Ricordo inoltre, quando la mia casa venne messa sotto sequestro e i miei libri e i mobili vennero presi e ne fu annunciata la vendita e la bancarotta era imminente, che mi venne naturale scriverti per dirtelo. Non menzionai che era per pagare alcuni miei regali a te che gli ufficiali giudiziari erano entrati nella casa dove tu avevi tanto spesso mangiato. Pensavo, giustamente o a torto, che queste notizie ti avrebbero causato dolore. Ti dissi semplicemente i crudi fatti. Ritenevo giusto che tu dovessi saperli. Mi rispondesti da Boulogne con esultanza quasi lirica. Dicesti che sapevi che tuo padre «era a corto di soldi», e che era stato costretto a raccogliere 1500 sterline per le spese del processo, e che il mio fallimento segnava «un colpo magnifico» su di lui, in quanto non avrebbe potuto prendere nulla da me per le sue spese! Ti rendi conto ora quale sia l’Odio che acceca una persona? Lo ammetti adesso, che quando io lo descrivevo come un’Atrofia che distrugge ogni cosa tranne se stessa, stavo descrivendo scientificamente un fatto psicologico reale? Che tutte le mie incantevoli cose dovettero essere vendute: i miei disegni di Burne-Jones, i miei disegni di Whistler, i miei Monticelli, i miei Simeon Solomons, le mie porcellane, la mia biblioteca con la sua raccolta di volumi ricevuti in regalo da quasi tutti i poeti del mio tempo, da Hugo a Whitman, da Swinburne a Mallarmé, da Morris a Verlaine, con le bellissime edizioni rilegate delle opere di mio padre e mia madre; la bellissima serie di premi del college e della scuola, le éditions de luxe, e altro ancora; questo non contava assolutamente niente per te. Dicesti che fu una grossa seccatura: tutto qua. Quello che in realtà vedesti in tutto questo fu in definitiva la possibilità che tuo padre perdesse qualche centinaio di sterline, e quella meschina considerazione ti riempì di gioia estatica. Per quanto riguarda le spese del processo, forse ti interessa sapere che tuo padre disse apertamente all’Orleans Club che, se anche gli fosse costato 20.000 sterline, avrebbe considerato il denaro del tutto ben speso, tanto era stato il godimento, il piacere e il trionfo che ne aveva ricavato. Il fatto che riuscì non soltanto a farmi mettere in prigione per due anni, ma a farmi tirare fuori per un pomeriggio e farmi dichiarare pubblico fallimento, fu una ricercatezza in più nel piacere che non si era aspettato. Fu il coronamento della mia umiliazione, e della sua completa e perfetta vittoria. Se tuo padre non si fosse rivalso su di me delle sue spese processuali, tu, lo so benissimo, saresti stato, almeno a parole, come minimo estremamente comprensivo per l’intera perdita della mia biblioteca, una perdita irreparabile per un uomo di lettere, la più dolorosa tra tutte le mie perdite materiali. Ricordandoti delle somme di denaro che avevo speso per te con liberalità e di come avevi vissuto alle mie spalle per anni, avresti anche potuto darti la pena di ricomprare per me alcuni dei miei libri. I migliori vennero venduti tutti per meno di 150 sterline: all’incirca la somma che ero solito spendere per te in una normale settimana. Ma il gretto, piccino piacere di pensare che tuo padre stesse per perdere pochi pence ti fece dimenticare del tutto di cercare di contraccambiarmi un favore piccolo, delicato, facile, di poca spesa, ovvio ed enormemente gradito a me, se tu lo avessi fatto. Ho ragione nel dire che l’Odio rende ciechi? Ora lo capisci? Se non ci riesci, cerca di farlo.

Quanto lo compresi chiaramente allora, come adesso, non c’è bisogno che te lo dica. Ma dissi a me stesso: «Devo conservare l’Amore nel mio cuore a tutti i costi. Se vado in prigione senza Amore che ne sarà della mia Anima?». Le lettere che ti scrissi in quel periodo da Holloway furono i miei sforzi di fare dell’Amore la nota dominante della mia natura. Se avessi voluto, avrei potuto farti a pezzi con amari rimproveri. Avrei potuto straziarti con le maledizioni. Avrei potuto metterti uno specchio davanti, e mostrarti una tale immagine di te che non l’avresti riconosciuta come tua propria fino a che non l’avessi trovata a scimmiottare i tuoi gesti di orrore, e allora avresti capito di chi era la forma riflessa, odiandola e odiando te stesso per sempre. Avrei potuto, a dire il vero, fare ben peggio di questo. Mi vennero addebitati i peccati di un altro; se avessi scelto di farlo, mi sarei potuto salvare a suo scapito in entrambi i processi, non dalla vergogna bensì dalla prigione. Se mi fossi preso la briga di dimostrare che i testimoni della parte civile – i tre più importanti – erano stati istruiti accuratamente da tuo padre e dai suoi avvocati, non soltanto nelle loro reticenze, ma nelle loro affermazioni, nel trasferire in modo deliberato, intenzionale e collaudato le azioni e i fatti di qualcun altro su di me, avrei potuto fare in modo che il giudice li cacciasse tutti dal banco dei testimoni, in modo più sommario di quanto non capitò al misero spergiuro Atkins. Avrei potuto uscirmene fuori dal tribunale con fare lieve e ipocrita e con le mani in tasca, un uomo libero. Fui sottoposto a fortissime pressioni per farlo. Mi consigliarono ardentemente, mi supplicarono di farlo persone il cui unico interesse era il mio bene e quello della mia famiglia. Ma io rifiutai. Non scelsi di agire così. Non ho mai rimpianto la mia decisione per un solo istante, persino nei periodi più amari della mia prigionia. Una simile condotta sarebbe stata indegna di me. I peccati della carne non sono nulla. Sono malattie che, se si dovessero curare, sarebbe compito dei medici farlo. Solo i peccati dell’anima sono vergognosi. Essermi procurato l’assoluzione con tali mezzi sarebbe stata per me una tortura per tutta la vita. Ma tu pensi davvero di essere stato degno dell’amore che ti mostrai allora, o che per un solo istante io abbia pensato che tu lo fossi? Pensi davvero di essere stato degno, in un qualunque periodo della nostra amicizia, dell’amore che ti mostravo, o che per un solo istante io abbia pensato che tu lo fossi? Sapevo che non lo eri. Ma con l’Amore non si fa commercio al mercato, né si usano i pesi di un venditore ambulante. La sua gioia, come la gioia dell’intelletto, è di sentirsi vivo. Lo scopo dell’Amore è amare: né più, né meno. Tu fosti il mio nemico: un nemico come nessun uomo ebbe mai. Ti avevo dato la mia vita, e tu l’avevi gettata via per gratificare le più basse e spregevoli fra tutte le umane passioni: Odio, Vanità e Cupidigia. In meno di tre anni mi avevi rovinato da tutti i punti di vista. Per il mio stesso bene non c’era niente da fare per me eccetto amarti. Sapevo che, se mi fossi lasciato andare ad odiarti, nell’arido deserto dell’esistenza che dovevo attraversare, e in mezzo al quale ancora mi trovo, ogni roccia avrebbe smarrito la sua ombra, ogni palma si sarebbe seccata, ogni fonte d’acqua si sarebbe rivelata avvelenata alla sorgente. Cominci un po’ a capire adesso? La tua immaginazione si sta risvegliando dal lungo letargo in cui è giaciuta? Conosci già cos’è l’Odio. Comincia a farsi strada in te cosa sia l’Amore, e quale sia la sua Natura? Non è troppo tardi perché tu lo impari, anche se per insegnartelo sono dovuto finire in una cella da carcerato.

Dopo la mia terribile condanna, quando indossavo l’uniforme da carcerato, e la prigione si era chiusa dietro di me, sedetti in mezzo alle rovine della mia meravigliosa vita, annientato dall’angoscia, sconcertato dal terrore, stordito dal dolore. Ma non volli odiarti. Tutti i giorni dicevo a me stesso: «Devo conservare l’Amore nel mio cuore oggi, altrimenti come sopravviverò a questa giornata?». Ricordavo a me stesso che non intendevi fare del male, almeno a me: mi indussi a pensare che non avevi fatto altro che tirare un colpo a caso e che la freccia aveva trafitto un Re tra le giunture dell’armatura6. Averti messo su un piatto della bilancia mettendo sull’altro il più piccolo dei miei dolori, la più insignificante delle mie perdite, sarebbe stato, lo sento, ingiusto. Decisi di considerare anche te una persona che soffriva. Mi costrinsi a credere che finalmente la benda ti era caduta dagli occhi a lungo coperti. Ero solito immaginare, e con dolore, quale doveva essere stato il tuo orrore nel contemplarela tua terribile opera. Ci sono stati momenti, persino in quei giorni bui – ipiù bui della mia vita – in cui addirittura ardevo dal desiderio di consolarti, tale era la mia certezza che tu alla fine ti fossi reso conto di quello che avevi fatto.

Allora non mi venne in mente che tu potessi avere il vizio supremo: la superficialità. Fu proprio un vero dolore per me doverti far sapere che ero costretto a riservare alle questioni familiari la prima possibilità di ricevere una lettera: ma mio cognato mi aveva scritto per dirmi che, se avessi scritto anche solo una volta a mia moglie lei, per amore mio e dei nostri figli, non avrebbe richiesto il divorzio. Sentivo che era mio dovere farlo. Anche mettendo da parte le altre ragioni, non potevo sopportare l’idea di venire separato da Cyril, quel mio bambino bellissimo, affettuoso, simpatico, l’amico più caro tra tutti, la compagnia migliore tra tutte; un solo capello della sua testolina d’oro avrebbe dovuto essermi più caro e prezioso, non dico di te dalla testa ai piedi, ma dell’intero crisolito del mondo intero7: per me lo è sempre stato, anche se sono riuscito a capirlo solo quando era troppo tardi.

Due settimane dopo la tua richiesta, ho tue notizie. Robert Sherard, la persona più coraggiosa, cavalleresca e brillante che ci sia, viene a trovarmi e, tra le varie cose, mi dice che tu stai per pubblicare un articolo su di me con brani delle mie lettere su quel ridicolo Mercure de France, che ha l’assurda pretesa di essere il vero centro della corruzione letteraria. Mi chiede se si trattava davvero di un mio desiderio. Ne rimasi molto sconcertato e molto seccato, e diedi ordini affinché la cosa venisse subito fermata. Tu avevi lasciato le mie lettere in giro perché i tuoi amici le rubassero per ricattare, perché la servitù degli alberghi ne facesse oggetto di furtarelli, perché le cameriere le vendessero. Si trattava semplicemente della tua sconsiderata mancanza di apprezzamento per ciò che ti avevo scritto. Ma che tu dovessi seriamente proporre di pubblicare brani dal poco materiale che ti era rimasto mi risultò quasi incredibile. E di quali mie lettere si trattava? Non riuscii a saperlo. Quella fu la prima notizia che ebbi di te. Mi causò dolore.

La seconda seguì di lì a poco. L’avvocato di tuo padre si era presentato in prigione e mi aveva notificato un avviso di fallimento per 700 misere sterline, la cifra delle loro spese gravate dalle tasse. Venni pubblicamente giudicato un debitore insolvente e mi venne ordinato di presentarmi in tribunale. Ero fortissimamente convinto e lo sono ancora, e tornerò di nuovo sull’argomento, che queste spese avrebbero dovuto essere pagate dalla tua famiglia. Ti eri assunto personalmente la responsabilità di dichiarare che la tua famiglia l’avrebbe fatto. Fu proprio ciò a far scegliere all’avvocato la linea di condotta che poi seguì. Tu ne eri completamente responsabile. Anche non considerando il tuo impegno per conto della tua famiglia, avresti dovuto sentire che, essendo stato tu a portare su di me l’intera rovina, il minimo che avresti potuto fare era risparmiarmi l’ulteriore disonore del fallimento, per una somma didenaro del tutto trascurabile, meno della metà di quello che spesi per te nei tre brevi mesi d’estate a Goring. Tuttavia non parliamone più. È vero, e ne faccio piena ammissione, che ricevetti, tramite un impiegato dell’avvocato, un messaggio da parte tua sull’argomento, o ad ogni modo in quella stessa circostanza. Il giorno che venne a raccogliere le mie deposizioni e le mie dichiarazioni, si sporse attraverso il tavolo – la guardia carceraria era presente – e, dopo aver consultato un pezzo di carta che cacciò fuori dalla tasca, mi disse con voce bassa: «Il principe Fleur-de-Lys desidera esserle ricordato». Lo fissai con gli occhi sgranati. Ripeté di nuovo il messaggio. Non sapevo cosa intendesse dire. «Il signore è all’estero adesso», aggiunse con tono misterioso. Ebbi un lampo e tutto si chiarì, e mi ricordo che per la prima e l’ultima volta nella mia vita di prigioniero risi. In quella risata c’era tutto il disprezzo per l’intero mondo. Il principe Fleur-de-Lys! Capii – e futuri eventi mi dimostrarono che avevo capito giustamente – che nulla di quello che era accaduto ti aveva minimamente aperto gli occhi. Per quanto ti riguardava eri ancora il grazioso principe di una banale commedia, non la cupa figura di uno spettacolo tragico. Tutto quello che era accaduto non era più di una piuma per il berretto che adorna un cervello gretto, un fiore da appuntare sul farsetto che nasconde un cuore che l’Odio, e l’Odio soltanto, può riscaldare e che l’Amore, l’Amore soltanto trova freddo. Il principe Fleur-de-Lys! Avevi senza subbio ragione a comunicare con me sotto falso nome. Io stesso, in quel periodo, non avevo alcun nome. Nella grande prigione dove allora ero detenuto, ero semplicemente il numero e la lettera di una piccola cella in una lunga galleria, uno dei mille numeri senza vita, una delle mille vite senza vita. Ma c’erano senz’altro molti nomi veri nella storia che sarebbero stati molto più adatti a te, e con i quali non avrei avuto assolutamente alcuna difficoltà a riconoscerti subito, o no? Non ti cercavo dietro i lustrini di una sgargiante visiera adatta soltanto a una divertente mascherata. Ah! Se solo la tua anima, come per la propria perfezione avrebbe dovuto, fosse stata ferita dal dolore, piegata dal rimorso, resa umile dal dolore, non sarebbe stato quello il travestimento che avrebbe scelto per entrare mascherata nella Casa del Dolore! Le grandi cose della vita sono ciò che appaiono e, per questo motivo, per quanto strano ti possa sembrare, sono spesso difficili da interpretare. Ma le piccole cose della vita sono simboli, è più facile che noi riceviamo le nostre amare lezioni da loro. La tua scelta apparentemente casuale di un nome falso era, e rimarrà, simbolica. È rivelatoria.

Sei settimane più tardi arriva una tua terza notizia. Dal reparto dell’infermeria, dove mi trovavo molto malato, vengo convocato per ricevere un messaggio speciale da parte tua tramite il Direttore della Prigione. Questi mi legge ad alta voce una lettera che tu gli avevi indirizzato, nella quale dichiaravi che ti proponevi di pubblicare un articolo «sul caso del signor Oscar Wilde», sul Mercure de France («una rivista», aggiungevi per una qualche singolare ragione, «corrispondente alla nostra Fortnightly Review inglese») ed eri ansioso di ottenere il mio permesso di pubblicare brani ed estratti da... quali lettere? Le lettere che ti avevo scritto dalla prigione di Holloway! Le lettere che avrebbero dovuto essere per te cose sacre e segrete più di qualsiasi altra cosa al mondo! Erano difatti queste le lettere che tu proponevi di pubblicare per stupire lo stanco décadent, perché le narrasse l’avido feuilletoniste, perché i piccoli leoni del Quartier Latin restassero a bocca aperta! Se nel tuo cuore non c’era nulla che gridasse a un sacrilegio tanto volgare, avresti potuto almeno ricordare il sonetto che scrisse colui che, con sommo dolore e disprezzo, vide le lettere di John Keats vendute a un’asta pubblica a Londra e avresti alla fine capito il vero significato dei miei versi

 

Non credo che amino l’Arte

Coloro che spezzano il cristallo del cuore di un poeta

Così che torvi e maligni occhi piccoli e sciocchi possano guardare.

 

Che cosa doveva dimostrare il tuo articolo? Che ti avevo voluto troppo bene? Il gamin parigino era a conoscenza del fatto. Tutti loro leggono i giornali, e molti ci scrivono. Che ero un uomo di genio? I Francesi lo sapevano, come capivano la particolare qualità del mio genio, molto meglio di quanto la capissi tu, o di quanto ci si sarebbe potuto aspettare da te. Che al genio si accompagna spesso una curiosa perversità di passione e di desiderio? Ammirevole: ma l’argomento riguarda Lombroso, piuttosto che te. Per giunta il fenomeno patologico in questione viene riscontrato anche tra coloro che non hanno genio. Che nella tua guerra di odio con tuo padre ero allo stesso tempo scudo e arma per ognuno di voi? Di più, che nell’orribile caccia alla mia vita, che ebbe luogo quando la guerra era finita, egli non avrebbe mai potuto catturarmi se le tue reti non fossero state già attorno ai miei piedi? Verissimo: ma mi dicono che Henri Bauer l’aveva già fatto molto bene. Inoltre, per dar forza alla sua opinione, se questa fosse stata la tua intenzione, non avresti avuto bisogno di pubblicare le mie lettere: per lo meno non quelle scritte dalla prigione di Holloway.

Potresti dire, in risposta alle mie domande, che in una delle mie lettereda Holloway ti avevo chiesto io stesso di cercare, per quanto ti fosse possibile, di rendermi un po’ giustizia davanti a una piccola parte del mondo? È vero, l’ho fatto. Ricordati come e perché sono qui, in questo preciso momento. Pensi che io sia qui a causa dei miei rapporti con i testimoni del mio processo? I miei rapporti, reali o presunti, con persone di quel genere non avevano alcun interesse né per il Governo né per la Società, che non sapevano nulla di loro, e se ne curavano ancor meno. Io sono qui per aver cercato di far mettere tuo padre in prigione. Naturalmente il mio tentativo è fallito. I miei stessi avvocati abbandonarono l’incarico. Tuo padre rovesciò completamente la situazione a mio danno e fece mettere me in prigione, dove mi fa ancora rimanere. Ecco perché la gente mi disprezza. Ecco perché devo scontare ogni giorno, ogni ora, ogni minuto della mia terribile prigionia. Ecco perché sono state rifiutate le mie petizioni.

Tu eri l’unica persona che, senza esporsi in alcun modo al disprezzo, al pericolo o al biasimo, avrebbe potuto dare un altro tono all’intera faccenda; porre il problema sotto una luce diversa; mostrare con un certo grado di approssimazione come stavano realmente le cose. Non mi sarei naturalmente aspettato, né tantomeno avrei voluto che tu dichiarassi come e per quale motivo avevi richiesto il mio aiuto per il tuo problema a Oxford; o come, e per quale motivo, se un motivo c’era, non ti eri praticamente mai staccato dal mio fianco per quasi tre anni. Non c’era bisogno che i miei continui tentativi di porre fine a un’amicizia che era dannosa per me come artista, come uomo di elevata posizione, persino come membro della società, venissero riportati con l’accuratezza con la quale vengono qui scritti. Né avrei desiderato che tu descrivessi le scenate che eri solito fare con quasi monotona ricorrenza; né che ristampassi quella meravigliosa serie di telegrammi destinati a me con il loro strano miscuglio di romanticherie e di calcoli; né che fossero citati, dalle tue lettere, i brani più spietati o rivoltanti, come io sono stato costretto a fare. Pensavo tuttavia che sarebbe stato bene, sia per te che per me, se tu avessi protestato contro la versione della nostra amicizia fatta da tuo padre, non meno grottesca che velenosa, e tanto assurda nelle sue allusioni a te quanto disonorevole in quelle a me. Quella versione è ora passata di fatto alla storia: viene citata, creduta, e narrata; il predicatore l’ha presa come suo testo, e il moralista come suo sterile tema; e io, che mi rivolgevo alle persone di ogni epoca, ho dovuto accettare il mio verdetto da una persona che è scimmia e buffone. Ho detto, e con una certa amarezza, lo ammetto, in questa lettera, che l’ironia delle cose era tale che tuo padre sarebbe vissuto fino a diventare l’eroe del libretto del catechismo; che tu saresti stato collocato insieme al piccolo Samuele; e che il mio posto sarebbe stato tra Gilles de Retz e il Marchese de Sade. Forse è meglio così. Non ho alcuna voglia di lamentarmi. Una delle tante lezioni che si imparano in prigione è che le cose sono quello che sono e saranno quello che saranno. Né ho alcun dubbio che il lebbroso del Medioevo e l’autore di Justine si dimostreranno una compagnia migliore di Sandford e Merton8.

Ma al tempo in cui ti scrissi sentivo che per il bene di entrambi sarebbe stata cosa buona, corretta, giusta non accettare il rapporto che tuo padre aveva proposto per mezzo del suo avvocato per l’edificazione di un mondo di filistei, ed è per questo che ti chiesi di pensare e di scrivere qualcosa che fosse più vicino alla realtà. Almeno sarebbe stato meglio per te che scribacchiare ai giornali francesi sulla vita privata dei tuoi genitori. Che cosa importa ai Francesi se i tuoi genitori avevano avuto una vita privata felice? Non si può concepire un argomento che li interessi meno. Quello che li interessava era sapere come un artista della mia fama, uno che, per la scuola e il movimento di cui era l’incarnazione, aveva esercitato una forte influenza sugli indirizzi di pensiero in Francia, potesse, avendo vissuto in modo tale, aver intentato una causa del genere. Se avessi proposto, per il tuo articolo, di pubblicare le lettere, che temo fossero un numero infinito, nelle quali ti avevo parlato della rovina che stavi portando nella mia vita, della pazzia, degli impulsi d’ira ai quali permettevi di dominarti, tanto a danno tuo personale che a mio danno, e del mio desiderio, o meglio, della mia determinazione di porre fine a un’amicizia a me tanto funesta in tutti i sensi, l’avrei potuto capire, anche se non avrei permesso che queste lettere fossero pubblicate. Quando l’avvocato di tuo padre, volendo cogliermi in contraddizione, produsse all’improvviso in tribunale una lettera che ti avevo scritto, nel marzo del ’93, e nella quale affermavo che, piuttosto che sopportare il ripetersi delle orribili scenate che tu sembravi provare un enorme piacere a fare, avrei prontamente consentito a essere «ricattato da qualsiasi affittacamere di Londra», fu per me un dolore sentitissimo che quella parte della mia amicizia con te dovesse essere incidentalmente rivelata a occhi estranei; ma che tu fossi stato tanto lento a capire, privo di sensibilità e tardo nel comprendere ciò che è raro, delicato e bello, tanto da proporti di pubblicare le lettere nelle quali, e tramite le quali, cercavo di tenere in vita lo spirito stesso e l’anima dell’Amore per farlo dimorare nel mio corpo durante i lunghi anni dell’umiliazione di quello stesso corpo – questo fu, ed è ancora per me, una fonte di dolore profondissimo, di disillusione cocente. Perché agisti così, temo di saperlo fin troppo bene. Se l’Odio accecava gli occhi, la Vanità cuciva le palpebre con fili di ferro. La facoltà «per cui, e per cui soltanto, si riesce a capire gli altri tanto nelle loro vere come nelle loro ideali relazioni», il tuo gretto egoismo l’aveva fiaccata, e la lunga inazione l’aveva resa inservibile. L’immaginazione era in prigione, come me. La Vanità aveva sbarrato le finestre, e il nome del carceriere era Odio.

Tutto questo successe nei primi giorni di novembre, due anni fa. Un gran fiume di vita scorre tra te e una data così remota. È difficile, se mai ti riuscirà possibile, che tu veda attraverso una così vasta desolazione. A me sembra invece che sia successo, non direi ieri, ma oggi. La sofferenza è un solo, lungo momento. Non possiamo dividerla in stagioni. Possiamo solo registrarne gli stati d’animo e annotarne il ritorno. Per noi il tempo non va avanti. Gira su se stesso. Sembra girare attorno a un centro di dolore. L’immobilità paralizzante di una vita, ogni circostanza della quale è regolata secondo un modello immutabile, per cui mangiamo, beviamo, passeggiamo, ci corichiamo, preghiamo, o ci inginocchiamo per pregare, secondo le leggi inflessibili di una formula ferrea: questa qualità immobile, che rende ogni terribile giorno, nel suo più minuto dettaglio, uguale al suo simile, sembra comunicarsi a quelle forze esterne, di cui il cambiamento incessante è l’essenza stessa della vita. Non sappiamo niente, e nulla ci è dato sapere del tempo della semina o del raccolto, dei mietitori chini sul grano, dei vendemmiatori che camminano in mezzo alle viti, dell’erba nel frutteto imbiancato dai boccioli spezzati o coperto dai frutti caduti. Per noi esiste una stagione soltanto, la stagione del Dolore. Sembra che ci abbiano portato via anche il sole e la luna. Fuori, il giorno può essere azzurro e dorato, ma la luce che si insinua a fatica attraverso lo spesso e pesante vetro della finestrella con le sbarre di ferro sotto cui ci si siede, è grigia e avara. Nella propria cella è sempre crepuscolo, come è sempre mezzanotte nel cuore. E nella sfera del pensiero, non meno che in quella del tempo, non esiste più movimento. La cosa che tu, personalmente, hai dimenticato tanto tempo fa, o puoi con facilità dimenticare, a me sta accadendo ora, e mi accadrà di nuovo domani. Ricordati questo, e riuscirai a capire almeno in parte perché ti sto scrivendo, e perché in questo modo.

Una settimana più tardi vengo trasferito qui. Passano altri tre mesi e muore mia madre. Sai meglio di chiunque altro quanto profondamente io l’amassi e la onorassi. La sua morte è stata terribile per me tanto che io, che una volta ero signore della lingua, non ho parole per esprimere la mia angoscia e la mia vergogna. Mai, nemmeno nei giorni migliori del mio sviluppo artistico, avrei potuto trovare parole adatte a sopportare un fardello tanto nobile o a muovermi con sufficiente musicale maestosità in mezzo al purpureo corteo del mio incomunicabile dolore. Lei e mio padre mi avevano lasciato in eredità un nome che avevano reso nobile e onorato, non soltanto nella Letteratura, l’Arte, l’Archeologia e la Scienza, bensì nella storia del mio paese, nella sua crescita come nazione. Io avevo disonorato quel nome per l’eternità. Ne avevo fatto un’espressione volgare tra gente volgare. L’avevo trascinato in mezzo al fango. Lo avevo dato ai bruti perché lo rendessero brutale, e ai pazzi perché lo trasformassero in un sinonimo di pazzia. Quello che ho sofferto allora, e ancora soffro, la penna non può scriverlo o il foglio serbarne testimonianza. Mia moglie, in quel periodo buona e gentile verso di me, piuttosto che farmi sentire le novità da labbra indifferenti o estranee, si mise in viaggio, sebbene malata, da Genova fino all’Inghilterra per darmi lei stessa la notizia di una perdita tanto irreparabile e irrimediabile. Mi arrivarono messaggi di condoglianze da tutti coloro che ancora mi erano affezionati. Sentendo che un altro dolore aveva fatto irruzione nella mia vita, mi scrissero addirittura persone che non mi avevano conosciuto personalmente, chiedendo che mi fosse trasmessa l’espressione delle loro condoglianze. Solo tu sei rimasto in disparte, non mi hai lasciato messaggi e non mi hai scritto lettere. Di azioni del genere è meglio dire quello che Virgilio dice a Dante riguardo a coloro che hanno avuto vite prive di nobili impulsi e con propositi solo superficiali: «Non ragioniam di lor, ma guarda e passa».9

Passano altri tre mesi. Il calendario appeso fuori dalla porta della cella con su scritti la mia condotta e il lavoro quotidiano, e dove si leggono il mio nome e la sentenza, mi dice che siamo a maggio. I miei amici tornano a trovarmi. Chiedo di te, come sempre. Mi dicono che sei nella tua villa a Napoli e stai per pubblicare un volume di poesie. Alla fine del colloquio mi viene casualmente detto che le dedicherai a me. La notizia sembrò darmi una specie di nausea per la vita. Non dissi nulla, ma tornai silenziosamente nella mia cella con il cuore pieno di sdegno e disgusto. Come potevi sognare di dedicarmi un volume di poesie senza chiedermene prima il permesso? Dico sognare? Come potevi osare fare una cosa del genere? La tua risposta sarà che nei giorni della grandezza e della fama io avevo acconsentito a ricevere la dedica del tuo primo lavoro? È vero, lo feci come avrei accettato l’omaggio di qualsiasi altro giovane che iniziava la difficile e bella arte della letteratura. Tutti gli omaggi sono piacevoli per un artista e tanto più dolci quando li porta la gioventù. Il lauro e la foglia di alloro appassiscono quando mani di vecchi li raccolgono. La gioventù soltanto ha il diritto di incoronare un artista. Questo è il vero privilegio dell’essere giovani, se solo i giovani lo sapessero. Ma i giorni dell’umiliazione e dell’infamia sono diversi da quelli della grandezza e della fama. Non hai ancora imparato che la Prosperità, il Piacere e il Successo possono essere di grana grezza e di fibra ordinaria, ma che il Dolore è la più delicata di tutte le cose create. Non c’è nulla di vivente nell’intero mondo del pensiero o dell’azione in cui il Dolore non vibri in un pulsare terribile, per quanto squisito. La lamina sottile, sbalzata di oro tremulo che indica la direzione delle forze che l’occhio non può vedere è grezza al confronto. È una ferita che sanguina quando qualsiasi mano, che non sia quella dell’Amore, la tocca, e perfino in quel caso continua a sanguinare anche se non per dolore.

Hai avuto l’ardire di scrivere al direttore della prigione di Wandsworth per chiedermi il permesso di pubblicare le mie lettere sul Mercure de France, «che corrisponde alla nostra Fortnightly Review inglese». Perché non hai scritto al direttore del carcere di Reading, per chiedermi il permesso di dedicarmi le tue poesie, per quanto stravagante fosse la descrizione che tu possa aver deciso di darne? Era forse perché nel primo caso io avevo proibito alla rivista in questione di pubblicare le lettere, il cui copyright, come tu naturalmente ben sai, era ed è interamente di mia proprietà, mentre nel secondo pensavi di poter sfruttare la dolosità della tua azione senza che io ne sapessi nulla fino a che non fosse troppo tardi per intervenire? Il semplice fatto che io fossi un uomo in disgrazia, rovinato e in prigione avrebbe dovuto portarti, se desideravi scrivere il mio nome sul frontespizio della tua opera, a richiedermelo come un favore, un onore, un privilegio. Questo è il modo in cui ci si dovrebbe avvicinare a coloro che sono in angustie e vivono nella vergogna.

Dove il Dolore dimora il suolo è sacro. Un giorno o l’altro capirai ciò che questo significa. Non capirai nulla della vita finché questo non avverrà. Robbie, e nature come la sua, possono comprenderlo. Quando fui portato dalla prigione al Tribunale fallimentare tra due poliziotti, Robbie aspettava nel lungo, tetro corridoio, in modo da potersi togliere solennemente il cappello di fronte a me, mentre gli passavo davanti in manette e a capo chino, davanti a tutta la folla che un’azione così dolce e semplice ridusse al silenzio. Gli uomini sono andati in paradiso per cose più piccole di questa. Era con questo spirito e con questa inclinazione all’amore che i santi si inginocchiavano per lavare i piedi dei poveri, o si chinavano per baciare la guancia del lebbroso. Non gli ho mai detto neanche una parola su quello che ha fatto. Non so neppure ora se egli sappia che io mi ero accorto del suo gesto. Non è una cosa per la quale si possano esprimere ringraziamenti formali con parole formali. La serbo nello scrigno del mio cuore. La tengo lì come un debito segreto cui amo pensare come a una cosa che non potrò mai in alcun modo ripagare. È resa profumata e mantenuta dolce dalla mirra e dalla cassia di molte lacrime. Quando la Saggezza non mi è stata di alcuna utilità e la Filosofia era sterile, e i proverbi e le frasi di coloro che hanno cercato di darmi consolazione sono stati polvere e cenere nella mia bocca, il ricordo di quel piccolo, muto atto d’Amore, ha dissigillato per me tutte le fonti della pietà, ha fatto fiorire il deserto come una rosa, e mi ha condotto dall’amarezza dell’esilio solitario all’armonia del grande cuore del mondo, ferito e spezzato. Quando tu sarai in grado di capire, non soltanto quanto è stato bello il gesto di Robbie, ma perché ha significato così tanto per me, e perché sempre lo significherà, allora, forse, comprenderai in che modo e con quale spirito ti saresti dovuto avvicinare a me per richiedermi il permesso di dedicarmi i tuoi versi.

È una normale correttezza dichiarare che in ogni caso non avrei accettato la dedica; anche se forse, in altre circostanze mi avrebbe fatto piacere che mi fosse stato chiesto, mi sarei rifiutato per il tuo bene, incurante dei miei sentimenti. Il primo volume di poesie che nella primavera della sua vita un giovane dà al mondo dovrebbe essere come un bocciolo o un fiore di primavera, come il biancospino nel prato di Magdalen, o la primavera odorosa nei campi di Cumnor. Non dovrebbe essere gravato dal peso di una terribile e ripugnante tragedia, di un terribile e ripugnante scandalo. Se avessi permesso che il mio nome fungesse da araldo al libro sarebbe stato un grave errore artistico. Avrebbe circonfuso l’intera opera di un’atmosfera sbagliata, e nell’arte moderna l’atmosfera conta molto. La vita moderna è complessa e relativa; queste sono le sue due note caratteristiche. Per rendere la prima abbiamo bisogno di atmosfera con la sua sottigliezza di nuances, di suggestione, di strane prospettive: per la seconda di sfondo. È per questo che la Scultura ha smesso di essere un’arte rappresentativa, la Musica è un’arte rappresentativa e la Letteratura è, è stata e rimarrà sempre la suprema arte rappresentativa.

Il tuo libretto avrebbe dovuto portare con sé le melodie della Sicilia e dell’Arcadia, non la pestilenziale oscenità del banco dei criminali o il respiro mozzo della cella di una prigione. D’altra parte una dedica come quella che tu proponevi non sarebbe stata semplicemente un errore di gusto nell’Arte, ma sarebbe stata del tutto sconveniente anche da altri punti di vista. Sarebbe parsa come un’appendice della tua condotta prima e dopo il mio arresto. Avrebbe anche dato alla gente l’impressione di essere un tentativo di sciocca bravata: un esempio di quel genere di coraggio che è venduto e comprato a buon mercato nelle strade della vergogna. Per quanto riguarda la nostra amicizia, la Nemesi ci ha schiacciati entrambi come mosche. Dedicarmi delle poesie quando ero in prigione avrebbe avuto l’apparenza di uno stupido sforzo per rispondere con una battuta a effetto, cosa di cui, nei vecchi giorni in cui scrivevi lettere tremende – giorni che, lo spero sinceramente nel tuo interesse, non tornino più – andavi orgoglioso e della quale con gioia ti vantavi. Non avrebbe prodotto il serio e bellissimo effetto al quale tu, confido – anzi credo – avevi mirato. Se mi avessi interpellato, ti avrei suggerito di posporre per un po’ di tempo la pubblicazione delle tue poesie; o, se questo si fosse dimostrato spiacevole per te, di pubblicarle prima anonime, e poi, quando ti fossi conquistato degli amanti del tuo canto – l’unico genere di amanti che danno valore alla vittoria – avresti potuto fare marcia indietro e dire al mondo: «Questi fiori che tu ammiri sono della mia semina, e ora li offro a un uomo che tu consideri un paria e un reietto, come tributo personale a ciò che amo, venero e ammiro in lui». Ma tu scegliesti il metodo e il momento sbagliato. Esiste un tatto in amore e un tatto in letteratura: tu non fosti sensibile a nessuno dei due.

Ti ho parlato a lungo di questo perché tu ne afferri tutti gli aspetti e capisca perché io scrissi subito a Robbie con parole di disprezzo e disgusto per te, e vietai assolutamente la dedica, esprimendo il desiderio che le parole che avevo scritto di te venissero copiate con cura e ti fossero inviate. Sentii che era finalmente arrivato il momento in cui ti si dovesse far vedere, riconoscere, rendere conto in parte di quello che avevi fatto. La cecità può essere portata fino al punto in cui diventa grottesca, e una natura senza immaginazione, se non si fa qualcosa per destarla, si pietrificherà nell’insensibilità completa, così che mentre il corpo mangia e beve e si prende i suoi piaceri, l’anima di cui costituisce dimora è, può essere, come l’anima di Branca d’Oria in Dante, morta completamente. La mia lettera sembra essere arrivata non un attimo troppo presto. È piombata su di te, per quanto posso giudicare, come un fulmine. Ti descrivi, nella tua risposta a Robbie, «privo di ogni capacità di pensare e di esprimerti». Sembra infatti in apparenza che tu non riesca a pensare a niente di meglio che scrivere a tua madre per lamentarti. Naturalmente lei, con quella cecità verso il tuo vero bene che ha costituito la sua e la tua sorte avversa, ti dà ogni genere di conforto al quale riesce a pensare, e cullandoti ti riporta, credo, alla tua precedente, infelice, indegna, condizione; mentre, per quel che mi riguarda, ella fa sapere ai miei amici di essere «estremamente seccata» per la severità delle mie osservazioni nei tuoi riguardi. Anzi, non sono solo i miei amici che ella rende partecipi dell’espressione del suo fastidio, ma anche coloro – un gran numero di persone, non c’è bisogno che te lo ricordi – che non sono miei amici; e ora vengo informato, attraverso canali molto ben disposti nei tuoi confronti, che in conseguenza di ciò molta della simpatia che era venuta crescendo con gradualità ma saldamente nei miei confronti, a causa del mio ingegno brillante e delle mie terribili sofferenze, mi è stata sottratta del tutto. La gente dice: «Ah! Prima ha cercato di mettere in prigione il buon padre e non c’è riuscito: adesso cambia rotta e incolpa il figlio innocente per aver fallito. Avevamo proprio ragione a disprezzarlo! Merita davvero il disprezzo!». Mi sembra che, quando il mio nome viene fatto in presenza di tua madre, sarebbe più opportuno che restasse zitta se non ha parole di dolore o di rimpianto per la parte – non da poco – che ebbe nella rovina della mia famiglia. E passando a te: non pensi ora che, invece di scriverle per lamentarti, sarebbe stato meglio per te, in ogni caso, aver scritto direttamente a me, e aver avuto il coraggio di dirmi qualsiasi cosa avevi, o immaginavi di avere da dirmi? È passato adesso quasi un anno da quando ti scrissi quella lettera. Per tutto quel tempo non puoi essere rimasto «privo di qualsiasi capacità di pensare e di esprimerti». Perché non mi hai scritto? Dalla mia lettera hai capito quanto sono rimasto profondamente ferito e oltraggiato dalla tua condotta complessiva. Ancora di più; hai visto tutta la tua amicizia con me messa davanti ai tuoi occhi, nella sua vera luce, e in maniera inequivocabile. Spesso, nei giorni ormai passati, ti avevo detto che stavi rovinando la mia vita. Tu ne ridevi sempre. Quando Edwin Levy, nel periodo iniziale della nostra amicizia, vedendo il modo in cui mi spingevi a sopportare lo scontro, la seccatura e perfino le spese di quel tuo sfortunato incidente di Oxford, se così dobbiamo definirlo, in relazione al quale avevo cercato il suo consiglio e aiuto, spese un’intera ora per mettermi in guardia dal frequentarti, tu ridesti, quando a Bracknell ti descrissi il mio lungo e memorabile colloquio con lui. Quando ti dissi che perfino quello sfortunato giovane che si trovò alla fine vicino a me sul banco degli imputati mi aveva avvertito più di una volta che tu ti saresti rivelato ben più funesto nel portarmi alla distruzione completa di qualsiasi altro dei più volgari ragazzi che fui abbastanza sciocco da frequentare, tu ridesti, anche se non molto divertito. Quando i miei amici più prudenti o meno ben disposti mi misero in guardia o mi abbandonarono a causa della mia amicizia con te, tu ridesti sprezzante. Ridesti smodatamente quando, in occasione della prima lettera di insulti che tuo padre ti scrisse su di me, ti dissi che sapevo che sarei stato nient’altro che il pretesto della vostra terribile lite, e da voi mi sarebbe venuta una qualche disgrazia. Ma, a giudicare dal risultato, ogni minima cosa è accaduta come io avevo detto. Non avevi scuse per non vedere che tutto si era verificato. Perché non mi scrivesti? Era per codardia? Era per insensibilità? Per che cosa era? Il fatto che io fossi indignato con te, e ti avessi espresso la mia indignazione era a maggior ragione un motivo per scrivermi. Se pensavi che la mia lettera fosse giusta avresti dovuto scrivere. Se pensavi che contenesse un solo particolare ingiusto, avresti dovuto scrivere. Aspettavo una lettera. Ero sicuro che alla fine avresti capito che, se il vecchio affetto, l’amore tanto declamato, i mille gesti di gentilezza mal ricompensata di cui ti avevo coperto, i mille debiti di gratitudine non pagati che mi dovevi e – che se tutte queste cose non contavano niente per te – il semplice dovere, il più arido di tutti i legami che intercorrono tra gli uomini, avrebbe dovuto importi di scrivere. Non puoi dire che pensavi sul serio che mi fosse consentito di ricevere nient’altro che comunicazioni d’affari da membri della mia famiglia. Sapevi benissimo che ogni tre mesi Robbie mi scriveva un piccolo sunto di novità letterarie. Non c’è nulla di più incantevole delle sue lettere, con la loro arguzia, i giudizi concisi e intelligenti, il tocco lieve: sono delle vere e proprie lettere; sono come delle persone che parlano ad altre; hanno la qualità di una causerie intime francese; e con delicati toni di deferenza verso di me, facendo appello una volta alla mia capacità di giudizio, un’altra al mio senso dell’umorismo, un’altra al mio istinto della bellezza o alla mia cultura, e ricordandomi sottilmente in cento modi che un tempo per molti ero un arbitro di stile nell’Arte, e per qualcuno l’arbitro sommo, dimostra di avere sia il gusto dell’amore che quello della letteratura. Le sue lettere sono state le piccole messaggere tra me e quel bellissimo, irreale mondo dell’Arte del quale una volta ero Re, e del quale sarei rimasto Re se non mi fossi lasciato adescare dal mondo imperfetto di passioni volgari e incomplete; di brama senza distinzioni, di desiderio senza limiti, e di cupidigia informe. Tuttavia, alla fin fine, avresti sicuramente potuto capire, o ad ogni modo concepire, dentro di te, che, anche per normali motivi di semplice curiosità psicologica, sarebbe stato più interessante per me avere tue notizie, piuttosto che apprendere che Alfred Austin cercava di pubblicare un volume di poesie, o che Street stava scrivendo critiche teatrali per il Daily Chronicle, o che la signora Meynell era stata dichiarata la nuova Sibilla dello Stile da un tale che non riesce a pronunciare un panegirico senza balbettare.

Ah! Se in prigione ci fossi stato tu – non dico per qualche mia colpa, perché sarebbe stato per me un pensiero troppo gravoso da sopportare – ma per qualche tua colpa, errore, fiducia in qualche amico indegno, per uno scivolone nella palude dei sensi, per fiducia mal riposta o amore mal concesso, o nessuna, oppure tutte queste cose insieme – pensi che ti avrei permesso di mangiarti il cuore nell’oscurità e nella solitudine senza cercare in qualche modo, per quanto minimo, di aiutarti a sopportare l’amaro fardello del disonore? Credi che non ti avrei fatto sapere che se tu soffrivi, anche io stavo soffrendo; che se tu piangevi, anche nei miei occhi c’erano lacrime; e che se tu ti trovavi nella casa della schiavitù ed eri disprezzato dagli uomini, io, col mio dolore, avevo costruito una casa dove stare fino al tuo ritorno, un forziere in cui tutto ciò che gli uomini ti avevano negato sarebbe stato tenuto in serbo per la tua guarigione, in quantità cento volte maggiori? Se l’amara necessità o la prudenza, per me ancora più amara, mi avessero impedito di starti vicino e mi avessero derubato della gioia della tua presenza, anche se visto attraverso le sbarre della prigione e sotto sembianze di vergogna, ti avrei scritto in ogni momento con la speranza che una sola frase, una sola parola, anche una soffocata eco d’Amore potesse raggiungerti. Se anche tu ti fossi rifiutato di ricevere le mie lettere, ti avrei ugualmente scritto per farti sapere che c’erano comunque sempre lettere che ti aspettavano. Molti hanno fatto così con me. Ogni tre mesi la gente mi scrive o intende scrivermi. Le loro lettere e le comunicazioni vengono conservate. Mi verranno passate quando uscirò di prigione. So che esistono. Conosco i nomi di coloro che le hanno scritte. So che sono piene di comprensione, affetto e bontà. Questo mi basta. Non mi serve sapere altro. Il tuo silenzio è stato spaventoso. Non è stato del resto un silenzio soltanto di settimane e di mesi, ma di anni; di anni, anche a contarli come coloro i quali, come te, vivono rapidamente, nella felicità, e non riescono quasi a tener dietro ai piedi dorati dei giorni mentre passano danzando, e rimangono senza fiato nella caccia al piacere. È un silenzio che non ammette scuse; un silenzio senza attenuanti. Sapevo che avevi i piedi d’argilla, chi lo sapeva meglio di me? Quando scrissi, nei miei aforismi, che erano appunto i piedi d’argilla che rendevano prezioso l’oro dell’immagine, era a te che pensavo. Ma non è un’immagine d’oro con i piedi d’argilla che tu hai costruito di te stesso. Dalla medesima polvere di una comune strada che gli zoccoli di animali con le corna riducono in fango tu hai forgiato la tua copia perfetta perché io la guardassi, così che, qualsiasi desiderio segreto io possa aver avuto, mi sarebbe impossibile ora nutrire per te altri sentimenti che sprezzo e sdegno. E, mettendo da parte tutte le altre ragioni, la tua indifferenza, la tua saggezza mondana, la tua insensibilità, la prudenza, comunque tu voglia chiamarla, mi è stata doppiamente amara a causa delle particolari circostanze che hanno accompagnato e seguito la mia caduta.

Altri uomini sventurati, quando sono gettati in prigione, se anche sono derubati della bellezza del mondo, sono almeno salvi, in qualche misura, dai più micidiali colpi del mondo, dalle frecce più terribili. Possono nascondersi nell’oscurità delle proprie celle, e fare del loro stesso disonore quasi un santuario. Il mondo, avendo imposto il suo volere, prosegue per la sua strada ed essi sono lasciati a soffrire indisturbati. Per me è stato diverso. Un dolore dietro l’altro è venuto a bussare alle porte della prigione per cercarmi. Hanno spalancato i cancelli e li hanno fatti entrare. È stato solo con difficoltà, e quando possibile, che ai miei amici è stato concesso di vedermi. Ma i miei nemici hanno sempre avuto libero accesso a me. Due volte nelle mie apparizioni in pubblico al Tribunale Fallimentare, altre due volte nei miei trasferimenti pubblici da una prigione all’altra, sono stato esposto, in condizioni di umiliazione indicibile, allo sguardo fisso e allo scherno degli uomini. Il messaggero della Morte mi ha portato le sue notizie e ha continuato per la sua strada, e in completa solitudine e isolato da tutto ciò che avrebbe potuto darmi consolazione o indicarmi sollievo, ho dovuto sopportare il peso intollerabile della sofferenza e del rimorso che il ricordo di mia madre ha lasciato su di me, e ancora ve lo tiene. Quella ferita era stata a malapena lenita, non guarita, dal tempo, che mi vengono da mia moglie, tramite il suo avvocato, lettere violente, amare e dure. Vengo, allo stesso tempo, rimproverato e minacciato di povertà. Questo lo posso sopportare. Posso adattarmi a cose peggiori di questa. Ma i miei due figli mi vengono tolti tramite una procedura legale. Questo fatto costituisce e rimarrà sempre per me una fonte di angoscia infinita, di infinito dolore, di afflizione senza fine o limite. Che la legge debba decidere, e assumersi il compito di decidere che io sono inadatto a stare con i miei propri figli è qualcosa di veramente terribile per me. Il disonore della prigione non è nulla in paragone a questo. Invidio gli altri uomini che camminano nel cortile con me. Sono sicuro che i loro bambini li aspettano, sperano che tornino, e saranno amorevoli con loro.

I poveri sono più saggi, più compassionevoli, più sensibili di noi. Ai loro occhi la prigione rappresenta una tragedia nella vita di un uomo, una disgrazia, un incidente, qualcosa che richiede la comprensione altrui. Parlano di una persona che sta in prigione come di uno che si trova semplicemente «nei guai». È la frase che usano sempre, e l’espressione racchiude la perfetta saggezza dell’Amore. Per persone della nostra condizione sociale è diverso. Per noi, la prigione rende un uomo un paria. Io, e quelli come me, abbiamo a malapena diritto all’aria e al sole. La nostra presenza guasta il piacere altrui. Siamo sgraditi quando ricompariamo. Non è cosa per noi rivedere i bagliori della luna10. I nostri stessi figli ci vengono portati via. Quegli incantevoli legami con l’umanità vengono spezzati. Siamo destinati alla solitudine, mentre i nostri figli vivono ancora. Ci viene negata l’unica cosa che potrebbe sanarci e aiutarci, che potrebbe portare balsamo al cuore ferito, e pace all’anima sofferente.

E a tutto ciò va aggiunto il crudele e duro fatto che, con le tue azioni e con il tuo silenzio, con quello che tu hai fatto e con quello che hai lasciato non fatto, hai reso ogni giorno della mia lunga prigionia ancora più difficile da superare. Con il tuo comportamento hai cambiato persino il pane e l’acqua del vitto da prigioniero. Mi hai reso amaro il primo e salmastra l’altra. Il dolore che avresti dovuto condividere lo hai raddoppiato, il dolore che avresti dovuto cercare di alleggerire lo hai rafforzato tanto da trasformarlo in angoscia. Non ho dubbi che tu non intendessi farlo. Si trattava semplicemente dell’«unico difetto davvero fatale del tuo carattere, la tua completa mancanza di immaginazione».

E la conclusione di tutto questo è che io ti devo perdonare. Devo farlo. Non scrivo questa lettera per portare amarezza al tuo cuore, bensì per estirparla dal mio. Devo perdonarti per il mio stesso bene. Non si può tenere sempre una vipera nel proprio cuore per nutrirsi, né alzarsi tutte le mattine per seminare spine nel giardino della propria anima. Non sarà affatto difficile per me farlo, se tu mi dai un po’ d’aiuto. Qualsiasi cosa tu mi abbia fatto in passato, te l’ho perdonata senza difficoltà. Allora non ti fu di alcuna utilità. Soltanto una persona la cui vita è senza macchia alcuna può perdonare i peccati. Ma ora che sono umiliato e in disgrazia, è diverso. Il mio perdono dovrebbe significare molto per te. Un giorno te ne renderai conto. Se lo farai presto o tardi, subito o mai, la mia condotta è chiara dinnanzi a me. Non posso permetterti di passare attraverso la vita portando nel cuore il peso di aver rovinato un uomo come me. Può darsi che questo pensiero ti renda insensibilmente indifferente, o morbosamente triste. Io devo toglierti il fardello e metterlo sulle mie spalle.

Devo dire a me stesso che né tu né tuo padre, moltiplicati più di mille volte, sareste stati assolutamente in grado di rovinare un uomo come me, che mi sono rovinato da solo; e che nessuno, grande o piccolo, può essere mandato in rovina tranne che con le sue stesse mani. Sono prontissimo a farlo. Sto cercando di farlo, per quanto tu ora possa credere di no. Anche se ti ho mosso questa accusa spietata, pensa quale accusa muovo senza pietà contro me stesso. Per quanto terribile possa essere stato quello che tu hai fatto a me, quello che ho fatto a me stesso è stato di gran lunga più terribile.

Ero un uomo che aveva delle relazioni simboliche con l’arte e la cultura del suo tempo. L’avevo capito da solo all’inizio della mia giovinezza, e in seguito ho costretto la mia epoca a rendersene conto. Pochi uomini hanno una posizione simile e ampiamente riconosciuta quando sono in vita; di solito viene analizzata appieno, quando succede, dallo storico o dal critico molto tempo dopo che sia l’uomo che la sua età hanno cessato di esistere. Per me è stato diverso. L’ho sentito io stesso, e l’ho fatto sentire agli altri. Byron è stato una figura simbolica, ma ebbe rapporti soltanto con la passione del suo tempo e la stanchezza delle passioni. I miei furono con qualcosa di più nobile, più duraturi, di tipo più vitale e di più vasta portata.

Gli dèi mi avevano dato quasi tutto. Avevo genio, un nome famoso, un’alta posizione sociale, un’intelligenza pronta e vivace, audacia intellettuale; facevo dell’arte una filosofia, e della filosofia un’arte; cambiavo le menti degli uomini e i colori delle cose: non c’era niente di quello che dicevo o facevo che non stupisse gli altri; presi il teatro, la forma più oggettiva che l’arte conoscesse, e ne feci un modo di espressione personale come la lirica o il sonetto, ampliandone allo stesso tempo la portata e arricchendone la caratterizzazione; il dramma, il romanzo, la poesia in rima, la poesia in prosa, il dialogo astruso o fantastico, qualsiasi cosa toccassi la rendevo bella di una nuova forma di bellezza; alla verità stessa diedi come suo legittimo territorio ciò che è falso non meno di ciò che è vero, e mostrai che il vero e il falso non sono altro che forme di esistenza intellettuale; considerai l’Arte la realtà suprema, e la vita una semplice forma di invenzione; risvegliai l’immaginazione del mio secolo tanto da crearmi attorno il mito e la leggenda; riassunsi tutti i sistemi in una frase, e tutta l’esistenza in un epigramma.

Oltre a queste, ebbi anche qualità diverse. Mi lasciai allettare da lunghi periodi di stupido e sensuale riposo. Mi divertii a essere un flâneur, un dandy, un uomo di mondo. Mi circondai delle nature più meschine e delle menti più ignobili. Mi trasformai in scialacquatore del mio stesso genio, e sprecare un’eterna giovinezza mi diede una curiosa gioia. Stanco di essere sulle cime scesi di proposito negli abissi in cerca di nuove sensazioni. Quello che il paradosso era per me nella sfera del pensiero, la perversione lo divenne nella sfera della passione. Il desiderio, alla fine, si trasformò in malattia, o pazzia, o tutt’e due. Non mi curavo più delle vite degli altri. Prendevo il piacere da dove mi garbava e passavo oltre. Dimenticai che ogni piccola azione di tutti i giorni fa o disfa il carattere, e che quindi quello che si è fatto nel segreto di una stanza un giorno o l’altro lo si dovrà gridare a gran voce dal tetto. Cessai di essere Padrone di me stesso. Non ero più il Capitano della mia Anima, e non lo sapevo. Permisi a te di dominarmi e a tuo padre di spaventarmi; finii in un orribile disonore. Per me c’è una sola cosa adesso, l’Umiltà assoluta: così come c’è una sola cosa per te, nuovamente l’Umiltà assoluta. Avresti fatto meglio ad abbassarti nella polvere e ad impararlo al mio fianco.

Sono in prigione da quasi due anni. Dalla mia natura sono venuti fuori una selvaggia disperazione, un abbandono al dolore pietoso da guardare, furore terribile e impotente, amarezza e sdegno, angoscia che piangeva a gran voce, infelicità che non riusciva a trovare sfogo, dolore muto. Ho attraversato tutti gli stadi possibili della sofferenza. So, meglio di Wordsworth stesso, quello che egli intendeva quando disse:

 

La sofferenza è permanente, oscura e cupa

ed è della stessa natura dell’Infinito.

 

Ma, mentre ci furono momenti in cui gioivo all’idea che le mie sofferenze dovessero essere senza fine, non potevo sopportare che fossero senza significato. Ora trovo, nascosto da qualche parte della mia natura, qualcosa che mi dice che niente al mondo è senza significato, e meno di tutto la sofferenza. Quel qualcosa celato nella mia natura, come un tesoro in un campo, è l’Umiltà.

È l’ultima cosa che mi rimane, e la migliore: la scoperta fondamentale a cui sono giunto, il punto di partenza per un nuovo sviluppo. È uscita fuori proprio da dentro di me, perciò so che è arrivata al momento giusto. Non potrebbe essere venuta prima, né dopo. Se qualcuno me ne avesse parlato, l’avrei respinta. Se mi fosse stata portata, l’avrei rifiutata. Siccome l’ho trovata io, voglio tenerla. Devo farlo. È l’unica cosa che ha in sé gli elementi della vita, di una nuova vita, una Vita Nuova per me; fra tutte le cose è la più strana. Non la si può regalare e non la si può ricevere. Non si può acquistare, tranne che rinunciando a tutto quello che si ha; soltanto quando si perde tutto ciò che si possiede, si sa di possederlo.

Ora che ho compreso che è in me, vedo con estrema chiarezza ciò che devo fare, che infatti farò. E, usando una frase come questa, non c’è bisogno che ti dica che non sto alludendo ad alcuna punizione o comando esterno. Non ne riconosco alcuno. Sono di gran lunga più individualista di quanto lo sia mai stato. Nulla mi sembra del benché minimo valore tranne quello che si ricava da se stessi. La mia natura sta cercando un modo nuovo per esprimere la propria autorealizzazione. Questo è tutto ciò che mi interessa. E la prima cosa che devo fare è liberarmi da qualsiasi possibile sentimento di amarezza nei tuoi confronti.

Non ho un soldo, né una casa. Tuttavia al mondo ci sono cose peggiori di questa. Sono del tutto sincero quando ti dico che piuttosto che uscire da questa prigione con il cuore carico d’amarezza nei confronti tuoi o del mondo, sarei disposto di buon grado a mendicare il mio pane di porta in porta. Se non ottenessi nulla dalla casa del ricco, otterrei qualcosa dalla casa del povero. Coloro che hanno molto sono spesso avidi. Coloro che hanno poco, lo mettono sempre in comune. Non m’importerebbe nulla di dormire nell’erba fresca d’estate e con il venire dell’inverno rifugiarmi in fienili caldi con i tetti di paglia pressata, o sotto la tettoia di un ampio granaio, a patto che avessi l’amore nel cuore. Ora le cose esteriori della vita mi sembra non abbiano affatto importanza. Puoi vedere a che livello di individualismo sono arrivato, o meglio sto arrivando, perché il viaggio è lungo e «dove cammino vi sono spine».

Naturalmente so che chiedere l’elemosina lungo la strada non sarà il mio destino, e che, se mai giacerò nell’erba fresca di notte, sarà per scrivere sonetti alla Luna. Quando uscirò di prigione, Robbie mi aspetterà dall’altra parte del grande e pesante cancello di ferro; ed egli è il simbolo non soltanto del suo stesso affetto, ma dell’affetto di molti altri. Credo che ad ogni modo mi sarà dato abbastanza da continuare a vivere per circa diciotto mesi, cosicché se anche non scrivessi bellissimi libri, potrò almeno leggerne. Quale gioia può essere più grande? Dopo di allora spero di essere in grado di ricostituire la mia capacità creativa. Ma, se le cose fossero diverse, se non mi rimanesse alcun amico al mondo, se non restasse aperta per me neanche una casa, neppure per compassione, se dovessi accettare il fagotto e il mantello straccioso della miseria totale, tuttavia finché rimanessi libero da tutto, da ogni risentimento, disprezzo, durezza, sarei in grado di affrontare la vita con molta maggiore calma e fiducia di quanto lo sarei se il mio corpo fosse coperto di vesti di porpora e di pregiata biancheria e l’anima all’interno fosse malata di odio. E non avrei davvero alcuna difficoltà a perdonarti. Ma perché questo rappresenti per me un piacere devi essere sicuro di volerlo. Quando realmente lo vorrai, troverai che ti aspetto.

Non occorre che ti dica che il mio compito non finisce qui. Sarebbe relativamente facile se fosse così. Davanti a me c’è molto di più. Ci sono colline molto più ripide da scalare e valli molto più buie da attraversare. Non posso ricorrere ad altro fuorché a me stesso. Né la Religione, né l’Etica, né la Ragione possono darmi il benché minimo aiuto.

L’Etica non mi aiuta. Sono un antinomico nato. Sono uno di quelli che sono fatti per le eccezioni, non per le regole. Ma, pur vedendo che non c’è nulla di sbagliato in quello che si fa, mi rendo conto che c’è qualcosa di sbagliato in ciò che si diventa. È bene averlo capito.

La Religione non mi aiuta. La fede che altri ripongono in ciò che non si vede, io la dedico a quello che si può guardare e toccare. I miei Dèi dimorano in templi fatti con le mani e il mio credo è reso perfetto e completo entro il cerchio dell’esperienza reale. Per quanto troppo completo, perché come molti o tutti coloro che hanno posto il loro Paradiso su questa terra, io vi ho trovato non soltanto la bellezza del Paradiso ma anche l’orrore dell’Inferno. Quando penso alla Religione, sento che mi piacerebbe fondare un ordine per coloro che non possono credere: si potrebbe chiamare Confraternita dei Senza Padre, su un altare sul quale non arderebbe alcun cero, un prete, nel cui cuore non dimorerebbe la pace, potrebbe celebrare con pane non benedetto e un calice senza vino. Ogni cosa per essere vera dovrebbe diventare religione. E l’agnosticismo dovrebbe avere i propri riti non diversamente dalla fede. Ha seminato i suoi martiri e dovrebbe raccogliere i suoi santi, e lodare Dio giorno per giorno per essersi nascosto all’uomo. Ma che si tratti di fede o di agnosticismo, non deve essere nulla di esterno a me. I suoi simboli devono essere di mia creazione. Solo ciò che è spirituale crea la propria forma. Se non riesco a trovare il suo segreto dentro di me, non lo troverò mai; se non l’ho ancora trovato, non verrà mai da me.

La Ragione non mi aiuta. Mi dice che le leggi che mi hanno condannato sono leggi sbagliate e ingiuste, e il sistema sotto il quale ho sofferto è un sistema sbagliato e ingiusto. Ma, in qualche modo, devo rendere tutt’e due queste cose giuste ed eque per me. E, esattamente come nell’Arte ci si preoccupa soltanto di quello che una cosa particolare rappresenta in un preciso momento, lo stesso succede nell’evoluzione etica del proprio carattere. Devo trasformare in utile tutto quello che mi è accaduto. Il tavolaccio, il cibo schifoso, le dure corde stracciate fino a farle diventare stoppa, fino a che i polpastrelli diventano insensibili dal dolore, le umili incombenze che segnano l’inizio e la fine di ogni giornata, gli ordini aspri che sembrano necessari alla routine, l’orribile uniforme che rende il dolore grottesco a vedersi, il silenzio, la solitudine, la vergogna, ognuna singolarmente e tutte queste cose insieme devo trasformarle in esperienza spirituale. Non c’è una sola degradazione del corpo che io non debba cercare di trasformare in espressione spirituale dell’anima.

Voglio arrivare al momento in cui sarò in grado di dire, con semplicità e senza affettazione, che le due grandi svolte decisive della mia vita furono quando mio padre mi mandò a Oxford e quando la società mi mandò in prigione. Non voglio dire che questa sia la cosa migliore che possa essermi capitata, perché una frase del genere avrebbe il sapore di una cosa troppo amara verso me stesso. Preferirei dire, o sentire che si dicesse di me, che ero un tipico figlio del mio tempo così che nella mia perversità, e per amore di essa, mutai le cose buone della mia vita in cattive, e quelle cattive in buone. Tuttavia, ciò che è detto da me o da altri poco importa. La cosa importante, quella che mi sta davanti, la cosa che devo fare, altrimenti sarei mutilato, rovinato e incompleto per il breve residuo dei miei giorni, è assorbire nella mia natura tutto ciò che mi è stato fatto, per renderlo parte di me, per accettarlo senza rimpianto, paura o riluttanza. La superficialità è il peggiore dei vizi. Tutto ciò che viene compreso è giusto.

Quando venni messo in prigione per la prima volta alcune persone mi suggerirono di provare a dimenticare chi fossi. Fu un consiglio disastroso. Soltanto ora, comprendendo chi sono, ho trovato un certo sollievo. Ciò che ora gli altri mi suggeriscono è tentare, al momento del mio rilascio, di dimenticare del tutto di essere stato in prigione. So che sarebbe ugualmente fatale. Equivarrebbe essere per sempre perseguitato da un senso intollerabile di vergogna, e che quelle cose che hanno significato tanto per me quanto per qualunque altro – la bellezza del sole e della luna, l’avvicendarsi delle stagioni, la musica dell’alba e il silenzio di notti immense, la pioggia che cade tra le foglie, o la rugiada che si nasconde fra l’erba e la fa d’argento – sarebbero tutte marcite e perderebbero il loro potere salvifico e la loro capacità di comunicare gioia.

Respingere le proprie esperienze equivale ad arrestare il proprio sviluppo; rifiutare le proprie esperienze significa porre una bugia sulle labbra della propria vita. Non è meno che rinnegare l’Anima. Perché così come il corpo assorbe cose di ogni genere, sia quelle ordinarie e sporche che quelle che un sacerdote o una visione hanno purificato e le tramuta in velocità e vigore, nel gioco di bei muscoli e nella bella forma della carne, nelle curve e nei colori di capelli, labbra, occhi, anche l’Anima, a sua volta, ha le sue funzioni nutritive e può trasformare in nobili stati di pensiero e passioni di alto valore ciò che è di per sé basso, crudele e degradante: anzi, ancor di più, può trovare proprio in ciò le sue più auguste maniere di affermazione, e può spesso rivelarsi in modo più perfetto attraverso ciò che intendeva profanare o distruggere.

Devo accettare francamente il fatto di essere stato un comune prigioniero di una comune prigione e, per quanto curioso ti possa sembrare, una delle cose che devo insegnare a me stesso è non vergognarmene. Devo accettarlo come una punizione e, se ci si vergogna di essere stati puniti, sarebbe la stessa cosa non essere mai stati puniti. Naturalmente ci sono molte cose per le quali fui condannato che non avevo commesso, ma ci sono anche molte cose per le quali fui condannato e che avevo commesso, e un numero ancora più grande di cose della mia vita delle quali non sono mai stato accusato. E, riguardo a quello che ho detto in questa lettera: che gli dèi sono strani e ci puniscono tanto per quello che c’è di buono e umano in noi che per quello che c’è di male e di perverso, devo accettare il fatto che si sia puniti sia per il bene che per il male che si fa. Non ho alcun dubbio che sia giusto così. Ci aiuta, o dovrebbe aiutarci, a capire entrambi, e a non essere troppo arroganti nei riguardi dell’uno e dell’altro. E se dunque non mi vergogno della mia punizione, come spero non accada, sarò in grado di pensare, di camminare e di vivere nella libertà.

Molti uomini al momento della propria liberazione portano con sé nell’aria la prigionia, la celano come una vergogna segreta nel cuore e alla fine, come povere creature avvelenate, strisciano a morire in qualche tana. È orribile che debbano fare così, ed è sbagliato, terribilmente sbagliato, che la Società li costringa a fare così. La Società si assume il compito di infliggere punizioni spaventose all’individuo, ma ha anche il vizio sommo della superficialità, e non riesce a comprendere quello che ha fatto. Quando la punizione dell’uomo si è compiuta, lo lascia a se stesso: lo abbandona cioè nel momento stesso in cui ha inizio il suo dovere più importante nei confronti di questi. Si vergogna davvero delle proprie azioni, e rifugge coloro che ha punito, come gente che evita un creditore al quale non può pagare i debiti, o qualcuno a cui ha inflitto un torto irreparabile, irrimediabile. Da parte mia richiedo che, se comprendo quello che ho sofferto, la Società dovrebbe comprendere quello che mi ha inflitto, e non ci dovrebbe essere amarezza né odio da nessuna delle due parti.

Naturalmente so che da un certo punto di vista le cose mi verranno rese più difficili che ad altri; ma, per la natura stessa del mio caso, deve essere proprio così. I poveri ladri e i reietti che sono imprigionati qui assieme a me sono per molti versi più fortunati di quanto lo sia io. La stradina nella città grigia o nel campo verde che vide il loro peccato è piccola: per trovare persone che non sappiano nulla di ciò che essi hanno fatto non c’è bisogno di arrivare più lontano di quanto un uccello possa coprire in volo tra la luce indistinta prima dell’alba e l’alba stessa: ma per me «il mondo si è ridotto a una spanna»11 e dovunque mi volga il mio nome è scritto col piombo sulle rocce. Io sono infatti giunto alla momentanea notorietà del crimine non dall’oscurità, sono bensì passato da una sorta di eternità della fama a una sorta di eternità dell’infamia, e a volte mi sembra di aver dimostrato, se mai ce ne fosse stato bisogno, che tra la fama e l’infamia non c’è che un passo, se pur c’è.

Tuttavia, nel fatto stesso che la gente mi riconoscerà dovunque andrò e saprà tutto della mia vita e delle sue pazzie, posso scorgere qualcosa di buono per me. Mi imporrà la necessità di affermarmi di nuovo come artista, non appena mi sarà possibile. Se riuscirò a creare anche solo una bellissima opera d’arte riuscirò a sottrarre al rancore il suo veleno, alla codardia il suo sarcasmo, e a sradicare fino alle radici la lingua del disprezzo. E se per me la vita fosse, come sicuramente è, un problema, io sono parimenti un problema per la Vita. La gente dovrà adottare un atteggiamento nei miei confronti, e di conseguenza dare un giudizio sia su se stessa che su di me. Non occorre che dica che non sto parlando di individui particolari. Le uniche persone con cui mi interesserebbe stare ora sono artisti e persone che hanno sofferto: quelli che sanno cosa è la Bellezza, e quelli che sanno cosa è il Dolore, non mi interessa nessun altro. Né sto facendo alcuna richiesta alla Vita. In tutto ciò che ho detto mi sono occupato semplicemente del mio atteggiamento mentale verso la vita nel complesso; e sento che non provare vergogna di essere stati puniti è uno dei primi punti a cui devo arrivare, per la mia perfezione e proprio perché sono così imperfetto.

Devo imparare inoltre a essere felice. Una volta lo sapevo, o pensavo di saperlo, per istinto. Una volta era sempre primavera nel mio cuore. La mia indole era simile alla gioia. Riempivo la mia vita di piacere fino all’orlo, come si potrebbe riempire fino all’orlo un bicchiere con il vino. Ora mi avvicino alla vita da un punto di vista completamente nuovo, ed è estremamente difficile per me persino il concepire felicità. Ricordo di aver letto, durante il primo trimestre a Oxford, nella Renaissance di Pater – libro che ebbe un’influenza così strana sulla mia vita – che Dante colloca nelle profondità dell’Inferno coloro che vivono intenzionalmente nella tristezza, e di essere andato alla biblioteca del college per cercare il brano della Divina Commedia in cui si dice che sotto la desolata palude giacciono «coloro che furono tristi nell’aer dolce», che ripetono all’infinito i loro lamenti:

 

Tristi fummo

nell’aer dolce che dal sol s’allegra12.

 

Sapevo che la Chiesa condannava l’accidia, ma nel suo complesso l’idea mi sembrava quanto mai bizzarra, proprio quel tipo di peccato, immaginavo, che avrebbe inventato un prete che non sapeva niente della vita reale. Né potevo capire come Dante, il quale dice che «il dolore ci risposa a Dio»13, avesse potuto essere tanto aspro verso coloro che erano innamorati della malinconia, ammesso che persone simili esistano veramente. Non avevo alcuna idea che un giorno questa sarebbe diventata una delle tentazioni più grandi della mia vita.

Mentre ero nella prigione di Wandsworth desideravo ardentemente morire. Era il mio unico desiderio. Quando, dopo due mesi all’infermeria, venni trasferito qui, e mi accorsi di stare pian piano meglio di salute, fui al colmo della rabbia. Presi la decisione di suicidarmi il giorno stesso in cui avrei lasciato il carcere. Dopo un po’ questi cattivi pensieri passarono, e decisi di continuare a vivere, ma di vestirmi di tristezza come un Re si veste di porpora, di non sorridere più, di trasformare qualsiasi casa nella quale entrassi in una casa di lutto, di far camminare i miei amici lentamente nel dolore insieme a me, di insegnar loro che la malinconia è il vero segreto della vita, di mutilarli con un dolore altrui, di danneggiarli con la mia stessa sofferenza. Ora la penso in modo ben diverso. Capisco che sarebbe ingrato e crudele da parte mia fare il muso lungo quando i miei amici vengono a trovarmi, dovrebbero fare il muso ancor più lungo per dimostrarmi la loro comprensione o, se desiderassi intrattenerli, invitarli a sedere in silenzio a mangiare erbe amare e carni arrostite per il funerale. Ora devo imparare a essere allegro e felice.

Le ultime due occasioni in cui mi è stato permesso di vedere i miei amici qui, ho cercato di essere più allegro possibile e di mostrare la mia allegria per dare loro una parziale ricompensa per il disturbo che si erano dati per venire dalla città fino a qui per vedermi. È solo una piccola ricompensa, lo so, ma è quella, ne sono certo, che fa loro più piacere. Ho visto Robbie per un’ora sabato, e ho cercato di manifestargli la più piena espressione della gioia che realmente ho provato al nostro incontro. E che io abbia pienamente ragione, secondo opinioni e idee che mi sto forgiando qui, mi viene mostrato dal fatto che ora per la prima volta da quando sono in prigione, desidero davvero vivere.

Davanti a me c’è così tanto da fare che considererei una terribile tragedia il morire prima che mi fosse concesso di completarne almeno una piccola parte. Vedo nuovi sviluppi nell’Arte e nella Vita, ognuno dei quali è un nuovo esempio di perfezione. Desidero ardentemente vivere per potere esplorare ciò che per me non rappresenta niente di meno che un nuovo mondo. Vuoi sapere cos’è questo mondo nuovo? Credo che tu possa indovinarlo. È il mondo in cui vivo.

Il dolore, dunque, e tutto ciò che insegna è il mio nuovo mondo. Ero abituato a vivere interamente per il piacere. Rifuggivo il dolore e la sofferenza di qualsiasi genere; li odiavo entrambi. Mi risolsi ad ignorarli per quanto mi era possibile, a trattarli cioè come esempi di imperfezione. Non facevano parte del mio schema di vita. Non avevano una collocazione nella mia filosofia. Mia madre, che conosceva la vita nella totalità, era solita citarmi spesso i versi di Goethe – scritti da Carlyle in un libro14 che questi le aveva dato anni prima – e tradotti, suppongo, da lui stesso:

 

Chi non ha mai mangiato il pane nel dolore

Chi non ha mai trascorso le ore più profonde della notte

piangendo e aspettando il mattino

questi non vi conosce, o potenze celesti.

 

Erano i versi che la nobile regina di Prussia, trattata da Napoleone con così rozza brutalità, citava negli anni dell’umiliazione e dell’esilio: erano versi che mia madre citava spesso tra le pene dei suoi ultimi anni. Io rifiutai recisamente di accettare o di ammettere l’enorme verità nascosta in essi. Non potevo capirla. Ricordo bene che ero solito dirle che non volevo mangiare il pane del dolore o trascorrere alcuna notte a piangere e ad aspettare un’alba ancora più amara. Non avevo ancora idea che era una delle cose speciali che le Parche avevano in serbo per me; che anzi per un intero anno della mia vita avrei fatto poco altro. Ma questo era ciò che mi era toccato in sorte; e durante gli ultimi mesi, dopo lotte e difficoltà terribili, sono riuscito a comprendere qualcuna delle lezioni celate nell’intima essenza del dolore. I sacerdoti e le persone che usano frasi senza giudizio a volte parlano della sofferenza come di un mistero; si tratta, piuttosto, di una rivelazione. Si percepiscono cose che non si sono mai percepite prima. Ci si accosta alla globalità della storia da un punto di vista diverso. Ciò che dell’Arte era stato avvertito in modo vago tramite l’istinto, viene compreso intellettualmente ed emotivamente con perfetta chiarezza di visione e assoluta profondità di percezione.

Capisco ora che il dolore, essendo l’emozione più alta di cui l’uomo è capace, è allo stesso tempo il modello e la riprova di tutta la grande Arte. Quello che l’artista cerca incessantemente è quel tipo di esistenza in cui il corpo e l’anima sono una cosa sola e indivisibile, in cui l’esterno è espressione dell’interno e la Forma è rivelatrice. Di questi tipi di esistenza ce ne sono vari: la giovinezza e le arti che con essa hanno a che fare possono servirci da modello in un dato momento; in un altro può farci piacere pensare che nella sua sottigliezza e ricettività di impressione, nel suo rimandare a uno spirito che dimora nelle cose esterne e che si veste assieme di terra e di aria, di nebbia e di città, e nella morbosa affinità dei suoi umori, dei toni e dei colori, la moderna arte paesaggistica stia creando per noi, nella pittura, quello che venne creato con tanta perfezione plastica dai Greci. La musica, nella quale tutti i temi vengono assorbiti nell’espressione e non possono essere separati, è un esempio complesso, mentre un fiore o un bambino sono un esempio semplice di quello che voglio dire. Ma il Dolore è l’esempio ultimo sia nella Vita che nell’Arte.

Dietro la Gioia e il Riso può esserci un’indole rozza, dura e insensibile. Ma dietro il Dolore c’è sempre il Dolore. La Sofferenza, diversamente dal Piacere non porta maschera. La Verità nell’Arte non esprime alcuna corrispondenza tra l’idea essenziale e l’esistenza accidentale; non è la somiglianza della forma all’ombra, o della forma riflessa nel cristallo alla forma stessa: non è l’Eco che viene da una collina cava, né la fonte di acque argentee nella valle che mostra la Luna alla Luna e Narciso a Narciso. La Verità nell’Arte è l’unità di una cosa con se stessa, l’esteriore fatto espressione dell’interiore, l’anima incarnata, il corpo permeato dallo spirito. Per questo motivo non esiste verità paragonabile al Dolore. Ci sono momenti in cui il Dolore mi sembra la sola verità. Le altre cose possono essere illusioni dell’occhio o della bramosia, fatte per accecare l’uno e nauseare l’altra. Ma dal Dolore sono stati creati i mondi e alla nascita di un bambino o di una stella c’è il Dolore. C’è dell’altro nel Dolore: c’è una realtà intensa, straordinaria. Ho detto di me stesso che ero un uomo che aveva rapporti simbolici con l’arte e la cultura del suo tempo: non c’è neppure un uomo miserevole in questo posto miserevole insieme a me che non abbia rapporti simbolici con il segreto stesso della vita: la sofferenza. È quello che si nasconde dietro ogni cosa. Quando iniziamo a vivere, ciò che è dolce è tanto dolce per noi e ciò che è amaro tanto amaro, che inevitabilmente volgiamo tutti i nostri desideri al piacere e cerchiamo non soltanto «un mese o due di nutrirci di miele»15, ma di non assaggiare nessun altro cibo per tutta la nostra vita ignorando nel frattempo che possiamo realmente affamare l’anima.

Ricordo di aver parlato una volta di quest’argomento con una delle più belle personalità che abbia mai conosciuto: una donna, la cui comprensione e nobile gentilezza nei miei confronti sia prima che dopo la tragedia della mia prigionia sono andate al di là di ogni capacità di descriverle; una donna che mi ha veramente aiutato, pur non sapendolo, a sopportare il carico dei miei problemi più di qualsiasi altro al mondo; e tutto questo per il solo fatto di esistere; per essere ciò che è, in parte un ideale e in parte un influsso, un suggerimento di ciò che si può diventare, oltre che un vero aiuto a diventarlo, un’anima che addolcisce l’aria comune, e fa sembrare ciò che è spirituale semplice e naturale come la luce del sole o il mare, una per cui Bellezza e Dolore camminano mano nella mano e recano lo stesso messaggio. Nell’occasione a cui sto pensando ricordo distintamente di averle detto che in un solo vicoletto di Londra c’era abbastanza sofferenza da dimostrare che Dio non amava l’uomo e che dovunque ci fosse dolore, fosse anche stato solo quello di un bambino che piangeva in un giardinetto per una colpa che aveva o forse non aveva commesso, l’intera faccia del creato ne rimaneva deturpata. Mi sbagliavo. Ella me lo disse ma io non potevo crederle. Non ero nella condizione d’animo in cui si potesse raggiungere una simile convinzione. Ora mi sembra che l’Amore di qualsiasi genere sia l’unica spiegazione possibile della straordinaria quantità di sofferenza che esiste al mondo. Sono convinto che non ce ne siano altre e che, come ho detto, se i mondi sono stati realmente costruiti dal Dolore è stato soltanto attraverso le mani dell’Amore, perché in nessun altro modo l’Anima dell’uomo, per la quale sono stati creati i mondi, avrebbe potuto raggiungere il pieno compimento della propria perfezione. Il Piacere per il bel corpo, ma il Dolore per la bella Anima.

Quando dico di essere convinto di queste cose, parlo con troppo orgoglio. Lontano, come una perla perfetta, si può vedere la città di Dio. È così meravigliosa che sembra che un bambino possa arrivarci nel volgere di un giorno d’estate. E difatti un bambino potrebbe farlo. Ma per me, così come sono, la cosa è diversa. Una cosa la si può capire in un solo momento, ma perderla nelle lunghe ore che seguono con i loro passi di piombo. È così difficile mantenersi ad «altezze che l’anima è capace di conquistare»16. Pensiamo nell’Eternità, ma ci muoviamo lentamente nel Tempo: e non c’è bisogno che dica nuovamente di come passi lentamente il tempo per noi che siamo in prigione, né della stanchezza e della disperazione che tornano a insinuarsi nella propria cella, e nella cella del proprio cuore, con un’insistenza così strana che si deve, per così dire, adornare e spazzare la propria casa per la loro venuta, come per un ospite indesiderato, o per un padrone sgradevole, o per uno schiavo di cui per scelta o per caso si sia divenuti schiavi. E, sebbene ora tu possa trovarlo difficile da credere è nondimeno vero che per te che vivi libero, nell’indolenza e negli agi, è più facile apprendere la lezione dell’Umiltà che non per me, che inizio la giornata in ginocchio lavando il pavimento della mia cella. Perché la vita del carcere con le sue infinite privazioni e restrizioni ci rende ribelli. Il suo aspetto più terribile non è che ci spezzi il cuore – i cuori sono fatti per essere spezzati – ma che lo tramuti in pietra. A volte si ha la sensazione che soltanto con la faccia di bronzo e con il disprezzo sulle labbra si riuscirà ad arrivare alla fine della giornata. E colui che è in uno stato di ribellione non può ricevere la grazia, per usare la frase che la Chiesa ama tanto – oserei dire la ama a ragione – perché nella vita, come nell’Arte, lo spirito di ribellione occlude i canali dell’anima e lascia fuori l’aria del Paradiso. Tuttavia, semmai da qualche parte dovrò impararle, è qui che devo imparare queste lezioni, e debbo essere colmo di gioia se i miei piedi si trovano sulla retta via, e se il mio viso è rivolto verso «la porta che è detta la bella»17, anche se cadrò molte volte nel fango e spesso nella nebbia mi smarrirò.

Questa vita nuova, come a volte mi piace chiamarla per amore di Dante, non è naturalmente affatto una nuova vita, ma semplicemente il seguito, attraverso lo sviluppo e l’evoluzione, della mia vita precedente. Ricordo, quando ero a Oxford di aver detto a uno dei miei amici – mentre una mattina del giugno precedente alla mia laurea passeggiavamo per i vialetti di Magdalen affollati di uccelli – che volevo mangiare il frutto di tutti gli alberi nel giardino del mondo e che sarei andato in giro per il mondo con quella passione nell’anima, e così infatti feci e così vissi. Il mio unico errore fu di limitarmi in modo tanto esclusivo agli alberi di quello che mi sembrava il lato assolato del giardino e di rifuggire l’altro per la sua ombra e oscurità. Il fallimento, la vergogna, la povertà, il dolore, la disperazione, la sofferenza, anche le lacrime, le parole spezzate che il dolore ci toglie dalle labbra, il rimorso che ci fa camminare in mezzo alle spine, la coscienza che condanna, l’autodenigrazione che punisce, la sofferenza che si copre il capo di cenere, l’angoscia che si sceglie una veste di sacco e versa fiele nella propria bevanda: tutte queste erano le cose di cui avevo paura. E poiché ero deciso a non conoscerne alcuna, fui costretto ad assaggiarle tutte, una dopo l’altra, a nutrirmi di loro, anzi, per un certo periodo a non avere altro cibo.

Non rimpiango per un solo momento di aver vissuto per il piacere. L’ho fatto fino in fondo, come si dovrebbe fare fino in fondo tutto ciò che si fa. Non ci fu piacere che non sperimentai. Gettai la perla della mia anima in una coppa di vino. Scesi per la via del piacere al suono del flauto. Vissi di favi di miele, ma aver continuato la stessa vita sarebbe stato un errore poiché sarebbe stato restrittivo. Dovevo passare oltre. Anche l’altra metà del giardino aveva i suoi segreti per me. Naturalmente tutto ciò è presagito e prefigurato nella mia arte. Lo puoi trovare, parte ne Il Principe Felice, ne Il Giovane Re, principalmente nel brano in cui il vescovo dice al ragazzo inginocchiato: «non è Lui quello che rese l’infelicità più saggia di te?». Una frase che, quando la scrissi, mi sembrò poco più di una frase; molto di essa è nascosto nel segno del Destino che, come un filo purpureo, corre attraverso il tessuto d’oro del Dorian Gray, ne Il Critico come Artista è esposto in molti colori, ne L’Anima dell’Uomo è scritto in modo semplice e con lettere fin troppo facili da leggere, è uno dei ritornelli i cui motivi ricorrenti rendono Salomé tanto simile a un brano musicale e la tengono insieme come una ballata, è incarnato nella poesia in prosa dell’uomo che, dal bronzo dell’immagine del «piacere che vive per un momento» deve ricavare l’immagine del «Dolore che dimora per sempre»18. Non avrebbe potuto essere altrimenti. In ogni singolo istante della propria vita si è ciò che si sarà non meno di ciò che si è stato. L’Arte è un simbolo perché l’uomo è un simbolo.

Questa è, se potrò attuarla pienamente, la realizzazione ultima della vita artistica. Perché la vita artistica è semplicemente lo sviluppo di se stessi. L’umiltà per l’artista sta nella sua schietta accettazione di tutte le esperienze, come l’Amore per l’artista è semplicemente quel senso della Bellezza che rivela corpo e anima al mondo. In Mario l’Epicureo Pater cerca di conciliare la vita artistica con la vita religiosa nel senso profondo, dolce e austero della parola. Ma Mario è poco più di uno spettatore: a dire il vero uno spettatore ideale, al quale è concesso «contemplare lo spettacolo della vita con emozioni appropriate», cosa che Wordsworth definisce il vero fine del poeta; tuttavia un semplice spettatore, e forse un po’ troppo preso dalla bellezza dei vasi del Santuario per rendersi conto che sta guardando il Santuario del Dolore.

Vedo un rapporto molto più intimo e diretto tra la vera vita di Cristo e la vera vita dell’artista, e provo un profondo piacere nel riflettere sul fatto che, molto tempo prima che il Dolore avesse fatto suoi i miei giorni e mi avesse legato alla sua ruota, io avevo scritto ne L’Anima dell’Uomo che colui che avesse condotto una vita simile a quella di Cristo avrebbe dovuto essere completamente e assolutamente se stesso, e avevo preso a miei modelli non soltanto il pastore sul colle e il prigioniero nella cella, ma anche il pittore per il quale il mondo è uno spettacolo drammatico e il poeta per il quale il mondo è una canzone. Ricordo di aver detto una volta ad André Gide, mentre eravamo seduti insieme in un caffè a Parigi, che mentre non mi interessavo che poco alla Metafisica e per niente all’Etica, non c’era nulla che Platone o Cristo avessero detto che non poteva essere trasferito immediatamente nella sfera dell’Arte e trovarvi completa realizzazione. Era una generalizzazione tanto profonda quanto nuova.

E non si tratta soltanto di riconoscere in Cristo quella stretta unione di personalità e perfezione che costituisce la vera differenza tra l’Arte classica e romantica e fa di Cristo il vero precursore del movimento romantico nella vita, ma il fondamento stesso della sua natura era lo stesso della natura dell’artista: un’immaginazione intensa come una fiamma. Egli realizzò in tutta la sfera dei rapporti umani quella comunanza immaginativa che, nella sfera dell’Arte, è l’unico segreto della creazione. Egli comprese la lebbra del lebbroso, l’oscurità del cieco, la feroce sofferenza di coloro che vivono per il piacere, la strana povertà del ricco. Ora puoi capire, non è vero? che quando mi scrivesti, mentre ero nei guai: «Quando non sei sul tuo piedistallo non sei interessante. La prossima volta che starai male me ne andrò via subito»; eri tanto lontano dalla vera indole dell’artista come lo eri da ciò che Matthew Arnold chiama «il segreto di Gesù». Entrambi ti avrebbero potuto insegnare che qualsiasi cosa accada a un altro accade a noi stessi, e se vuoi un epitaffio da leggere all’alba e di notte per piacere o per dolore, scrivi sul muro della tua casa in lettere che il sole indori e che la luna inargenti «Qualsiasi cosa accade a un altro accade a noi stessi» e, se qualcuno dovesse chiederti cosa mai possa voler dire un simile epitaffio, tu puoi rispondere che significa «il cuore di Cristo Signore e il cervello di Shakespeare».

Il posto di Cristo è infatti tra i poeti. La sua idea di Umanità nell’insieme derivò proprio dalla sua immaginazione e solo essa può realizzarla. Quello che Dio fu per i Panteisti, l’uomo lo fu per lui. Egli fu il primo a concepire come un’unità le razze divise. Prima della sua venuta c’erano stati dèi e uomini. Egli solo vide che sulle colline della vita non c’erano che Dio e Uomo e, sentendo che tutti erano stati incarnati in lui attraverso il misticismo della comunanza, chiama se stesso il Figlio dell’Uno o il figlio dell’altro, a seconda del suo stato d’animo. Più di qualsiasi altro nel corso della storia egli risveglia in noi quella disposizione al mirabile alla quale si richiama sempre la Poesia. Per me c’è tuttavia qualcosa di quasi incredibile nell’idea di un giovane contadino della Galilea che immagini di poter portare sulle proprie spalle il fardello del mondo; tutto quello che era già stato commesso e subìto, e tutto quello che doveva ancora essere commesso e patito: i peccati di Nerone, di Cesare Borgia, di Alessandro VI, e di colui che fu Imperatore di Roma e Sacerdote del Sole19, le sofferenze di coloro il cui nome è Legione e la cui dimora è in mezzo alle tombe20, nazionalità oppresse, bambini nelle fabbriche, ladri, carcerati, reietti, coloro che sono muti sotto l’oppressione e coloro il cui silenzio è udito soltanto da Dio; non soltanto immaginando ciò, ma di fatto realizzandolo, cosicché attualmente tutti coloro che vengono in contatto con la sua personalità, anche se non si inchinano davanti al suo altare né si inginocchiano davanti al suo sacerdote, tuttavia in qualche modo trovano che la macchia dei propri peccati è cancellata e viene rivelata loro la bellezza del dolore.

Ho detto di lui che il suo posto è fra i poeti. È vero. Shelley e Sofocle sono suoi compagni. Ma anche tutta la sua vita è il più meraviglioso dei poemi. Per quanto riguarda «pietà e terrore», non c’è nulla nell’intero ciclo della tragedia greca che vi si avvicini. La purezza assoluta del protagonista innalza l’intero schema a una vetta di arte romantica dalla quale sono escluse le sofferenze della «stirpe di Tebe e Pelope» per il loro stesso orrore e mostra come Aristotele si sbagliasse quando, nel suo trattato sul Teatro, disse che sarebbe impossibile sopportare lo spettacolo di un innocente tormentato. Né in Eschilo né in Dante, severi maestri di dolcezza, né in Shakespeare, il più puramente umano di tutti i grandi artisti, né in tutta la mitologia e le leggende celtiche, nelle quali la bellezza del mondo viene mostrata attraverso un velo di lacrime e la vita dell’uomo non è nulla di più della vita di un fiore, c’è qualcosa che nella pura semplicità di pathos combinata e fatta una con sublimità di effetto tragico, si possa dire che eguagli o anche si avvicini all’ultimo atto della Passione di Cristo. La povera cena con i suoi compagni, uno dei quali lo aveva già venduto per denaro, l’angoscia nell’orto degli ulivi, silenzioso e illuminato dalla luna; il falso amico che gli si avvicina per poterlo tradire con un bacio; l’amico che ancora credeva in lui e sul quale, come su una roccia, egli aveva sperato di costruire una Casa di Rifugio per l’Uomo, lo rinnegò quando il gallo cantò all’alba, la sua assoluta solitudine, la sua sottomissione, il suo accettare tutto, e insieme a tutto ciò scene come quella del gran sacerdote dell’Ortodossia che si strappa le vesti per la collera; e il Magistrato della Giustizia Civile che chiede acqua nella speranza vana di lavarsi di quella macchia di sangue innocente che fa di lui la figura scarlatta della Storia; la cerimonia di incoronazione del Dolore, una delle scene più belle delle cronache di tutti i tempi, la crocifissione dell’Innocente davanti agli occhi di sua madre e del discepolo che egli amava; i soldati che si giocavano a dadi le sue vesti; la terribile morte, per mezzo della quale egli diede al mondo il suo simbolo più eterno; e la sua sepoltura finale nella tomba del ricco, avvolto di lini egizi con spezie e profumi costosi come se fosse stato il figlio di un Re – se si contempla tutto ciò solo dal punto di vista dell’Arte non si può che essere grati che il supremo ufficio della Chiesa debba essere la rappresentazione della tragedia della Passione del Signore senza lo spargimento di sangue, la presentazione mistica per mezzo del dialogo, del costume e dei gesti; ed è sempre una fonte di piacere e di stupore per me ricordare che la sopravvivenza ultima del coro greco, altrove persa nell’arte, si possa ritrovare in colui che serve e risponde al prete durante la Messa.

Tuttavia l’intera vita di Cristo – a tal punto Dolore e Bellezza sono totalmente unificati sia nel loro significato che nella loro manifestazione – è realmente un idillio, sebbene finisca con il velo del tempio squarciato, l’oscurità su tutta la terra e la pietra spinta sulla porta del sepolcro. Si pensa sempre a lui come a un giovane sposo con i suoi amici, come in verità egli a volte si descrive, o come a un pastore che vagabondi per le valli con le sue pecore in cerca di prati verdi o di ruscelli freschi, o come un cantore che cerchi di costruire con la musica le mura della città di Dio, o come un amante per il cui amore il mondo intero sia troppo piccolo. I suoi miracoli mi sembrano incantevoli come l’arrivo della Primavera, e altrettanto naturali. Non trovo alcuna difficoltà a credere che il fascino della sua personalità fosse tale che la sua sola presenza potesse portare pace alle anime angustiate e che coloro che toccavano le sue vesti o le sue mani dimenticassero il loro dolore o che, mentre passava sulla strada maestra della vita, la gente che non aveva visto nulla dei misteri della vita li vedesse chiaramente, e altri che erano stati sordi a ogni voce eccetto che a quella del Piacere udissero per la prima volta la voce dell’Amore e la trovassero «musicale come il liuto di Apollo»21, o che le cattive passioni fuggissero al suo avvicinarsi e uomini la cui vita noiosa e priva di immaginazione non era stata che una specie di morte si alzassero come dal sepolcro quando egli li chiamava, o che quando insegnava sulla montagna, la moltitudine dimenticasse la fame, la sete e le preoccupazioni di questo mondo, e che agli amici che lo ascoltavano quando egli era a tavola, il rozzo cibo sembrasse delicato e l’acqua avesse il sapore del buon vino e l’intera casa si riempisse dell’odore e della dolcezza del nardo.

Renan nella sua Vie de Jésus, quel soave Quinto Vangelo, lo si potrebbe chiamare Vangelo secondo San Tommaso, dice da qualche parte che la grande conquista di Cristo fu che riuscì a farsi amare dopo la sua morte tanto quanto durante la vita. E certamente, se il suo posto è tra i poeti, egli è il primo di tutti gli innamorati. Egli comprese che l’amore era il segreto perduto del mondo che i saggi avevano cercato, e che era solo grazie all’amore che ci si poteva avvicinare al cuore del lebbroso o ai piedi di Dio.

E soprattutto, Cristo è il supremo Individualista. L’umiltà, come l’accettazione che l’artista mostra per tutte le esperienze, è semplicemente un modo di manifestarsi. È l’anima dell’uomo che Cristo continua a cercare. Egli la chiama «Il Regno di Dio» – ^h basileía to˜y weo˜y – e la trova in tutti. La paragona a piccole cose, a un minuscolo seme, a una manciata di lievito, a una perla. E questo perché si conosce la propria anima soltanto disfacendosi di tutte le passioni estranee, di tutta la cultura acquisita e di tutti i possessi estranei, siano essi buoni o cattivi.

Sopportai ogni cosa, in parte con caparbia volontà e ancor di più per la mia natura ribelle, finché non mi restò niente altro al mondo tranne Cyril. Avevo perso nome, posizione, felicità, libertà e ricchezza. Ero prigioniero e povero, ma mi era rimasta ancora una cosa bellissima: il mio figlio maggiore. All’improvviso mi fu sottratto dalla legge. Fu un colpo così terribile che non sapevo cosa fare, così mi buttai in ginocchio, chinai la testa, piansi e dissi: «il corpo di un bimbo è come il corpo del Signore: non sono degno dell’uno né dell’altro». Fu quello il momento che mi salvò. Allora vidi che l’unica cosa per me era accettare tutto. Da allora in poi – per quanto senza dubbio possa sembrarti curioso – sono stato più felice. Quello che avevo raggiunto era ovviamente l’intima essenza della mia anima; per molti versi le ero stato nemico, ma la trovai che mi aspettava come un amico. Quando si viene in contatto con la propria anima si diventa semplici come bambini, come Cristo disse che si dovrebbe essere.

È tragico come siano poche le persone che «posseggano la propria anima»22 prima di morire. «Niente è più raro in un uomo», dice Emerson, «di una sua azione». È vero, la maggior parte delle persone sono altre persone. I loro pensieri sono le opinioni di qualcun altro, la loro vita una parodia, le loro passioni una citazione. Cristo non fu soltanto l’Individualista supremo, ma il primo nella Storia. Hanno tentato di farne un comune Filantropo, come i terribili filantropi del diciannovesimo secolo, o lo hanno classificato come un Altruista insieme ai sentimentali e agli irrazionali. Ma in realtà egli non fu né l’uno né l’altro. Naturalmente ha compassione per i poveri, per coloro che sono rinchiusi nelle prigioni, per gli umili, i miserabili, ma ha di gran lunga più pietà per i ricchi, per gli accaniti Edonisti, per coloro che sprecano la propria libertà diventando schiavi delle cose, per coloro che indossano morbide vesti e vivono in case da Re. Ricchezze e Piaceri sembravano a lui tragedie veramente più grandi della Povertà e del Dolore. Quanto all’Altruismo, chi sapeva meglio di lui che è la vocazione, non la volizione che ci determina, e che non si può raccogliere uva dalle spine o fichi dai cardi?

Vivere per gli altri come scopo consapevole e definito non era il suo credo, non era la base del suo credo. Quando egli dice: «perdona i tuoi nemici», non lo dice per il bene dei nemici ma per il proprio e perché l’Amore è più bello dell’Odio. Nella sua invocazione al giovane che, nel guardare amava: «vendi tutto ciò che hai e dallo ai poveri», non è alla condizione del povero che sta pensando, ma all’anima del giovane, la bella anima che la ricchezza stava guastando. Nella sua concezione della vita egli concorda con l’artista, il quale sa che per l’inevitabile legge del perfezionamento di sé, il poeta deve cantare, lo scultore pensare con il bronzo, il pittore fare del mondo uno specchio dei propri stati d’animo, con la stessa ineluttabilità e certezza del biancospino che fiorisce in Primavera e del grano che si indora nel periodo della raccolta, e della Luna che nel suo vagabondare stabilito muta da scudo in falce e da falce in scudo.

Ma mentre Cristo non disse agli uomini «vivete per gli altri», fece notare che non c’era alcuna differenza tra le vite degli altri e la propria. In questo modo egli diede all’uomo una personalità potenziata, da Titano. Dalla sua venuta la storia di ogni singolo individuo è o può essere ritenuta la storia del mondo. Naturalmente la Cultura ha rafforzato la personalità dell’uomo. L’Arte ha reso la nostra mente multiforme. Coloro che hanno temperamento artistico vanno in esilio con Dante e apprendono quanto sappia di sale il pane altrui e quanto siano ripide le altrui scale; essi giungono per un attimo alla quieta serenità di Goethe e sanno tuttavia fin troppo bene perché Baudelaire gridasse a Dio:

 

O Seigneur, donnez moi la force et le courage

De contempler mon corps et mon coeur sans dégoût23.

 

Dai sonetti di Shakespeare essi traggono – forse a loro danno – il segreto del suo amore e lo fanno proprio: guardano con occhi nuovi la vita moderna perché hanno ascoltato un notturno di Chopin, o hanno avuto tra le mani antichità greche, o letto la storia della passione di un uomo morto per una donna morta, che aveva i capelli come fili d’oro puro e la bocca come un melograno. Ma l’affinità del temperamento artistico è di necessità legata a ciò che ha trovato espressione. Con le parole o con il colore, con la musica e con il marmo, dietro le maschere dipinte di una tragedia di Eschilo, attraverso le canne forate e unite di qualche pastore siciliano deve rivelarsi l’uomo e il suo messaggio.

Per l’artista, l’espressione è il solo e unico modo di concepire la vita. Per lui tutto ciò che è muto è morto. Ma per Cristo non era così. Con un’ampiezza e un prodigio di immaginazione che quasi ci riempie di sacro timore egli prese l’intero mondo dell’inarticolato, il mondo muto del dolore come suo regno e se ne fece eterno portavoce. Egli scelse come suoi fratelli quelli di cui ho parlato, coloro che sono muti sotto l’oppressione e «il cui silenzio è udito soltanto da Dio». Egli cercò di diventare occhi per il cieco, orecchi per il sordo e grido sulle labbra di coloro la cui lingua era stata serrata. Il suo desiderio era di essere la tromba con cui potessero arrivare al cielo le moltitudini che mai avevano avuto voce. Percepiva, inoltre, con la natura artistica di una persona per cui il Dolore e la Sofferenza erano modi attraverso i quali poter realizzare la propria concezione del Bello, che un’idea non ha alcun valore fino a che non si incarna e non si fa immagine; egli fa di se stesso l’immagine dell’Uomo dei Dolori, e come tale ha incantato e dominato l’Arte come nessun dio greco era mai riuscito a fare.

Perché gli dèi greci, nonostante il bianco e il rosso delle loro belle, agili membra, non erano in realtà quello che sembravano essere. La fronte curva di Apollo era come il disco del sole che sorge all’alba sopra una collina e i suoi piedi erano come le ali del mattino, ma egli stesso era stato crudele con Marsia e aveva privato Niobe dei suoi figli; negli scudi d’acciaio degli occhi di Pallade non c’era stata pietà per Aracne; la pompa e i pavoni di Era erano la sua sola, vera, nobiltà; e lo stesso Padre degli dèi aveva amato troppo le figlie degli uomini. Le due figure profondamente suggestive della mitologia greca furono per la religione Demetra, dea della terra e non dell’Olimpo e per l’arte Dioniso, il figlio di una donna mortale per la quale il momento della nascita di lui si rivelò anche il momento della propria morte.

Ma la Vita stessa, dalla sua sfera più bassa e umile, produsse qualcuno di gran lunga più prodigioso della madre di Proserpina o del figlio di Semele. Dalla bottega del carpentiere di Nazareth era uscita una personalità infinitamente più grande di qualsiasi altra costruita dal mito o dalla leggenda, e destinata, cosa abbastanza strana, a rivelare al mondo il significato mistico del vino e la vera bellezza dei gigli del campo come nessuno, né sull’Etna né sul Citerone, aveva mai fatto.

Il canto di Isaia: «Egli è disprezzato e reietto fra gli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia»24, gli era sembrato una prefigurazione di se stesso, e la profezia trovò in lui il suo adempimento. Una frase del genere non deve spaventarci. Ogni singola opera d’arte è l’adempimento di una profezia perché ogni opera d’arte è il convertirsi di un’idea in un’immagine. Ogni singolo essere umano dovrebbe essere l’adempimento di una profezia; perché ogni essere umano dovrebbe essere il realizzarsi di un ideale, o nella mente di Dio o in quella dell’uomo. Cristo ne trovò il tipo e lo fissò, e il sogno di un poeta virgiliano, a Gerusalemme come a Babilonia, si incarnò, nel lungo cammino dei secoli, in colui che il mondo aspettava. «Tanto era sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto e diversa la sua forma da quella dei figli dell’uomo»25; sono i tratti che Isaia considerava caratteristici del nuovo ideale, e non appena l’Arte comprese ciò che significava, si dischiuse come un fiore alla presenza di colui nel quale la verità nell’Arte si era spiegata come mai prima. Perché la verità nell’Arte non è forse, come ho detto, «ciò in cui l’esteriore è espressione dell’interiore; in cui l’anima è fatta carne, e il corpo istinto dotato di spirito: in cui la Forma si rivela»?

Secondo me una delle cose di cui ci si debba maggiormente dolere nella storia è che il rinascimento stesso di Cristo, che ha prodotto la Cattedrale di Chartres, il ciclo delle leggende arturiane, la vita di San Francesco d’Assisi, l’arte di Giotto e la Divina Commedia di Dante, non abbia avuto la possibilità di svilupparsi su linee proprie ma sia stato interrotto dall’arido Rinascimento classico che ci ha dato Petrarca e gli affreschi di Raffaello, l’architettura palladiana, la formale tragedia francese, la Cattedrale di San Paolo, la poesia di Pope e quant’altro viene fatto dal di fuori e con regole morte, e non sgorga dal di dentro per mezzo di qualche spirito che lo pervada. Ma dovunque ci sia un movimento romantico nell’Arte, lì in qualche modo e sotto qualche forma, c’è Cristo, o l’anima di Cristo. Egli è in Romeo e Giulietta, nel Racconto d’inverno, nella poesia provenzale, nella Ballata del vecchio marinaio, ne La Belle Dame sans Merçi, e nella Ballata della Carità di Chatterton.

A lui dobbiamo le cose e le persone più diverse. I miserabili di Victor Hugo, I fiori del male di Baudelaire, la nota di pietà dei romanzi russi, i vetri istoriati e gli arazzi e i lavori quattrocenteschi di Burne-Jones e di Morris; Verlaine e le poesie di Verlaine gli appartengono non meno della Torre di Giotto, di Lancillotto e Ginevra, del Tannhäuser, dei tormentati marmi romantici di Michelangelo, dell’architettura gotica, e dell’amore per i bambini e per i fiori: per entrambi i quali, a dire il vero, nell’arte classica ci fu ben poco spazio, appena sufficiente perché crescessero o giocassero; tuttavia, dal dodicesimo secolo fino ai nostri giorni sono sempre stati presenti nell’arte, in modi e tempi diversi, comparendo intenzionalmente e in tempi dovuti come è dei bambini e dei fiori. In primavera sembra sempre come se i fiori si fossero nascosti e fossero apparsi nel sole soltanto perché avevano paura che gli adulti si sarebbero stancati di cercarli e avrebbero smesso la ricerca, e la vita di un bambino non è altro che una giornata di aprile in cui al narciso tocca in sorte pioggia e sole.

Ed è proprio la qualità immaginativa della natura stessa di Cristo che fa di lui il centro palpitante del romanticismo. Gli strani personaggi del dramma poetico e della ballata vengono creati dall’immaginazione altrui, ma Gesù di Nazareth creò se stesso completamente dalla propria immaginazione. Il lamento di Isaia in realtà non aveva più a che fare con la sua venuta di quanto il canto dell’usignolo non abbia a che fare con il sorgere della luna, nulla di più, per quanto forse non di meno. Egli era insieme negazione e inveramento della profezia. Per ogni aspettativa che realizzava ce n’era un’altra che andava vanificata. Bacone diceva che in ogni cosa bella c’è «una qualche incongruenza di proporzioni»26, e di coloro che nascono dallo Spirito, di coloro, cioè, che come lui stesso sono forze dinamiche, Cristo dice che sono come il vento che «soffia dove vuole, ma non sai di dove viene e dove va»27. Questo è il motivo del suo fascino sugli artisti. Possiede tutti gli elementi che danno colore alla vita. Il mistero, la diversità, il pathos, la suggestione, l’estasi, l’amore. Egli fa presa sulla qualità dello stupore e crea quello stato d’animo che solo permette di comprenderlo.

Ed è per me una gioia ricordare che, se egli è «intessuto di immaginazione»28, il mondo stesso è di uguale sostanza. Ho detto nel Dorian Gray che i grandi peccati del mondo avvengono nel cervello, ma ogni cosa avviene nel cervello. Noi sappiamo ora che non vediamo con l’occhio, né sentiamo con le orecchie. Essi sono semplicemente dei canali di trasmissione, adeguati o inadeguati, delle impressioni dei sensi. È nel cervello che il papavero è rosso, la mela profumata, l’allodola canta. Di recente sto studiando con una certa applicazione i quattro poemi in prosa su Cristo. A Natale sono riuscito a impossessarmi di un Nuovo Testamento in greco e tutte le mattine, dopo aver pulito la mia cella e lucidato le mie pentolette, leggo un po’ dei Vangeli, una dozzina di versetti presi a caso; è un modo delizioso di iniziare la giornata. Sarebbe fondamentale che anche tu, con la vita turbolenta e disordinata che conduci, facessi lo stesso. Ti farebbe benissimo e il greco è assai semplice. La ripetizione incessante che ne viene fatta sia in ambito liturgico che fuori ci ha sottratto l’ingenua immediatezza, la freschezza, il fascino semplice e romantico dei Vangeli. Li sentiamo letti troppo spesso e troppo male e le ripetizioni sono contrarie alla spiritualità. Tornare al greco è come entrare in un giardino di gigli venendo da una casa buia e angusta.

E per me il piacere è raddoppiato dal pensiero che è estremamente probabile che usiamo le parole reali, le ipsissima verba, usate da Cristo. Si è sempre pensato che Cristo parlasse in aramaico, lo pensava anche Renan. Ma noi ora sappiamo che i contadini della Galilea, come i contadini irlandesi di oggi erano bilingui, e che il greco era la lingua comune della conversazione ordinaria in tutta la Palestina, come in tutto l’Oriente. Non mi è mai piaciuta l’idea che noi conoscessimo le parole di Cristo soltanto attraverso la traduzione di una traduzione. Costituisce per me una gioia pensare che, per quanto riguarda lasua conversazione, Carmide avrebbe potuto ascoltarlo e Socrate ragionare con lui e Platone comprenderlo: che dicesse davvero ἐγώ εἰμι ὁ ποιμὴν ὁ καλός; che quando pensava ai gigli del campo e a come non faticassero e non filassero, quello che realmente diceva era καταμάθετε τά κρίνα τοῦ ἀγροῦ, πῶς αὐξάνει οὐ κοπιᾶ οὐ δέ νήθει, e che la sua ultima parola, quando gridò: «la mia vita si è completata, ha raggiunto il suo adempimento e si è compiuta», erano esattamente quelle che San Giovanni ci dice: tetélestai: nulla più.

E nel leggere i Vangeli – in particolare quello di San Giovanni, o di chiunque dei primi gnostici abbia preso il suo nome e il suo mantello – vedo che si ribadisce continuamente che l’immaginazione era la base della vita materiale e spirituale, vedo anche che per Cristo l’immaginazione era semplicemente una forma di Amore, e che per lui l’Amore era Signore nel senso pieno della parola. Circa sei settimane fa il medico mi diede il permesso di mangiare il pane bianco invece del pane nero o scuro non lavorato del vitto ordinario del carcere. È una vera prelibatezza. A te può suonare strano che il pane secco possa sembrare a qualcuno una prelibatezza. Ti assicuro che per me lo è, tanto che alla fine di ogni pasto mangio con cura tutte le briciole che sono rimaste sul mio piatto di stagno o sono cadute sullo strofinaccio che si usa come tovaglia per non insudiciare il tavolo; e non lo faccio per fame – ora ho cibo a sufficienza – ma semplicemente perché niente di ciò che mi viene dato vada sprecato. Allo stesso modo ci si dovrebbe comportare con l’Amore.

Cristo, come tutte le personalità carismatiche, aveva il potere non soltanto di dire egli stesso cose belle, ma anche di farsene dire dagli altri e mi piace la storia che ci racconta San Marco della donna greca – la γυνή Ελληνίς – la quale, quando egli come prova di fede disse che non poteva darle il pane dei figli di Israele, gli rispose che i cagnolini – κυνάρια, dovrebbe essere reso con «cagnolini» – che stanno sotto al tavolo mangiano le molliche che i bambini fanno cadere29. La maggior parte delle persone vive per l’amore e l’ammirazione. È invece attraverso l’amore e l’ammirazione30 che noi dovremmo vivere. Se ci viene dimostrato amore dovremmo riconoscere di non esserne affatto degni; nessuno è degno di essere amato. Il fatto che Dio ami l’uomo dimostra che nell’ordine divino delle cose ideali c’è scritto che l’amore eterno deve essere dato a ciò che è eternamente indegno; o, se questa frase ti sembra amara da ascoltare, permetti che io dica che tutte le persone sono degne di amore tranne colui che pensa di esserlo. L’Amore è un sacramento che dovrebbe essere ricevuto in ginocchio e la frase Domine, non sum dignus dovrebbe essere sulle labbra e nei cuori di coloro che lo ricevono. Vorrei che qualche volta tu ci pensassi, ne hai tanto bisogno.

Semmai dovessi scrivere ancora, nel senso di produrre un’opera d’arte, ci sono soltanto due argomenti sui quali e attraverso i quali desidero esprimermi: uno è «Cristo come precursore del movimento romantico nella vita», l’altro «la vita Artistica considerata nel suo rapporto con la Condotta». Il primo, naturalmente, è estremamente affascinante in quanto io vedo in Cristo non soltanto gli elementi essenziali del supremo tipo romantico, ma tutti gli attributi, anche l’intenzionalità, del temperamento romantico. Egli fu il primo a dire alla gente di vivere una vita «come quella dei fiori». Egli coniò l’espressione. Prese i bambini a modello di ciò che gli uomini dovrebbero cercare di diventare. Li mostrò come esempi agli adulti. E io stesso ho pensato che questa dovesse essere la funzione principale dei bambini, ammesso che le cose perfette debbano averne una. Dante descrive l’anima di un uomo uscita dalla mano di Dio «piangendo e ridendo come una bambina» e anche Cristo pensò che l’anima di ognuno dovesse essere «a guisa di fanciulla che piangendo e ridendo pargoleggia»31. Egli sentiva che la vita era mutevole, fluida, attiva e che permettere che venisse stereotipata in una qualsiasi forma equivaleva alla morte. Si rese conto che l’uomo non dovrebbe prendere troppo sul serio gli interessi materiali ordinari; che non avere senso pratico era una gran cosa; che non ci si dovrebbe preoccupare troppo degli affari. «Gli uccelli non lo fanno, perché dovrebbe farlo l’uomo?» È incantevole quando dice: «Non affannatevi dunque per il domani. L’anima non è forse più della carne? Il corpo non è forse più del vestito?»32. Quest’ultima frase avrebbe potuto pronunciarla un greco; è pervasa di sentimento greco. Ma soltanto Cristo avrebbe potuto dirle entrambe, e riassumere in modo tanto perfetto per noi la vita.

La sua moralità è tutta partecipazione, proprio come dovrebbe essere la moralità. Se anche l’unica cosa che egli avesse detto fosse stata: «I suoi peccati le sono perdonati perché molto ha amato», sarebbe valsa la pena di morire per averla detta. La sua giustizia è una giustizia totalmente poetica, proprio come dovrebbe essere la giustizia. Il mendicante va in cielo perché era stato infelice. Non riesco a trovare una ragione migliore perché vi sia stato mandato. Coloro che lavorano per un’ora nel vigneto al fresco della sera prendono esattamente lo stesso compenso di coloro che avevano lavorato lì per tutto il giorno sotto il sole cocente. Perché non dovrebbero? Probabilmente nessuno merita nulla. O forse erano persone diverse. Cristo non tollerava i sistemi meccanici, stupidi e inanimati che trattano le persone alla stregua di cose, e di conseguenza tutti allo stesso modo: come se nessuna persona o nessuna cosa fosse simile a niente altro al mondo. Per lui non c’erano leggi, ma semplicemente eccezioni.

Questa, che è proprio la nota chiave dell’arte romantica, era per lui la retta base della vera vita. Non trovava altre basi. E quando gli portarono una donna colta nell’atto stesso dell’adulterio e gli mostrarono la condanna adatta a lei scritta nella Legge e gli chiesero che cosa si dovesse fare, egli scrisse col dito per terra come se non li sentisse, e alla fine, dopo che lo avevano ripetutamente costretto, alzò lo sguardo e disse: «Chi di voi è senza peccato scagli la prima pietra». Valeva la pena di vivere per aver detto questo.

Come tutte le nature poetiche, egli amava gli ignoranti. Sapeva che nell’anima di un ignorante c’è sempre spazio per una grande idea. Ma non riusciva a sopportare gli stupidi, soprattutto coloro che la cultura ha reso stupidi – persone piene di opinioni, nessuna delle quali riescono a comprendere; un personaggio, questo, singolarmente moderno, riassunto da Cristo nella descrizione del carattere di colui che ha la chiave della conoscenza, non sa usarla, e non permette che altri la usino, sebbene sia fatta per aprire la porta del Regno di Dio.

La sua guerra più dura fu contro i filistei. Questa è la guerra contro cui devono misurarsi tutti i figli della luce. Il filisteismo era la nota tipica dell’epoca e della comunità nella quale egli viveva. Nella loro tetra inaccessibilità alle idee, nella loro opaca rispettabilità, nella loro tediosa ortodossia, l’adorazione del volgare successo, la preoccupazione esclusiva del lato grossolanamente materialistico della vita e nella loro ridicola stima di se stessi e della propria importanza, i giudei di Gerusalemme al tempo di Cristo erano l’esatta controparte dei filistei britannici del nostro tempo. Cristo scherniva i «sepolcri imbiancati» della rispettabilità, e la frase rimase così fissata, per sempre. Considerava il successo mondano con il disprezzo più completo: non ci trovava assolutamente nulla. Egli considerava la ricchezza un impedimento per l’uomo. Non voleva saperne della vita sacrificata a un qualsivoglia sistema di pensiero o di morale. Fece notare che le convenzioni e le cerimonie erano fatte per l’uomo, non l’uomo per le convenzioni e le cerimonie. Prese il culto del sabato a modello delle cose che non si dovevano fare. Espose con implacabile e totale disprezzo i freddi atti filantropici, le ostentate opere di carità pubbliche, i tediosi formalismi tanto cari alla mentalità della classe media. Per noi ciò che viene chiamata ortodossia è semplicemente una facile, ottusa acquiescenza, ma per loro e nelle loro mani fu una tirannia terribile e paralizzante. Cristo la spazzò via. Mostrò che soltanto lo spirito contava. Si prese il sottile piacere di far notare loro che, sebbene stessero sempre a leggere la Legge e i Profeti, in realtà non avevano la minima idea di quello che volessero dire. Opponendosi alla loro consuetudine di frazionare ogni singola giornata in una routine fissa di doveri stabiliti, come frazionavano la menta e la ruta, egli predicò l’enorme importanza di vivere in modo completo in ogni momento.

Coloro che egli salvò dai loro peccati sono salvi semplicemente per i bei momenti della propria vita. Maria Maddalena alla vista di Cristo rompe il ricco vaso di alabastro che le ha donato uno dei suoi sette amanti e versa le spezie odorose sopra i piedi di lui stanchi e pieni di polvere, e grazie a quell’unico momento si trova assisa per sempre con Ruth e Beatrice tra i petali della nivea Rosa del Paradiso. Tutto ciò che Cristo ci dice con un piccolo ammonimento è che ogni momento dovrebbe essere bello, che l’anima dovrebbe sempre essere pronta per la venuta dello Sposo e sempre attendere la voce dell’Amato. Visto che il filisteismo è semplicemente quel lato della natura umana che non è illuminato dall’immaginazione, egli considera tutte le buone influenze della vita come espressioni della Luce; l’immaginazione stessa è la luce del mondo τὸ φῶς τοῦ κόσμου; il mondo è fatto di essa, e tuttavia non può comprenderla perché l’immaginazione è semplicemente una manifestazione dell’Amore, e l’amore e la capacità di amare sono ciò che distingue uno dall’altro gli esseri umani.

Ma è quando ha a che fare con il Peccatore che è più romantico, nel senso di ancor più vero. Il mondo aveva sempre amato i santi come possibile punto di massima vicinanza alla perfezione di Dio. Cristo, attraverso qualche divino istinto che è in lui, sembra aver sempre amato il peccatore come possibile punto di massima vicinanza alla perfezione dell’uomo. Il suo principale desiderio non era migliorare gli uomini, né alleviare la sofferenza. Il suo scopo non era trasformare un ladro interessante in un noioso onest’uomo. Non avrebbe tenuto in grande considerazione la Società per il Soccorso ai Carcerati e altri analoghi moderni movimenti. La conversione di un pubblicano in un fariseo non gli sarebbe parsa in alcun modo un gran risultato. Ma, in un modo che il mondo ancora non comprende, egli considerava il peccato e la sofferenza belli in se stessi, cose sacre, e espressioni della perfezione. Sembra un’idea molto pericolosa. In effetti lo è. Tutte le grandi idee sono pericolose. Che essa fosse il credo di Cristo non lascia adito ad alcun dubbio. Che sia il vero credo non lo dubito nemmeno io.

Naturalmente il peccatore deve pentirsi. Perché? Semplicemente perché altrimenti non riuscirebbe a rendersi conto di ciò che ha fatto. Il momento del pentimento è il momento dell’iniziazione. E ancor più, è il momento per mezzo del quale si cambia il proprio passato. I Greci lo ritenevano impossibile. Dicono spesso, nei loro aforismi gnomici: «Nemmeno gli dèi possono cambiare il passato». Cristo mostrò che poteva farlo il più comune dei peccatori, che era la sola cosa che poteva fare. Cristo, se gli fosse stato chiesto, avrebbe detto – ne sono sicuro – che il momento in cui il figliol prodigo cadde in ginocchio e pianse trasformò in eventi belli e sacri della sua vita l’aver sperperato le sue sostanze con le meretrici, l’aver fatto il guardiano dei porci e l’aver bramato le bucce che essi mangiavano. Per la maggior parte della gente è difficile afferrare questo concetto. Oserei dire che si dovrebbe andare in prigione per comprenderlo. Se così è, forse vale la pena andarci.

Nel Cristo c’è qualcosa di così singolare. Naturalmente, come ci sono false aurore prima dell’aurora vera, e giorni d’inverno tanto pieni di sole improvviso da ingannare il saggio croco e fargli dilapidare il suo oro prima del tempo e indurre qualche sciocco uccello a chiamare la sua compagna per costruire il nido su rami spogli, così ci furono cristiani prima di Cristo. Dovremmo essere grati di questo. La sfortuna è che da allora in poi non ve ne sono stati. Faccio un’eccezione: San Francesco d’Assisi. Ma Dio gli aveva dato, alla sua nascita, l’anima di un poeta ed egli, giovanissimo, aveva preso in mistico matrimonio la Povertà come sua sposa; e, con l’anima di un poeta e il corpo di un mendicante, il cammino verso la perfezione non gli parve difficile. Egli comprendeva Cristo, perciò divenne simile a lui. Non occorre il Liber Conformitatum33 per insegnarci che la vita di San Francesco fu la vera Imitatio Christi: un poema al cui paragone il libro che porta quel nome è soltanto prosa. A conti fatti è proprio questo il fascino di Cristo: è egli stesso un’opera d’arte. Non insegna niente a nessuno, ma, con l’essere portati in sua presenza si diventa qualcosa. E, alla sua presenza tutti sono predestinati. Almeno una volta nella propria vita ogni uomo va ad Emmaus con Cristo.

Riguardo all’altro argomento, il rapporto della vita artistica alla condotta, ti sembrerà senza dubbio strano che io lo abbia scelto. La gente indica il carcere di Reading e dice: «Ecco dove porta la vita da artista»; be’, potrebbe portare in posti peggiori. Le persone con un’indole più meccanica, per le quali la vita è un’accorta speculazione basata su un calcolo attento di modi e mezzi, sanno sempre dove stanno andando, e lì si dirigono. Iniziano con il desiderio di essere il sagrestano della parrocchia e, in qualunque sfera siano collocati, riescono ad essere il sagrestano della parrocchia e niente più. Un uomo che desideri essere qualcosa di separato da se stesso: un Membro del Parlamento, o un prospero droghiere, o un avvocato importante, o un giudice, o qualcosa di altrettanto noioso, riesce invariabilmente a essere quello che vuole. Questa è la sua punizione. Coloro che vogliono una maschera devono portarla.

Ma con le forze dinamiche della vita, e con coloro nei quali quelle stesse forze si incarnano, avviene diversamente. Le persone il cui unico desiderio è l’autorealizzazione non sanno mai dove stanno andando. Non possono saperlo. In un senso della parola è, naturalmente, necessario, come diceva l’oracolo greco, conoscere se stessi. È la prima conquista per arrivare alla conoscenza. Ma riconoscere che l’anima di un uomo è inconoscibile è la conquista ultima della Saggezza. Il mistero finale siamo noi stessi. Quando si è pesato il sole su una bilancia, e misurata la distanza della luna, e tracciati i sette cieli stella per stella, rimaniamo ancora noi stessi. Chi può calcolare l’orbita della propria anima? Quando il figlio di Kish uscì per cercare gli asini di suo padre non sapeva che un uomo di Dio lo aspettava con il crisma dell’incoronazione, e che la sua anima era già l’Anima di un Re.

Spero di vivere abbastanza a lungo per produrre un’opera di natura tale da poter dire, alla fine dei miei giorni: «Sì, è proprio qui che conduce la vita artistica». Due tra le vite più perfette che ho avuto modo di conoscere attraverso la mia esperienza sono le vite di Verlaine e del Principe Kropotkin, uomini entrambi che passarono anni in prigione: il primo, il solo poeta cristiano dopo Dante, l’altro un uomo con l’anima del bellissimo Cristo bianco che sembra provenire dalla Russia. E negli ultimi sette o otto mesi, nonostante il succedersi di grosse preoccupazioni che mi sono giunte quasi ininterrottamente dal mondo esterno, sono stato messo in contatto diretto con un nuovo spirito che opera in questa prigione attraverso uomini e cose, che mi ha aiutato in modo così grande che non riesco ad esprimerlo con le parole; tanto che, mentre per il mio anno di prigionia non feci altro, e non riesco a ricordare di aver fatto altro, che torcermi le mani con disperazione impotente, e dire: «Che fine! Che fine spaventosa!». Ora cerco di dire a me stesso, e a volte, quando non mi sto torturando lo dico con sincerità: «Che inizio! Che meraviglioso inizio!». Può esserlo davvero. Può diventarlo. Se succede, sarà dovuto in gran parte a questa nuova personalità che ha trasformato la vita di tutti in questo luogo.

Le cose in se stesse hanno poca importanza, non hanno anzi – per una volta ringraziamo la Metafisica perché ci ha insegnato qualcosa – un’esistenza reale. Lo spirito soltanto è importante. La punizione può essere inflitta in modo tale da guarire, non da procurare una ferita, così come l’elemosina può essere fatta in modo tale da non trasformare il pane in pietra nelle mani di chi la dà. Puoi renderti conto di quale cambiamento sia avvenuto – non nel regolamento, perché esso viene fissato da leggi ferree, ma nello spirito che lo informa in quanto sua espressione – quando ti dico che se fossi stato rilasciato lo scorso maggio, come avevo sperato, avrei lasciato questo luogo odiando esso e ogni suo funzionario con un’amarezza di odio tale da avvelenarmi la vita. Ho fatto un altro anno di prigionia, ma l’Umanità è stata nella prigione insieme a tutti noi, e ora, quando uscirò ricorderò per sempre le grandi gentilezze che qui ho ricevuto quasi da tutti, il giorno del mio rilascio dirò il mio grazie a molte persone e chiederò loro di ricordarsi di me.

Il sistema della prigione è assolutamente e completamente sbagliato. Darei qualsiasi cosa per poterlo cambiare quando ne sarò fuori. Voglio provarci. Ma non c’è nulla al mondo di così sbagliato che lo spirito dell’Umanità, che è lo spirito dell’Amore, lo spirito del Cristo che non è nelle Chiese, possa, se non riparare, rendere almeno possibile da sopportare senza troppa amarezza nel cuore.

So anche che fuori mi aspettano molte cose piacevoli: da ciò che San Francesco d’Assisi chiama «frate vento» e «sorella pioggia», ambedue cose belle, fino alle vetrine dei negozi e ai tramonti delle grandi città. Se facessi una lista di tutto quello che ancora mi rimane, non so dove mi fermerei: Dio ha infatti creato il mondo tanto per me come per qualsiasi altra persona. Forse uscirò di qui con qualcosa che prima non avevo. Non occorre che ti dica che per me le Riforme Morali sono insignificanti e volgari quanto le Riforme Teologiche. Ma, mentre proporsi di essere un uomo migliore è una frase fatta non scientifica, essere divenuto un uomo più profondo è il privilegio di coloro che hanno sofferto. E tale penso di essere divenuto. Puoi giudicarlo tu stesso.

Se quando uscirò di qui un mio amico desse una festa e non mi invitasse, non mi interesserebbe affatto. Posso essere perfettamente felice stando per conto mio. Con la libertà, i libri, i fiori, e la luna, chi potrebbe non essere felice? Inoltre le feste non fanno più per me. Ne ho date troppe perché ancora mi interessino. Quella parte della vita si è chiusa per me, oserei dire molto fortunatamente. Ma se, dopo la mia scarcerazione, un mio amico avesse un dolore e si rifiutasse di lasciarmelo condividere, proverei una grande amarezza. Se mi chiudesse in faccia le porte della casa del dolore, tornerei più e più volte supplicandolo di farmi entrare, per poter condividere quello che ho diritto di condividere. Se egli mi ritenesse indegno, inadatto a piangere con lui, la reputerei l’umiliazione più cocente, il modo più terribile di umiliarmi. Ma ciò non avverrà. Ho diritto di condividere il Dolore, e colui il quale può guardare la bellezza del mondo e prendere parte al suo dolore, e comprendere in parte il miracolo di entrambi, è in contatto immediato con le cose divine, ed è arrivato vicino al segreto di Dio meglio di chiunque altro.

Può forse entrare anche nella mia arte, non meno che nella mia vita, una nota ancora più profonda, che abbia maggiore unità di passione e immediatezza di impulso. Non la vastità ma l’intensità è il vero fine dell’Arte moderna. Nell’Arte non ci occupiamo più del tipo, ma abbiamo a che fare con l’eccezione. È quasi superfluo che dica che non posso dare alle mie sofferenze la forma che presero. L’Arte inizia soltanto dove finisce l’Imitazione. Ma qualcosa arriverà dentro la mia opera, forse una maggiore armoniosità nelle parole, cadenze più ricche, effetti di colore più curiosi, ordine architettonico più semplice o, perlomeno, qualche qualità estetica.

Quando Marsia fu strappato «dalla vagina delle membra sue»34, per usare una delle frasi dantesche più terribili, più tacitiane, i Greci dissero che non poteva più cantare. Il vincitore era stato Apollo. La lira aveva vinto il flauto. Ma forse i Greci si sbagliavano, io sento in gran parte dell’Arte moderna il lamento di Marsia. È amaro in Baudelaire, dolce e lamentoso in Lamartine, mistico in Verlaine. È nei ritardi nelle risoluzioni della musica di Chopin. È nello scontento che aleggia sui volti delle donne di Burne-Jones. Persino Matthew Arnold, che nel canto di Callicle ci parla del «trionfo della dolce e persuasiva lira» e della «famosa vittoria finale»35 con una nota limpidissima di bellezza lirica, persino lui, con il tormentato basso continuo di dubbio e angoscia che anima i suoi versi, ne possiede non poca parte. Né Goethe né Wordsworth riuscirono a guarirlo, benché egli li seguisse entrambi a turno, e quando cerca di piangere per «Tirsi» o di cantare «Lo Zingaro Studente», è il flauto che egli deve prendere per dare voce alla sua vena. Ma non posso essere sicuro se il Fauno Frigio fosse muto o no. L’espressione mi è necessaria come la foglia e il fiore lo sono ai rami neri degli alberi che si mostrano al di sopra del muro del carcere e si agitano senza posa con il vento. Tra la mia arte e il mondo c’è ora un ampio divario, ma tra l’Arte e me non ce n’è affatto. Almeno lo spero.

A ognuno di noi è stato assegnato un destino diverso. Libertà, piacere, divertimenti, una vita di agi, sono stati il tuo destino, e tu non ne sei degno. Il mio è stato di pubblico disonore, di lunga prigionia, di vergogna, di rovina, di ignominia, e di ciò non sono neppure degno, perlomeno non ancora. Ricordo che ero solito dire che ritenevo di poter sopportare una vera tragedia se mi fosse giunta con il manto di porpora e la maschera di nobile dolore36, ma che la cosa terribile della modernità era vestire la Tragedia degli abiti della Commedia, così che le grandi realtà sembravano banali, grottesche o senza stile. Ciò è verissimo per la modernità. Probabilmente della vita reale è sempre stato vero. Si dice che tutti i martirii siano parsi insignificanti a chi ne era spettatore. Il diciannovesimo secolo non costituisce un’eccezione alla regola.

Nella mia tragedia tutto è stato orribile, meschino, repellente, senza stile. Persino l’abito che portiamo ci rende grotteschi. Siamo i buffoni del dolore, siamo i pagliacci dal cuore spezzato, siamo appositamente designati per solleticare il senso dell’umorismo. Il 13 novembre 1895 venni condotto qui da Londra. Dalle due fino alle due e mezzo di quel giorno dovetti stare fermo davanti al binario centrale di Clapham Junction vestito da carcerato e ammanettato, perché il mondo mi guardasse. Ero stato prelevato dall’infermeria senza un attimo di preavviso. Di tutte le cose possibili ero la più grottesca. Quando la gente mi vedeva rideva. L’arrivo di ogni treno ingrossava il pubblico. Niente sarebbe riuscito a superare il loro divertimento. E questo ovviamente prima che sapessero chi ero. Non appena ne erano informati, ridevano ancora di più. Per mezz’ora rimasi lì, sotto la grigia pioggia novembrina, circondato da una folla che mi scherniva.

Per un anno, dopo che mi venne fatto questo, piansi ogni giorno alla stessa ora e per lo stesso periodo di tempo. Non è una cosa così tragica come forse può apparirti. Per coloro che sono in prigione le lacrime sono parte dell’esperienza quotidiana. Un giorno in prigione in cui non si piange è un giorno in cui il proprio cuore è di pietra, non un giorno in cui il cuore è felice.

Ebbene, ora sto iniziando a provare maggior dispiacere per coloro che ridevano che per me stesso. Naturalmente quando essi mi videro non ero sul mio piedistallo. Ero alla gogna. Ma quella cui interessano le persone solo quando sono sul proprio piedistallo è una natura dotata di scarsissima fantasia. Un piedistallo può essere un qualcosa di molto irreale. Una gogna è una realtà terribile. Avrebbero inoltre dovuto saper interpretare meglio il dolore. Ho detto che dietro al Dolore c’è sempre il Dolore. Sarebbe ancor più saggio dire che dietro al dolore c’è sempre un’anima. E schernire un’anima sofferente è una cosa tremenda; nelle vite di coloro che lo fanno la bellezza è assente. Nell’economia stranamente semplice del mondo si riceve soltanto ciò che si dà, e a coloro che non hanno immaginazione sufficiente a penetrare il mero aspetto esteriore delle cose e a provare compassione, quale compassione può essere contraccambiata, tranne quella dei disprezzo?

Ti ho fatto questo resoconto del modo in cui venni condotto qui semplicemente perché ti rendessi conto di quanto è stato difficile per me ricavare dalla mia punizione qualcosa che non fosse amarezza e disperazione. Tuttavia devo farlo, e di tanto in tanto ho momenti di sottomissione e di accettazione. L’intera primavera può nascondersi in un bocciolo, e il nido dell’allodola nella terra può contenere la gioia che annuncerà l’arrivo di molte aurore vermiglie; e può essere quindi che tutta la bellezza di vita che è ancora in serbo per me sia contenuta in qualche momento di abbandono, di degradazione e umiliazione. Ad ogni modo non posso che andare avanti sulle linee tracciate per il mio sviluppo e, accettando tutto quello che mi è accaduto, rendermene degno.

La gente diceva di me che ero troppo individualista; ora devo esserlo più di quanto sia mai stato. Devo trarre da me stesso molte più cose di quante ne abbia mai tratte, e chiedere al mondo molte meno cose di quante ne abbia chieste. Anzi, la mia rovina non venne dall’eccessivo individualismo nella vita, bensì dal troppo poco. L’unica azione vergognosa, imperdonabile e per sempre spregevole della mia vita, fu quella di accettare che mi spingessero a fare appello alla Società perché mi aiutasse e mi proteggesse da tuo padre. Aver fatto un simile appello contro qualsiasi persona sarebbe stato, da un punto di vista individualista, una cosa abbastanza grave; ma quale scusa si può accampare per averlo fatto contro una persona di un’indole e un aspetto tali?

Naturalmente, una volta messe in moto le forze della Società, la Società mi si è rivoltata contro e mi ha detto: «Per tutto questo tempo hai vissuto senza tener conto delle mie leggi, e ora ti appelli a queste stesse leggi perché ti proteggano? Quelle leggi le sperimenterai applicate fino in fondo. Dovrai attenerti a ciò che hai invocato». Il risultato è che mi trovo in prigione. Ho percepito amaramente l’ironia e l’ignominia della mia posizione quando, nel corso dei miei tre processi, iniziando dal posto di polizia, vedevo tuo padre affaccendarsi da una parte e dall’altra nella speranza di attirare la pubblica attenzione, come se qualcuno potesse non notare o ricordare il suo portamento e i vestiti da stalliere, le gambe arcuate, le mani contratte spasmodicamente, il labbro inferiore che sporgeva, il ghigno bestiale e demente. Anche quando non era lì, o non lo vedevo, ero consapevole della sua presenza, e le spoglie e squallide pareti dell’aula del tribunale, persino l’aria, mi sembravano a volte popolate di innumerevoli maschere raffiguranti quel muso scimmiesco. Sicuramente nessun uomo è mai caduto in modo così ignobile, e con strumenti tanto ignobili, come è successo a me. Da qualche parte nel Dorian Gray dico che: «Un uomo non è mai troppo attento nella scelta dei propri nemici». Non pensavo che sarebbe stato per mezzo di un paria che io stesso sarei stato trasformato in paria.

Questo spingermi, forzarmi a ricorrere alla Società per averne aiuto, è una delle cose che mi porta a disprezzarti tanto e che mi porta a disprezzare così tanto me stesso per aver ceduto a te. Il fatto che tu non mi apprezzassi come artista era del tutto scusabile: si trattava di una cosa innata. Non potevi farci niente. Ma avresti potuto apprezzarmi come Individualista. Per quello non c’era bisogno di cultura. Ma non lo facesti, portando così l’elemento del filisteismo in una vita che era stata una totale protesta contro di esso, e, sotto alcuni punti di vista un suo completo annichilimento. L’elemento filisteo della vita non è l’incapacità a comprendere l’Arte. Persone incantevoli come pescatori, pastori, contadinelli, contadini e simili non sanno nulla dell’Arte, e sono il sale stesso della terra. È filisteo colui che sostiene e aiuta le pesanti, lente, cieche forze meccaniche della Società, e colui che non riconosce la forza dinamica quando la incontra in un uomo o in un movimento.

La gente riteneva che fosse terribile da parte mia essermi intrattenuto a pranzo con i cattivi della vita, e che avessi trovato piacere in loro compagnia. Ma costoro, dal punto di vista dal quale io, artista nella vita, li avvicinavo, erano estremamente invitanti e stimolanti. Era come banchettare insieme a delle pantere. Il pericolo costituiva metà dell’eccitazione. Mi sentivo come l’incantatore di serpenti quando blandisce il cobra perché si muova dal drappo colorato o dal cesto di vimini in cui si trova, e gli fa aprire il cappuccio della testa a comando, e lo fa oscillare avanti e indietro nell’aria come una pianta che fluttui placidamente in un ruscello. Costoro erano per me i più vivaci serpenti dorati. Il loro veleno faceva parte della loro perfezione. Non sapevo che quando mi avrebbero colpito sarebbe stato al suono del tuo piffero e pagati da tuo padre. Non provo affatto vergogna per averli conosciuti. Erano estremamente interessanti. Quello di cui mi vergogno è l’orribile atmosfera filistea nella quale mi hai portato. Come artista avevo a che fare con Ariele. Tu mi facesti trovare alle prese con Calibano. Invece di fare belle cose ricche di colore, musicali come Salomé, la Tragedia Fiorentina e La Santa Cortigiana, mi vidi costretto a scrivere lunghe lettere di avvocati a tuo padre e obbligato a fare ricorso a quelle stesse cose contro le quali avevo sempre innalzato la mia protesta. Clibborn e Atkins37 furono portentosi nella loro infame guerra contro la vita. Intrattenersi con loro fu una stupefacente avventura. Dumas père, Cellini, Goya, Edgar Allan Poe o Baudelaire avrebbero fatto esattamente la stessa cosa. Ciò che mi ripugna è il ricordo delle visite interminabili che feci all’avvocato Humphreys insieme a te, quando, nel bagliore spettrale di una squallida stanza tu ed io sedevamo con facce serie dicendo bugie serie a un uomo calvo, arrivando a gemere e a sbadigliare per l’ennui. Ecco dove mi sono trovato dopo due anni di amicizia con te, esattamente nel centro di Filistia, lontano da tutto ciò che era bello, o geniale, o meraviglioso, o audace. Alla fine dovetti farmi avanti, per conto tuo, come difensore della Rispettabilità nel comportamento, del Puritanesimo nella vita, e del Moralismo nell’Arte. Voilà où mènent les mauvais chemins!38

E quel che mi sembra curioso è che tu debba aver cercato di imitare tuo padre nelle sue caratteristiche principali. Non riesco a capire perché egli fosse per te un modello, laddove avrebbe dovuto costituire un avvertimento, se non per il fatto che, quando c’è dell’odio tra due persone, si instaura un legame o una sorta di fratellanza. Suppongo che, per qualche strana legge sull’antipatia dei simili, voi vi detestavate reciprocamente, non tanto perché per tanti versi eravate molto diversi, ma perché per alcuni eravate molto simili. Quando, nel luglio 1893 lasciasti Oxford senza una laurea e con debiti, insignificanti di per sé, ma rilevanti per un uomo con la rendita di tuo padre, egli ti scrisse una lettera molto volgare, violenta e offensiva. La lettera che tu gli mandasti in risposta era peggiore sotto ogni aspetto, e ovviamente di gran lunga meno scusabile; di conseguenza ne andasti estremamente orgoglioso. Ricordo benissimo che mi dicesti, con il tuo fare più vanitoso, che avresti potuto battere tuo padre «con i suoi stessi mezzi». Verissimo. Ma che mezzi! Che gara! Ridevi e schernivi tuo padre perché se n’era andato dalla casa di tuo cugino, dove viveva, per andare in un albergo vicino a scrivergli lettere oscene. Con me facevi esattamente la stessa cosa. Pranzavi di solito con me in qualche ristorante: eri di cattivo umore o facevi una scenata durante il pranzo, e poi te ne andavi al White Club a scrivermi lettere del genere più ripugnante. L’unica differenza tra te e tuo padre era che, dopo avermi inviato la lettera da un qualche fattorino particolare, arrivavi tu stesso nelle mie stanze dopo qualche ora, non per scusarti, ma per sapere se avevo ordinato la cena al Savoy e, se non l’avevo fatto, per conoscerne il motivo. A volte sei arrivato addirittura prima che io avessi letto la lettera offensiva. Ricordo che in un’occasione tu mi avevi chiesto di invitare a pranzo al Café Royal due tuoi amici, uno dei quali non avevo mai visto prima in vita mia. Lo feci e, su tua speciale richiesta, ordinai in anticipo che venisse preparato un pranzo particolarmente lussuoso. Ricordo che fu mandato a chiamare lo chef e che gli furono date istruzioni particolari per i vini. Invece di venire a pranzo mi inviasti una lettera ingiuriosa al Café, calcolando il tempo in modo tale che la lettera mi arrivasse dopo che eravamo stati ad aspettarti per mezz’ora. Lessi la prima riga e, vedendo di che si trattava, misi la lettera in tasca, spiegando ai tuoi amici che ti eri sentito male all’improvviso e che il resto si riferiva ai tuoi sintomi. In effetti fino a sera non lessi la lettera, quando mi cambiai per la cena a Tite Street. Mentre mi trovato in mezzo a quel fango e mi chiedevo con infinita tristezza come tu potessi scrivere lettere che erano davvero come la schiuma e la bava sulle labbra di un epilettico, entrò il mio domestico per dirmi che tu eri nell’ingresso ed eri molto ansioso di vedermi per cinque minuti. Lo mandai subito di sotto per chiederti di salire. Tu arrivasti e sembravi, lo ammetto, molto pallido e terrorizzato, e volevi il mio consiglio e la mia assistenza, in quanto ti era stato detto che un uomo di Lumley, l’avvocato, aveva chiesto informazioni su di te a Cadogan Place, e avevi paura che i tuoi guai di Oxford o qualche nuovo pericolo ti minacciassero. Ti consolai e ti dissi, cosa che poi si rivelò vera, che si trattava probabilmente soltanto del conto di qualche negoziante, e ti feci rimanere a cena e a trascorrere la serata con me. Non facesti parola della tua lettera ripugnante e nemmeno io. La considerai semplicemente come l’infelice sintomo di un temperamento infelice. Non alludemmo mai all’argomento. Scrivermi una lettera disgustosa alle 2.30 e precipitarti da me per chiedere aiuto e comprensione alle 7.15 dello stesso pomeriggio era un atto del tutto normale per la tua vita. Tu ti spingesti ben al di là di tuo padre in queste abitudini e in altre. Quando le sue lettere rivoltanti indirizzate a te vennero lette pubblicamente in tribunale, egli naturalmente si vergognò e fece finta di piangere. Se il suo avvocato avesse letto le tue lettere a lui tutti avrebbero provato ancora più orrore e ripugnanza. Né era soltanto nello stile che tu «lo battevi con i suoi stessi mezzi», ma lo distanziavi completamente nel modo di attaccare. Ti servivi del telegramma pubblico e della cartolina postale aperta. Penso che avresti potuto lasciare simili sistemi di arrecare seccature a persone come Alfred Wood, per le quali esse costituiscono la sola fonte di reddito. Non credi? Quella che per lui e la sua classe era una professione, per te era un piacere, per giunta molto perverso. Non hai nemmeno posto fine alla tua orribile abitudine di scrivere lettere offensive, dopo tutto quello che mi è successo a causa e per mezzo loro. La consideri tutt’ora una delle tue specialità e la pratichi con i miei amici, con coloro che sono stati gentili con me in prigione come Robert Sherard e altre persone. È vergognoso da parte tua. Quando Robert Sherard seppe da me che non volevo che tu pubblicassi alcun articolo su di me nel Mercure de France, con o senza lettere, avresti dovuto essergli grato per essersi accertato del mio volere sull’argomento, e per averti risparmiato, senza volerlo, di infliggermi più sofferenze di quanto avessi già fatto. Devi ricordare che una lettera paternalistica e filistea sul fair play nei confronti di un uomo «caduto in basso» va benissimo per un giornale inglese. Porta avanti le vecchie tradizioni del giornalismo inglese nel suo atteggiamento verso gli artisti. Ma in Francia un tono del genere avrebbe esposto me al ridicolo e te al disprezzo. Non avrei potuto permettere alcun articolo se non ne avessi conosciuto lo scopo, il tono, il modo di affrontare l’argomento e tutto il resto. Nell’arte le buone intenzioni non hanno il benché minimo valore. Tutta la cattiva arte è il risultato di buone intenzioni.

Né tantomeno Robert Sherard è l’unico dei miei amici al quale tu abbia indirizzato lettere astiose e amare perché cercarono di tener conto dei miei desideri e dei miei sentimenti per cose che mi riguardavano: la pubblicazione di articoli su di me, il dedicarmi i tuoi versi, il consegnare le mie lettere e i miei regali e via dicendo. Hai molestato o cercato di molestare anche altri.

Ti viene mai in mente in che orribile posizione mi sarei trovato se, negli ultimi due anni, dopo la mia spaventosa sentenza, mi fossi trovato a dipendere dalla tua amicizia? Ci pensi mai a questo? Provi mai gratitudine per coloro i quali, per una gentilezza senza restrizioni, una devozione senza limiti, per la loro contentezza e gioia nel dare, hanno alleggerito il mio nero fardello, mi hanno fatto visita più e più volte, mi hanno scritto lettere bellissime e piene di comprensione, hanno badato per mio conto alle mie cose, hanno preso per me disposizioni per la mia vita futura, mi sono stati vicini quando erano all’opera gli strumenti dell’infamia, del dileggio, del pubblico scherno, o persino dell’insulto? Ringrazio Dio ogni giorno di avermi dato altri amici diversi da te. Devo loro ogni cosa. Gli stessi libri che ho nella mia cella sono stati pagati da Robbie, con i suoi soldi. Verranno dalla stessa fonte i vestiti per quando sarò rilasciato. Non mi vergogno di accettare una cosa che viene donata dall’amore e dall’affetto. Ne sono orgoglioso. Ma pensi mai a ciò che miei amici come More Adey, Robbie, Robert Sherard, Frank Harris e Arthur Clifton hanno significato per me nel darmi conforto, aiuto, affetto, comprensione e via dicendo? Credo che non ti sia mai venuto in mente. E tuttavia – se fossi dotato di immaginazione – sapresti che non c’è una sola persona che sia stata gentile con me nella mia vita da carcerato, dal secondino che può darmi un buon giorno o una buona notte che non rientrino nei doveri prescritti, dal poliziotto qualunque che in maniera rozza e alla mano si è sforzato di darmi conforto nei miei viaggi avanti e indietro dal Tribunale fallimentare, quando ero in condizione di terribile angoscia mentale, dal povero ladro il quale, riconoscendomi mentre camminavamo in circolo nel cortile di Wandsworth, mi ha bisbigliato con quella roca voce da detenuto che gli uomini acquistano dopo un lungo e forzato silenzio: «Mi dispiace per te: è più duro per quelli come te che per quelli come me», non vi è nessuno di loro al quale tu sei degno di inginocchiarti e di pulire il fango dalle scarpe.

Hai immaginazione sufficiente a vedere quale terribile tragedia fu per me l’essermi imbattuto nella tua famiglia? Che immane tragedia sarebbe stata per qualsiasi persona, di elevata posizione sociale e di nome famoso, o con qualcosa di importante da perdere? Si può dire che non ci sia nessuno degli anziani della tua famiglia – con l’eccezione di Percy, che è davvero una brava persona – che non abbia contribuito in qualche modo alla mia rovina.

Ti ho parlato di tua madre con una certa amarezza, e ti suggerisco calorosamente di farle vedere questa lettera, soprattutto per il tuo stesso bene. Se le farà male leggere questo atto d’accusa contro uno dei suoi figli, ricordale che mia madre, che è intellettualmente sullo stesso piano di Elizabeth Barrett Browning, e storicamente di Madame Roland, è morta di crepacuore perché suo figlio, del cui genio e della cui arte era andata tanto orgogliosa, e che aveva considerato un degno prosecutore di un nome illustre, era stato condannato alla mola da tortura39 per due anni. Mi chiederai in che cosa tua madre abbia contribuito alla mia distruzione. Te lo dirò. Mentre tu ti sforzavi di scaricare su di me tutte le tue responsabilità morali, ella si sforzava di scaricare su di me le sue responsabilità morali nei tuoi confronti. Invece di parlarti in modo diretto della tua vita, come una madre avrebbe dovuto fare, mi scriveva sempre in forma privata con ansiose suppliche e terrorizzata di non farti sapere che mi stava scrivendo. Vedi la posizione nella quale venni a trovarmi tra te e tua madre. Era falsa, assurda e tragica come quando mi trovai tra te e tuo padre. Nell’agosto del 1892 e l’8 novembre di quello stesso anno, ebbi con tua madre due lunghi colloqui riguardo a te. In entrambe le occasioni le chiesi perché non ti avesse parlato lei direttamente. In entrambe le occasioni ella mi diede la stessa risposta: «Ho paura: si adira terribilmente quando gli viene rivolta la parola». La prima volta ti conoscevo così poco che non capii quello che volesse dire. La seconda volta ti conoscevo così bene che lo capii perfettamente. (In questo lasso di tempo tu subisti un attacco di itterizia e il dottore ti ordinò di andare a Bournemouth per una settimana e mi persuadesti ad accompagnarti perché detestavi stare solo). Ma il primo dovere di una madre non è aver paura di parlare seriamente a suo figlio. Se tua madre ti avesse parlato seriamente dei guai in cui sapeva tu eri finito nel luglio del 1892 e ti avesse fatto confidare con lei, sarebbe stato molto meglio, e in ultima analisi avreste avuto entrambi un destino molto più felice. Tutte quelle comunicazioni clandestine e segrete con me furono uno sbaglio. A che serviva che tua madre mi mandasse continuamente bigliettini con scritto «personale» sulla busta, supplicandomi di non invitarti a pranzo tanto spesso, e di non darti soldi, e concludendo tutti i biglietti con il pressante poscritto: «Non faccia sapere ad Alfred per nessun motivo che le ho scritto»? Cosa poteva venire di buono da una simile corrispondenza? Hai mai aspettato di essere invitato a pranzo? Mai. Come se fosse un fatto ovvio, consumavi tutti i tuoi pasti insieme a me. Se protestavo, facevi sempre la stessa osservazione: «Se non mangio con te, dove devo mangiare? Non crederai che io vada a mangiare a casa». Non c’era risposta. E, se mi rifiutavo tassativamente di farti mangiare con me, minacciavi invariabilmente di fare qualche sciocchezza, e invariabilmente la facevi. Quale poteva essere il risultato di lettere come quelle che tua madre mi inviava, se non quello che si verificava: uno sciocco e funesto spostamento della responsabilità morale sulle mie spalle? Non voglio continuare a parlare delle varie occasioni in cui la debolezza di tua madre e la sua mancanza di coraggio si dimostrarono tanto disastrose per lei stessa, per te e per me, ma senza dubbio, quando ella seppe che tuo padre stava venendo a casa mia con l’intenzione di fare una scenata disgustosa e creare uno scandalo serio, avrebbe potuto capire che era imminente una grave crisi, e avrebbe dovuto prendere seri provvedimenti per cercare di evitarla. Ma tutto quello che riuscì a pensare di fare fu di mandare quella brava persona di George Wyndham40 che, con docilità mi propose – che cosa? Di «mollarti gradualmente».

Come se per me fosse stato possibile mollarti gradualmente! Avevo tentato in ogni modo di porre fine alla nostra amicizia, spingendomi fino a lasciare l’Inghilterra e a dare un falso indirizzo all’estero nella speranza di rompere in un sol colpo un legame che era diventato per me fastidioso, odioso e distruttivo. Credi che sarei riuscito a «mollarti gradualmente»? Credi che questo avrebbe appagato tuo padre? Sai bene di no. Quello che infatti tuo padre voleva non era la cessazione della nostra amicizia, ma uno scandalo pubblico. Era quello per cui lottava. Il suo nome non compariva sui giornali da anni. Gli si profilò l’opportunità di apparire al pubblico inglese sotto una veste del tutto nuova: quella del padre premuroso. Il suo senso dell’umorismo si destò. Se avessi posto fine alla mia amicizia con te sarebbe stata per lui una terribile delusione, e la poca notorietà di una seconda causa di divorzio, per quanto disgustosi potessero esserne i dettagli e l’origine, non si sarebbe dimostrata che una magra consolazione per lui. Perché quello a cui mirava era la popolarità, e atteggiarsi a difensore della purezza, come viene definita è, nell’attuale condizione del pubblico britannico, il modo più sicuro di divenire per l’occasione una figura eroica. Di questo pubblico ho detto, in una delle mie opere, che è Calibano per metà dell’anno e Tartufo per la restante41, e tuo padre, nel quale si può dire si siano incarnati entrambi i personaggi, veniva identificato in questo modo come il rappresentante ideale del puritanesimo nella sua forma aggressiva e più tipica. Se anche fosse stato fattibile, mollarti gradualmente non sarebbe stato di alcuna utilità. Non credi ora che la sola cosa che tua madre avrebbe potuto fare sarebbe stato chiedermi di incontrarla e, presenti te e tuo fratello, dire con determinazione che l’amicizia doveva ad ogni costo cessare? Avrebbe trovato in me il suo più acceso sostenitore e, con Drumlanrig e me nella stanza, non avrebbe dovuto aver timore di parlarti. Non lo ha fatto. Aveva paura delle proprie responsabilità e cercava di passarle a me. Sicuro, mi scrisse una lettera, breve, per chiedermi di non mandare a tuo padre la lettera dell’avvocato che lo diffidava dal continuare. Aveva perfettamente ragione; era ridicolo che io consultassi gli avvocati e cercassi la loro protezione. Ma ella annullava qualsiasi effetto che la sua lettera avrebbe potuto sortire, con il suo solito poscritto: «Non faccia sapere ad Alfred per nessun motivo che le ho scritto». L’idea che io, come te, mandassi a tuo padre lettere dell’avvocato ti incantava. Era un tuo suggerimento. Non potevo dirti che tua madre si opponeva recisamente a quest’idea, perché ella mi aveva legato con le promesse più solenni a non dirti mai delle sue lettere a me, e io scioccamente tenni fede alla promessa. Non capisci che fu uno sbaglio da parte sua il non parlartene direttamente? Che tutti i colloqui clandestini con me, e la corrispondenza clandestina erano uno sbaglio? Nessuno può delegare a un altro le proprie responsabilità. Alla fine tornano sempre al legittimo proprietario. La tua sola idea di vita, la tua sola filosofia, se una filosofia ti si possa attribuire, era che qualsiasi cosa tu facessi doveva essere pagata da qualcun altro: non intendo soltanto nel senso finanziario – quella era semplicemente l’applicazione pratica della tua filosofia nella vita quotidiana – ma nel significato più ampio, più pieno del trasferimento di responsabilità. Ne facesti il tuo credo e, fino a che è andato avanti, è andato benissimo. Mi costringesti a intraprendere quell’azione giudiziaria perché sapevi che tuo padre non avrebbe in alcun modo attaccato te o la tua vita, e io avrei difeso a oltranza entrambe e mi sarei caricato sulle spalle tutto quello che mi avrebbero gettato addosso. Avevi perfettamente ragione. Tuo padre e io, naturalmente ognuno per motivi diversi, facemmo esattamente quello che tu contavi facessimo. Ma in qualche modo, nonostante tutto, in realtà tu non sei riuscito a scamparla. La «teoria del fanciullo Samuele», come per brevità la si può definire, funziona molto bene finché si tratta genericamente del mondo. Può essere molto sprezzata a Londra, e un po’ schernita a Oxford, ma semplicemente perché ci sono in entrambi i luoghi alcune persone che ti conoscono, e perché in ognuno dei luoghi hai lasciato tracce del tuo passaggio. Al di fuori di una piccola cerchia in queste due città, il mondo guarda a te come a un bravo giovane, che molto probabilmente venne tentato ad agire in modo scorretto dall’artista malvagio e immorale, ma fu salvato appena in tempo dal caro e amoroso padre. Suona benissimo. E, tuttavia, lo sai che non sei scampato. Non mi sto riferendo alla sciocca domanda posta da un giurato sciocco, e che ovviamente è stata considerata con sprezzo sia dal Giudice che dal Pubblico Ministero. Nessuno ci ha fatto caso. Mi riferisco forse principalmente a te stesso. Davanti ai tuoi occhi, un giorno dovrai ripensare alla tua condotta: tu non sei, non puoi essere del tutto soddisfatto del modo in cui sono andate a finire le cose. Dentro di te devi pensare a te stesso con molta vergogna. Una faccia di bronzo è una cosa importante da mostrare al mondo, ma di tanto in tanto, quando sei solo e non hai pubblico devi, suppongo, toglierti la maschera, se non altro per respirare. Credo altrimenti che finiresti soffocato.

E allo stesso modo tua madre deve, a volte, pentirsi di aver cercato di scaricare le sue importanti responsabilità su qualcun altro, che aveva già un fardello abbastanza pesante da portare. Ella aveva per te la funzione di entrambi i genitori. Adempì sul serio i doveri di entrambi? Se io sopportavo il tuo cattivo carattere, la tua maleducazione e le tue scenate, lei avrebbe potuto fare altrettanto. L’ultima volta che ho visto mia moglie – adesso sono quattordici mesi – le ho detto che avrebbe dovuto essere per Cyril sia padre che madre. Le raccontai ogni cosa del modo in cui tua madre trattava con te, in ogni dettaglio, come ho fatto in questa lettera, soltanto, naturalmente in maniera molto più diffusa. Le ho raccontato il motivo degli infiniti biglietti con la scritta «personale» sulla busta che giungevano a Tite Street da parte di tua madre, con una regolarità tale da farla ridere e da farle dire che dovevamo collaborare a un romanzo in società o qualcosa del genere. La supplicai di non essere per Cyril quello che tua madre era stata per te. Le dissi che l’avrebbe dovuto allevare in modo che, se egli avesse sparso sangue innocente, sarebbe andato da lei a dirglielo, perché ella potesse per prima cosa mondargli le mani, e poi insegnargli a pulire la sua anima con la penitenza e l’espiazione. Le dissi che, se aveva paura di affrontare le responsabilità della vita di un altro, per quanto il suo stesso figlio, avrebbe dovuto trovare un tutore che la aiutasse. Ebbene lo ha fatto: sono contento di poterlo dire. Ha scelto Adrian Hope, suo cugino, uomo di nobile discendenza, cultura e amabile carattere, che tu una volta hai incontrato a Tite Street; e con lui Cyril e Vyvyan hanno buone opportunità di un bellissimo futuro. Tua madre, se aveva paura di parlarti seriamente, avrebbe dovuto scegliere qualcuno tra i suoi stessi parenti al quale tu avresti potuto dare ascolto. Ma non avrebbe dovuto aver paura. Avrebbe dovuto chiarire ogni questione con te e affrontarti. Ad ogni modo, guarda il risultato. Ne è forse soddisfatta e contenta?

So che dà la colpa a me. Lo sento dire, non da persone che ti conoscono, ma da persone che non ti conoscono, e non vogliono conoscerti. Lo sento dire spesso. Parla per esempio dell’influenza di un uomo più grande su uno più giovane; è uno dei suoi atteggiamenti favoriti riguardo all’argomento, ed è sempre un’efficace motivazione per i pregiudizi e l’ignoranza popolare. Non occorre che ti chieda quale sia stata la mia influenza su di te. Sai che non ne ho avuta nessuna. Ha costituito di frequente ragione di vanto che non ne avessi nessuna, e forse l’unica con un valido fondamento. Che cosa c’era, in realtà, in te che io potessi influenzare? Il tuo cervello? Non si era ancora sviluppato. La tua immaginazione? Era morta. Il tuo cuore? Non era ancora nato. Di tutte le persone che abbiano mai attraversato la mia vita tu fosti l’unico, davvero l’unico, che io fui incapace di indirizzare in qualche modo in qualche direzione. Quando giacevo debole e malato a causa della febbre presa per averti accudito, non avevo su di te l’influenza sufficiente per indurti a portarmi neanche una tazza di latte da bere, o per controllare che io avessi le banali cose necessarie nella stanza di un malato, o per farti dare la pena di fare qualche centinaio di metri per andare da un libraio e portarmi un libro a mie spese. Quando ero invece impegnato a scrivere, a comporre commedie destinate a superare quelle di Congreve per spirito e quelle di Dumas fils per acume filosofico, e, credo quelle di qualsiasi altro per ogni altra qualità, non avevo influenza sufficiente su di te per far sì che tu mi lasciassi tranquillo, come ogni artista dovrebbe stare. Dovunque si trovasse la stanza dove scrivevo, per te era un salotto qualunque, un posto dove fumare e bere vino bianco del Reno e seltz, e chiacchierare di assurdità. L’«influenza di un uomo più grande su uno più giovane» è un’eccellente teoria fino a che non arriva alle mie orecchie: in quel momento diventa grottesca. Quando arriva alle tue orecchie, suppongo che tu sorrida, dentro di te. Ne hai sicuramente tutto il diritto. Sento anche parlare molto di ciò che ella dice riguardo al denaro. Dice, con completa legittimità, che mi supplicava senza sosta di non darti denaro. Lo ammetto; le sue lettere erano numerosissime, e il poscritto: «Per favore non faccia sapere ad Alfred che le ho scritto», appare in ognuna di esse. Ma per me non era un piacere dover pagare ogni minima cosa per te: dalla rasatura del mattino alla carrozza di mezzanotte. Era una terribile seccatura. Me ne lamentavo continuamente con te. Ti dicevo – te lo ricordi non è vero? – come detestassi essere considerato da te una persona «utile», e come nessun artista desideri essere trattato o considerato tale, poiché gli artisti, come del resto l’arte stessa, sono per loro natura del tutto inutili. Ti arrabbiavi molto quando te lo dicevo. La verità ti faceva sempre arrabbiare. La verità è, in realtà, una cosa dolorosissima da ascoltare e dolorosissima da dire. Ma ciò non serviva a cambiare le tue opinioni o il tuo modo di vivere. Ogni giorno dovevo pagare ogni singola cosa di quello che facevi. Soltanto una persona di natura assurdamente buona o di indescrivibile follia avrebbe agito in questo modo. Sfortunatamente io ero la completa combinazione di entrambe. Quando ti suggerivo che tua madre avrebbe dovuto darti i soldi che volevi, avevi sempre una risposta molto carina e gentile. Dicevi che la rendita che le passava tuo padre – credo sulle 1500 sterline l’anno – era del tutto inadeguata alle necessità di una signora della sua posizione, e che non potevi chiederle più soldi oltre a quelli che già ti dava. Avevi perfettamente ragione sul fatto che la sua rendita fosse del tutto inadatta a una signora della sua posizione e dei suoi gusti, ma non avresti dovuto trarne pretesto per vivere nel lusso alle mie spalle: al contrario ciò avrebbe dovuto suggerirti di praticare la parsimonia nella tua vita. Il fatto è che tu eri, e suppongo che lo sia ancora, un tipico sentimentale. Perché un sentimentale è semplicemente una persona che desidera avere il lusso di un’emozione senza doverla pagare. Proporsi di risparmiare il denaro di tua madre eraun bel gesto, farlo a mie spese era brutto. Tu pensi che si possano avere le proprie emozioni non dando nulla in cambio. Non è possibile. Anche le emozioni più nobili e altruistiche devono essere pagate. È abbastanza strano che sia proprio questo a renderle nobili. La vita intellettuale ed emotiva della gente comune è una faccenda molto spregevole. Allo stesso modo in cui essi prendono in prestito le proprie idee da una sorta di biblioteca ambulante del pensiero – lo Zeitgeist di un’età senz’anima – e le restituiscono sudicie alla fine di ogni settimana, cercano sempre di prendere a credito le proprie emozioni e, quando arriva, si rifiutano di pagare il conto. Dovresti disfarti di questa concezione della vita. Quando dovrai pagare un’emozione ne riconoscerai la qualità, e il saperlo ti renderà migliore. E ricorda che il sentimentale nel proprio cuore rimane sempre un cinico. Il sentimentalismo è anzi la festa consacrata del cinismo. E per quanto il cinismo possa essere piacevole dal punto di vista intellettuale, ora che ha lasciato la Botte per il Club42 non potrà mai essere nulla di più della filosofia perfetta per un uomo senz’anima. Ha il suo valore sociale, e per un artista tutti i modi di esprimersi sono interessanti, ma di per sé è povera cosa perché al vero cinico nulla viene mai rivelato.

Penso che, se adesso ti volterai indietro a guardare la rendita di tua madre e l’atteggiamento che hai assunto verso la mia, non ti sentirai fiero di te stesso, e forse un giorno – se non le fai vedere questa lettera – puoi spiegare a tua madre che il tuo vivere alle mie spalle era una questione per la quale i miei desideri non sono stati tenuti in considerazione nemmeno per un momento. Si trattava semplicemente di una forma particolare, per me particolarmente penosa, della tua devozione nei miei confronti. Il dipendere da me sia per le somme più piccole che per le più grandi ti conferiva ai tuoi stessi occhi tutto l’incanto della fanciullezza e, nell’insistere che fossi io a pagare ogni singolo piacere, pensavi di aver trovato il segreto dell’eterna giovinezza. Confesso che mi addolora sentir dire che tua madre fa commenti su di me e sono sicuro che, dopo averci riflettuto, concorderai con me che, se ella non ha nessuna parola di rimorso o di dolore per la rovina che la tua razza ha causato alla mia sarebbe meglio se tacesse. Naturalmente non c’è alcun motivo per cui ella debba vedere le parti di questa lettera che si riferiscono all’evoluzione mentale che ho attraversato, o al punto di partenza a cui spero di arrivare. Non le interesserebbero. Ma se fossi al tuo posto le farei vedere le parti che riguardano soltanto la tua vita.

In effetti, se fossi in te non mi curerei di essere amato sulla base di false motivazioni. Non c’è alcun motivo per cui un uomo debba mostrare al mondo la propria vita. Il mondo non comprende le cose. Ma, con le persone di cui si desidera avere l’affetto, la cosa è diversa. Un mio grande amico43 – un’amicizia che dura da dieci anni – venne a trovarmi un po’ di tempo fa e mi disse che non credeva a una sola parola di quello che si diceva contro di me, e voleva farmi sapere che mi considerava del tutto innocente, e vittima di un odioso piano ordito da tuo padre. Scoppiai in lacrime alle sue parole e gli dissi che, anche se molte delle circostanziate accuse di tuo padre erano completamente false e imputate a me con rivoltante malevolenza, tuttavia la mia vita era stata piena di piaceri perversi e di passioni insolite e che, a meno che egli non accettasse questo fatto come un evento che mi riguardava e ne prendesse pienamente coscienza, non mi sarebbe stato più possibile essere suo amico o stare in sua compagnia. Fu un colpo terribile per lui, ma siamo ancora amici e non ho conservato la sua amicizia con false motivazioni. Ti ho spiegato che dire la verità è cosa dolorosa. Essere costretti a dire bugie è molto peggio.

Ricordo, mentre ero seduto sul banco degli imputati, in occasione del mio ultimo processo, di aver ascoltato la spaventosa denuncia che Lockwood44 fece di me – quasi un passo di Tacito o un brano di Dante, una delle accuse di Savonarola contro i Papi di Roma – e di essermi sentito disgustato per l’orrore di ciò che avevo sentito. All’improvviso mi venne in mente: «Sarebbe bellissimo se fossi io a dire tutte queste cose di me!». Allora compresi di colpo che quello che si dice di un uomo non è nulla; quello che conta è chi lo dice. Il momento più nobile per un uomo è, non ho alcun dubbio, quando si inginocchia nella polvere, si batte il petto e confessa tutti i peccati della propria vita. Così dovrebbe essere per te. Saresti molto più felice se dicessi tu stesso a tua madre almeno una parte della tua vita. Nel dicembre 1893 gliene ho raccontato gran parte, ma naturalmente fui costretto a essere evasivo e a mantenermi sulle generali. Non sembrò infonderle più coraggio nei rapporti con te. Al contrario, evitò di guardare la realtà con più ostinazione che mai. Se gliela dicessi tu personalmente, sarebbe diverso. Forse le mie parole possono essere spesso troppo amare per te. Ma i fatti non li puoi negare. Le cose stavano come ho detto e se hai letto questa lettera con l’attenzione che merita, ti saresti dovuto trovare faccia a faccia con te stesso.

Ti ho scritto ora, e così a lungo, in modo che potessi renderti conto di quello che tu eri per me prima della mia prigionia, durante quei tre anni di fatale amicizia, di quello che sei stato per me durante la mia prigionia, al cui termine mancano ancora circa due lune, e di quello che io spero di essere per me stesso e per gli altri quando sarà terminata la mia prigionia. Non posso ricostruire la mia lettera o riscriverla. Devi prenderla così com’è: macchiata di lacrime in molti punti, dei segni della passione e del dolore in altri, e interpretarla come meglio potrai, macchie, correzioni e tutto il resto. Per quanto riguarda le correzioni e gli errata, li ho fatti perché le mie parole fossero espressione integrale dei miei pensieri, e le mie parole non sbagliassero, né per eccesso, né per inadeguatezza. Il linguaggio deve essere intonato come un violino e, come troppe o troppo poche vibrazioni nella voce del cantante o lo stridere della corda renderanno la nota falsa, allo stesso modo troppe o troppo poche parole altereranno il messaggio. Ad ogni modo, così com’è, la mia lettera contiene un significato preciso in ogni frase. In essa non c’è nulla di retorico. Là dove ci sono cancellature o sostituzioni, per quanto lievi, per quanto elaborate, è perché sto cercando di dare voce alle mie vere impressioni, di trovare l’esatto equivalente al mio stato d’animo. Ciò che viene prima nel sentimento, viene sempre ultimo nella forma.

Ammetto che si tratta di una lettera aspra. Non ti ho risparmiato. Puoi proprio dire che, dopo aver ammesso che mettere sullo stesso piatto della bilancia te e il più piccolo dei miei dolori, la più infima delle mie perdite, avrei agito in modo veramente scorretto nei tuoi confronti; nonostante ciò, io l’ho fatto, e ho effettuato punto per punto l’analisi più accurata della tua natura. Questo è vero, ma devo ricordare che sei stato tu a metterti sul piatto della bilancia.

Devi ricordare che, se equiparato a un solo momento della mia prigionia, il piatto su cui ti trovi precipita, è perché la Vanità te l’ha fatto scegliere, ed è sempre la Vanità che ti ci ha fatto rimanere attaccato. Quello fu il solo grande errore psicologico della nostra amicizia, la sua totale mancanza di proporzioni. Ti sforzasti di entrare in una vita troppo grande per te, la cui orbita trascendeva la tua capacità di vedere non meno che il tuo potere di movimento ciclico, una vita in cui i pensieri, le passioni e le azioni erano di spessore profondo, di ampio interesse e carichi, troppo, direi, di sviluppi splendidi o terribili. La tua vita piccina di capricci e umori era ammirevole nella sua sfera piccina. Era ammirevole a Oxford, dove la cosa peggiore che ti potesse capitare era una reprimenda da parte del Preside o una convocazione in Presidenza, e dove la massima eccitazione era che il Magdalen diventasse il campione della regata e che si accendesse un falò nel cortile per celebrare l’augusto evento. La tua vita sarebbe dovuta continuare nella sua sfera dopo che lasciasti Oxford. Per ciò che ti riguardava ti sentivi a posto. Eri un esemplare perfetto di un tipo molto moderno. Era semplicemente in rapporto a me che eri sbagliato. La tua incauta stravaganza non era un crimine; la giovinezza è sempre stravagante. Quello che era vergognoso è che tu costringessi me a pagare le tue stravaganze. Il tuo desiderio di avere un amico con cui poter passare il tempo dalla mattina alla sera era affascinante, quasi idilliaco. Ma l’amico al quale ti legavi non avrebbe dovuto essere un uomo di lettere, un artista, una persona alla quale la tua continua presenza distruggeva completamente tutto il suo bel lavoro e di fatto paralizzava la sua facoltà creativa. Non c’era alcun male nel fatto che tu ritenessi sul serio che il modo migliore di trascorrere il pomeriggio fosse un pranzo con champagne al Savoy, seguito da un palco al music-hall, e per finire, come bonne-bouche, da una cena con champagne da Willis. Moltissimi deliziosi giovani a Londra la pensano allo stesso modo. Non è neanche un’eccentricità; è la qualifica per diventare membro di White. Ma tu non avevi alcun diritto di esigere che fossi io il procacciatore di questi piaceri. Ciò dimostrava la tua mancanza di un riconoscimento reale del mio genio. E ancora, il tuo litigio con tuo padre – qualunque cosa si possa pensare del suo carattere – è ovvio che sarebbe dovuto rimanere una questione da risolvere completamente fra voi. Sarebbe dovuto proseguire nel vostro cortile interno. Credo che liti del genere di solito restino private. Il tuo errore fu insistere a che essa venisse recitata come una tragicommedia sul palcoscenico della Storia, con il mondo intero a fare da spettatore, e con me a far da premio per il vincitore della spregevole gara. Il fatto che tuo padre ti odiasse, e che tu odiassi lui, non era motivo di alcun interesse per il pubblico inglese; sentimenti del genere sono molto comuni nella vita familiare degli Inglesi, e dovrebbero essere confinati nel luogo di cui sono espressione: vale a dire la famiglia. Al di fuori dell’ambito familiare sono del tutto fuori di luogo. Trasferirli è un delitto. La vita familiare non deve essere considerata come un drappo rosso da sbandierare per le strade, o un corno roco da suonare sui tetti delle case. Hai tolto la Vita Familiare dalla sua propria sfera, esattamente nello stesso modo in cui tu ti sei tolto dalla tua sfera.

E coloro che abbandonano la sfera che a loro spetta cambiano semplicemente il loro ambiente, non la loro natura. Non acquisiscono i pensieri o le passioni adatte alla sfera nella quale entrano. Non è in loro potere farlo. Le forze emotive, come dico nelle Intenzioni, sono di durata ed estensione limitate, pari alle forze dell’energia fisica45. La piccola coppa che è fatta per tenere un tanto, può tenere quel tanto e non più, anche se tutti i tini di Borgogna sono colmi di vino fino all’orlo, e i vendemmiatori sono sommersi fino alle ginocchia nei grappoli raccolti dai pietrosi vigneti spagnoli. Non c’è errore più comune del pensare che coloro i quali sono parte od occasione di grandi tragedie condividano i sentimenti adatti allo stato d’animo tragico: non esiste errore più fatale che aspettarsi questo da loro. Il martire nella sua «veste di fiamma» può arrivare a vedere il volto di Dio, ma per colui che sta accatastando le fascine o spargendo i ciocchi per l’accensione, l’intera scena non rappresenta più che ammazzare un bue da parte del macellaio, o abbattere un albero per il carbonaio nella foresta, o recidere un fiore per una persona che stia tagliando l’erba con una falce. Le grandi passioni sono per le grandi menti, e i grandi eventi possono essere visti soltanto da coloro che sono allo stesso livello.

Nel teatro drammatico non conosco niente di più incomparabile dal punto di vista dell’Arte, o più suggestivo per sottigliezza di osservazione, del ritratto che Shakespeare fece di Rosencrantz e Guildenstern. Sono amici di Amleto dai tempi degli studi. Sono stati suoi compagni. Recano con sé ricordi di giorni piacevoli passati insieme. Quando lo incontrano, nel dramma, Amleto barcolla sotto il peso di un fardello insostenibile per una persona del suo temperamento. I morti sono usciti armati dal sepolcro per imporgli una missione che è allo stesso tempo troppo grande e troppo meschina per lui. Egli è un sognatore e gli viene richiesto di agire. Ha la natura del poeta e gli viene chiesto di venire alle prese con le comuni complicazioni di causa ed effetto, con la vita nel suo svolgimento pratico, di cui non sa nulla, non con la vita nella sua essenza ideale, di cui sa molto. Non ha alcuna idea di cosa fare, e la sua follia è fingere follia. Bruto usò la pazzia come mantello per nascondere la spada del suo scopo, il pugnale della sua volontà, ma per Amleto la pazzia è semplicemente la maschera per nascondere la debolezza. Nelle smorfie e nelle facezie egli vede una possibilità di rimandare. Continua a giocare con l’azione come l’artista con una teoria. Si fa spia delle proprie azioni e, nell’ascoltare le sue stesse parole, sa che esse non sono altro che «parole, parole, parole». Invece di cercare di essere l’eroe della propria storia egli cerca di essere lo spettatore della propria tragedia. Non crede a nulla, incluso se stesso, e tuttavia il suo dubitare non lo aiuta perché non deriva da scetticismo ma da una volontà divisa.

Di tutto ciò Guildenstern e Rosencrantz non si accorgono. Si inchinano, ammiccano e sorridono, e quello che l’uno dice l’altro ripete con fare ancora più sciocco. Quando alla fine, attraverso il dramma nel dramma e la schermaglia delle marionette, Amleto «afferra la coscienza» del Re e caccia dal trono lo sciagurato in preda al terrore, Guildenstern e Rosencrantz non vedono altro nel suo comportamento che una spiacevolissima violazione dell’etichetta di corte. Questo è tutto quello a cui possono arrivare «nella contemplazione dello spettacolo della vita con emozioni appropriate». Sono vicini al suo segreto, eppure non ne sanno nulla, né servirebbe a niente dirglielo. Essi sono le piccole coppe che possono contenere tanto e non più. Verso la fine viene suggerito che, presi in un’astuta trappola preparata per un altro, sono andati incontro, o potrebbero andare incontro, a una morte violenta e improvvisa. Ma una fine tragica di questo tipo, sebbene toccata dall’umorismo di Amleto con qualcosa di simile alla sorpresa e alla giustizia della commedia, non è davvero per gente come loro. Non muoiono mai. Orazio, che per «difendere Amleto e la sua causa nel giusto modo di fronte ai malcontenti»

 

Lo allontana un po’ dalla felicità,

E in questo aspro mondo trae il suo respiro nel dolore

 

muore, anche se non davanti a un pubblico, e non lascia fratelli. Ma Guildenstern e Rosencrantz sono immortali come Angelo e Tartufo, e dovrebbero essere collocati insieme a loro. Essi sono il contributo della vita moderna all’antico ideale di amicizia. Colui che scriverà un nuovo De amicitia dovrà trovare loro una nicchia e cantarne lodi in prosa tuscolana. Sono dei caratteri fissati per sempre; censurarli mostrerebbe una mancanza di apprezzamento. Sono semplicemente al di fuori della propria sfera: tutto qui. La sublimità dell’anima non è contagiosa; i grandi pensieri e le grandi emozioni sono isolati dalla loro stessa esistenza. Quello che la stessa Ofelia non riuscì a comprendere non doveva essere capito da «Guildenstern e dal gentile Rosencrantz», o da «Rosencrantz e dal gentile Guildenstern». Naturalmente non propongo di paragonarli a te. Fra di voi c’è una grossa differenza. Ciò che per loro fu caso, per te fu scelta. Deliberatamente e senza essere invitato da me tu ti introducesti a forza nella mia sfera, dove usurpasti un posto per il quale non avevi né diritto né qualificazioni, ed essendo riuscito, con curiosa perseveranza e rendendo la tua presenza parte di ogni singola giornata, ad assorbire tutta la mia vita, non riuscisti a fare di meglio che fare a pezzi quella stessa vita. Per quanto possa sembrarti strano, era del tutto naturale che tu dovessi agire così. Se si dà a un bambino un giocattolo troppo bello per la sua piccola mente, o troppo bello per i suoi occhi mezzo addormentati, egli lo romperà se è ostinato, se è disattento lo lascerà cadere e se ne andrà a giocare con i suoi compagni. Così è successo a te. Dopo esserti impossessato della mia vita non hai saputo cosa fartene. Non avresti potuto saperlo, era una cosa troppo bella per essere di tuo possesso. Avresti dovuto farla scivolare dalle tue mani e tornartene ai giochi dei tuoi compagni. Ma purtroppo eri testardo, perciò la rompesti. Dopo aver detto tutto è forse questo il segreto ultimo di tutto quello che è successo: i segreti sono sempre più piccoli delle loro manifestazioni. Spostando un atomo il mondo potrebbe tremare. E aggiungerò questo per dirti che non risparmio me stesso più di quanto non faccia con te: per pericoloso che fosse il mio incontro con te, fu reso fatale dal particolare momento in cui ci incontrammo, in quanto tu eri in quel periodo della vita in cui tutto quello che si fa non è altro che spargere semi, io ero invece in quel periodo in cui tutto quello che si fa non è che raccogliere i frutti.

Ci sono altre cose di cui devo scriverti. La prima riguarda il mio fallimento. Alcuni giorni fa ho sentito dire – lo ammetto, con grande disappunto – che adesso è troppo tardi perché la tua famiglia possa liquidare tuo padre, che sarebbe illegale, e che io devo rimanere nella mia attuale, dolorosa condizione per parecchio tempo a venire. È spiacevole per me, perché fonti legali mi hanno assicurato che non posso pubblicare neanche un libro senza il permesso del Curatore Fallimentare, al quale devono essere sottoposti tutti i conti. Non posso fare un contratto con il direttore di un teatro, o mettere in scena un’opera senza che le entrate passino a tuo padre e ai miei pochi altri creditori. Ritengo che persino tu ammetterai ora che lo schema di «avere la meglio» su tuo padre permettendogli di farmi dichiarare insolvente non è stato affatto il successo brillante e completo nel quale tu immaginavi si dovesse trasformare. A ogni modo tale non è stato per me, e avresti dovuto tener conto dei miei sentimenti di dolore e di umiliazione nella mia condizione di povero, piuttosto che del tuo senso dell’umorismo, per quanto caustico o imprevedibile. Per come sono andate le cose nel permettere che io andassi fallito e nello spingermi al primo processo, eri di fatto manovrato dalle mani di tuo padre, e facevi esattamente quello che lui voleva. In te – per quanto tu non intendessi avere un così terribile incarico – egli ha sempre trovato il suo principale alleato.

Nella sua lettera More Adey mi dice che la scorsa estate tu hai espresso in più di un’occasione il desiderio di rifondermi «un po’ di quello che avevo speso» per te. Come gli ho detto nella mia risposta, sfortunatamente ho speso per te la mia arte, la mia vita, il mio nome, il mio posto nella storia, e se anche la tua famiglia avesse a sua disposizione tutte le cose meravigliose del mondo, di ciò che il mondo reputa meraviglia, genio, bellezza, ricchezza, alta posizione sociale e così via, e le ponesse tutte ai miei piedi, non mi ripagherebbero neanche un pezzetto delle più piccole cose che mi sono state prese, o una lacrima delle lacrime che ho sparso. Tuttavia, tutto ciò che si fa deve essere pagato, anche per l’insolvenza è così. Mi sembra che tu abbia l’impressione che il fallimento sia un modo conveniente attraverso il quale un uomo possa evitare di pagare i suoi debiti: di fatto per «avere la meglio sui suoi creditori». È proprio il contrario. È il metodo con cui i creditori di un uomo «hanno la meglio» su di lui, se dobbiamo continuare a usare la tua frase preferita, e per mezzo del quale la Legge, confiscando tutte le sue proprietà, lo costringe a pagare tutti i suoi debiti, e se non ci riesce lo lascia senza un soldo come il più comune dei mendicanti che sta sotto un arco, o si trascina lungo una strada, tendendo la mano per l’elemosina che, almeno in Inghilterra, ha paura di chiedere. La Legge mi ha tolto non soltanto tutto ciò che ho: i miei libri, i mobili, i quadri, i diritti d’autore sulle opere pubblicate, i diritti sulle mie commedie, tutto, a partire da Il principe felice e Il ventaglio di Lady Windermere, fino alle guide sulle scale e al tappetino fuori dalla mia casa, ma anche tutto quello che potrò mai avere. È stata venduta ad esempio la mia parte nel mio contratto di matrimonio. Fortunatamente l’ho potuta ricomprare attraverso i mei amici; altrimenti, in caso di morte di mia moglie, i miei due bambini durante la loro vita sarebbero rimasti senza un soldo, come me. La mia parte nel nostro podere in Irlanda, lasciatami in eredità da mio padre, suppongo sarà la prossima cosa a essere venduta. Sono molto amareggiato per questa vendita, ma devo sottomettermi.

I settecento pence di tuo padre – o sono sterline? – rappresentano una questione irrisolta e devono essere risarciti. Perfino quando sarò spogliato di tutto quello che ho, e mai avrò, e verrò congedato come irrimediabilmente Insolvente, dovrò ancora pagare i miei debiti. I pranzi al Savoy – il chiaro brodo di tartaruga, i deliziosi ortolani46 avvolti nelle foglie crespe di vite siciliana, lo champagne dall’intenso colore ambra, e quasi dello stesso sapore: credo che il tuo vino preferito fosse il Dagonet del 1880, tutto ciò deve essere ancora pagato. Le cene da Willis, la cuvée speciale di Perrier-Jouet sempre riservata per noi, i deliziosi pâtés fatti arrivare direttamente da Strasburgo, il magnifico fine champagne servito sempre nel fondo di quei grandi bicchieri a campana perché il suo bouquet fosse gustato meglio dai veri intenditori di ciò che è veramente squisito nella vita – tutto ciò non può non venir pagato, come i brutti debiti di un client disonesto. Persino i graziosi gemelli – quattro pietre lunari di argento nebbioso, attorno alle quali si alternavano un rubino e un diamante – disegnati da me e fatti fare da Henry Lewis come regalino speciale per te, per celebrare il successo della mia seconda commedia – persino quelli – benché credo che tu li abbia venduti pochi mesi dopo per quattro soldi, devono essere pagati. Non posso permettere che ci rimetta il gioielliere per i regali che ti ho fatto, indipendentemente dalla fine che tu gli abbia fatto fare. Perciò, anche se verrò assolto, capisci che avrò ancora i miei debiti da pagare.

E quel che vale per un debitore insolvente vale per tutti nella vita. Per ogni minima cosa che viene fatta qualcuno deve pagare. Persino tu – con tutto il tuo desiderio di assoluta libertà da qualsiasi dovere, la tua insistenza a che gli altri ti forniscano di tutto, i tuoi tentativi di respingere qualsiasi richiesta del tuo affetto, della tua considerazione, della tua gratitudine – persino tu un giorno dovrai riflettere seriamente su quello che hai fatto, e cercare, per quanto inutilmente, di fare qualche tentativo di ammenda. Il fatto che non sarai in grado di farlo costituirà una parte della tua punizione. Non puoi lavarti le mani di tutte le responsabilità e scrollando le spalle o sorridendo proporre di passare oltre, a un nuovo amico e a un banchetto appena imbandito. Non puoi considerare tutto quello che mi hai procurato come un ricordo sentimentale da servire di tanto in tanto con le sigarette e i liqueurs, uno sfondo pittoresco a una moderna vita di piaceri, come un vecchio arazzo appeso in una qualsiasi locanda. Per il momento può attrarre come una salsa nuova o un vino fresco, ma gli avanzi di un banchetto diventano stantii e la feccia di una bottiglia è amara. Oggi, domani o un altro giorno, dovrai rendertene conto. Altrimenti forse morirai senza averlo fatto, e in tal caso avrai avuto una vita mediocre, vissuta nel languore, senza fantasia. Nella mia lettera a More ho suggerito un punto di vista dal quale avresti fatto bene ad affrontare l’argomento prima possibile. Ti dirà lui di cosa si tratta. Per comprenderlo dovrai affinare la tua immaginazione. Ricordati che l’immaginazione è quella qualità che permette di vedere sia le cose che le persone tanto nei loro rapporti reali che in quelli ideali. Se non riesci a capirlo da te, parlane con altri. Io ho dovuto guardare in faccia il mio passato. Guardalo in faccia anche tu. Siediti in silenzio e riflettici. La superficialità è il vizio supremo. Tutto ciò che viene compreso è giusto. Parlane con tuo fratello. Percy è proprio la persona adatta con la quale parlarne, fagli leggere questa lettera e raccontagli con abbondanza di particolari la nostra amicizia. Quando le cose gli saranno esposte con chiarezza, non ci sarà giudizio migliore. Se gli avessimo detto la verità, quante sofferenze e vergogne mi sarebbero state risparmiate! Ricordi che ti avevo proposto di farlo, la notte in cui arrivasti a Londra da Algeri. Ti rifiutasti nel modo più assoluto. Così, quando arrivò dopo cena, dovemmo recitare la commedia della pazzia di tuo padre soggetto a manie assurde e inspiegabili. Fu una commedia di prim’ordine finché durò, tanto più che Percy la prese serissimamente. Sfortunatamente si concluse in maniera estremamente disgustosa. Quello di cui ti sto scrivendo ora è uno dei suoi risultati, e se per te dovesse costituire una seccatura, ti prego di non dimenticarti che si tratta della più profonda delle mie umiliazioni, e che devo sopportarla fino in fondo. Non ho alcuna scelta. Neanche tu ce l’hai.

La seconda cosa della quale devo parlarti riguarda la condizione, le circostanze e il luogo del nostro incontro quando si sarà concluso il periodo della mia incarcerazione. Da brani della tua lettera a Robbie, scritta all’inizio dell’estate dello scorso anno, so che hai chiuso in due pacchi le mie lettere e i regali che ti avevo fatto – almeno quello che resta di entrambi – e sei ansioso di consegnarmeli di persona. È infatti necessario che tu rinunci ad essi. Tu non capivi perché ti scrivessi bellissime lettere, più di quanto non capivi perché ti facessi bellissimi regali. Non riuscisti a capire che le prime non erano fatte per essere pubblicate più di quanto i secondi per essere dati in pegno. Inoltre, essi appartengono a una parte della vita che è finita da molto tempo, a un’amicizia che, in qualche modo, tu eri incapace di apprezzare per il suo giusto valore. Ora devi voltarti a guardare con meraviglia i giorni in cui avevi la mia vita tutta intera nelle tue mani. Anche io li riguardo con meraviglia, e con altre, ben diverse, emozioni.

Verrò rilasciato, se tutto va bene, verso la fine di maggio, e spero di andare subito in qualche piccolo paese di mare all’estero con Robbie e More Adey. Il mare, come dice Euripide in una delle sue tragedie su Ifigenia, lava le macchie e le ferite del mondo. Θάλασσα κλύζει τ'ανθρώπων κακά47.

Spero di stare almeno un mese con i miei amici, e di riacquistare, grazie alla loro salutare e affettuosa compagnia, pace ed equilibrio, un cuore più sereno e una disposizione d’animo più dolce. Ho uno straordinario desiderio delle grandi cose semplici e primordiali, come il Mare, che per me è madre non meno della Terra. Mi sembra che tutti noi guardiamo troppo la Natura, e viviamo troppo poco insieme ad essa. Scorgo un grande equilibrio nell’atteggiamento dei Greci. Essi non parlavano mai dei tramonti, né discutevano se le ombre sull’erba fossero o no color malva. Ma capivano che il mare era fatto per il nuotatore, e la sabbia per i piedi del corridore. Amavano gli alberi per la loro ombra, e la foresta per il suo silenzio nel meriggio. Il vignaiolo intrecciava i suoi capelli con l’edera per tenere lontani i raggi del sole mentre era chino sui giovani germogli; e per l’artista e l’atleta, i due tipi che la Grecia ci ha dato, essi intrecciavano in ghirlande le foglie dell’amaro alloro e della petrosella, che altrimenti non avrebbero avuto alcuna utilità per l’uomo.

Diciamo che la nostra è un’epoca utilitaristica, e tuttavia non conosciamo gli usi delle singole cose. Ci siamo dimenticati che l’Acqua può pulire, e il Fuoco purificare, e che la Terra è madre di tutti noi. Di conseguenza la nostra Arte è arte della Luna e gioca con le ombre, mentre l’arte greca è arte del Sole e tratta direttamente con le cose. Sono sicuro che nelle forze elementari ci sia catarsi, e voglio tornare ad esse e vivere al loro cospetto. Certo per un moderno come me, enfant de mon siècle, sarà sempre piacevole anche soltanto guardare il mondo. Ho un tremito di gioia al pensiero che, quello stesso giorno in cui lascerò il carcere, il laburno e il lillà saranno in fiore nei giardini, e vedrò il vento agitare con bellezza inquieta il fluttuante oro dell’uno e scuotere il pallido color porpora delle piume dell’altro, così che l’aria sarà pervasa per me dei profumi d’Arabia. Linneo cadde in ginocchio e pianse di gioia quando vide per la prima volta l’immensa brughiera di qualche altopiano inglese ingiallita dai fiori fulvi e aromatici della ginestra; e so che per me, che amo i fiori, ci sono in serbo lacrime nei petali di qualche rosa. È sempre stato così per me, dall’adolescenza. Non c’è un solo colore nascosto nel calice di un fiore, o nella curva di una conchiglia, al quale, per qualche indefinibile comunanza con l’anima stessa delle cose, la mia natura non risponda. Allo stesso modo di Gautier sono sempre stato uno di coloro pour qui le monde visible existe.

Tuttavia sono consapevole ora che dietro tutta questa Bellezza, per quanto sia soddisfacente, c’è nascosto qualche Spirito di cui le figure e le forme dipinte non sono che maniere di manifestarsi, ed è con questo Spirito che desidero entrare in sintonia. Mi sono stancato delle espressioni articolate degli uomini e delle cose. Il Mistico nell’Arte, il Mistico nella Vita, il Mistico in Natura: questo è ciò che cerco e posso trovarlo nelle grandi sinfonie della Musica, nell’iniziazione al Dolore, negli abissi del Mare. È assolutamente necessario per me trovarlo da qualche parte.

Tutti i processi sono processi alla propria vita, così come tutte le condanne sono condanne di morte, e io sono stato processato tre volte. La prima volta ho lasciato il banco degli imputati per essere arrestato, la seconda volta per essere ricondotto alla Casa di Pena, la terza per trascorrere due anni in prigione. La società, così come è stata da noi costituita, non avrà spazio per me, non ne ha nessuno da offrire, ma la Natura, le cui dolci piogge cadono sia sul giusto che sul colpevole, avrà crepacci nelle rocce dove io potrò nascondermi, e vallate segrete nel cui silenzio potrò piangere indisturbato. Essa appenderà stelle al cielo notturno così che io possa passeggiare nell’oscurità senza inciampare, e farà soffiare il vento sulle mie impronte così che nessuno possa inseguirmi per farmi del male: mi laverà nelle sue grandi acque, e mi guarirà con le sue erbe amare.

Quando il mese sarà finito, quando le rose di giugno avranno tutta la loro lussureggiante opulenza, cercherò, se possibile, di combinare attraverso Robbie un incontro con te in qualche tranquilla città straniera, come Bruges, le cui case grigie e i verdi canali e le silenziose e fresche strade esercitavano un certo fascino su di me, anni fa. Per quell’occasione dovrai cambiare nome. Dovrai rinunciare al piccolo titolo di cui andavi tanto vanitoso – e che in effetti dava al tuo nome il suono di un fiore –, se desideri incontrarmi; a mia volta anch’io dovrò abbandonare il mio nome, che suonava tanto musicale in bocca alla Fama. Com’è angusto, meschino e inadeguato al suo fardello questo nostro secolo! Può dare al Successo il suo palazzo di porfido, ma per il Dolore e la Vergogna non serba nemmeno una capanna di canne come dimora: tutto quello che può fare per me è ordinarmi di mutare il mio nome in un altro nome, mentre persino il Medioevo mi avrebbe dato il cappuccio da monaco o lo straccio che copre il volto del lebbroso, dietro ai quali sarei potuto stare in pace.

Dopo tutto quello che è successo spero che il nostro incontro sarà come dovrebbe essere un incontro tra di noi. Nel passato c’è sempre stato tra di noi un grande abisso, l’abisso tra l’Arte realizzata e la cultura acquisita; adesso ce n’è uno ancora più vasto, l’abisso del Dolore, ma non c’è nulla che sia impossibile all’Umiltà, e per l’Amore tutto è facile.

Per quanto riguarda la lettera che mi scriverai in risposta, può essere lunga o breve, a tua scelta. Indirizza la busta a «Il Direttore, prigione di Sua Maestà, Reading». Dentro, in un’altra busta aperta, metti la tua lettera per me: se la carta è molto sottile non scrivere su entrambi i lati, perché diventa difficile da leggere. Ti ho scritto in perfetta libertà, tu fai altrettanto. Quello che devo sapere da te è perché non hai mai fatto alcun tentativo di scrivermi, poiché dall’agosto di due anni fa e soprattutto in seguito, nel maggio dello scorso anno (sono ora undici mesi), sapevi, e ammettevi con altri di sapere, quanto mi avevi fatto soffrire e come io me ne fossi accorto. Un mese dopo l’altro ho atteso tue notizie. Anche se non ti avessi aspettato, ma ti avessi chiuso le porte in faccia, avresti dovuto ricordare che nessuno può in alcun modo chiudere le porte in faccia all’Amore per sempre. Il giudice ingiusto dei Vangeli si alza alla fine per dare un giusto verdetto, perché la Giustizia viene a bussare ogni giorno alla sua porta; e di notte l’amico nel cui cuore non c’è vera amicizia cede alla fine all’amico «per la sua insistenza». Non c’è prigione al mondo della quale l’Amore non possa forzare l’ingresso. Se non capivi questo allora, non capivi niente dell’Amore. Fammi dunque sapere tutto del tuo articolo su di me per il Mercure de France. Lo conosco in parte. Faresti bene a farne degli estratti, è in bozze. Fammi anche sapere le parole esatte della Dedica che mi hai fatto delle tue poesie. Se è in prosa, cita la prosa; se è in versi, citami i versi. Non ho alcun dubbio che conterrà delle cose belle. Scrivimi di te in tutta franchezza: della tua vita, dei tuoi amici, delle tue occupazioni, dei tuoi libri. Parlami del tuo volume e di come è stato accolto. Qualsiasi cosa tu abbia da dirmi, dilla senza timore. Non scrivere quello che non provi: questo è quanto. Se nella tua lettera c’è qualcosa di falso o di artificioso, lo individuerò immediatamente da come suona.

Non è senza ragione, o senza alcuno scopo che nel culto della letteratura che mi ha accompagnato tutta la vita ho reso me stesso

 

Avaro delle sillabe e del suono

Come Mida dell’oro48.

 

Ricorda inoltre che ancora non ti conosco. Forse dobbiamo ancora conoscerci l’un l’altro.

Per quanto ti riguarda non ho che quest’ultima cosa da dirti. Non avere paura del passato. Se qualcuno ti dirà che è irrevocabile, non credergli. Il passato, il presente e il futuro non sono che un unico momento agli occhi di Dio, alla cui luce dovremmo cercare di vivere. Tempo e spazio, successione ed estensione, sono semplici condizioni accidentali del Pensiero. L’Immaginazione le può trascendere e muoversi in una libera sfera di esistenze ideali. Anche le cose sono, nella loro assenza, ciò che noi scegliamo che siano. Una cosa è, a seconda del modo in cui noi la guardiamo. «Dove gli altri», dice Blake, «non vedono che l’Alba che sorge dalla collina, io vedo i figli di Dio che gridano di gioia»49. Quello che al mondo e a me sembrava il mio futuro, lo persi irreparabilmente quando mi lasciai trascinare a intraprendere un’azione legale contro tuo padre; oserei dire che l’avevo perso molto tempo prima. Ciò che è davanti a me è il mio passato. Devo costringermi a guardarlo con occhi diversi, a farlo guardare dal mondo con occhi diversi, a farlo guardare da Dio con occhi diversi. Questo non posso farlo ignorandolo, sprezzandolo, lodandolo o rinnegandolo. Posso farlo soltanto accettandolo pienamente come una parte inevitabile dell’evoluzione della mia vita e del mio carattere: chinando il capo di fronte a tutto ciò che ho sofferto. Questa lettera, con i suoi cambiamenti, con gli stati d’animo incerti, con il disprezzo e l’amarezza, con le aspirazioni e la sua incapacità di realizzarle, mostra con molta chiarezza quanto io sia lontano dalla giusta disposizione dell’anima. Ma non dimenticare a quale terribile scuola io sieda per il mio compito. E per quanto incompleto, imperfetto io sia, tuttavia tu puoi avere ancora molto da imparare da me. Tu venisti da me per imparare il Piacere della Vita e il Piacere dell’Arte. Forse sono stato scelto per insegnarti qualcosa di più splendido: il significato del Dolore e la sua bellezza.

Il tuo affezionato amico

 

OSCAR WILDE

 

 

 

1 «Plain living and high thinking», W. Wordsworth, Sonnet written in London, September 1802 (N.d.T.).

2 Una donna senza importanza, atto III (N.d.T.).

3 Agamennone, 717-28 (N.d.T.).

4 «Gli dèi sono giusti, e dei nostri piaceri viziosi si fanno strumento per punirci», W. Shakespeare, Re Lear V, III (N.d.T.).

5 Alfred Douglas, Due amori (N.d.T.).

6 Libro dei Re, 22-34 (N.d.T.).

7 W. Shakespeare, Otello (N.d.T.).

8 Noto libro edificante per l’infanzia di Thomas Day (1748-1789) (N.d.T.).

9 In italiano nell’originale, Inferno, III, 51 (N.d.T.).

10 W. Shakespeare, Amleto (N.d.T.).

11 Una donna senza importanza, IV (N.d.T.).

12 In italiano nell’originale. Inferno, VII, 121-122 (N.d.T.).

13 Purgatorio, XXIII, 81 (N.d.T.).

14 J.W. Goethe, Wilhelm Meister, II, 13 (N.d.T.).

15 A. Swinburne, «Before parting», Poems and Ballads (N.d.T.).

16 W. Wordsworth, The Excursion, IV, 139 (N.d.T.).

17 Atti degli Apostoli, 3, 2 (N.d.T.).

18 O. Wilde, L’Artista (N.d.T.).

19 Eliogabalo (N.d.T.).

20 Marco, 5, 5 e 5, 9 (N.d.T.).

21 J. Milton, Comus, 478 (N.d.T.).

22 M. Arnold, A Southern Night (N.d.T.).

23 «Signore, dammi coraggio e forza per guardare/senza disgusto il mio cuore ed il mio corpo», Ch. Baudelaire, «Un Voyage à Cythère», Les Fleurs du Mal (N.d.T.).

24 Isaia, 53, 3 (N.d.T.).

25 Isaia, 52, 14 (N.d.T.).

26 Of Beauty (N.d.T.).

27 Giovanni, 3, 8 (N.d.T.).

28 W. Shakespeare, Sogno di una notte di mezza estate (N.d.T.).

29 Marco, 7, 26-30 (N.d.T.).

30 W. Wordsworth, The Excursion, IV, 763 (N.d.T.).

31 In italiano nell’originale. Purgatorio, XVI, 86-7 (N.d.T.).

32 Matteo, 6, 34 e 6, 25 (N.d.T.).

33 Operetta agiografico-esemplare di Fra Bartolomeo da Pisa (sec. XIV) su San Francesco (N.d.T.).

34 Paradiso, I, 20 (N.d.T.).

35 In M. Arnold, Empedocles on Etna (N.d.T.).

36 The Critic as Artist (N.d.T.).

37 Due ricattatori che cercarono di truffare Wilde durante il processo (N.d.T.).

38 «Ecco dove portano le cattive strade!» Titolo della III parte di Splendori e miseria delle cortigiane di H. de Balzac (N.d.T.).

39 Mola di mulino usata come strumento di tortura, analogamente alla ruota (N.d.T.).

40 Parente di Douglas, in seguito Ministro britannico (N.d.T.).

41 Battuta che compariva in una redazione provvisoria di Una donna senza importanza (N.d.T.).

42 Gioco di parole riferito al filosofo cinico Diogene in cui viene sfruttata la rima tra Club e Tub, inglese per «botte» (N.d.T.).

43 Robert Sherard, precedentemente citato più volte nel testo (N.d.T.).

44 Frank Lockwood fu il Pubblico Ministero nel secondo processo a Oscar Wilde (N.d.T.).

45 The Critic as Artist (N.d.T.).

46 Prelibata qualità di pesce (N.d.T.).

47 Ifigenia in Tauride, 1193 (N.d.T.).

48 Keats, On the Sonnet (N.d.T.).

49 A Vision of the Last Judgement (N.d.T.).

Questo ebook appartiene a lidia barone - 1124737 Edito da Newton Compton Editori Acquistato il 01/08/2011 13.50.20 con numero d'ordine 63790
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