Introduzione
Quando Oscar Wilde disse al giovanissimo André Gide: «Ho messo il mio genio nella mia vita, e solo il talento nelle mie opere», è probabile che stesse solo tentando di sbalordire un piccolo puritano cui aveva deciso di aprire gli occhi sui piaceri proibiti dell’esistenza; ma come spesso gli capitava con le sue dichiarazioni provocatorie, non era, in un certo senso, lontano dalla verità. Non per nulla infatti l’autore del Ritratto di Dorian Gray era stato uno dei primi scrittori a diventare deliberatamente famoso come persona, prima ancora che con i suoi libri. Questa di proporre se stesso contemporaneamente al proprio prodotto era una tattica ancora relativamente recente, la disponibilità moderna a cercare avidamente l’uomo dietro la sua letteratura essendo stata clamorosamente rivelata solo pochi decenni prima, col caso di Byron; ma Byron aveva tutto per colpire la fantasia, era aristocratico, era bello, era misterioso, si presentava insomma come una creatura di un mondo precluso ai comuni mortali. Wilde fu uno dei primi a dimostrare come si poteva incuriosire anche partendo da un retroterra qualunque; dopo di lui, che fu dunque uno dei primi geni dell’autopromozione, comincia una variopinta serie di autori-personaggi che arrivano fino a noi, da D’Annunzio fino a Mishima e ad Aldo Busi, passando per Hemingway e Henry Miller. Diversamente da costoro però Wilde finì per soffrire del meccanismo che aveva un po’ scoperto, un po’ golosamente sfruttato; la notorietà può essere un’arma a doppio taglio, e nel suo caso non si limitò a danneggiarlo presso i critici, razza tradizionalmente esposta all’invidia.
La breve carriera di Wilde, poco più di una decina d’anni con i risultati migliori concentrati negli ultimi cinque o sei, cominciò dunque nel segno di un esibizionismo che sconcertò e affascinò quasi morbosamente gli austeri sudditi della vecchia regina Vittoria. Rapido di riflessi, spiritoso, coltissimo, il dotato figlio di due eccentrici esponenti della migliore società colta di Dublino (dunque, provinciale) – Sir William Wilde, grande oculista, inventore di una operazione per asportare la cateratta, e appassionato collezionista di antichità celtiche, e Lady Francesca, poetessa patriottica con lo pseudonimo italiano di «Speranza» – aveva scoperto a Oxford, dov’era approdato con una borsa di studio, di poter incantare i torpidi inglesi con la sua parlantina; e quando calò su Londra deciso a conquistarla mise a frutto il suo orecchio per la poesia e il suo amore per le cose belle infilandosi nella nuova moda cosiddetta estetica. Era il momento in cui difendere l’arte minacciata di estinzione dalle brutture della Rivoluzione Industriale non era più un vangelo predicato al vento da pochi paladini isolati: le esortazioni per esempio di un John Ruskin a cercare una qualità migliore nell’architettura, nella pittura, e insomma nel mondo visibile, cominciavano a diffondersi fino a creare un gusto e a orientarlo. Wilde si fece il sonoro portavoce di questo atteggiamento, con una disinvoltura che oggi lo avrebbe certamente fatto diventare una stella della Tv. Poiché viveva ai suoi tempi, si contentò di imperversare sui giornali, fornendo materiale ai caricaturisti con le sue pose provocatorie e regalando battute memorabili a chi lo intervistava («Vorrei poter vivere all’altezza della mia porcellana azzurra»). Era già noto quando uscì la sua prima raccolta di poesie, tanto noto che quando si pensò di esportare a New York il successo di Patience, l’operetta di Gilbert e Sullivan dove delle belle ragazze preferiscono a dei virili dragoni certi giovani effeminati dai capelli lunghi, dediti a sospirare sui fiori e a comporre sonetti, un impresario lo scritturò per un lucroso giro di conferenze in America affinché quel pubblico avesse davanti a sé un esponente della nuova moda, con tanto di brache corte di velluto, calze nere di seta e scarpini. Wilde accettò, girò il Nuovo Mondo in lungo e in largo e piacque a tutti i suoi ascoltatori, dalle signore acculturate della Costa Orientale ai minatori del Far West, quelli che apprendendo da lui che Benvenuto Cellini era morto, gli chiesero: «Chi gli ha sparato?».
Quando tornò in Europa agli inizi del 1883, Wilde aveva ventotto anni, e per qualche verso decise di mettere la testa a partito. Fino a quel momento era solo il chiassoso autore di versi di cui i critici avevano sottolineato la scarsa originalità, indebitati com’erano a Keats, Shakespeare, Milton, Tennyson, Swinburne e molti altri grandi della tradizione inglese; aveva anche tentato il teatro, ma una sua pièce, la commedia Vera, era caduta a New York, e un’altra, la tragedia in versi La duchessa di Padova, aveva deluso l’attrice che l’aveva commissionata ed era stata rispedita al mittente. Dopo alcuni mesi trascorsi a Parigi e dopo aver ripreso occasionalmente l’attività del conferenziere, Wilde si sposò con una ragazza della buona borghesia dublinese, latrice di una dote discreta, mise su casa a Chelsea, nel quartiere degli artisti ma senza rinunciare al comfort e al buon gusto, e si gettò in una intensa attività prima di giornalista letterario, impiegando la sua cultura e il suo umorismo per recensire con brio libri e spettacoli, quindi di autore in proprio, non più poeta stavolta, ma prosatore, saggista, narratore, e da ultimo, anche drammaturgo (seguiva il consiglio del suo maestro di Oxford, Walter Pater, il quale gli avrebbe detto: «Perché componete versi, Mr. Wilde? Fate della prosa, è talmente più difficile!»). Sono gli anni della grande produttività, quelli che diedero i frutti per cui è ricordato ancora oggi: le due raccolte di fiabe, quella di racconti, i saggi raccolti in Intenzioni, il romanzo Il ritratto di Dorian Gray, il romanzo-saggio Il ritratto di Mr. W.H., lo strano dramma parasimbolista in francese, Salomé, e quattro commedie di cui due buone, una (Un marito ideale) splendida, e una (L’importanza di essere onesto), capolavoro immortale. Fino a dopo Dorian Gray, che parve un libro ostentatamente immorale, i contemporanei continuarono a guardarlo con sospetto: i recensori di rado gli davano credito, la gente comune lo vedeva un po’ come un giullare, le cui boutades possono divertire ma non vanno prese sul serio; lui stesso aveva spostato il tiro, conducendo le sue polemiche ora nel segno dell’umorismo. Gli argomenti erano ancora quelli di prima, importanza dell’arte e del bello, e necessità di non inquinarli col moralismo; promozione della libertà individuale e orrore per ogni forma di oppressione, a partire da quella, sottile, dell’assistenzialismo e della beneficenza. Ma come Wilde stesso scoprì attraverso i dialoghi di Intenzioni, e come poi mise in pratica col teatro, se si volevano sfidare le convinzioni di lettori e spettatori bisognava farlo scherzosamente, affettando di essere il primo a non credere nelle proprie affermazioni («Vivo nel terrore di non essere frainteso»): nasce così il paradosso wildiano, che rifà il verso alla frase fatta dall’andamento proverbiale, rassicurante, e invece stravolge perversamente il significato («Posso resistere a tutto fuorché alle tentazioni»). Nelle commedie Wilde prese situazioni canoniche del teatro borghese, con avventuriere, scandali repressi e felicità coniugali in pericolo, e le movimentò inserendo echi della sua conversazione scoppiettante. Qui trionfò: lo scavezzacollo irresponsabile sembrava avere assunto la sua identità definitiva, quella dell’intrattenitore leggero, che fa appello all’intelligenza di chi lo ascolta.
Ma l’apoteosi fu di breve durata. Quello stesso astio che poco prima dei maggiori successi sul palcoscenico (il primo dei quali è del febbraio 1892, l’ultimo, del febbraio 1895) aveva spinto il censore a vietargli la rappresentazione di Salomé con Sarah Bernhardt, riesumando una legge dell’epoca della Riforma Protestante, secondo cui non si potevano mettere in scena personaggi delle Sacre Scritture – fu un puro dispetto, accostabile alle vessazioni di cui in tempi più vicini a noi fu vittima un altro provocatore geniale, Pierpaolo Pasolini – quello stesso astio esplose nuovamente quando l’artista, l’intrattenitore, il clown, ebbe la temerarietà di appellarsi alla legge contro un gentiluomo, mettendosi quindi sullo stesso piano di coloro che aveva il compito di rallegrare. Wilde, cui in seguito la Storia avrebbe imposto, certo suo malgrado, le vesti ufficiali di martire del movimento gay, si era avvicinato all’omosessualità durante una fase di stanchezza del suo matrimonio, quando quasi nostalgico di una giovinezza che gli sembrava perduta per sempre aveva cominciato a circondarsi di adolescenti, non sempre appartenenti alla migliore società. Nell’incontro con un affascinante studente di Oxford, per di più titolato, Lord Alfred Douglas, gli era sembrato poi di vivere la storia che aveva già descritto in Dorian Gray (la Natura che imita l’Arte, secondo una sua celebre teoria). Il Marchese di Queensberry, uomo violento e rissoso, padre di Douglas e in perenne polemica col figlio e con la madre di costui, si espresse chiassosamente contro questa unione, e al culmine di una serie di ostilità contro Wilde lasciò all’esteta un biglietto aperto presso un club, tacciandolo di ostentata sodomia. Douglas, che era litigioso come il padre, convinse Wilde a sporgere querela per diffamazione contro il Marchese, che fu quindi arrestato e messo sul banco degli accusati, ma che poi ebbe gioco facile a dimostrare che Wilde era colpevole delle pratiche di cui lo aveva tacciato. Ragazzetti di vita prezzolati e forti dell’immunità garantita dalla loro qualità di testimoni sostanziarono le accuse, e secondo una recente legge umanitaria, che aveva sostituito la precedente (in base alla quale i reati cosiddetti contro natura erano puniti con la morte!), Wilde fu condannato a due anni di carcere duro. Lo scandalo fu colossale, e provocò la rovina economica oltre che sociale del malcapitato: perché le sue commedie furono subito tolte dal cartellone, e non essendo egli in grado di pagare le spese del processo, fu dichiarato insolvente, e i suoi beni, frettolosamente venduti all’asta; inoltre i figli gli furono tolti, inviati all’estero e costretti a cambiare nome. Quando Wilde uscì, indebolito dal trattamento disumano ricevuto in prigione, non gli restavano che tre anni da vivere. Li trascorse all’estero, sostenuto da un piccolo sussidio versatogli dalla moglie e dalla carità di pochi amici, ormai tutti appartenenti alla confraternita clandestina degli omosessuali; e avendo perso l’allegria e la fiducia nella vita, non riuscì a scrivere più nulla, tranne un commovente poemetto di tono umanitario (ma notevole anche per gli echi della sua voce di una volta, alla quale non rinunciò del tutto) – La ballata del carcere di Reading – ispiratogli dall’orrore per quanto visto durante la detenzione. Nel carcere Wilde aveva anche ottenuto il permesso di scrivere una lunga lettera-sfogo-confessione al giovane amico che, ora lo vedeva, era stato il responsabile della sua catastrofe, e questo straordinario documento, non inteso per la circolazione ma in seguito reso noto come De Profundis, gli lascia l’ultima parola sulla sua vicenda.
Questi avvenimenti, clamorosi ai loro tempi e oggetto di innumerevoli rievocazioni da allora in poi, andavano riassunti perché aiutano a spiegare come mai gli scritti di Wilde, pur avendo recuperato facilmente la loro presa sul pubblico quando col tempo il perbenismo, rilassandosi, consentì loro di riprendere a circolare, abbiano dovuto aspettare fino quasi ai nostri giorni per ricevere i debiti onori spettanti da parte degli storici della letteratura e del gusto. Il fatto è che mentre Il ritratto di Dorian Gray continuava ad affermarsi come uno dei romanzi più letti, e L’importanza di essere Onesto come una delle commedie più rappresentate, di tutta la tradizione inglese – mentre Salomé, musicata da Richard Strauss senza l’aggiunta di una sola parola, conquistava e manteneva un posto di primissima fila fra le opere composte nel nostro secolo, e La ballata del carcere di Reading si affermava come il componimento poetico più frequentato anche da coloro che normalmente sono respinti dai versi – Wilde continuava a essere in qualche modo poco rispettabile, un po’ come se tali successi postumi gli derivassero dalla fama, o meglio dall’infamia, attraversata in vita. Ancora trent’anni fa ci fu chi sollevò un sopracciglio quando Richard Ellmann, l’autore di grandi studi biografici su Joyce e Yeats, annunciò l’intenzione di rivolgere la sua attenzione a Wilde. D’altro canto all’esteta non erano mancati nemmeno gli ammiratori, più all’estero per la verità che in patria; un Borges sapeva di andare controcorrente quando lodava la limpidezza del suo stile (così «facile» da essere spesso proposto ai principianti d’inglese, nelle scuole, il che, osservò l’argentino, per uno scrittore dovrebb’essere una lode e non una censura). Anche sulle idee di Wilde Borges disse una cosa inoppugnabile, e cioè che Wilde, per quanto ostentatamente paradossale, ha quasi sempre ragione. Entrambe queste affermazioni sono state confermate dai nostri tempi. Non solo oggi Wilde ha ancora più lettori e spettatori di quanti ne abbia avuti mai; ma gli si può tranquillamente attribuire la qualifica di autore di prima grandezza senza rischiare di passare per ignoranti o superficiali. Dei suoi argomenti, molti sono ancora attuali, e gli altri mantengono un profondo interesse storico; quanto alla voce che li espresse, il suo tono inimitabilmente ironico anticipa quello della maggiore letteratura moderna, quella per intenderci dei Joyce e degli Svevo, dei Kafka, dei Waugh, dei Bellow, e insomma di tutti i maestri che più amiamo, quelli che sazi di retorica e di ostentate certezze, hanno affrontato l’universo con l’arma del dubbio espresso tramite la comicità.
MASOLINO D’AMICO