianza diretta di Varchi, che conosceva bene il giovane e che ci dice che egli possedeva, «oltre a un’incomparabile bellezza personale», una natura così affascinante, tante straordinarie abilità e dei modi così leggiadri, che «meritava e merita tuttora di essere tanto più amato quanto più lo si conosce». Per quanto strani possano sembrarci oggi questi sonetti, se interpretati correttamente essi si limitano a dimostrare con quanto intenso e religioso fervore Michelangelo attendesse all’adorazione della bellezza intellettuale e quanto, per appropriarci di una bella espressione di Mr. Symonds, egli squarciò il velo della carne per cercare l’idea divina che essa imprigionava. Anche nel sonetto scritto per Luigi del Riccio alla morte del suo amico Cecchino Bracci possiamo individuare, come mette in evidenza Mr. Symonds, la concezione platonica secondo cui l’amore non è niente se non è spirituale e la bellezza è una forma che trova la sua immortalità nell’anima dell’amante. Cecchino era un ragazzo morto a diciassette anni, e quando Luigi chiese a Michelangelo di dipingerne il ritratto, Michelangelo rispose: «Posso farlo soltanto ritraendo te, in cui egli vive ancora».
Se l’un nell’altro amante si trasforma,
po’ ch’essa senz’arte non v’arriva
convien che per far lui ritragga voi.
La stessa idea compare nel nobile saggio di Montaigne sull’amicizia, passione che egli ritiene superiore all’amore del fratello per il fratello e dell’uomo per la donna. Egli ci dice – cito dalla traduzione di Florio, uno dei libri con i quali Shakespeare aveva familiarità – come «la perfetta amicizia» sia indivisibile, come essa «possegga l’anima e vi domini sovrana» e come «per interposizione di una bellezza spirituale sia generato nell’amato il desiderio di un concepimento spirituale». Egli scrive di una «bellezza interna, difficile a conoscersi e astrusa a scoprirsi» che si rivela agli amici e agli amici soltanto. Il dotto Hubert Languer, amico di Melanchthon e dei capi della chiesa riformata, dice al giovane Philip Sydney che teneva con sé il suo ritratto per alcune ore, onde nutrirne i propri occhi, e come il suo appetito era «più aumentato che diminuito da tale vista», e Sydney gli scrive: «La più grande speranza della mia vita, accanto all’eterna beatitudine celeste, sarà sempre quella di poter godere della vera amicizia, e in essa tu avrai il posto principale». In seguito si recò nella casa londinese di Sydney qualcuno che sarebbe stato arso vivo a Roma per il peccato di vedere Dio in tutte le cose: Giordano Bruno, appena reduce dal suo trionfo all’università di Parigi. «A filosofia è necessario amore»23: queste parole erano sempre sulle sue labbra, e c’era qualcosa nella sua personalità stranamente ardente che induceva gli altri a credere che avesse scoperto il nuovo segreto della vita. Ben Jonson, scrivendo a uno dei suoi amici, si firma «il tuo sincero amante» e dedica il suo nobile elogio di Shakespeare «alla memoria del mio amato». Richard Barnfield, nel suo Pastore amante, intona sul delicato flauto virgiliano la storia del suo attaccamento a qualche giovane elisabettiano dell’epoca. Di tutte le Ecloghe, Abraham Fraunce sceglie di tradurre la seconda, e i versi di Fletcher per Master W. C. rivelano quale fascino si nascondesse nel solo nome di Alexis.
Non c’è da meravigliarsi, quindi, che Shakespeare fosse agitato da uno spirito che tanto agitava la sua epoca. C’erano stati critici, come Hallam, che avevano espresso il loro rammarico per il fatto stesso che i Sonetti fossero stati scritti, perché vi vedevano qualcosa di pericoloso e addirittura di illecito. Sarebbe stato sufficiente rispondere loro con le nobili parole di Chapman:
Non ci sono pericoli per l’uomo che sa
che cosa è la vita e cosa la morte: non c’è legge
che ecceda la sua conoscenza, né lecito sarebbe
che egli si pieghi ad altra legge.
Ma era evidente che i Sonetti non avevano bisogno di nessuna difesa simile, e che coloro che avevano parlato della «follia di un affetto eccessivo e malriposto» non avevano saputo interpretare né la lingua né lo spirito di questi grandi componimenti, sì intimamente connessi alla filosofia e all’arte dell’epoca. È indubbiamente vero che abbandonarsi a una passione così totale significa rinunziare alla sicurezza della propria vita più banale, e tuttavia in tale rinunzia può esservi guadagno, e certamente ve ne fu per Shakespeare. Quando Pico della Mirandola varcò la soglia della villa di Careggi e si trovò di fronte a Marsilio Ficino con tutta la grazia e la bellezza della sua meravigliosa gioventù, al vecchio studioso parve di vedere in lui la realizzazione dell’ideale greco e decise di dedicare gli anni che gli rimanevano alla traduzione di Plotino, il nuovo Platone in cui, come ci rammenta Mr. Pater, «l’elemento mistico della filosofia platonica era stato elaborato fino al limite massimo della visione e dell’estasi». Un’amicizia romantica con un giovane romano dei suoi giorni iniziò Winckelmann ai segreti dell’arte greca, insegnandogli i misteri della sua bellezza e il significato della sua forma. In Willie Hughes Shakespeare non trovò soltanto uno strumento delicatissimo per presentare la sua arte, ma l’incarnazione visibile della sua idea della bellezza, e non si esagera affermando che il movimento romantico della letteratura inglese deve molto a questo giovane attore sul quale gli ottusi scrittori a lui contemporanei dimenticarono di riferirci.
3. Una sera pensai di aver davvero scoperto Willie Hughes nella letteratura elisabettiana. In una cronaca graficamente meravigliosa sugli ultimi giorni del grande conte di Essex, il suo cappellano Thomas Knell ci racconta che il conte, la sera prima di morire, «chiamò William Hewes, il suo musicista, perché suonasse il virginale e cantasse. Gli disse: “Suona la mia canzone, Will Hewes, e io canterò con te”. E lo fece con grande gioia, non come il cigno che attende la fine con lo sguardo rivolto verso il basso: come la dolce allodola, invece, sollevò le mani e gli occhi a Dio, s’innalzò nei cieli di cristallo e raggiunse con la sua lingua infaticabile i cieli del paradiso». Sicuramente il ragazzo che suonava il virginale per il padre moribondo della Stella di Sidney altri non era se non il Will Hews cui Shakespeare dedicò i Sonetti e di cui egli stesso ci dice che era una dolce «musica da udire». Ma Lord Essex morìnel 1576, quando Shakespeare non aveva che dodici anni. Era impossibile che il suo musicista fosse il Mr. W. H. dei Sonetti. Forse che il giovane amicodi Shakespeare era il figlio di quel suonatore di virginale? Era già qualcosa avere scoperto che Will Hews era un nome elisabettiano. A dire il vero, sembra che il nome Hews avesse stretti rapporti con la musica e con il palcoscenico. La prima attrice inglese fu la bellissima Margaret Hews, adorata alla follia dal principe Rupert. Che cosa c’era di più probabile, quindi, che da lei e dal musicista di Lord Essex fosse nato l’attore-fanciullo delle opere di Shakespeare? Nel 1587 un certo Thomas Hews portò sulle scene del Gray’s Inn una tragedia euripidea intitolata Le sventure di Arturo, e per l’allestimento ricevette grande aiuto da un certo Francesco Bacone, allora studente di legge. Sicuramente costui era uno stretto congiunto del ragazzo a cui Shakespeare diceva:
Abbiti tutti i miei amori, o amor mio,
sì, prendili tutti!
L’«usuraio senza profitto» di «inusitata bellezza» come egli lo descrive. Ma le prove, i legami: dov’erano? Ahimè! Non riuscivo a trovarli. Mi sembrava di essere sempre sull’orlo della verifica definitiva, ma non ci arrivavo mai. Mi parve strano che nessuno avesse mai scritto una storia degli attori-fanciulli inglesi dei secoli XVI e XVII e mi decisi a intraprendere io stesso questo tentativo, per individuare la loro influenza sul dramma. Era sicuramente un oggetto di grande interesse artistico. Questi fanciulli erano stati i delicati flauti sui quali i nostri poeti avevano suonato le loro musiche più dolci, i graziosi recipienti di onore in cui avevano versato il vino purpureo dei loro canti. Ma soprattutto, naturalmente, tra loro c’era stato il giovane al quale Shakespeare aveva affidato la realizzazione delle sue creazioni più squisite. La sua bellezza era tale che il nostro tempo non ne ha mai visto l’eguale, o solo di rado; una bellezza che sembrava unire il fascino dei due sessi e coniugare, come ci dicono i Sonetti, la grazia di Adone alla bellezza di Elena. Era anche di spirito pronto e molto eloquente, e da quelle labbra finemente disegnate di cui la satira si prendeva gioco erano uscite le grida appassionate di Giulietta, le brillanti risa di Beatrice, le floreali parole di Perdita e i canti farneticanti di Ofelia. Tuttavia, come lo stesso Shakespeare era stato un dio tra giganti, così Willie Hughes era stato soltanto uno dei molti meravigliosi fanciulli cui il nostro Rinascimento inglese doveva qualcosa del segreto della sua gioia, e mi sembrava che anch’essi fossero degni di essere studiati e ricordati ai posteri.
In un libriccino dalle delicate pagine di carta velina e dalla copertina di seta damascata – un mio capriccio di quei giorni capricciosi – raccolsi quindi quante informazioni potei su di loro, e ancora oggi nelle poche notizie sulla loro vita, nella sola citazione dei loro nomi c’è qualcosa che mi attrae. Mi sembrava di conoscerli tutti: Robin Armin, il garzone di fabbro che Tarlton indusse a calcare le scene; Sandford, che Lord Burleigh vide al Gray’s Inn nei panni della cortigiana Flamantia; Cook, che impersonò Agrippina nella tragedia del Seiano; Nat Field, il cui ritratto giovanile e imberbe ci è tuttora conservato a Dulwich e che, nelle Rivelazioni di Cinzia, impersonò la «regina e cacciatrice casta e bionda»; Gil Carie che, nelle vesti di una ninfa montana, cantò il lutto di Eco per Narciso; Parsons, il Salmace dello strano spettacolo del Tamburlano; Will Ostler, che fu uno dei Piccoli cantori della Queen’s Chapel e accompagnò re Giacomo in Scozia; George Vernon, cui il re inviò un manto di stoffa scarlatta e una cappa di velluto cremisi; Alick Gough, che interpretò la parte di Caenis, la concubina di Vespasiano, nell’Attore Romano di Massinger e, tre anni dopo, quella di Acante in Quadro, dello stesso autore; Barret, l’eroina della tragedia Messalina, di Richards; Dicky Robinson, «un ragazzo molto carino», ci dice Ben Jonson, che faceva parte della compagnia di Shakespeare ed era famoso per il gusto squisito dei suoi costumi nonché per il suo amore per le vesti femminili; Salathiel Pavy, la cui prematura e tragica morte Johnson pianse in una delle più dolci trenodie della nostra letteratura; Arthur Savile, che era uno degli «attori del principe Carlo» e interpretò la parte di una fanciulla in una commedia di Marmion; Stephen Hammerton, «un attore molto bello e famoso per le sue parti femminili», il cui pallido ovale dalle palpebre pesanti e dalla bocca sensuale ci guarda da una curiosa miniatura dell’epoca; Hart, che riscosse il suo primo successo interpretando la parte della duchessa nella tragedia Il cardinale e che, in un componimento chiaramente ispirato ad alcuni Sonetti di Shakespeare, è descritto da qualcuno che l’aveva visto «bellezza per l’occhio e musica per l’orecchio»; e Kynaston, del quale Betterton diceva che «si è discusso, tra persone di giudizio, se una donna avrebbe potuto toccare le corde di queste passioni con più sensibilità», e le cui mani bianche, insieme ai suoi capelli color ambra, sembrano aver ritardato di qualche anno l’avvento di attrici donne sul palcoscenico.
I Puritani, con la loro morale villana e le loro menti ignobili, si erano naturalmente scagliati contro di loro, insistendo sul fatto che non era opportuno che dei ragazzi si travestissero da donne e imparassero a impersonare i modi e le passioni del sesso femminile. Gosson, con la sua voce stridula, e Prynne, che presto sarebbe rimasto senza orecchie per le sue vergognose diffamazioni, e altri cui era stato negato il senso raro e sottile della bellezza astratta avevano detto dal pulpito e nei loro libelli cose stupide e schifose per disonorarli. Per Francis Lenton, che scriveva nel 1629, ciò di cui parla in termini di
rimbombanti;azioni e gesti arditi
di un povero ragazzo in vesti principesche
non è altro che uno dei tanti
rimbombanti;ami tentatori dell’inferno
che trascinano più giovani nella cella maledetta
della libidine sfrenata di quanti sia riuscito al diavolo
da quando vi fece cadere il primo.
Neppure il nostro tempo ha saputo apprezzare le condizioni artistiche del dramma elisabettiamo e dell’età degli Stuart. Una delle attrici più brillanti e intellettuali del nostro secolo ha riso all’idea di un ragazzo di diciassette o diciotto anni nella parte di Imogene o Miranda o Rosalinda. «Come potrebbe un giovinetto, per quanto dotato e istruito alla bisogna, anche solo vagamente suggerire queste donne nobili e belle a un pubblico?... Viene quasi da compatire Shakespeare, che dovette rassegnarsi a vedere le sue creazioni più brillanti guastate, malrappresentate e sciupate». Nel suo libro sui Predecessori di Shakespeare, Mr. John Addington Symonds parlava anche di «goffi adolescenti» che tentavano di riprodurre il pathos di Desdemona e la passione di Giulietta. Avevano ragione? Hanno ragione? Non lo pensavo allora, e non lo penso adesso. Chi assistette alla rappresentazione dell’Agamennone a Oxford e ricorda la bella espressività e la dignità marmorea di Clitemnestra e l’interpretazione romantica e fantasiosa della follia profetica di Cassandra non potrà mai concordare con le severe affermazioni di Lady Martin e Mr. Symonds sulle condizioni del teatro elisabettiano.
Di tutti i motivi di curiosità drammatica impiegati dai nostri grandi drammaturghi non ce n’è uno più sottile o più affascinante dell’ambiguità dei sessi. Quest’idea, inventata – nella misura in cui si può dire che un’idea artistica sia stata inventata – da Lyly, perfezionata e resa per noi squisita da Shakespeare, mi pare debba la sua origine, come certamente le deve la possibilità di essere presentata realisticamente, al fatto che il teatro elisabettiano, come già quello dei Greci, non ammetteva attori donne sul palcoscenico. È perché Lyly scriveva per gli attori fanciulli di St. Paul che abbiamo la confusione di sessi e gli amori complicati di Fillide e Galatea; è perché Shakespeare scriveva per Willie Hughes che Rosalinda indossa farsetto e calzoni e si chiama Ganimede, che Viola e Giulia si vestono da paggio e Imogene si dilegua in vesti maschili. Affermare che soltanto una donna può interpretare le passioni di una donna e quindi che un ragazzo non può impersonare Rosalinda significa negare all’arte della recitazione ogni presunzione di obiettività e attribuire a un fattore puramente accidentale come il sesso quanto invece pertiene alla sfera della percezione immaginifica e dell’energia creativa. E del resto, se davvero il sesso è un fattore della creazione artistica, si potrebbe invece sottolineare come la deliziosa combinazione di spirito e romanticismo che caratterizza tante delle eroine di Shakespeare sia quanto meno occasionata se non proprio causata dal fatto che gli attori che interpretavano queste parti erano ragazzi e giovani caratterizzati da una purezza appassionata, una fantasia mobile e veloce e una sana libertà da ogni sentimentalismo, la qual cosa difficilmente avrà mancato di ispirare un tipo di femminilità nuova e deliziosa. La stessa differenza di sesso tra l’attore e la parte che egli interpretava deve inoltre, come mette in evidenza il professor Ward, essere stata fonte di «ulteriore stimolo per le capacità d’immaginazione degli spettatori», impedendo loro una iperrealistica identificazione dell’attore col suo ruolo, uno dei punti deboli della moderna critica teatrale.
Occorre anche ammettere che a questi attori-fanciulli dobbiamo l’introduzione delle meravigliose liriche che costellano le opere di Shakespeare, Dekker e tanti altri drammaturghi dell’epoca, quei «brandelli di canti di uccelli o di dèi», come li chiama Mr. Swinburn. Era infatti dai cori delle cattedrali e delle cappelle reali d’Inghilterra che provenivano la maggior parte di questi ragazzi, e sin dalla più tenera età era stato loro insegnato a cantare inni e madrigali e tutto ciò che concerne l’arte raffinata della musica. Scelti in primo luogo per la bellezza della voce, oltre che per una certa avvenenza e freschezza d’aspetto, imparavano poi a muoversi, danzare, parlare e recitare commedie e tragedie sia in inglese che in latino. Sembra che la recitazione fosse parte integrante dell’istruzione dell’epoca, e che fosse coltivata non soltanto a Eton e a Westminster, ma anche dagli studenti universitari di Oxford e di Cambridge, alcuni dei quali calcavano poi il palcoscenico, come comincia ad accadere anche ai giorni nostri. I grandi attori avevano anche i loro allievi e i loro apprendisti, che erano loro legati formalmente da un contratto legale e ai quali trasmettevano i segreti della loro arte: questi erano tanto apprezzati che leggiamo che Henslowe, uno degli impresari del Rose Theatre, pagò ben otto pezzi d’oro un ragazzo che aveva ricevuto una formazione di questo genere. Sembra che i rapporti tra i maestri e i loro allievi fossero per lo più improntati alla massima cordialità e al massimo affetto. Robert Armin era considerato da Tarlton suo figlio adottivo; in un testamento datato «il quarto dì di Maggio, anno Domini 1605», Augustine Phillips, caro amico e collega-attore di Shakespeare, destinò a uno dei suoi apprendisti «manto purpureo, spada e pugnale», la sua «viola da gamba» e molte ricche vesti; a un altro una somma di denaro e molti begli strumenti musicali, «da consegnargli allo scadere dei suoi anni di apprendistato». Ogni tanto, quando qualche attore ardimentoso rapiva un ragazzo per il palcoscenico, c’era chi gridava allo scandalo o compiva indagini. Nel 1600, per esempio, un certo gentiluomo del Norfolk di nome Henry Clifton venne a vivere a Londra affinché suo figlio, allora tredicenne, avesse l’opportunità di frequentare la Bluecoat School, e da una petizione da lui presentata alla Star Chamber, recentemente riportata alla luce da Mr. Greenstreet, apprendiamo che una mattina d’inverno il ragazzo, mentre camminava tranquillamente verso il chiostro della Christ Church, fu sequestrato da James Robinson, Henry Evans e Nathaniel Giles e portato al Blackfriars Theatre, «in una compagnia di attori mercenari spregevoli e dissoluti», come li definisce il padre, al fine di essere istruito nella «recitazione di parti in commedie e interludi volgari». Venuto a sapere della disavventura del figlio, Mr. Clifton si recò immediatamente al teatro, e domandò che gli fosse restituito, ma «i suddetti Nathaniel Giles, James Robinson e Henry Evans molto arrogantemente risposero di avere autorità a sufficienza per potersi prendere il figlio di qualsiasi nobiluomo di questo paese», e porgendo allo scolaretto un «rotolo di carte contenente le parti di uno dei suddetti interludi e commedie» gli ordinarono di impararlo a memoria. Grazie a una sentenza emessa da Sir John Fortescue, tuttavia, il ragazzo fu restituito al padre il giorno successivo, e pare che la corte della Star Chamber abbia sospeso o annullato tutti i privilegi di Evans. Il fatto è che, seguendo un precedente istituito da Riccardo III, Elisabetta aveva autorizzato determinate persone ad assumere forzatamente al suo servizio tutti i ragazzi che avessero una bella voce e potessero cantare per lei nella sua cappella reale, e Nathaniel Giles, il suo commissario capo, scoprì che avrebbe potuto approfittare dell’incarico per fornire agli impresari del Globe Theatre ragazzi di bella presenza che potessero recitare ruoli femminili con la scusa di prenderli al servizio della regina. Da un certo punto di vista, quindi, gli attori erano dalla parte della legge, ed è interessante notare che molti degli scolari da loro sottratti alle loro scuole o alle loro case, come Salathiel Pavy, Nat Field e Alvery Trussel, furono tanto affascinati dalla loro nuova arte che rimasero permanentemente nel mondo del teatro, per non lasciarlo mai più.
A un certo momento parve che le ragazze fossero in procinto di prendere il posto dei ragazzi sul palcoscenico, e tra i battesimi registrati nella chiesa di St. Giles, Crippelgate, troviamo questa strana e suggestiva voce: «Comedia, plebea, figlia di Alice Bowker e William Johnson, uno degli attori della regina, 10 febbraio 1589». Ma la bambina per la quale tante speranze erano state nutrite morì a soli sei anni e quando, in seguito, arrivarono alcune attrici francesi e recitarono al Blackfriars, apprendiamo che esse furono «cacciate dal palcoscenico tra fischi, grida e lanci di mele». Io penso, in virtù di quanto ho già detto, che non dobbiamo assolutamente rammaricarcene. La cultura essenzialmente maschile del Rinascimento inglese ha trovato la sua espressione più piena e più perfetta con i suoi metodi e i suoi modi.
Rammento che mi domandai, a questo punto, quali potessero essere state la posizione sociale e la vita di Willie Hughes prima che incontrasse Shakespeare. I miei studi sulla storia degli attori-fanciulli mi avevano reso curioso di ogni particolare. Proveniva dagli scranni intagliati di qualche coro dorato, dove leggeva da un librone dipinto le rosse note quadrate e le lunghe righe nere delle chiavi? Sappiamo dai Sonetti che la sua voce era pura e argentina e che egli possedeva un grande talento musicale. I gentiluomini come il conte di Leicester e Lord Oxford avevano al loro servizio, tra il personale domestico, compagnie di attori-fanciulli. Nel 1585, quando Leicester andò nei Paesi Bassi, portò con sé un certo «Will», descritto come «attore». Era forse Willie Hughes? Aveva forse recitato per Leicester a Kenilworth, ed era lì che Shakespeare l’aveva conosciuto? Oppure, come Robert Armin, era un povero ragazzo che possedeva però una strana bellezza e un fascino meraviglioso? Era evidente, dai primi sonetti, che quando Shakespeare l’aveva conosciuto egli non avesse alcun rapporto con il palcoscenico, e che non fosse di nobili natali l’abbiamo già rilevato. Cominciai a pensarlo non come il delicato corista di una cappella reale né come uno dei coccolati favoriti cui era stato insegnato a cantare e a danzare per le imponenti feste di Leicester, ma come un biondo ragazzo inglese che Shakespeare aveva visto e seguito in una delle frettolose strade londinesi o sui verdi e silenziosi prati di Windsor, riconoscendo le possibilità artistiche celate in una forma così avvenente e graziosa e indovinando, con istinto rapido e acuto, quale attore il ragazzo sarebbe divenuto se lo si fosse indotto a calcare le scene. All’epoca il padre di Willie Hughes era morto, come apprendiamo dal sonetto XIII, e sua madre, della quale si dice egli avesse ereditato la notevole bellezza, potrebbe essere stata indotta a permettergli di diventare apprendista di Shakespeare dal fatto che i ragazzi che recitavano parti femminili erano pagati estremamente bene, meglio di quanto non fossero pagati gli attori adulti. A ogni modo, che divenne apprendista di Shakespeare lo sappiamo, e sappiamo anche che egli fu un fattore vitale per l’evoluzione dell’arte di Shakespeare. Di solito un attore-fanciullo era in grado di intepretare parti femminili sul palcoscenico soltanto per pochi anni. Personaggi come Lady Macbeth, la regina Costanza e Volumnia, naturalmente, rimanevano sempre alla portata di coloro che erano dotati di vero genio drammatico e nobile presenza: qui un’estrema giovinezza non era necessaria e neppure desiderabile. Ma con Imogene, e Perdita, e Giulietta, le cose stavano diversamente. «Sta cominciando a crescerti la barba», dice Amleto per canzonare l’attore-fanciullo della compagnia itinerante che lo visita a Elsinore; e certamente quando il mento si fa ispido e la voce roca molto del fascino e della grazia scompaiono. Ecco l’appassionata preoccupazione di Shakespeare per la gioventù di Willie Hughes, il suo terrore dell’età e degli anni devastatori, il suo selvaggio appello al tempo perché risparmi la bellezza del suo amico:
Alterna nel tuo corso le stagioni tristi e le liete,
e fa’ quello che vuoi, o tempo dal piè veloce,
al vasto mondo e a tutte le sue caduche dolcezze;
ma un delitto fra i più odiosi io ti proibisco:
Deh! non solcare la bella fronte dell’amor mio col trascorrer dell’ore tue,
né vi tracciar linee con la tua penna vetusta;
lascialo nella tua corsa inviolato,
a modello di bellezza per le generazioni future.
Sembra che il tempo abbia ascoltato le preghiere di Shakespeare, o forse Willie Hughes aveva il segreto dell’eterna giovinezza. Dopo tre anni quasi non è cambiato:
Voi non potrete mai esser vecchio ai miei occhi, dolce amico,
poiché, quale eravate quando primamente i miei occhi s’incontrarono nei vostri,
tale mi sembra tuttora la vostra bellezza. Il gelo di tre inverni
ha strappato alle foreste le spoglie di tre estati;
tre magnifiche primavere ho veduto cambiarsi,
nel decorso delle stagioni, nello sconsolato autunno;
tre volte i profumi dell’aprile si consumarono nell’ardore di giugno,
da quando per la prima volta vi vidi, nella vostra primissima
giovinezza, voi che tuttora siete così giovane.
Passano altri anni e il fiore della sua adolescenza sembra rimanere con lui. Quando, nella Tempesta, Shakespeare per bocca di Prospero getta via la bacchetta della sua immaginazione e affida la sua sovranità poetica alle deboli e graziose mani di Fletcher, può darsi che la Miranda che ascoltava attonita altri non fosse se non lo stesso Willie Hughes e, nell’ultimo sonetto rivoltogli dall’amico, il nemico più temuto non è il tempo ma la morte.
O mio bel fanciullo, che reggi nelle tue mani
l’orologio mutevole del tempo, e la sua falce, e l’ora;
tu che crescesti mentre gli altri declinavano, sì che
coloro che ti amano avvizziscono di mano in mano che la tua dolce persona si sviluppa; se la natura, questa sovrana che regna su rovine,
vuol riportarti indietro mentre tu procedi innanzi,
gli è perché essa vuole con tale astuzia
fare scorno al tempo e uccidere le tristi ore.
Non di meno, temila, o favorito de’ suoi capricci!
Essa può custodire per qualche tempo, non serbare per sempre il suo tesoro;
bisogna ch’essa paghi, sia pure con ritardo, il suo debito
e non le sarà data quietanza se non restituisce te.
4. Fu soltanto alcune settimane dopo che avevo cominciato ad approfondire l’argomento che ebbi il coraggio di avvicinarmi a quel curioso gruppo di sonetti (CXXVII-CLII) che si occupano della dama bruna che, come un’ombra o un auspicio malvagio, attraversò il grande romanzo di Shakespeare e, per una stagione, si interpose tra lui e Willie Hughes. Erano stati ovviamente stampati fuori posto, e avrebbero dovuto essere collocati tra i sonetti XXXIII e XL. Questo spostamento è imposto da motivi psicologici e artistici, e io spero che tutti i futuri curatori vorranno adottarlo, perché altrimenti si ricava un’idea del tutto falsa della natura e dell’esito di questa nobile amicizia.
Chi era questa donna dalle sopracciglia nere e dalla carnagione olivastra, con la sua bocca amorosa «fatta dalle mani stesse dell’amore», il suo «occhio crudele» e il suo «infame orgoglio», la sua strana abilità nel suonare il verginale e la sua natura falsa e affascinante? Uno studioso ipercurioso dei nostri giorni ha visto in lei un simbolo della chiesa cattolica, di quella sposa di Cristo che è «nera ma avvenente». Il professor Minto, seguendo la traccia di Henry Brown, ha visto in questo gruppo di sonetti semplicemente «esercizi di stile intrapresi in uno spirito di deliberata provocazione e derisione dei luoghi comuni». Mr. Gerald Massey, senza alcuna prova di probabilità storica, ha insistito che fosser destinati a Lady Rich, la Stella dei sonetti di Sir Philip Sydney, la Filoclea della sua Arcadia, e che non contenessero alcuna rivelazione sulla vita e sugli amori di Shakespeare, essendo stati scritti in nome di Lord Pembroke e per sua richiesta. Mr. Tyler aveva suggerito un riferimento a una delle damigelle d’onore della regina Elisabetta, una certa Mary Fitton. La donna che si interpose tra Shakespeare e Willie Hughes era una donna vera, dai capelli neri, sposata e dalla cattiva reputazione. La fama di Lady Rich era abbastanza cattiva, è vero, ma i suoi capelli erano
finissimi fili dell’oro più fino,
per trattenere coi ricci i pensieri dell’uomo,
e le sue spalle erano come «bianche colombe appollaiate». Ella era, come disse re Giacomo a Lord Mountjoy, «una donna bionda con una anima nera». Come per Mary Fitton, sappiamo che non era sposata nel 1601, quando fu scoperta la sua relazione con Lord Pembroke; e inoltre, come aveva dimostrato Cyril Graham, ogni teoria che mettesse Lord Pembroke in relazione con i Sonetti era messa completamente fuori gioco dal fatto che Lord Pembroke giunse a Londra quando essi erano già stati scritti e letti da Shakespeare agli amici.
Non era comunque il suo nome a interessarmi. Mi accontentavo di affermare, con il professor Dowden, che «gli occhi di nessun subacqueo vedranno mai brillare tra i relitti del tempo quel curioso talismano». Volevo invece scoprire la natura della sua influenza su Shakespeare e le caratteristiche della sua personalità. Due cose erano certe: ella era molto più anziana del poeta, e il fascino che esercitava su di lui, fu, all’inizio, puramente intellettuale. All’inizio egli non provava alcuna attrazione fisica per lei. «Io non t’amo con gli occhi», le dice,
Né al mio orecchio riesce gradito il suono della tua voce:
né il senso della voluttà inchinevole a toccamenti lascivi,
né il gusto, né l’odorato hanno desiderio di essere invitati
al banchetto dei sensi con te soltanto.
Non la ritiene neppure bella:
Gli occhi della mia donna non si possono menomamente paragonare al sole;
il corallo è assai più rosso delle sue labbra;
se la neve è bianca, certo il suo seno è bruno;
se i capelli fossero di fil di ferro, sulla sua testa crescerebbero dei fili di ferro neri.
Ci furono anche momenti in cui la detestò perché, non paga di aver ridotto in schiavitù l’anima di Shakespeare, sembra che avesse cercato di prendere al laccio anche i sensi di Willie Hughes. Allora Shakespeare grida forte:
Due amori nutro in cuore, mia consolazione l’uno, mia disperazione l’altro,
i quali, al pari di due angeli, mi stanno continuamente intorno a consigliarmi:
il mio angelo buono è un uomo veramente bello, il mio angelo cattivo è una donna di mal colore.
Perché prima m’abbia l’inferno, il mio demonio femmina
tenta il mio buon angelo ad allontanarsi dal mio fianco
e vorrebbe subornare il mio santo a farsi diavolo
attentando alla sua purità con la sua empia lussuria.
Poi la vede quale ella realmente è: «una baia dove tutti navigano», «un luogo aperto al mondo intero», la donna che vive nella «abiezione stessa» delle sue malvagità e che è «nera come l’inferno, scura come la notte». E allora tratteggia il grande sonetto sulla libidine («Sperpero dell’anima nello scempio d’ogni pudore») del quale Mr. Theodore Watts dice, giustamente, che è il più grande sonetto che sia mai stato scritto. Allora, inoltre, le offre in pegno la sua stessa vita e il suo genio perché gli restituisca quel «dolcissimo amico» di cui ella l’aveva derubato.
Per conseguire questo fine egli si abbandona a lei, finge di essere preso da un intenso, sensuale desiderio di possederla, forgia false parole d’amore, le mente e le dice che mente.
I miei pensieri e i miei discorsi sono quelli d’un pazzo,
vaneggianti lungi dal vero:
poiché ho giurato che tu sei bella (bionda) e ho pensato che sei radiosa,
tu che sei nera come l’inferno, scura come la notte.
Piuttosto che tollerare che il suo amico lo tradisca, sarà lui a tradire l’amico. Per proteggere la sua purezza, sarà lui stesso vile. Egli conosceva la debolezza della natura dell’attore-fanciullo, la sua sensibilità alle lodi e il suo smodato desiderio di essere ammirato, e deliberatamente decise di affascinare la donna che si era interposta tra loro.
Ma le nostre labbra non possono mai pronunziare impunemente le litanie dell’amore. Le parole hanno un potere mistico sull’anima, e la forma può creare quel sentimento dal quale essa sarebbe dovuta sgorgare. La stessa sincerità, l’ardente, passeggera sincerità dell’artista è spesso il risultato inconsapevole dello stile, e nel caso di quei rari temperamenti squisitamente sensibili all’influenza del linguaggio, l’uso di determinate frasi ed espressioni può accelerare il polso stesso della passione, può far correre all’impazzata il sangue per le vene e può trasformare in una strana energia sensuale quello che originariamente era solo impulso estetico e desiderio d’arte. Quanto meno, sembra che sia stato così per Shakespeare. Egli comincia fingendo di amare, si traveste da amante e pronunzia le parole dell’amante. Che importa? Sta soltanto recitando, è soltanto una commedia nella vita reale. D’un tratto egli scopre che la sua anima aveva ascoltato quanto la sua lingua andava dicendo, e che la veste che aveva indossato per travestirsi era una cosa infetta e velenosa che gli corrode la carne e che non può più togliersi. Poi viene il desiderio, coi suoi molti mali, e la libidine, che induce ad amare tutto ciò che si detesta, e la vergogna, con il suo volto livido e il suo sorriso misterioso. Egli è soggiogato da questa dama bruna: per una stagione si separa dal suo amico e diviene «l’indegno vassallo» di colei che sa essere malvagia e perversa e indegna del suo amore, come dell’amore di Willie Hughes. «Da quale potere», egli dice,
ti viene l’irresistibile autorità con la quale,
pur con tutte le manchevolezze, governi il mio cuore,
e per la quale fai sì ch’io stesso smentisca la fedele testimonianza dei miei occhi
e giuri non esser vero che lo splendore della luce allieta il giorno?
Donde viene che in te le cose brutte hanno grazia,
sì che nelle azioni tue più abiette
è tale potere e tale carattere di forza
che, secondo quel ch’a me pare, il peggio di te sorpassa quanto v’ha di meglio?
Egli è intensamente consapevole della propria degradazione; infine, rendendosi conto che il suo genio non è niente per lei rispetto alla bellezza fisica del giovane attore, recide con un coltello affilato il legame che lo unisce a lei e, in questo amaro sonetto, le dice addio:
Tu sai bene che, amandoti, io mi rendo spergiuro,
ma tu sei spergiura due volte quando giuri d’amarmi;
hai infranto con le azioni tue il giuramento di sposa e hai violata la nova promessa,
giurandomi novellamente odio dopo avermi novellamente amato.
Ma perché t’accuso d’aver violato due promesse
quand’io ne violo venti? Dei due sono io il più spergiuro,
poiché tutti i miei giuramenti sono promesse che faccio di lasciarti
e invece ogni mio onesto proponimento sfuma quando guardo te;
perché io ho attestato coi giuramenti più solenni la bontà profonda
dell’animo tuo, il tuo amore, la tua onestà, la tua costanza,
e, per far risplendere te, feci ciechi i miei occhi
e feci loro giurare l’opposto di quello che vedono.
Poiché ho giurato che sei bella: sì fui spergiuro al punto
da sostenere con giuramento, contro ogni verità, sì sfacciata menzogna!
Il suo atteggiamento nei confronti di Willie Hughes, nel corso di tutta la storia, rivela immediatamente il fervore e l’abnegazione del grande amore che gli portava. C’è un pathos pregnante nella chiusa di questo sonetto:
I torti che verso di me leggiadramente ti fa commettere la libertà,
quando io sono talora assente dal tuo cuore,
bene s’addicono alla tua bellezza e alla tua età,
ché la tentazione sempre ti segue dovunque tu sia.
Tu hai cuore gentile e perciò meritevole d’esser conquistato;
bello tu sei, e perciò meritevole d’essere assalito da amore.
Ora, quando una donna fa gli occhi dolci, qual figlio di donna
sarà tanto austero da lasciarla prima ch’essa abbia trionfato?
Eppure, ahimè! tu non potresti risparmiare almeno i miei domìni
e tenere a freno la tua bellezza e la tua giovinezza libertina
che si traggono, nei loro bagordi, persino a far ciò
per cui sei obbligato a infrangere una duplice fede:
quella di lei, col tentarla a dartisi mediante la tua bellezza;
la tua, per mezzo della tua bellezza rompendo la fede a me.
Ma qui dimostra come il suo perdono fosse pieno e completo:
Non ti accorare più per quello che hai fatto;
hanno spine le rose, e fango le fonti argentee;
nubi ed eclissi offuscano e luna e sole,
e il verme ripugnante vive nei più soavi bottoni dei fiori.
Ognuno commette errori e io medesimo ne commetto uno
con lo scusare i tuoi falli con i miei paragoni,
avvilendo me stesso per giustificare i miei traviamenti
e scusando i tuoi peccati più che i tuoi peccati non richiedano.
Poiché alla colpa de’ tuoi sensi io trovo ragioni –
la parte avversa perora in tuo favore –
e inizio contro me stesso un processo in regola:
tale è la lotta intestina tra il mio amore e il mio rancore,
che io mi rendo necessariamente complice
del dolce ladro che atrocemente mi deruba.
Poco dopo Shakespeare lasciò Londra per Stratford (sonetti XLIII-LII); e pare che al suo ritorno Willie Hughes si fosse stancato della donna che per un po’ l’aveva affascinato. Il nome di lei non è più menzionato nei sonetti, né più le si allude. Ella è scomparsa dalla loro vita.
Ma chi era costei? E, anche se il suo nome non ci è pervenuto, nella letteratura contemporanea c’erano altre allusioni a lei? Mi sembra che, per quanto più istruita della maggior parte delle donne del suo tempo, non fosse di nobili natali: era probabilmente la moglie dissoluta di un borghese vecchio e ricco. Sappiamo che le donne di questa classe, che soltanto allora cominciava a essere socialmente rilevante, erano stranamente affascinate dalla nuova arte della recitazione. Le si trovava quasi ogni pomeriggio a teatro, quando si davano spettacoli drammatici, e La protesta degli attori la dice lunga sui loro amori con i giovani artisti.
Cranley, nella sua Amanda, ci parla di una che amava imitare i travestimenti degli attori e si presentava un giorno «tutta ricami, pizzi, profumi, scintillante... e sgargiante come una contessa», e il giorno dopo «vestita a lutto, nera e triste», ora col mantello grigio di una contadinotta, ora «in lindi abiti borghesi». Era una donna curiosa, «più mutevole e fluttuante della luna», e i libri che amava leggere erano Venere e Adone di Shakespeare, Salmace ed Ermafrodito di Beaumont, libelli amorosi e «canzoni d’amore e squisiti sonetti». Questi sonetti, «i libri della sua devozione», erano sicuramente quelli di Shakespeare, giacché tutta la descrizione coincide col ritratto della donna che si innamorò di Willie Hughes e, per timore che potessimo nutrire qualche dubbio in proposito Cranley, rifacendosi al gioco di parole di Shakespeare, ci dice che, nelle sue «strane forme proteiformi», ella è una di coloro che
cambia pelle come un camaleonte24.
Anche l’Agenda di Manningham contiene una chiara allusione alla stessa storia. Manningham studiò al Middle Temple insieme a Sir Thomas Overbury ed Edmund Curle, di cui pare condividesse l’alloggio; il suo diario è tuttora conservato tra i manoscritti Harleian al British Museum, un libriccino in dodicesimo scritto con una bella grafia, abbastanza leggibile, e contiene molti aneddoti non pubblicati su Shakespeare, Sir Walter Raleigh, Spenser, Ben Jonson e altri. Le date, annotate con grande cura, vanno dal gennaio 1600 all’aprile del 1603, e sotto l’intestazione «13 marzo 1601» Manningham ci dice di avere saputo da un membro della compagnia di Shakespeare che la moglie di un certo borghese, durante uno spettacolo pomeridiano al Globe Theatre, si sarebbe innamorata di uno degli attori, «e arrivò a tal punto che, prima di andarsene, andò a dirgli che l’aspettava qualla notte stessa»; ma Shakespeare «avendo risaputa la cosa», batté l’amico sul tempo e arrivò per primo a casa della donna, dove «fu intrattenuto», per dirla con le parole di Manningham, il quale aggiunge alcune osservazioni oscene che è superfluo riportare.
Mi sembrò di essermi imbattuto in una versione volgare e distorta della storia che ci è rivelata nei Sonetti, la storia dell’amore della dama bruna per Willie Hughes e del pazzo tentativo di Shakespeare di indurla ad amare lui invece dell’amico. Naturalmente non era necessario ritenerla assolutamente vera in tutti i particolari. Secondo l’informatore di Manningham, ad esempio, il nome dell’attore in questione non era Willie Hughes, ma Richard Burbage. Ma i pettegolezzi di taverna sono proverbialmente inesatti e Burbage fu indubbiamente trascinato nella storia per dare rilievo alla sciocca facezia su Guglielmo il Conquistatore e Riccardo III con cui termina il diario di Manningham. Burbage fu il primo grande attore tragico inglese, ma doveva fare ricorso a tutto il suo genio per controbilanciare i difetti fisici con cui era costretto a fare i conti, la bassa statura e il fisico corpulento, e non era certo il tipo d’uomo che avrebbe affascinato la dama bruna dei sonetti o al quale poteva interessare il fascino di lei. Non c’era alcun dubbio: si alludeva a Willie Hughes, e il diario personale di un giovane studente di legge dell’epoca costituiva una curiosa conferma della straordinaria intuizione di Cyril Graham sul segreto della grande storia d’amore di Shakespeare. Davvero, se associata ad Amanda, l’Agenda di Manningham mi sembrava un anello estremamente forte della catena di indizi e conferiva alla nuova interpretazione dei Sonetti una base storica piuttosto sicura, giacché il fatto che il poema di Cranley non fosse stato pubblicato se non dopo la morte di Shakespeare costituiva davvero un punto a suo favore: non era infatti probabile che egli avesse l’ardire di rivangare questa storia tragica e amara mentre il grande drammaturgo viveva ancora.
La passione per la dama bruna mi permetteva anche di stabilire con maggior certezza le date di composizione dei Sonetti. Le prove interne, come le caratteristiche linguistiche, lo stile e simili, dimostrano che essi appartengono al primo periodo della creatività shakespeariana, il periodo di Pene d’amor perdute e di Venere e Adone. Alla commedia essi sono anche intimamente legati: presentano lo stesso delicato eufuismo, lo stesso compiacimento per le frasi fantasiose e le espressioni curiose, l’insistenza artistica e la grazia studiata della stessa «bella lingua concettuale». Rosalinda, la
bianca sgualdrina dalle ciglia di velluto,
con due palle di pece affisse in volto a mo’ di occhi,
nata per «far bello il nero» e dai cui «favori dipende la moda dei suoi giorni», è la dama bruna dei sonetti, che fa del nero «l’erede della bellezza». Nella commedia come nei componimenti abbiamo quella filosofia semisensuale che esalta il giudizio dei sensi, collocandolo «al di sopra di tutti i mezzi di conoscenza laboriosi e più lenti», e forse Berowne è, come suggerisce Walter Pater, un riflesso dello stesso Shakespeare «che ha appena imparato a discostarsi dal primo periodo della sua poesia e quindi a valutarlo».
Ora, per quanto Pene d’amor perduto non sia uscito fino al 1598, quan-do Cuthbert Burby lo pubblicò in una versione «recentemente corretta e ampliata», non c’è dubbio che esso fosse stato scritto e messo in scena molto tempo prima, probabilmente, come suggerisce il professor Dowden, nel 1588-89. Se è così, è chiaro che il primo incontro di Shakespeare con Willie Hughes va collocato intorno al 1585, ed è sempre possibile che questo giovane attore, dopo tutto, sia stato durante l’infanzia il musicista di Lord Essex.
È chiaro, a ogni modo, che l’amore di Shakespeare per la dama bruna deve essersi spento prima del 1594. In quell’anno Hadrian Dorell pubblicò Willobie e la sua Avisa, quell’affascinante componimento o, meglio, serie di componimenti che Mr. Swinburne definisce l’unico libro dell’epoca che possa gettare una luce diretta o indiretta sul problema mistico dei Sonetti. In esso apprendiamo come un giovane gentiluomo del St. John’s College, Oxford, di nome Henry Willobie, si sia innamorato di una donna così «bella e casta» che la ribattezzò Avisa, vuoi perché tanta bellezza non si era mai vista, vuoi perché ella fuggiva come un uccello le insidie della passione di lui e spiccava il volo non appena egli si avventurava anche soltanto a sfiorarle la mano. In preda allo struggente desiderio di conquistare la donna, egli consulta W. S., amico di famiglia, «che non molto tempo prima aveva sperimentato una simile passione e si era rimesso solo di recente da tale infezione». Shakespeare lo incoraggiò nell’assedio che egli stava tendendo al Castello della Bellezza, dicendogli che ogni donna deve essere corteggiata e conquistata; il grande poeta osserva questa «commedia d’amore» da lontano, per vedere «se si sarebbe risolta per il nuovo attore con un esito più felice di quanto non sia accaduto al vecchio» e «allarga la piaga con l’affilato coltello di un concettismo deliberato», provando l’interesse puramente estetico dell’artista per gli umori e le emozioni di altri. Non occorre, comunque, addentrarsi ulteriormente in questo curioso episodio della vita di Shakespeare, giacché quel che mi premeva sottolineare era che nel 1594 egli era guarito dalla sua infatuazione per la dama bruna e conosceva Willie Hughes come minimo da tre anni.
Il mio schema dei Sonetti era adesso completo, e collocando quelli che attribuivo alla dama bruna nella loro giusta posizione, vedevo la perfetta unità e completezza del tutto. Il dramma – perché essi formavano davvero un dramma, e la tragedia della fiera passione e del nobile pensiero di un’anima – è suddiviso in quattro scene o atti. Nel primo di questi (sonetti I-XXXII) Shakespeare invita Willie Hughes a calcare le scene come attore e a mettere al servizio dell’arte la sua meravigliosa bellezza fisica e la squisita grazia della sua gioventù, prima che la passione lo derubi della prima e il tempo gli tolga la seconda. Willie Hughes, dopo un po’, accetta di diventare attore nella compagnia di Shakespeare, e presto diventa il fulcro stesso della sua ispirazione. All’improvviso, in un luglio rosato (sonetti XXXIII-LII, LXI e CXXVII-CLII) va al Globe Theatre una donna bruna dagli occhi meravigliosi che si innamora perdutamente di Willie Hughes. Shakespeare, follemente geloso e tormentato da molti dubbi e paure, cerca di affascinare la donna che si era interposta tra lui e l’amico. L’amore, dapprima simulato, diventa reale, ed egli si trova soggiogato e dominato da una donna che egli sa malvagia e indegna. Per lei il genio di un uomo non è niente, in confronto alla bellezza di un ragazzo. Willie Hughes diventa per un po’ schiavo di lei, il balocco dei suoi capricci, e il secondo atto termina con la partenza di Shakespeare da Londra. Nel terzo atto l’influenza della donna è svanita. Shakespeare torna a Londra e riprende la sua amicizia con Willie Hughes, al quale promette l’immortalità nelle sue opere. Marlowe, che sente parlare dalla bravura e della grazia del giovane attore, lo induce ad abbandonare il Globe Theatre per interpretare la parte di Gaveston nella tragedia Edoardo II, e per la seconda volta Shakespeare è separato dal suo amico. L’ultimo atto (sonetti C-CXXVI) ci dice del ritorno di Willie Hughes alla compagnia di Shakespeare. Voci maligne hanno ormai macchiato la candida purezza del suo nome, ma l’amore di Shakespeare resiste, ed è perfetto. Del mistero di questo amore e del mistero della passione ci vengono dette cose strane e meravigliose, e i Sonetti terminano con un congedo in dodici versi il cui motivo è il trionfo della bellezza sul tempo e del tempo sulla bellezza.
E come finì colui che era stato così caro all’anima di Shakespeare e che, con la sua presenza e la sua passione, aveva conferito realtà all’arte di Shakespeare? Quando scoppiò la guerra civile, gli attori inglesi si schierarono dalla parte del re, e molti di loro, come quel Robinson che fu barbaramente massacrato dal Maggiore Harrison durante la presa di Basing House, dettero la vita per il loro sovrano. Forse il cadavere di Willie Hughes fu trovato da qualche rozzo contadino, con i capelli d’oro «intrisi di sangue» e il petto squarciato da molte ferite, tra l’erica calpestata di Marston o sulle brulle colline di Naseby. O può darsi che la peste, molto frequente a Londra all’inizio del XVII secolo e considerata da molti cristiani una punizione inviata alla città per il suo amore «di commedie vane e spettacoli idolatri» avesse contagiato il ragazzo mentre recitava ed egli si fosse trascinato a casa per morirvi da solo, mentre Shakespeare era lontano, a Stratford, e coloro che erano affluiti in gran quantità per vederlo, quei «contemplatori» che, come ci dicono i Sonetti, egli aveva «fuorviato», avevano troppa paura del contagio per avvicinarglisi. Circolava allora una storia del genere su un giovane attore, e i Puritani ne fecero ampio uso, nel tentativo di soffocare la libera evoluzione del Rinascimento inglese. Sicuramente però, se questo attore fosse stato Willie Hughes, la notizia della sua morte avrebbe rapidamente raggiunto Shakespeare, che se ne stava sognante sotto il gelso del suo giardino di New Place, e in un’elegia dolce come quella scritta da Milton per Edward King egli avrebbe pianto il fanciullo che tanta gioia e tanto dolore aveva portato nella sua vita e i cui rapporti con la sua arte avevano avuto un carattere così intimo e vitale. C’era qualcosa che mi dava la certezza che Willie Hughes fosse sopravvissuto a Shakespeare e avesse realizzato, in certo qual modo, le elevate profezie che il poeta aveva fatto su di lui; finché una sera il vero segreto della sua fine mi trapassò come un lampo. Egli era stato uno di quegli attori che intorno al 1611, l’anno in cui Shakespeare si ritirò dalle scene, attraversarono il mare alla volta della Germania e recitarono davanti al grande duca Enrico Giulio di Brunswick, anch’egli un discreto drammatugo, e alla corte di quello strano elettore del Brandenburgo che era così innamorato della bellezza che di lui si diceva che avesse comprato, pagando il suo peso in ambra, il giovane figlio di un mercante greco itinerante, e che avesse dato feste in onore del suo schiavo, il tutto durante la terribile carestia degli anni 1606-07, quando il popolo moriva di fame per le strade della città e non piovve per sette mesi di seguito. La biblioteca di Cassel conserva ancor oggi una copia della prima edizione dell’Edoardo II di Marlowe, l’unica esistente, a quel che ci dice Mr. Bullen. Chi avrebbe potuto portarla in quella città se non colui che aveva creato la parte del favorito del re e per il quale invero quella parte era stata scritta? Quelle pagine macchiate e ingiallite erano state toccate dalle sue mani bianche. Sappiamo anche che Romeo e Giulietta, un’opera strettamente legata a Willie Hughes, fu rappresentata a Dresda nel 1613 insieme ad Amleto, a Re Lear e ad alcune delle opere di Marlowe, e fu sicuramente allo stesso Willie Hughes che nel 1671 un membro del seguito dell’ambasciatore inglese portò la maschera funebre di Shakespeare, pallido ricordo della dipartita del grande poeta che tanto teneramente l’aveva amato. C’era davvero qualcosa di particolarmente calzante nell’idea che il primo a portare in Germania il seme della nuova cultura fosse stato l’attore-fanciullo la cui bellezza era stata un elemento così vitale per il realismo e il romanticismo dell’arte di Shakespeare: egli sarebbe così stato il precursore dell’Aufklärung, o Illuminismo, quello splendido movimento del XVIII secolo al quale, per quanto fosse cominciato con Lessing e Herder e avesse raggiunto il suo pieno e perfetto compimento con Goethe, contribuì in parte non minima un giovane attore – Friedrich Schroeder – che risvegliò la coscienza popolare e che, con le passioni simulate e la mimica della scena, rivelò i legami intimi e vitali esistenti tra la vita e la letteratura. Se le cose stavano così – e sicuramente non c’erano prove contrarie – non era improbabile che Willie Hughes fosse uno di quei teatranti inglesi (mimi quidam ex Britannia, come li chiamano le antiche cronache) massacrati a Norimberga durante un’improvvisa rivolta della popolazione e ai quali aveva dato segreta sepoltura in una piccola vigna fuori città un gruppo di giovani «che avevano trovato piacere nelle loro rappresentazioni e alcuni dei quali avevano cercato di essere istruiti nei misteri della nuova arte». Certamente nessun luogo potrebbe essere più adatto a colui cui Shakespeare aveva detto «tu sei tutta la mia arte» di questa piccola vigna fuori delle mura della città. Non fu dal dolore di Dioniso che nacque la tragedia? E le lievi risa della commedia, con la sua spensierata allegria e le sue pronte battute, non si udirono la prima volta sulle labbra dei vignaioli siciliani? E non furono proprio le macchie rosso-porpora del mosto sul volto e sugli arti a suggerire l’incanto e il fascino dei travestimenti, quel desiderio di nascondersi e quel senso del valore dell’oggettività già manifesti nei pur rozzi inizi di quest’arte? A ogni modo, dovunque riposasse – nella piccola vigna alle porte della città gotica o in qualche cupa chiesa londinese – in mezzo al trambusto della nostra grande città, nessun monumento sontuoso indicava il luogo dov’era sepolto. La sua vera tomba, come diceva Shakespeare, era il verso del poeta, il suo vero monumento la continuità del dramma. Era accaduto così già ad altri la cui bellezza aveva dato un nuovo impulso creativo alla loro epoca. Il cadavere eburneo dello schiavo bitinio marcisce nella verde melma del Nilo, e sulle gialle colline del Ceramico è sparsa la polvere del giovane ateniese: ma Antinoo vive nella scultura e Carmide nella filosofia.
5. Un giovane elisabettiano, innamorato di una ragazza così bianca che egli la chiamava Alba, ci ha lasciato una testimonianza delle impressioni prodotte su di lui dalle prime rappresentazioni di Pene d’amor perdute. Per quanto gli attori fossero ammirevoli e recitassero «con grande abilità», ci dice, soprattutto quelli che interpretavano le parti degli amanti, egli era consapevole che tutto era «finto», che niente veniva «dal cuore», che per quanto sembrassero addolorati «non provavano pena alcuna» e stavano semplicemente presentando «uno spettacolo istrionesco». Eppure, tutto d’un tratto, la fantasiosa commedia di quella storia irreale divenne per lui, seduto tra il pubblico, la vera tragedia della sua vita. Gli pareva che gli umori della sua stessa anima avessero assunto una forma e una sostanza, che si muovessero davanti a lui. Il suo dolore aveva una maschera sorridente, e la sua pena indossava un abito di letizia. Dietro lo spettacolo brillante della scena, che mutava con grande rapidità, egli vide se stesso come si vede la propria immagine in uno specchio magico. Le parole che affioravano alle labbra degli attori erano carpite dal suo dolore. Le loro false lacrime era lui a versarle.
Soltanto pochi tra noi non hanno provato qualcosa del genere. Siamo divenuti amanti a vedere Romeo e Giulietta, e Amleto ci trasforma tutti in studenti. Il sangue di Duncan è sulle nostre mani, con Timone ci scagliamo contro il mondo e quando Lear vaga per la brughiera siamo sfiorati dal terrore della follia. Nostra è la candida innocenza di Desdemona e nostro anche il peccato di Iago. L’arte, persino quella di più larghe vedute, non può mai mostrarci davvero il mondo esterno. Tutto quello che ci mostra è la nostra anima, l’unico mondo del quale abbiamo una conoscenza reale. E l’anima stessa, l’anima di ciascuno di noi, è per ciascuno di noi un mistero. Si nasconde e medita nell’oscurità, e la coscienza non può dirci alcunché delle sue elucubrazioni. La coscienza non è davvero all’altezza del compito di spiegarci i contenuti della personalità: è l’arte, e soltanto l’arte, a rivelarceli.
Assistiamo alla rappresentazione con la donna che amiamo, o ascoltiamo la musica in qualche giardino di Oxford, o vaghiamo con il nostro amico per le fresche Gallerie Vaticane, a Roma, e all’improvviso ci rendiamo conto che nutriamo passioni che non abbiamo mai sognato, pensieri che ci spaventano, piaceri il cui segreto ci è stato negato, dolori che sono stati nascosti alle nostre lacrime. L’attore è inconsapevole della nostra presenza; il musicista sta pensando all’eleganza della fuga, al suono del suo strumento; gli dèi di marmo che ci sorridono così curiosamente sono fatti di pietra inanimata. Ma hanno dato forma e sostanza a quanto era dentro di noi; ci hanno consentito di realizzare la nostra personalità; e un senso di gioia perigliosa, o un qualche accento o fremito di dolore, o quella strana autocompassione che tanto spesso l’uomo prova per sé ci avvince e ci lascia diversi.
Era certamente di questo genere l’impressione che i Sonetti di Shakespeare avevano prodotto su di me. Man mano che, dalle albe opaline ai tramonti d’un rosa appassito, li leggevo e rileggevo, in giardino o in camera, mi sembrava di decifrare la storia di una vita che un tempo mi era appartenuta, di dipanare la trama di un romanzo il quale, senza che io lo sapessi, aveva impregnato del suo colore la mia natura, conferendole sfumature strane e sottili. L’arte, come spesso accade, aveva preso il posto dell’esperienza personale. Mi sentivo come se fossi stato iniziato al segreto dell’amicizia appassionata: l’amore della bellezza e la bellezza dell’amore di cui ci parla Marsilio Ficino e di cui i Sonetti possono essere considerati, nel loro significato nobile e puro, l’espressione perfetta.
Sì: io avevo vissuto tutto ciò. Ero stato nel teatro circolare, con il tetto aperto e i vessilli al vento, avevo visto la scena drappeggiata di nero per una tragedia o allestita con allegre ghirlande per qualche spettacolo più brillante. Avanzavano i giovani bellimbusti coi loro paggi, e prendevano posto davanti al bruno sipario appeso ai pilastri del palcoscenico, sui quali erano scolpite teste di satiro. Erano insolenti e spensierati, coi loro fantasiosi abiti. Alcuni di loro portavano tirabaci alla francese, farsetti bianchi resi rigidi da ricami italiani di fili d’oro e calzoni lunghi di seta azzurra o giallo pallido. Altri erano completamente in nero e avevano enormi cappelli piumati. Costoro imitavano la moda spagnola. Mentre giocavano a carte e soffiavano sottili anelli di fumo dalle piccole pipe che i paggi accendevano per loro, gli oziosi garzoni di bottega e gli scolaretti svogliati che affollavano il cortile li prendevano in giro. Ma essi si limitavano a sorridere tra loro. Nei palchi laterali erano sedute alcune dame mascherate. Una di loro attendeva con occhi avidi, mordicchiandosi le labbra, che si aprisse il sipario. Quando la tromba suonò per la terza volta ella si protese in avanti, e io vidi la sua pelle olivastra e i suoi capelli corvini. La conoscevo. Aveva guastato, per una stagione, la grande amicizia della mia vita. Eppure c’era qualcosa in lei che mi affascinava.
L’opera cambiava a seconda del mio umore. Talvolta era Amleto. Taylor interpretava il principe, e molti piangevano quando Ofelia impazziva. Talvolta era Romeo e Giulietta. Burbage era Romeo. Somigliava poco al giovane italiano, ma aveva una voce molto musicale e ogni suo gesto era d’una bellezza appassionata. Vidi Come vi piace e Cimbelino e La dodicesima notte, e in ciascuna di queste opere c’era qualcuno la cui vita era legata alla mia, che realizzava per me ogni sogno e dava forma a ogni fantasia. Con quanta grazia egli si muoveva! Gli occhi del pubblico erano fissi su di lui.
Eppure tutto ciò era accaduto in questo secolo. Non avevo mai visto il mio amico, ma egli era rimasto con me per molti anni, ed era alla sua influenza che dovevo la mia passione per il pensiero e per l’arte dei Greci e invero tutta la mia simpatia per lo spirito ellenico. Filosofe˜in mèt’ êrvtoq [...]. Quanto mi faceva vibrare, questa frase, durante i miei giorni di Oxford! Allora non capivo perché, ma adesso lo so. C’era sempre stata una presenza accanto a me. I suoi piedi argentei avevano calpestato nottetempo i prati ombrosi e le sue mani bianche avevano sollevato le tremule cortine dell’alba. Aveva camminato con me per i chiostri grigi e, quando me ne stavo in camera a leggere, era con me. Com’è possibile che non ne fossi consapevole? L’anima aveva una vita sua e il cervello era la sua sfera di azione. C’era qualcosa dentro di noi che non sapeva niente di sequenze ed estensioni e tuttavia, come il filosofo della città ideale, era lo spettatore di ogni tempo e di ogni esistenza. Aveva sensi che si accendevano, passioni che nascevano, estasi spirituali di contemplazione, ardori di amore dai colori vivaci. Eravamo noi a essere irreali, e la nostra vita cosciente era la parte meno importante della nostra evoluzione. L’anima, l’anima segreta era la sola realtà.
In che modo curioso tutto ciò mi era stato rivelato! Un libro di sonetti pubblicato quasi trecento anni fa, scritto da una mano morta in onore di un giovane morto mi aveva spiegato all’improvviso tutta la storia del romanzo della mia anima. Rammentai come una volta, in Egitto, avessi assistito all’apertura di un sarcofago dipinto che era stato rinvenuto in una delle tombe di basalto di Tebe. Dentro c’era il corpo di una giovinetta avvolta in strette bende di lino, con una maschera dorata sul volto. Piegandomi per guardarla vidi che una delle sue manine avvizzite teneva un rotolo di papiro giallo coperto di strani caratteri. Come rimpiangevo, ora, di non essermelo fatto leggere! Avrebbe potuto dirmi qualcosa di più sull’anima che si nascondeva dentro di me nutrendo misteriose passioni di cui io ero tenuto all’oscuro. Strano che sapessimo tanto poco su di noi e che la nostra più intima personalità ci fosse celata! Dovevamo cercare nelle tombe la nostra vita reale, e nell’arte le leggende dei nostri giorni?
Per settimane e settimane studiai attentamente questi componimenti, e ogni nuova forma di conoscenza mi sembrava una modalità della reminescenza. Infine, dopo che furono trascorsi due mesi, mi decisi a inviare un forte appello a Erskine perché rendesse giustizia alla memoria di Cyril Graham e comunicasse al mondo la sua meravigliosa interpretazione dei Sonetti, l’unica interpretazione che risolvesse completamente il problema. Mi rincresce dover dire che non ho copie della mia lettera, né ho potuto recuperare l’originale; ma ricordo di aver ripercorso tutta la questione e riempito fogli e fogli di carta con l’appassionata reiterazione degli argomenti e delle prove che i miei studi mi avevano suggerito.
Mi sembrava non solo di reintegrare Cyril Graham nel posto che gli spettava nella storia letteraria, ma addirittura di salvare l’onore di Shakespeare dalla fastidiosa accusa di un una tresca qualsiasi. Misi nella lettera tutto il mio entusiasmo. Misi nella lettera tutta la mia fede.
E non appena l’ebbi spedita mi capitò una cosa curiosa. Mi sembrò di aver ceduto la mia capacità di credere nella teoria che vedeva in Willie Hughes il destinatario dei Sonetti, come se qualcosa mi avesse abbandonato e io fossi perfettamente indifferente a tutta la storia. Che cosa era successo? È difficile dirlo. Forse, trovando l’espressione perfetta per una passione, avevo esaurito la passione stessa. Le forze emotive, come le forze della vita fisica, hanno i loro limiti positivi. Forse lo sforzo stesso di convertire qualcuno a una qualche teoria implica una qualche forma di rinunzia alla possibilità di credere. L’influenza è un semplice trasferimento di personalità, un modo per dare via quello che ci è più prezioso e, forse, una realtà di perdita. Ogni discepolo sottrae qualcosa al suo maestro. O forse mi ero stancato di tutta la storia e seccato del suo fascino; essendosi spento il mio entusiasmo, la mia ragione era lasciata al suo spassionato giudizio. Comunque sia avvenuto – non posso pretendere di spiegarlo – è indubbio che all’improvviso Willie Hughes divenne per me un semplice mito, un sogno ozioso, l’infantile fantasia di un giovane che, come la maggior parte degli spiriti ardenti, desiderava più convincere gli altri che essere convinto egli stesso.
Debbo ammettere che ne fui molto amareggiato. Avevo attraversato ogni fase di questa grande avventura: avevo vissuto con essa, ed essa era divenuta parte della mia natura. Come poteva avermi lasciato? Avevo toccato qualche segreto che la mia anima desiderava nascondere? O nella personalità non si dava continuità? Forse che le cose andavano e venivano attraverso il cervello, rapide e silenziose, senza lasciare tracce, come ombre in uno specchio? Eravamo alla mercé delle impressioni che l’arte o la vita scelgono di darci? Mi sembrava di sì.
Fu di notte che ebbi per la prima volta questa sensazione. Avevo mandato il mio domestico a impostare la lettera per Erskine, ed ero seduto alla finestra, osservando la città blu e oro. La luna non era ancora sorta e nel cielo c’era un’unica stella, ma le strade erano piene di luci rapide e saettanti, e le finestre di Devonshire House erano illuminate per un grande pranzo in onore di uno dei sovrani stranieri allora in visita a Londra. Vedevo le livree scarlatte delle carrozze reali e la folla che si accalcava davanti ai cancelli bui.
D’un tratto mi dissi: «Ho sognato tutto, e la mia vita, in questi due mesi, è stata irreale. Non è mai esistito qualcuno di nome Willie Hughes». Qualcosa come un flebile gemito mi salì alle labbra quando cominciai a comprendere come mi fossi ingannato, e mi nascosi il volto tra le mani, colpito da un dolore più grande di ogni altro che avessi provato dai tempi dell’adolescenza. Dopo alcuni istanti mi alzai, entrai in biblioteca, presi i Sonetti e cominciai a leggerli. Ma non servì a niente. Non mi rimandarono niente delle sensazioni che avevo loro attribuito; non mi rivelarono niente di quanto avevo trovato nascosto nei loro versi. Ero semplicemente stato influenzato dalla bellezza del falso ritratto, indotto a credere dal fascino di quel volto alla Shelley? Oppure, come aveva suggerito Erskine, era stata la tragica fine di Cyril Graham ad agitarmi tanto? Non sapevo dirlo. A tutt’oggi, non riesco a capire né l’inizio né la fine di questo strano episodio della mia vita.
Comunque, poiché nella mia lettera avevo detto a Erskine cose molto ingiuste e amare, decisi di andare da lui il più presto possibile e di scusarmi per il mio comportamento. La mattina dopo mi recai quindi in Birdcage Walk e lo trovai in biblioteca, seduto davanti al falso ritratto di Willie Hughes.
«Mio caro Erskine!», esclamai. «Sono venuto per scusarmi.»
«Scusarti?», disse. «E per che cosa?»
«Per la mia lettera», risposi.
«Non c’è niente di cui scusarsi nella tua lettera», mi disse. «Al contrario, mi hai reso il più grande servizio che potevi. Mi hai dimostrato che la teoria di Cyril Graham è perfettamente solida.»
Lo fissai allibito.
«Non mi starai dicendo che credi a Willie Hughes», esclamai.
«Perché no?», ribatté. «Me l’hai provato. Pensi che non sia in grado di apprezzare il valore dell’evidenza?»
«Ma non ce n’è, di evidenza», gemetti, lasciandomi cadere su una sedia. «Quando ti ho scritto, ero in preda a un entusiasmo del tutto stupido. Ero stato commosso dalla storia della morte di Cyril Graham, affascinato dalla sua teoria artistica, soggiogato dalla magia e dalla novità di tutta l’idea. Vedo, adesso, che la teoria è basata su una delusione. La sola prova dell’esistenza di Willie Hughes è il quadro davanti a te, ed è un falso. Non ti lasciar trascinare dal sentimentalismo, in questa storia. Qualsiasi romanzo si escogiti sulla teoria di Willie Hughes avrà sempre contro la ragione.»
«Non ti capisco», disse Erskine, guardandomi stupefatto. «Mi hai convinto, con la tua lettera, che Willie Hughes è un’assoluta realtà. Perché hai cambiato idea? O forse tutto ciò che mi hai scritto era uno scherzo?»
«Non posso spiegartelo», replicai, «ma ora vedo che non c’è proprio niente da dire in favore dell’interpretazione di Cyril Graham. Forse i Sonetti non sono dedicati a Lord Pembroke, anzi, probabilmente non lo sono. Ma per l’amor del cielo non perdere tempo nel pazzo tentativo di scoprire un giovane attore elisabettiano che non è mai esistito e di fare di una marionetta fantasma il centro del grande ciclo dei Sonetti di Shakespeare.»
«Vedo che non capisci la teoria», ribatté.
«Mio caro Erskine», esclamai, «non capirla! Vedi, ho l’impressione di averla inventata. Sicuramente la mia lettera dimostra che non solo ho studiato tutta la questione, ma che vi ho contribuito con prove d’ogni genere. L’unico punto debole della teoria sta nel fatto che essa presuppone l’esistenza di una persona la cui esistenza stessa è l’oggetto della disputa. Se accertiamo che c’era nella compagnia di Shakespeare un giovane attore di nome Willie Hughes, non è difficile fare di lui il destinatario dei Sonetti. Ma poiché sappiamo che non c’era un attore con questo nome nella compagnia del Globe Theatre, è ozioso proseguire ulteriormente con le nostre indagini.»
«Ma questo è esattamente quello che non sappiamo», disse Erskine. «È verissimo che il suo nome non compare nell’elenco stampato con la prima edizione; ma, come sottolineava Cyril, questa è più una prova in favore dell’esistenza di Willie Hughes che contro di essa, perché egli aveva abbandonato la compagnia di Shakespeare per unirsi a un drammaturgo rivale. Inoltre», e qui debbo ammettere che Erskine avanzò un’ipotesi che adesso mi sembra abbastanza buona, mentre allora ne risi, «non c’è motivo per non supporre che Willie Hughes non possa aver calcato le scene sotto falso nome. Anzi, è estremamente probabile che l’abbia fatto. Sappiamo che all’epoca i pregiudizi contro il teatro erano fortissimi, e niente è più facile che la sua famiglia abbia insistito perché adottasse un nom de plume. I curatori della prima edizione naturalmente lo avranno citato col suo nome d’arte, il nome col quale era noto al pubblico, ma i Sonetti, è ovvio, erano tutt’altra cosa, e molto correttamente l’editore, nel dedicarglieli, cita le sue vere iniziali. Se le cose stanno così, e questa mi sembra la spiegazione più semplice e razionale della faccenda, per quel che mi riguarda la teoria di Cyril Graham è completamente dimostrata.»
«Ma quali prove hai?», esclamai, appoggiando la mia mano sulla sua. «Non hai lo straccio di una prova, soltanto ipotesi. E quale degli attori di Shakespeare pensi fosse Willie Hughes? Il “ragazzo carino” di cui ci parla Ben Jonson, quello che tanto amava indossare vesti femminili?»
«Non so», rispose un po’ irritato. «Non ho avuto ancora il tempo di approfondire questo punto. Ma sono sicuro che la mia teoria è giusta. Certo che è un’ipotesi, ma è un’ipotesi che spiega tutto, e se tu fossi stato mandato a Cambridge a studiare scienze, invece che a Oxford a trastullarti con la letteratura, sapresti che un’ipotesi che spiega tutto è una certezza.»
«Sì, sono cosciente che Cambridge è una sorta di casa di rieducazione», mormorai. «Sono contento di non esserci stato.»
«Ragazzo mio», disse Erskine guardandomi all’improvviso con i suoi penetranti occhi grigi, «tu credi nella teoria di Cyril Graham, tu credi in Willie Hughes, tu sai che i Sonetti sono rivolti a un attore, ma per una ragione o per l’altra non vuoi riconoscerlo.»
«Vorrei poterci credere», replicai. «Darei qualsiasi cosa per poterlo fare. Ma non posso. È molto bella, molto affascinante, ma inconsistente, come un raggio di luna. Quando pensi di averla afferrata, è proprio allora che ti sfugge. No, il cuore di Shakespeare rimane per noi “un recesso non penetrato dagli occhi cristallini”, come lo definisce egli stesso in uno dei Sonetti. Non sapremo mai il vero segreto della passione della sua vita.»
Erskine balzò dal sofà e si mise a camminare avanti e indietro per la stanza. «Lo sappiamo già», esclamò, «e anche il mondo lo saprà, un giorno.»
Non l’avevo mai visto così agitato. Non voleva sentirmi dire che me ne andavo, e insistette perché mi trattenessi tutto il giorno.
Discutemmo la cosa per ore, ma niente che io potessi dire lo induceva a rinunziare alla sua fede nell’interpretazione di Cyril Graham. Mi disse che intendeva dedicare la sua vita alla dimostrazione della teoria e che era deciso a rendere giustizia alla memoria di Cyril Graham. Lo supplicai, risi di lui, lo implorai, ma non servì a niente. Infine ci separammo, non proprio in collera ma certamente con un’ombra tra noi. Lui pensava che io fossi superficiale e io che lui fosse sciocco. Quando lo ricercai, il suo domestico mi disse che era andato in Germania. Le lettere che gli scrissi rimasero senza risposta.
Due anni dopo, mentre entravo nel mio club, il portiere mi porse una lettera con un francobollo straniero. Era di Erskine, scritta dall’Hotel d’Angleterre a Cannes. Quando la lessi fui colto dall’orrore, anche se non credetti che sarebbe stato così folle da mettere in atto la sua risoluzione. Il succo della lettera era che egli aveva cercato in ogni modo di verificare la teoria di Willie Hughes, senza successo, e che poiché Cyril Graham aveva dato la sua vita per questa teoria, egli era deciso a dedicare anche la sua alla stessa causa. Ecco come si concludeva questa lettera: «Io continuo a credere in Willie Hughes; e quando riceverai questa lettera io sarò morto di mia mano per amore di Willie Hughes: per amor suo e per amore di Cyril Graham, che ho fatto morire con il mio vacuo scetticismo e la mia ignorante mancanza di fede. A te la verità era stata rivelata, e la rifiutasti. Essa torna a te, adesso, macchiata dal sangue di due vite: non voltarle le spalle».
Fu un momento orribile. Ero desolatissimo, e tuttavia non potevo credere che avrebbe messo in atto le sue intenzioni. Morire per le proprie opinioni teologiche è l’uso peggiore che si possa fare della propria vita, ma per una teoria letteraria! Mi sembrava impossibile.
Guardai la data. La lettera era di una settimana prima. Alcune circostanze sfortunate mi avevano impedito di recarmi al club per parecchi giorni, altrimenti sarei forse arrivato in tempo per salvarlo. Andai a casa, feci i bagagli e presi il treno della notte da Charing Cross. Il viaggio fu intollerabile. Mi sembrava di non arrivare mai.
Non appena fui a Cannes mi recai all’Hotel d’Angleterre. Era proprio vero. Erskine era morto. Mi dissero che era stato sepolto due giorni prima al cimitero inglese. In quella tragedia c’era qualcosa di terribilmente grottesco. Dissi una serie di cose sconnesse, e le persone presenti nella hall mi guardarono tutte in modo strano.
Tutto d’un tratto per il vestibolo passò Lady Erskine, in lutto stretto. Quando mi vide mi si avvicinò, mormorò qualcosa sul suo povero figliolo e scoppiò in lacrime. L’accompagnai nel suo salottino. C’era un anziano signore che leggeva il giornale. Era il dottore inglese.
Parlammo a lungo di Erskine, ma io non menzionai i motivi del suo suicidio. Era evidente che non aveva detto niente a sua madre delle ragioni che lo avevano indotto a commettere un atto così folle e fatale. A un certo punto Lady Erskine si alzò e disse: «George le ha lasciato un ricordo. È un oggetto che apprezzava molto. Glielo vado a prendere».
Appena ebbe lasciato la stanza mi rivolsi al dottore: «Che terribile shock deve essere stato per Lady Erskine! Mi sorprende che sia così forte».
«Oh, sapeva da mesi che sarebbe successo», egli rispose.
«Sapeva da mesi che sarebbe successo!», esclamai. «Ma perché non l’ha fermato? Perché non lo ha fatto sorvegliare? Egli doveva essere fuori di sé.»
Il dottore mi sgranò gli occhi in faccia. «Non capisco che cosa Lei intenda», mi disse.
«Be’», esclamai, «se una madre sa che suo figlio sta per suicidarsi...»
«Suicidarsi!», mi interruppe. «Il povero Erskine non si è suicidato. È morto di tisi. È venuto qui per morire. Appena l’ho visto mi sono reso conto che non poteva più salvarsi. Un polmone era già quasi andato e l’altro molto colpito. Tre giorni prima di morire mi domandò se aveva qualche speranza. Gli risposi francamente di no, che gli restavano solo pochi giorni da vivere. Rassegnato, scrisse alcune lettere; è rimasto cosciente sino all’ultimo.»
Mi alzai dalla sedia e mi avvicinai alla finestra aperta, che dava sulla passeggiata molto affollata. Ricordo che gli ombrelli a colori vivaci e gli allegri parasole mi fecero l’impressione di farfalle enormi e fantastiche che svolazzavano sulla riva di un mare azzurro metallico, e che l’intenso odore di viole che saliva dal giardino mi fece pensare a quel meraviglioso sonetto in cui Shakespeare ci dice che il profumo di questi fiori gli ricordava sempre l’amico. Che cosa significava tutto ciò? Perché Erskine mi aveva scritto quella lettera assurda? Perché, già davanti ai cancelli della morte, si era voltato verso di me per dirmi una cosa non vera? Aveva forse ragione Hugo? L’unica cosa che accompagna i passi dell’uomo verso il patibolo è davvero l’affettazione? Erskine voleva soltanto produrre un effetto drammatico? No, non era da lui. Quella era una cosa che avrei potuto fare io, semmai. No, egli era mosso unicamente dal desiderio di riconvertirmi alla teoria di Cyril Graham, e pensava che, se avesse potuto farmi credere che aveva dato la sua vita per essa, io sarei stato ingannato dalla patetica fallacia del martirio. Povero Erskine! Ero diventato più saggio, dall’ultima volta che l’avevo visto. Il martirio era per me soltanto una tragica forma di scetticismo, un tentativo di realizzare quanto non si era riusciti a realizzare con la fede. Nessuno muore per ciò che sa essere vero. Si muore per ciò che si vuole sia vero, per ciò che in fondo al cuore si teme che non sia vero. L’inutilità della lettera di Erskine raddoppiò il mio dispiacere per lui. Guardavo la gente che entrava e usciva dai caffè, e mi domandai se qualcuno di costoro l’avesse conosciuto. Polvere bianca invadeva la strada arsa dal sole, e le palme piumose si muovevano incessantemente nell’aria vibrante.
In quel momento Lady Erskine tornò nella stanza con il fatale ritratto di Willie Hughes. «Mentre moriva, George mi ha pregato di darle questo», ella disse. Nel prenderlo, sentii le sue lacrime cadermi sulle mani.
Questa strana opera d’arte è adesso appesa nella mia biblioteca, dove è molto ammirata dai miei amici artisti, uno dei quali l’ha riprodotta in un’acquaforte. Hanno deciso che non è un Clouet, ma un Ouvry. Non mi sono mai dato pena di raccontare loro la storia vera, ma talvolta, mentre guardo quel ritratto, mi viene da pensare che sono davvero tanti gli elementi in favore della teoria che vede in Willie Hughes il destinatario dei Sonetti di Shakespeare.
1«Al solo ispiratore [o genitore, o procuratore] dei sonetti che seguono.» Si tratta delle prime parole della dedica premessa ai Sonetti di Shakespeare dal loro primo editore, Thomas Thorpe (N.d.T.).
2 I Sonetti sono citati nella versione in prosa di Lucifero Darchini, Milano 1909, tranne rarissime eccezioni in cui il traduttore è intervenuto perché la versione del Darchini non corrispondeva all’interpretazione di Oscar Wilde (N.d.T.).
3 Francis Meres (1565-1647) scrisse Palladis Tamia, che contiene un «Discorso sui poeti inglesi paragonati ai greci, ai latini e agli italiani» considerato dai critici fonte di preziose informazioni (N.d.T.).
4 A Mr. W. H. il Thorpe augura infatti all happiness, «ogni felicità» (N.d.T.).
5 «Mr. William in persona», cioè lo stesso Shakespeare (N.d.T.).
6 «Un uomo tu sei che nella perfezione della propria forma accoglie tutte le forme umane» (N.d.T.).
7 «Sei bello nella conoscenza come nella forma» (N.d.T.).
8 «Il mio esempio» è infatti, nel testo inglese, my use, molto simile, quanto alla pronunzia, a my Hughes (N.d.T.).
9 L’ipotesi era stata infatti avanzata da Thomas Tyrwhitt nel 1766 (N.d.T.).
10«Al solo ispiratore dei sonetti che seguono, il signor W. H., ogni felicità e quell’eternità promessa dal nostro immortale poeta augura, bene augurando, colui che s’avventura in questa pubblicazione. T.T.» Cfr. anche nota 1 (N.d.T.).
11 Sonetto XX, 2 (N.d.A.).
12 Sonetto XXVI, 1 (N.d.A.).
13 Sonetto CXXVI, 9 (N.d.A.).
14 Sonetto CIX, 14 (N.d.A.).
15 Sonetto I, 10 (N.d.A.).
16Sonetto II, 3 (N.d.A.).
17 Sonetto VIII, 1 (N.d.A.).
18Sonetto II, 6 (N.d.A.).
19 Sonetto XCV, 1 (N.d.A.).
20 Richard Burbage (1567-1619) era il primo attore della compagnia di Shakespeare, oltre che suo amico (N.d.T.).
21 Catching all passions in his craft of will (N.d.T.).
22 Made their wills obey: piegavano la loro volontà, ma anche il loro Will (N.d.T.).
23 In italiano nel testo (N.d.T.).
24 Laddove «pelle» è in inglese hews, la cui omofonia con Hughes è già stata segnalata (N.d.T.).