Le radici della critica storica
1. La critica storica non si verifica mai come un fatto isolato nella civiltà o nella letteratura di un popolo. Fa parte di quel complesso procedere verso la libertà che può essere descritto come la rivolta contro l’autorità. È semplicemente un aspetto dello spirito speculativo di un’innovazione, il quale nella sfera dell’azione produce la democrazia e la rivoluzione e, in quella del pensiero, è padre della filosofia e della scienza fisica; e la sua importanza come fattore di progresso dipende non tanto dai risultati che consegue quanto dal carattere del pensiero che rappresenta e dal metodo con cui lavora.
Essendo la risultante di forze essenzialmente rivoluzionarie, non la si può trovare nel mondo antico, tra i dispotismi materiali dell’Asia o nella stazionaria civiltà egiziana. I cilindri d’argilla di Assiria e Babilonia, i geroglifici delle piramidi non sono storia, ma materiale per la storia.
Gli annali cinesi, che risalgono al periodo barbarico in cui quel popolo viveva nella foresta, sono caratterizzati da un sobrietà di giudizio e da una obiettività che non hanno paralleli nelle opere di nessun altro popolo; ma lo spirito protezionistico che caratterizza quel popolo si è dimostrato fatale per la sua letteratura come per il suo commercio. La libera critica gli è ignota proprio come il libero commercio. Con riferimento agli indù, la loro mente acuta, analitica e logica è più orientata verso la critica grammaticale e la filosofia che verso la storia o la cronologia. Nella storia la loro immaginazione sembra essersi scatenata, leggende e fatti sono mescolati così indissolubilmente che ogni tentativo di separarli sembra vano. Eccezion fatta per l’identificazione del greco Sandracottus con l’indiano Chandragupta, non abbiamo proprio nessun indizio per saggiare la verità dei loro scritti o esaminare il loro metodo di investigazione.
È nel gruppo ellenico della razza indogermanica che possiamo trovare la storia vera e propria nonché lo spirito della critica storica: tra quei meravigliosi rampolli dei primitivi ariani che definiamo Greci e ai quali, come qualcuno ha giustamente detto, dobbiamo tutto ciò che si muove nel mondo, tranne le cieche forze della natura.
Infatti, dal giorno in cui quel popolo nomade lasciò i gelidi altopiani del Tibet e si mise in viaggio verso le coste egee, la caratteristica della sua natura è stata la ricerca della luce, e lo spirito della critica storica fa parte di quella meravigliosa Aufklärung, o illuminazione dell’intelletto, che sembra essere divampata nella razza greca, come una grande inondazione di luce, intorno al VI secolo a.C.
L’esprit d’un siècle ne naît pas et ne meurt pas à jour fixe1, e la prima critica forse è tanto difficile da reperire quanto il primo uomo. È dalla democrazia che lo spirito della critica desume la sua intolleranza verso l’autorità dogmatica, dalla scienza fisica le seducenti analogie di legge e ordine, dalla filosofia la concezione di un’unità essenziale sottostante alle complesse manifestazioni fenomeniche. Essa appare, in primo luogo, più un atteggiamento mentale modificatosi che un principio di ricerca, e le sue influenze più antiche si rinvengono negli scritti sacri.
L’uomo, infatti, cominciò a dubitare dapprima in fatto di religione e poi su questioni di interesse più secolare: e quanto alla stessa natura dello spirito della critica storica nei suoi sviluppi definitivi, essa non si limita semplicemente al metodo empirico di accertare se un evento si sia verificato o meno, ma si occupa anche di studiare le cause degli eventi, i rapporti che intercorrono tra i vari fenomeni vitali e, nel suo sviluppo definitivo, essa passa al problema più vasto della filosofia della storia.
Orbene, per quanto le opere della critica storica nelle due sfere della storia sacra e di quella profana siano essenzialmente manifestazioni dello stesso spirito, tuttavia i loro metodi sono così diversi e i canoni dell’evidenza tanto nettamente separati e le motivazioni, nei singoli casi, così reciprocamente incoerenti che sarà necessario, per una chiara valutazione del progresso del pensiero greco, considerare questi due problemi in modo completamente distinto. Assumerò quindi in entrambi i casi che l’ordine cronologico degli scrittori sia rappresentativo dell’ordine razionale, per quanto la successione del tempo non sia sempre la successione delle idee né la dialettica si muova su quella linea retta sulla quale Hegel concepisce il suo avanzamento. Nel pensiero greco, come ovunque, ci sono periodi di stagnazione e apparente indietreggiamento, ma lo sviluppo intellettuale dei Greci, non soltanto in fatto di critica storica ma anche nella loro arte, nella loro poesia e nella loro filosofia, sembra così essenzialmente normale, così libero da ogni influenza di disturbo esterna, così peculiarmente razionale, che nel seguire i passi del tempo seguiremo davvero l’ordine sanzionato dalla ragione.
2. In un periodo ancora agli inizi del loro sviluppo intellettuale i Greci raggiunsero quel punto critico per ogni nazione civilizzata quando il pensiero speculativo invade il dominio delle verità rivelate, quando le idee spirituali di un popolo non sono più soddisfatte dalle concezioni inferiori e materiali dei loro scrittori sacri e quando agli uomini sembra impossibile versare il nuovo vino del libero pensiero nelle vecchie bottiglie di un credo angusto, che è solo d’intralcio.
Dai loro antenati ariani essi avevano fatalmente ereditato una mitologia macchiata da storie immorali e mostruose, storie che cercavano di nasconde-re l’ordine razionale della natura in un caos di miracoli e di guastare, accusandola di malvagità, la perfezione della natura divina: una vera e propriatunica di Nesso, in cui gli Eracli del razionalismo difficilmente sfuggivanoall’annientamento. Ora, mentre indubbiamente le speculazioni di Talete e leseducenti analogie di legge e ordine offerte dalla scienza fisica furono le for-ze più importanti nell’incoraggiare la nascita dello spirito scettico, tuttaviafu principalmente dal lato etico che la mitologia greca era esposta a ogni attacco.
È difficile scuotere la fede popolare nei miracoli, ma nessuno ammetterà che peccati e immortalità siano attributi dell’ideale che adora; così i primi sintomi di un nuovo ordine di pensiero sono rivelati dalle grida appassionate di Senofane ed Eraclito contro le malvagità che Omero attribuisce ai figli di Dio; e nella storia che si racconta di Pitagora, di come egli vide torturati all’inferno «due fondatori della teologia greca», possiamo riconoscere la nascita dell’Aufklärung con la stessa chiarezza con cui vediamo, nell’Inferno di Dante, i presagi della Riforma.
Di conseguenza ogni sincera fede nella limpida verità di queste storie dovette presto soccombere di fronte agli effetti distruttivi della critica etica a priori di questa scuola; ma il partito ortodosso, com’era sua abitudine, trovò immediatamente un riparo conveniente sotto l’egida della dottrina delle metafore e dei significati nascosti.
Per questa scuola allegorica, il racconto della battaglia intorno alle mura di Troia era un mistero dietro al quale, come dietro a un velo, erano nascoste determinate verità morali e fisiche. Il contrasto fra Atena e Ares era l’eterno contrasto fra il pensiero razionale e la forza bruta dell’ignoranza; le frecce che sferragliavano nella faretra del «lungi-saettante» non erano più strumenti di vendetta scagliati dall’arco d’oro del figlio di Dio, ma comuni raggi di sole, il quale di per sé non era nient’altro se non una semplice massa inerte di metallo incandescente.
Gli studi più recenti, con l’implacabilità dell’analisi filistea, hanno definitivamente ridotto Elena di Troia a un simbolo dell’alba. C’erano filistei tra i Greci che vedevano anche nell’ἄναξ ἀνδρῶν2 una semplice metafora della potenza atmosferica.
Questa tendenza a cercare metafore e significati nascosti, che pure deve essere considerata uno dei germi della critica storica, era essenzialmente non scientifica. La sua debolezza intrinseca è messa chiaramente in evidenza da Platone, il quale dimostrò che mentre questa teoria spiegava senza dubbio molte delle leggende correnti, tuttavia, se deve essere applicata a tutto, deve esserlo in quanto principio universale, una posizione che egli non è assolutamente pronto ad ammettere.
Come molti altri princìpi, essa soffriva della sua disciplina, e fornì la propria confutazione quando la tela di Penelope fu analizzata quale metafora delle regole della logica formale, laddove l’ordito rappresenterebbe le premesse e la trama le conclusioni.
Respingendo quindi l’interpretazione allegorica degli scritti sacri quale metodo essenzialmente pericoloso, che dimostra o troppo o troppo poco, Platone fa ritorno all’antico metodo d’attacco e riscrive la storia con scopi didattici, definendo determinati canoni etici di critica storica. Dio è buono; Dio è giusto; Dio è vero; Dio non ha le passioni comuni agli uomini. Ecco le verifiche cui sottoporre le storie della religione greca.
Dio non predestina alcun uomo alla rovina, né invia distruzioni a città innocenti; mai cammina sulla terra in fogge strane, né deve piangere la morte di qualche figlio molto amato. Basta con le lacrime per Sarpedone, i sogni menzogneri inviati ad Agamennone e la storia del patto infranto! (Platone, Repubblica, Libro II, 380; III, 388, 391).
Canoni etici analoghi sono applicati ai resoconti degli eroi dei tempi antichi, e con gli stessi princìpi a priori Achille è riscattato dalle accuse di avarizia e insolenza in un brano che può essere citato come il primissimo esempio di quella «riverniciatura di grandi uomini», come è stata definita, che è tanto popolare ai nostri giorni, in cui Catilina e Clodio sono rappresentati come politici onesti e lungimiranti, a Tiberio si attribuisce eine edle und gute Natur3 e Nerone è riscattato dal suo patrimonio di infamie per essere definito un abile dilettante le cui aberrazioni morali sono più che scusate dal suo squisito senso artistico e dalla sua affascinante voce tenorile.
Ma oltre al principio allegorizzante dell’interpretazione e alla ricostruzione etica della storia c’era anche una terza teoria, che può essere definita semistorica e che va sotto il nome di Evemero, per quanto il primo a proporla non sia assolutamente stato lui.
Facendo appello a un monumento fittizio che dichiarò di avere scoperto nell’isola di Pancaia e che sosteneva essere una colonna erettavi da Zeus, e specificando gli incidenti del suo regno sulla terra, questo vacuo pensatore tentò di dimostrare che gli dèi e gli eroi dell’antica Grecia erano «soltanto semplici mortali, le cui imprese erano state di gran lunga esagerate e rappresentate in modo distorto», e che il canone corretto della critica storica, per quel che riguarda la trattazione del mito, era quello di razionalizzare l’incredibile e presentare il residuo plausibile come la verità di fatto.
Per lui e per la sua scuola i centauri, per esempio, questi mitici figli della tempesta, strani anelli di collegamento tra la vita degli uomini e quella degli animali, erano semplicemente alcuni giovani del villaggio di Nefele, in Tessaglia, distintisi per i loro meriti sportivi; la «messe vivente di cavalieri in armatura», sgorgata tanto misticamente dai denti del drago, un corpo di mercenari mantenuti con i proventi di una riuscita speculazione sull’avorio; e Atteone un semplice allevatore di cani da caccia al quale, essendo egli vissuto prima che nascessero le pubbliche sottoscrizioni, le spese del canile mangiarono anche la casa.
Adesso, che sotto i bagliori del mito e della leggenda possa trovarsi un qualche substrato di storicità è un’affermazione resa estremamente probabile dagli studi moderni sulle opere dello spirito mitopoietico in epoca post cristiana. Carlomagno e Rolando, San Francesco e Guglielmo Tell non sono personaggi meno reali perché le loro storie sono intessute di molti particolari fittizi e incredibili; in ogni caso, però, sono assolutamente necessarie alcune conferme esterne, come quelle offerte dalla citazione di Rolando a Roncisvalle nelle cronache inglesi o (per quel che riguarda le leggende greche) dagli scavi di Hissarlik. Ma derubare una narrazione mitica del suo nocciolo di elementi sovrannaturali e presentare come storia l’arido involucro così ottenuto significa, come è stato giustamente detto, sbagliare completamente il vero metodo d’indagine e indentificare la plausibilità con la verità.
Per quel che riguarda il punto critico sottolineato da Palaifato, Strabone e Polibio, per cui in Omero una pura invenzione sarebbe inconcepibile, possiamo ammetterlo senza alcun scrupolo poiché i miti, come le costituzioni, crescono gradualmente, e non si formano in un giorno. Ma tra la deliberata creazione di un poeta e la precisione storica si trova l’ampio campo della facoltà mitopoietica.
La teoria evemeristica fu accolta quale metodo essenzialmente filosofico e critico dai Romani, popolo antiscientifico, ai quali fu presentata dal poeta Ennio, il pioniere dell’ellenismo cosmopolitano, e continuò a caratterizzare il pensiero antico sulla mitologia sino alla nascita del Cristianesimo, quando scrittori come Agostino e Minucio Felice la trasformarono in un’arma formidabile contro il paganesimo. Fu allora abbandonata da tutti coloro che ancora piegavano il ginocchio davanti ad Atena o a Zeus, e si verificò un generale ritorno, cui contribuirono i filosofi mistici alessandrini, al principio d’interpretazione allegorizzante, essendo questo l’unico mezzo per salvare le divinità dell’Olimpo dagli assalti dei Titani del nuovo Dio galileiano. Quanto fu vana questa difesa può dircelo al meglio la statua di Maria collocata in mezzo al Panteon.
Le religioni, comunque, possono essere assorbite ma mai sconfessate, e la storia della mitologia greca, spiritualizzata dall’essenza purificatrice del Cristianesimo, riappare ai giorni nostri in molte parti dell’Europa del Sud.
La vecchia favola secondo la quale gli dèi greci si posero al servizio della nuova religione sotto nuovi nomi contiene più verità di quanto molti si curino di scoprirne.
Avendo ripercorso il progresso della critica storica con riferimento alla sua trattazione del mito e della leggenda, proseguirò con l’indagare sulla forma nella quale lo stesso spirito si è manifestato nella trattazione di quanto possiamo definire storia secolare e storici secolari. Si scoprirà che, sotto certi punti di vista, il campo attraversato è lo stesso, ma completamente diversi sono l’atteggiamento mentale, lo spirito e le motivazioni che spingono all’indagine.
Ci furono eroi anche prima del figlio di Atreo e storici anche prima di Erodoto, eppure quest’ultimo è giustamente definito il padre della storia, perché in lui scopriamo non soltanto i nessi empirici di causa ed effetto ma anche un riferimento costante alle leggi, caratteristica questa che identifica il vero storico.
Tutta la storia, infatti, deve essere essenzialmente universale; non nel senso di comprendere tutti gli eventi sincronici del passato ma per l’universalità dei principi impiegati. E le grandi concezioni che unificano l’opera di Erodoto sono tali che non le ha mai respinte neppure il pensiero moderno. Il governo diretto del mondo da parte di Dio, la nemesi e la punizione che peccato e orgoglio comportano inevitabilmente, la rivelazione degli scopi di Dio al suo popolo tramite segni e auspici: queste sono, per Erodoto, le leggi che presiedono ai fenomeni storici. Egli è essenzialmente il tipo dello storico sovrannaturale; i suoi occhi sono sempre tesi a discernere lo spirito di Dio che si muove sopra la superficie delle acque della vita; gli interessano più le cause finali che quelle efficienti.
Tuttavia possiamo discernere in lui la nascita di quel senso storico che è ilprecursore razionale della scienza della critica storica, il φυσικόν κριτήριον4,per usare le parole di uno scrittore greco, in opposizione al quale si ha o la τέχνῃ5 o la διδάχῃ6.
Egli ha attraversato la valle della fede e ha scorto le vette illuminate dal sole della ragione; ma come tutti coloro che, pur accettando il sovrannaturale, cercano sempre di applicare i canoni del razionalismo, egli è essenzialmente incoerente. Per potersi meglio fare un’idea del senso storico di Erodoto, occorre esaminare in modo abbastanza esauriente le varie forme di critica in cui esso si manifesta.
Alcune storie favolose come quella della Fenice, degli uomini dai piedi caprini, degli esseri acefali che avevano gli occhi sulle mammelle, degli uomini che dormivano sei mesi all’anno, del lupo mannaro dei Neuri e simili, egli le rifiuta completamente (τούτο oὐx ἐνδέχομαι τὴν ἁρχήν) 7) in quanto contrastanti con l’esperienza quotidiana e con quelle leggi naturali la cui influenza universale i primi filosofi fisici greci avevano già trasmesso al mondo del pensiero. Altre leggende, come quella per cui Ciro sarebbe stato allattato da una cagna o quella nordeuropea della pioggia di piume sono razionalizzate e spiegate col nome di una donna e con una nevicata. L’origine sovrannaturale della nazione scita, dall’unione di Ercole con la mostruosa Echidna, è da lui accantonata in favore della versione più probabile per cui essi erano una tribù nomade che i Massageti avevano cacciato dall’Asia; e adduce i nomi locali del loro paese come prova del fatto che i Cimmeri ne erano i possessori originali.
Ma nel caso di Erodoto sarà più istruttivo passare da punti come questi a quei problemi di probabilità generale la cui vera comprensione dipende più da una certa forma mentale che da ogni possibilità di formulare regole: problemi che costituiscono una parte non irrilevante della storia scientifica, poiché occorre ricordare sempre che i canoni della critica storica sono essenzialmente differenti da quelli della prova giudiziale, in quanto non possono, come questi ultimi, essere spiegati a qualsiasi mente, ma si rivolgono a una certa facoltà storica che si fonda sulle esperienze della vita. Inoltre nei tribunali le leggi che regolano la ricezione della prova sono puramente statiche, mentre la scienza della probabilità storica è essenzialmente dinamica e cambia al sopraggiungere dello spirito di ogni epoca.
Orbene, di tutti i canoni speculativi della critica storica, nessuno è più importante di quello che poggia sulla probabilità psicologica.
Sulla base della sua conoscenza della natura umana, Erodoto respinge la presenza di Elena entro le mura di Troia. Se ci fosse stata, afferma, Priamo e la sua gente non sarebbero mai stati tanto folli (φρενοβλαβεῖς ) da non cederla quando essi e i loro figli e la loro città correvano un tale pericolo (II, 118); per quanto riguarda l’autorità di Omero, alcuni brani secondari del suo poema dimostrano che egli sapeva del soggiorno di Elena in Egitto durante l’assedio, ma scelse l’altra storia in quanto più adatta quale motivo di un epos. Analogamente egli non crede che la famiglia degli Alcmeonidi, una famiglia che aveva sempre odiato la tirannide (μισοτύραννοι ) e alla quale, ancora più che ad Armodio e ad Aristogitone, Atene doveva la sua libertà, sarebbe mai stata così sleale da sollevare uno scudo dopo la battaglia di Maratona per segnalare alle legioni persiane che potevano attaccare la città. Egli riconosce che qualcuno sollevò uno scudo, ma non poteva trattarsi di quegli amici della libertà che erano i familiari di Alcmeone; né crede che un grande re come Rhampsinitus avrebbe mandato sua figlia xατίσαι ἐπ' oἰxήματος 8.
Altrove il suo ragionamento prende le mosse da considerazioni più generali sulla probabilità: difficilmente un cortigiano greco come Rhodopis poteva essere abbastanza ricco da costruire una piramide; la storia è inoltre impossibile per motivi cronologici (II, 134).
In un altro brano (II, 63), dopo aver fornito il resoconto del violento ingresso dei sacerdoti di Ares nella cappella della madre del Dio, che pare essere stata una specie di battaglia tra fazioni religiose, con libero uso di bastoni (μάχη ξύλοίδι καρτέρή 9), dice: «Sono sicuro che molti di loro sono morti perché ne ebbero la testa rotta, nonostante le asserzioni contrarie dei sacerdoti egiziani». C’è anche qualcosa di incantevolmente ingenuo nel suo racconto dell’impresa di quel famoso nuotatore greco che coprì una distanza di ottanta stadi per avvertire i suoi connazionali dell’avanzata persiana. «A ogni modo», aggiunge, «se posso esprimere la mia opinione in proposito, direi che andò in barca».
Ovviamente c’è qualcosa di un po’ banale negli esempi che ho citato; ma in uno scrittore come Erodoto, che si trova al confine tra fede e razionalismo, ci piace notare persino gli esempi più minuti della nascita dello spirito critico e scettico dell’indagine.
Quanto di davvero strano ci fosse in lui può essere dimostrato, mi pare, da un accenno a quei brani in cui egli applica tentativi di verifica razionalistici ad argomenti religiosi. Non si cimenta mai, è vero, con le difficoltà morali e scientifiche della Bibbia greca; e laddove respinge come incredibili i meravigliosi risultati conseguiti da Ercole in Egitto, lo fa per l’espresso motivo che egli non era stato ancora accolto tra gli dèi ed era quindi soggetto alle condizioni di ogni vita mortale (ἔτι ἅντρωπoν εόντα 10).
Anche entro questi limiti, comunque, la sua coscienza religiosa sembra essere stata turbata da un razionalismo così ardito, tanto che il brano (II, 45) si conclude con una pia speranza che Dio lo perdonerà per essersi spinto così lontano, laddove il brano così razionalistico è, naturalmente, quello in cui egli respinge il racconto mitico sulla fondazione di Dodona. «Come può una colomba parlare con voce umana?», domanda, e razionalisticamente trasforma l’uccello in una principessa straniera.
Analogamente, egli sembra più incline a credere che la grande tempesta all’inizio della guerra persiana sia cessata per motivi atmosferici e non in seguito agli incantesimi dei Magi. Egli definisce Melampo, che la maggior parte dei Greci consideravano un profeta ispirato, «un uomo intelligente che si era impadronito dell’arte della profezia»; e per quel che riguarda il miracolo raccontato a proposito delle statue degli Egineti che raffiguravano le antiche divinità di Damia e Auxesia, le quali sarebbero cadute in ginocchio quando gli ateniesi sacrileghi cercarono di portarle via, «ciascuno è libero di crederci», egli afferma, «ma per quel che mi riguarda non ci credo nemmeno un po’».
Fin qui, allora, quanto allo spirito razionalistico della critica storica, nella misura in cui esso appare esplicitamente nelle opere di questo grande scrittore e filosofo; ma per apprezzare a dovere la sua posizione dobbiamo anche rilevare quanto fosse cosciente del valore delle prove documentarie, dell’uso delle iscrizioni, dell’importanza della poesia nel far luce su usi e costumi nonché su eventi storici. Nessuno scrittore di nessuna epoca ha riconosciuto più vividamente il fatto che la storia è una questione di prove e che esse sono necessarie per stabilire l’autorità di uno storico come lo è, in un tribunale, produrre testimonianze.
Mentre, tuttavia, possiamo discernere in Erodoto la nascita di un senso storico, non dobbiamo rimanere ciechi davanti al gran numero di esempi in cui egli accetta le influenze sovrannaturali come parte integrante delle forze vitali. Rispetto a Tucidide, il suo successore nello sviluppo della storia, egli sembra quasi uno scrittore medioevale accanto a un razionalista moderno. Infatti, per quanto fossero contemporanei, tra il pensiero di questi due autori c’è un abisso infinito.
La differenzia essenziale tra i loro metodi emerge al meglio in quei brani in cui trattano lo stesso argomento. L’esecuzione degli araldi spartani, Nicola e Aneristo, durante la guerra del Peloponneso è considerata da Erodoto uno degli esempi più sovrannaturali dell’opera della nemesi, la giusta punizione per l’oltraggio di un eroe; mentre il lungo assedio e la caduta definitiva di Troia furono voluti dalla mano vendicatrice di Dio, che desiderava manifestare agli uomini le gravi punizioni che sempre seguono i peccati gravi. Tucidide invece non vede, o non vuole vedere, in nessuno di questi eventi la mano della provvidenza o la punizione di azioni malvage. La morte degli araldi è semplicemente una rappresaglia ateniese per analoghi oltraggi compiuti dall’altra parte; la lunga agonia di un assedio durato dieci anni è dovuta semplicemente alla mancanza di un buon sistema di approvvigionamenti nell’esercito greco, mentre la caduta della città è il risultato di un attacco militare unitario realizzato in seguito a una buona fornitura di derrate.
Va osservato che, in quest’ultimo brano come anche altrove, Tucidide non mantiene assolutamente un atteggiamento scettico nei confronti della verità di queste antiche leggende.
Agamennone e Atreo, Teseo ed Euristeo, persino Minosse, sul quale Erodoto nutre qualche dubbio, sono per lui personaggi reali come Alcibiade o Gilippo. Gli elementi fondamentali della sua critica storica del passato sono in primo luogo il suo rifiuto di ogni interferenza extra naturale e, secondariamente, l’attribuzione a questi antichi eroi delle motivazioni e delle modalità di pensiero dei suoi giorni. Il presente era per lui la chiave per spiegare il passato come lo era per prevedere il futuro.
Orbene, per quel che riguarda il suo atteggiamento nei confronti del sovrannaturale, egli è in sintonia con la scienza moderna. Anche noi sappiamo che, proprio come gli antichi strati carboniferi ci rivelano le tracce di gocce di pioggia e altri fenomeni atmosferici simili a quelli dei nostri giorni, così, nel valutare la storia del passato, non possiamo consentire l’introduzione di alcuna forza i cui effetti non ci sia dato di osservare nei fenomeni intorno a noi. Stabilire canoni di credibilità ultrastorica per la spiegazione di eventi che ci hanno preceduti di qualche migliaio di anni è completamente antiscientifico, come è completamente antiscientifico intessere nelle teorie geologiche elementi preternaturali.
Quali che siano i canoni dell’arte, niente nella storia crea tanta difficoltà quanto l’ammettere l’introduzione di un θεὸς ἀπὸ μηχανῆς 11, nel senso di una violazione delle leggi della natura.
Quanto all’altro elemento, tuttavia, Tucidide incappa in un anacronismo. Rifiutarsi di ammettere tra i cavalieri della crociata troiana gli effetti di un’abnegazione cavalleresca, perché non ne vedeva nei faziosi ateniesi dei suoi giorni, significa mostrare una grande ignoranza delle varie caratteristiche che la natura umana può sviluppare a seconda delle circostanze; e negare a un capo primitivo quale Agamennone quell’autorità fondata sull’opinione che definiamo diritto divino significa cadere in un errore storico grossolano, quasi quanto quello di attribuire ad Atreo la colpa di aver corteggiato la popolazione (τεθεραπευκότα tόν δῆμoν )12 nella speranza di conquistare il trono di Micene.
Avendo così indicato il metodo generale della critica storica perseguito da Tucidide, occorre esaminare più dettagliatamente i punti in cui rivendica un metodo per accertare le prove più razionale di quelli seguiti dal pubblico o dai suoi predecessori.
«Tanto poco», sottolinea, «il volgo si dà pena di indagare sulla verità, soddisfatto com’è delle sue opinioni preconcette», che la maggioranza dei Greci credeva in una coorte Pitanate dell’esercito spartano e che i re spartani avessero la prerogativa del doppio voto, opinioni queste totalmente infondate.Ma il punto che più mette in evidenza nell’evincere il «modo acritico con cuigli uomini accolgono le leggende, persino quelle del proprio paese» è la com-pleta infondatezza della comune tradizione ateniese per cui Armodio e Ari-stogitone erano rappresentati come i patriottici liberatori di Atene dalla ti-rannia di Pisistrato. Egli sottolinea come costoro, ben lungi dall’agire peramore della libertà, furono influenzati da considerazioni del tutto personali: Aristogitone perché geloso delle attenzioni che Ipparco riservava a Garmodio, allora un bellissimo ragazzo nel fiore della grazia greca, mentre l’indignazione del secondo fu causata da un’ingiuria arrecata dal sovrano a sua sorella.
Essi agirono, quindi, per vendetta personale, mentre il risultato della loro cospirazione servì soltanto a stringere ulteriormente le catena della schiavitù che legava Atene alla casa di Pisistrato, perché Ipparco, da loro ucciso, era soltanto il fratello minore del tiranno e non il tiranno in persona.
Per dimostrare la sua teoria, secondo la quale il maggiore era Ippia, egli fa riferimento a un’iscrizione pubblica nella quale il suo nome compare immediatamente dopo quello del padre, un punto che a suo parere dimostra che egli era il maggiore e, quindi, l’erede. Egli considera inoltre questa sua opinio-ne confermata da un’altra iscrizione, sull’altare di Apollo, che riporta i nomi dei figli di Ippia ma non di quelli di suo fratello, «perché era naturale che il maggiore si sposasse per primo», e sottolinea come Ippia, se fosse stato il più giovane, non sarebbe divenuto tanto facilmente tiranno, alla morte di Ipparco.
Ora, come si evince dalla trattazione che Tucidide riserva alla leggenda in generale, a essere importanti non sono i risultati cui egli perviene ma il metodo col quale lavora. Egli fu il primo grande storico razionalista, e possiamo affermare che preparò la strada a tutti coloro che lo seguirono, per quanto si debba sempre ricordare che, mentre la totale assenza nelle sue pagine di tutti i parafernalia mistici della teoria sovrannaturale della vita costituisce un passo avanti sulla via del razionalismo e un cardine della storia scientifica, tuttavia in lui troviamo anche la totale assenza di ogni riferimento alle varie forze sociali ed economiche che costituiscono fattori tanto importanti nell’evoluzione del mondo e alle quali giustamente Erodoto, nella sua opera immortale, attribuì tanta preminenza. La storia di Tucidide è essenzialmente unilaterale e incompleta. Scambieremmo volentieri i complicati particolari di assedi e battaglie, soggetti con i quali in realtà lo storico non ha niente a che spartire, nella misura in cui non gettano qualche luce sullo spirito dell’epoca, con qualche informazione sulle condizioni private della società ateniese o sull’influenza e sulla posizione della donna.
C’è un progresso nel metodo della critica storica; c’è un progresso nella concezione e nelle motivazioni della storia stessa; giacché in Tucidide possiamo scorgere una reazione naturale contro l’intrusione della didattica e delle considerazioni teologiche nella sfera dell’intelletto, il cui spirito può essere rinvenuto nella concezione euripidea della tragedia e nelle successive scuole artistiche, nonché nella concezione platonica della scienza.
La storia, indubbiamente, può darci lezioni splendide e istruttive, proprio come tutte le belle arti ci sembrano l’araldo delle più nobili verità. Ma attribuire al pittore o allo storico lo scopo consapevolmente perseguito di inculcare una lezione morale significa perdere completamente di vista le vere motivazioni e caratteristiche dell’arte come della storia, che sono nell’un caso la creazione della bellezza, nell’altro la scoperta delle leggi dell’evoluzione e del progresso: Il ne faut demander de l’Art que l’Art, du passé que le passé13.
Erodoto scrisse per illustrare le meravigliose vie della provvidenza e la nemesi che si abbatte sul peccato, e la sua opera è un ottimo esempio della verità che niente è tanto lontano dalla critica quanto lo scopo morale. Tucidide non ha un credo da predicare o una dottrina da dimostrare. Egli analizza i risultati che derivano inevitabilmente da certi antecedenti affinché, qualora ricorra una certa crisi, gli uomini possano sapere come agire.
Il suo scopo era quello di scoprire le leggi del passato in modo che servissero da luce per illuminare il futuro. Non dobbiamo confondere il riconoscimento dell’utilità della storia con idee di obiettivi didattici. Ci rimangono da esaminare altri due elementi di Tucidide: la sua trattazione della nascita della civiltà greca e delle condizioni primitive dell’Ellade, nonché il problema di quanto si possa affermare che egli avesse riconosciuto l’esistenza di leggi che regolano i complessi fenomeni della vita.
3. L’indagine dei due grandi problemi dell’origine della società e della filosofia della storia occupa una posizione così importante nell’evoluzione del pensiero greco che, per ottenere una visione chiara degli effetti dello spirito critico, sarà necessario ripercorre in qualche misura la loro nascita e il loro sviluppo scientifico, evincendoli non tanto dalle opere degli storici veri e propri quanto dai trattati filosofici di Platone e Aristotele. L’importante posizione che questi due grandi pensatori occupano nello sviluppo della critica storica non potrà mai essere sopravvalutata. Non mi riferisco semplicemente alla loro trattazione della Bibbia greca e agli sforzi messi in atto da Platone per ripulire la storia sacra dalla sua immortalità applicandole canoni etici nello stesso periodo in cui Aristotele stava cominciando a minare la base stessa dei miracoli con la sua concezione scientifica di legge, ma alle due questioni ben più ampie della nascita delle istituzioni civili e della filosofia della storia.
In primo luogo, per quel che riguarda le teorie correnti sulle condizioni della società primitiva, nella società ellenica c’era un’ampia divergenza diopinioni, proprio come accade adesso, perché mentre la maggioranza delpubblico ortodosso, di cui possiamo scegliere come rappresentante Esiodo,guardava all’indietro, come fanno tanti anche ai giorni nostri, verso un’età favolosa di innocente felicità, una bell’età dell’auro14 in cui peccato e morte erano sconosciuti e uomini e donne erano come dèi, gli intelletti più eccelsi come Aristotele e Platone, Eschilo e molti altri poeti15 vedevano nell’uomo primitivo «poche scintille di umanità salvatesi sulle vette delle montagne dopo qualche inondazione», «che conducevano una vita da bestie in buie caverne», «seguendo quale unica legge quella della sopravvivenza del più forte».
E questa era anche l’opinione di Tucidide, la cui Archaelogia contiene una validissima disquisizione sulle antiche condizioni dell’Ellade, disquisizione che dovremo esaminare con una certa attenzione.
Ora, per quanto riguarda i mezzi generalmente impiegati da Tucidide per spiegare la storia antica, ho già messo in evidenza come, pur riconoscendo che «ogni poeta ha la tendenza a esagerare, come ogni cronista cerca di esse-re attraente a spese della verità», egli assume, in modo completamente eve-meristico, che sotto il velo del mito e della leggenda esista una base di fat-to razionale, che può essere scoperta respingendo ogni interferenza sovrannaturale nonché ogni motivazione fuori dall’ordinario che influenzi i protagonisti. È in completa sintonia con questo spirito che egli definisce, ad esempio, l’epiteto omerico di ἀφνειός16riferito a Corinto una prova dell’antica prosperità commerciale della città; il fatto che il nome generico di Hellenes non ricorra nell’Iliade una prova della sua teoria per cui le primitive tribù greche erano essenzialmente disunite; e arguisce dal verso «su molte isole e tutta Argo regnava», riferito ad Agamennone, che le sue forze debbano essere state parzialmente navali, «perché quella di Agamennone era una potenza continentale, e non avrebbe potuto dominare su nessuna isola, se non quelle adiacenti, e queste non avrebbero potuto essere molte se non avesse posseduto una flotta».
Anticipando in certo qual modo le indagini condotte col metodo comparativo, egli arguisce dal fatto che le tribù greche più barbare, come gli Etoli e gli Acarnani, continuassero a girare armati anche ai suoi giorni, che questa abitudine fosse un tempo la regola in tutto il paese. «Il fatto», egli dice, «che in queste parti dell’Ellade la gente viva ancora secondo gli antichi costumi fa pensare a un tempo in cui questo tipo di vita era comune a tutti». Analogamente, in un altro brano, egli afferma che la sua teoria sull’antica rispettabilità della pirateria è corroborata dagli «onori che alcuni degli abitanti del continente continuano a tributare a un predone che riesce nelle sue imprese», nonché dal fatto che la domanda «Sei un pirata?» è caratteristica delle società primitive, come dimostrano i poeti; infine, dopo aver osservato come l’antica abitudine greca di indossare una cintura durante le gare ginniche sopravvivesse ancora nelle tribù asiatiche, meno civilizzate, egli asserisce che «ci sono molti altri punti in cui si può riscontrare un’analogia tra la vita degli Elleni primitivi e quella degli odierni barbari».
Per quanto riguarda le prove fornite dalle antiche rovine, pur adducendo quale prova dell’insicurezza dell’antica società greca il fatto che le loro città17fossero sempre costruite a una certa distanza dal mare, egli sottolinea comunque, e a tutti gli archeologi dovrebbe imprimersi bene in mente questa cautela, che non abbiamo il diritto di concludere, dall’esiguità delle rovine di qualsivoglia città, che la sua leggendaria grandezza in epoca primitiva fosse una mera esagerazione. «Niente ci autorizza», egli dice, «a rifiutare la tradizione della magnificenza delle fortificazioni troiane perché Micene e le altre città dell’epoca ci sembrano piccole e insignificanti. Infatti, se Lacedemone dovesse spopolarsi, qualsiasi archeologo che la giudicasse semplicemente dalle sue rovine sarebbe incline a considerare il racconto dell’egemonia spartana un ozioso mito: la città è soltanto un insieme di villaggi, secondo l’antica moda greca, e non ha nessuno di quegli splendidi edifici pubblici e templi che caratterizzano Atene e i cui resti, nel caso di quest’ultima città, sarebbero così meravigliosi da indurre nell’osservatore superficiale una superficiale sopravvalutazione della potenza ateniese». Niente può essere più scientifico di questi canoni archeologici, la cui verità balza subito all’occhio di chiunque abbia confrontato i vasti campi della pianura dell’Eurota con i signorili monumenti dell’acropoli ateniese18.
D’altra parte Tucidide è abbastanza cosciente del valore positivo dei resti archeologici. Egli fa riferimento, per esempio, alle armature e al particolare sistema di sepoltura delle tombe di Delo per corroborare la sua teoria della predominanza dell’elemento cario tra i primi isolani, e alla collocazione di tutti i templi o sull’Acropoli o nelle sue immediate vicinanze, al nome di ἄστυ19 col quale Atene era ancora conosciuta e alla straordinaria sacralità delle sue acque sorgive quale prova del fatto che la città primitiva era un tempo limitata alla cittadella e al distretto immediatamente sottostante (II, 16). E infine, proprio all’inizio della sua storia, anticipando uno dei più scientifici tra i metodi moderni, egli mette in evidenza come agli albori di una civiltà la grande fertilità del suolo tenda a favorire l’esaltazione dei singoli individui e a bloccare il normale progresso del paese tramite «la nascita di fazioni, una fonte infinita di rovina», e anche perché essa è invitante agli occhi degli invasori stranieri e provoca un’immigrazione dopo l’altra, con la popolazione che cambia di continuo. Egli esemplifica la sua teoria accennando alle infinite rivoluzioni politiche che caratterizzarono l’Arcadia, la Tessaglia e la Beozia, le tre regioni più ricche della Grecia, nonché con l’esempio negativo della tranquillità dell’Attica primitiva, famosa per l’aridità e la povertà del suo suolo.
Orbene, mentre indubbiamente in questi brani possiamo riconoscere la prima anticipazione di molti dei più moderni princìpi di ricerca, dobbiamo ricordare quanto è limitato il ruolo che egli attribuisce all’archeologia e come non ci offra nessuna teoria sulle condizioni generali della nascita e del progresso dell’umanità, problema questo che la Repubblica di Platone è la prima a discutere scientificamente.
Tanto per cominciare occorre premettere che, mentre lo studio dell’uomo primitivo è essenzialmente una scienza induttiva, che poggia più sull’accumulazione di prove che sulla speculazione, tra i Greci esso fu portato avanti soprattutto sulla base di princìpi deduttivi. A dire il vero Tucidide si servì delle opportunità offerte dalle differenze nello sviluppo della Grecia dei suoi giorni, e i passi che ho ricordato sembrano anticipare il metodo comparativo. Ma non troviamo scrittori successivi che facciano riferimento ai resoconti meravigliosamente precisi e pittoreschi di Erodoto sulle usanze delle tribù selvagge. Per fare un esempio illuminante anche per i problemi odierni, nelle opere di questo grande viaggiatore troviamo una chiara rappresentazione della progressiva gradualità con cui si è sviluppata la vita familiare nel gregario raggrupparsi degli Agatirsi, nella loro primitiva parentela dovuta alla comunanza delle donne e nell’insorgere di un sentimento di paternità da uno stato di poliandria. Questa tribù si trovava, all’epoca, su quella linea di confine tra rapporti ombelicali e rapporti familiari che i moderni antropologi hanno sempre difficoltà a identificare.
Gli autori antichi, tuttavia, sono unanimi nell’affermare che la famiglia è la prima cellula della società, per quanto, come ho detto, uno studio induttivo delle razze primitive o persino i resoconti in tal senso di Erodoto avrebbero dimostrato che il νεοττία ἴδια 20 di una famiglia, per usare l’espressione di Platone, è davvero una nozione assai complessa, che appare sempre in uno stadio posteriore della civiltà, insieme al riconoscimento della proprietà privata e ai diritti dell’individualismo.
La filologia quindi, che nelle mani dei ricercatori moderni si è dimostrata uno strumento splendido, nell’antichità era studiata secondo princìpi troppo poco scientifici per poter essere di qualche utilità. Erodoto sottolinea come la parola Eridanos abbia un carattere essenzialmente greco; che quel fiume percorresse tutto il mondo è probabilmente una mera invenzione greca. A ogni modo le sue osservazioni sulla lingua in generale, come nel caso di Piromis, e sulle desinenze dei nomi persiani, mostrano quanto poco solida fosse la base su cui poggiava la sua conoscenza della lingua.
Nelle Baccanti di Euripide c’è un brano estremamente interessante in cui le storie immorali della mitologia greca sono ritenute responsabili di quel fraintendimento di parole e metafore cui la scienza moderna ha dato il nome di malattia del linguaggio. Per rispondere all’empio razionalismo di Penteo – una specie di moderno filisteo – Tiresia, che potrebbe essere definito il Max Müller del ciclo tebano, mette in evidenza come la storia di Dioniso cucito dentro la coscia di Zeus sia nata da una confusione linguistica μηρός 21 e ὃμηρoς 22.
Nel complesso, tuttavia – poiché io ho citato soltanto questi due esempi per mostrare il carattere antiscientifico della filologia primitiva – possiamo dire che questo importante strumento per ricreare la storia del passato non fu usato dagli antichi come strumento di critica storica. Né gli antichi impiegarono quell’altro metodo, usato con tanto successo ai giorni nostri, col quale possiamo rinvenire nel simbolismo e nelle formule di una civiltà avanzata l’inconsapevole sopravvivenza di antiche abitudini: infatti, mentre nel falso ratto della sposa durante gli sponsali, comune in Galles sino a poco tempo fa, noi possiamo scorgere una lontana reminiscenza dell’esogamia barbarica, gli scrittori antichi vi vedevano soltanto la deliberata commemorazione di un evento storico.
Aristotele non ci dice con quale metodo egli scoprì che i Greci, in epoca primitiva, erano soliti comprare le loro mogli, ma a giudicare dai suoi princìpi generali fu probabilmente tramite qualche leggenda o mito in tal senso che erano sopravvissuti fino ai giorni suoi, e non, come faremmo noi, deducendolo dai doni di nozze portati alla sposa e ai suoi parenti23.
L’origine del proverbio «vale tanti buoi», in cui riconosciamo l’inconsapevole sopravvivenza di una società puramente pastorale, antecedente alla scoperta del valore del denaro, è ascritta da Plutarco al fatto che Teseo avrebbe coniato una moneta con la testa di un toro. Analogamente egli considera le feste Amatusie, durante le quali un giovanotto simulava le sofferenze di una donna in travaglio, un rito istituito in onore di Ariadne, e l’adorazione che i Cari tributavano all’asparagio una semplice commemorazione delle avventure della ninfa Perigune. Nel primo di questi due esempi noi vediamo gli inizi dell’agnazione e della parentela per via paterna, che tuttora persistono nella couvée delle tribù neozelandesi; il secondo è invece un relitto del totem, dell’adorazione feticistica delle piante.
Orbene, completamente contrario al moderno principio della ricerca induttiva è il filosofo Platone, le cui affermazioni sull’uomo primitivo sono completamente speculative e deduttive.
Egli ascrive l’origine della società alla necessità, madre di tutte le invenzioni, e immagina che i singoli abbiano cominciato a raggrupparsi sulla base dei vantaggi che possono derivare dalla divisione del lavoro e dallo scambio di reciproci favori.
Occorre comunque tenere bene in mente che probabilmente l’oggetto di Platone, in questo brano della Repubblica, non era tanto l’analisi delle condizioni della società primitiva quanto la dimostrazione dell’importanza della divisione del lavoro, il cardine della sua politica economica e, a suo avviso, un fattore potentissimo nelle società più primitive come in quelle più complesse; proprio come nelle Leggi egli riscrive quasi completamente la storia del Peloponneso per dimostrare la necessità di un equilibrio tra i poteri. Sicuramente, io credo, egli aveva riconosciuto quanto la sua teoria fosse incompleta nel non indagare le origini della vita familiare, la posizione e l’influenza delle donne e altri problemi sociali, come nel trascurare quelle motivazioni religiose più profonde che costituiscono fattori così importanti nelle civiltà antiche e della cui influenza Aristotele sembra essersi reso conto assai presto, quando dice che lo scopo della società primitiva non era semplicemente la vita ma una vita più elevata e che, originariamente, l’utilità sociale non era l’unica motivazione, ma c’era qualcosa di spirituale se, quanto meno, spirituale può rendere il significato della complessa espressione tὸ καλόν 24. Altrimenti tutto il racconto che leggiamo nella Repubblica a proposito dell’uomo primitivo rimarrà sempre un monito contro l’intrusione delle speculazioni a priori nel territorio proprio dell’induzione.
La teoria di Aristotele sulle origini della società, come la sua filosofia etica, poggia in ultima analisi sul principio delle cause finali, non nel senso teologico di uno scopo o di una tendenza imposti dal di fuori, ma nel senso scientifico per cui a ogni organo corrisponde una funzione. «La natura non fa niente invano» dice Aristotele, in questo e in altri passi. Egli afferma che, essendo l’uomo l’unico animale che possiede la facoltà del discorso razionale, la natura voleva che fosse sociale, più dell’ape o di altri animali gregari.
Egli è φύσει πολιτικός 25, e la tendenza nazionale verso forme più alte di perfezione porta il «selvaggio armato che un tempo vendeva sua moglie» alla libera indipendenza di un libero stato, e alla ἰσότης τοῦ ἄρκχειν καὶ τοῦ ἄρκχεστθαι 26 la pietra di paragone della vera cittadinanza. Gli stadi attraversati dall’umanità cominciano con la famiglia, la prima cellula della società.
La conglomerazione di famiglie dà luogo a un villaggio governato da quell’autorità patriarcale che è la più antica forma di governo del mondo, com’è dimostrato dal fatto che tutti gli uomini così immaginano la costituzione del paradiso; poi i villaggi si fondono nello Stato e qui il progresso si ferma.
Infatti Aristotele, come tutti i pensatori greci, trovava il suo ideale entro le mura della πόλις 27 per quanto nella sua osservazione che una Grecia unita avrebbe governato il mondo possiamo trovare qualche anticipazione di quella «unione di liberi Stati in un impero consolidato» che, più della póliq, rappresenta ai nostri occhi la forma politica perfetta.
Ho già messo in evidenza quanto avesse ragione Aristotele nel considerare la famiglia la prima cellula della società, sulla base del materiale offertogli dalla letteratura greca. Posso aggiungere che, se avesse riflettuto sul significato di quella legge ateniese che, mentre proibiva il matrimonio con una sorella uterina, lo permetteva con una sorella germana, o su quella tradizione diffusissima ad Atene secondo la quale prima del tempo di Cecrope i bambini prendevano il nome della madre, o su alcune delle leggi spartane, non avrebbe potuto non vedere come, nell’antichità, fosse universalmente diffusa la parentela per via materna, e come la monoandria fosse comparsa relativamente tardi. Eppure egli non se ne rese conto, come, va riconosciuto, non se ne rendono conto molti scrittori moderni, valga per tutti Sir Henry Maine: è quindi essenzialmente come esploratore di istanze induttive che gli riconosciamo di essere andato avanti rispetto a Platone. Il suo trattato Περὶ πολιτείων 28, se ci fosse pervenuto nella sua interezza, sarebbe stato una preziosa pietra miliare del progresso della critica storica, nonché il primo trattato scientifico sulla scienza della politica comparata.
Ci sono pervenuti, invece, soltanto pochi frammenti, in uno dei quali Aristotele fa riferimento all’autorità di un’antica iscrizione sul «disco di Ifito», una delle più celebri antichità greche, per corroborare la sua teoria della rinascita licurgica delle feste olimpiche, mentre le sue ampie ricerche sono documentate dalle elaborate spiegazioni che dà dell’origine storica di proverbi come οὑδεῖς μέγας κακὸς ἰχθῦς ,29 di canzoni religiose come ἰῶμενἐς 'Αθῆνας30, cantata dalle vergini della Bottiea, o degli elogi dell’amore e della guerra.
Occorre inoltre osservare come la sua teoria sulle origini della società sia di gran lunga più ampia di quella di Platone. Hanno entrambe una base psicologica, ma il fatto che Aristotele riconosca la capacità di progredire e la tendenza verso una vita più elevata mostra come la sua conoscenza della natura umana fosse molto più profonda.
Imitando questi due filosofi Polibio, nell’introduzione alla sua filosofia della storia, ci fornisce la sua versione delle origini della società. Un po’ nello spirito di Platone, egli immagina come dopo una delle inondazioni cicliche che a intervalli prestabiliti spazzavano via l’umanità e annientavano tutte le civiltà preesistenti, i pochi membri sopravvissuti si siano coalizzati al fine di proteggersi reciprocamente e, come accade a tutti gli animali, quello dotato di maggiore forza fisica sia stato eletto re. In breve tempo, per effetto della simpatia e del desiderio di approvazione, cominciarono ad apparire le qualità morali, e per il sovrano divenne indispensabile eccellere in campo intellettuale, più che in quello fisico.
Altri punti, come quello relativo alla nascita delle leggi e simili, sono trattati con spirito piuttosto moderno e, per quanto non sembri che a questo proposito Polibio abbia impiegato il metodo della ricerca induttiva o meglio, direi, di un ordine gerarchico nel progresso razionale delle idee, egli non si discosta molto da quanto sappiamo grazie alle laboriose ricerche dei viaggiatori moderni.
E davvero, per quanto riguarda gli effetti delle facoltà speculative nella creazione della storia, è sorprendente sotto ogni punto di vista che i resoconti più veritieri del passaggio dalla barbarie alla civiltà ci vengano dalle opere dei poeti. Le elaborate ricerche di Mr. Taylor e di Sir John Lubbock hanno fatto poco di più che verificare le teorie avanzate dal Prometeo Incatenato e dal De Natura Rerum; eppure né Eschilo né Lucrezio camminavano nel sentiero moderno e pervennero semmai alla verità con una immaginazione creativa che aveva qualcosa di mistico, proprio quella che stiamo cercando di bandire dalla scienza perché pericolosa, sebbene ad essa la scienza sembri essere debitrice di molte splendide leggi31.
Abbandonando quindi il problema di come gli antichi abbiano trattato la nascita della società, affronterò adesso l’altro e più importante problema: di quanto, cioè, si possa affermare che essi abbiano realizzato quella che noi chiamiamo la filosofia della storia.
Per cominciare dobbiamo notare che, mentre nella sfera della scienza fisica è universalmente accettato che i princìpi che governano i fenomeni della natura siano le concezioni di legge e di ordine, la loro intrusione nel terreno della storia e della vita ha sempre incontrato una forte opposizione, dovuta alla natura incommensurabile delle due grandi forze che influiscono sull’azione umana, una certa spontaneità acausale che gli uomini chiamano libero arbitrio e quell’interferenza extra causale che essi ritengono essere un attributo costante di Dio.
Orbene, che vi sia una scienza che studi i fenomeni storici apparentemente variabili è una concezione che noi abbiamo forse iniziato ad apprezzare soltanto di recente; tuttavia, come tutti gli altri grandi pensieri, anche questo si è affacciato alla mente greca spontaneamente, grazie alla splendida immaginazione che caratterizzò il mattino della loro civiltà, prima che la ricerca induttiva li avesse armati degli strumenti di verifica. Mi sembra infatti possibile discernere, in alcune delle speculazioni mistiche dei primi pensatori greci, quel desiderio di scoprire che cosa sia quella «invariabile esistenza della quale esistono stati variabili» e di incorporarla in una formula di legge che possa servire a spiegare le differenti manifestazioni di tutti i corpi organici, compreso l’uomo, che è il germe della filosofia della storia; il germe cioè di un’idea parlando della quale non è esagerato affermare che essa è la base ultima di ogni critica storica degna di questo nome.
Infatti il primo requisito di ogni concezione scientifica della storia è la dottrina della sequenza uniforme: in altre parole la convinzione che, essendo avvenuti determinati eventi, ne avverranno anche altri a essi corrispondenti; che il passato è la chiave del futuro.
È vero che fu la scienza a presiedere alla nascita di questa grande concezione; ma fu la religione che, ai suoi albori, la rivestì coi propri panni e permise agli uomini di familiarizzare con essa facendo appello ai loro cuori prima che al loro intelletto; questo sapendo che all’inizio delle cose le grandi verità sono diffuse dalla natura morale e non da quella intellettuale.
Così in Erodoto, che può essere considerato il rappresentante del pensiero ortodosso, l’idea della sequenza uniforme di causa ed effetto compare sotto l’aspetto teologico di nemesi e provvidenza: siamo qui di fronte al concetto scientifico di legge, visto però da un punto di vista etico.
In Tucidide invece la filosofia della storia è basata sulla probabilità, offertaci dall’uniformità della natura umana, che nel dipanarsi delle vicende umane il futuro ricorderà il passato, se non lo riprodurrà. Egli sembra essere certo che la storia si ripeta come lo è del fatto che tornerà il contagio della Grande Peste.
Nonostante quello che alcuni critici tedeschi hanno scritto sull’argomento, dobbiamo guardarci dal considerare questa concezione una mera riproduzione di quella teoria ciclica degli eventi che nel mondo non vede nient’altro se non una rotazione di strofe e antistrofe, nell’eterno coro della vita e della morte.
Infatti, nelle sue osservazioni sugli eccessi della rivoluzione di Corcira, Tucidide distintamente basa la sua idea del ritorno della storia sul motivo psicologico della generale identità dell’umanità.
«Le sofferenze», egli dice, «che la rivoluzione richiese alle città furono molte e terribili, come sempre ce ne sono state e sempre ce ne saranno finché la natura umana rimane la stessa, anche se in forma più grave o più leggera e con sintomi differenti a seconda dei casi particolari.
In tempo di pace e di prosperità Stati e individui hanno sentimenti migliori, perché non debbono affrontare necessità imperiose; la guerra però interrompe subito la soddisfazione delle necessità umane e si dimostra così un sorvegliante severo, che porta il carattere della maggior parte degli uomini al livello delle loro fortune».
4. È evidente, qui, che Tucidide è pronto ad ammettere la varietà delle manifestazioni prodotte da cause esterne sul carattere uniforme della natura umana. Tuttavia, dopo tutto quello che si è detto, queste sono forse affermazioni estremamente generiche: si affrontano gli effetti di pace e guerra, ma manca una vera analisi delle cause immediate e delle leggi generali che presiedono ai fenomeni della vita, né Tucidide sembra riconoscere la verità che, se l’umanità procede per cerchi, questi cerchi si vanno continuamente ampliando.
Possiamo forse dire che, con lui, la filosofia della storia si trova in uno stadio parzialmente metafisico, e vedere nel progresso di questa idea da Erodoto a Polibio l’esemplificazione della legge di Comte sui tre stadi del pensiero, teologico, metafisico e scientifico: perché davvero quella concezione che noi definiamo filosofia della storia fu fatta uscire dalla vaghezza del misticismo teologico e innalzata al livello di principio scientifico, secondo il quale il passato poteva essere spiegato e il futuro previsto sulla base di leggi generali.
Ora, proprio come in Platone troviamo le prime riflessioni sulla natura del progresso dell’umanità, sempre in lui troviamo il primo tentativo esplicito di fondare una filosofia universale della storia su ampie basi razionali. Avendo creato uno Stato idealmente perfetto, il filosofo continua col fornire un’elaborata teoria delle cause complesse che producono le rivoluzioni, degli effetti morali delle varie forme di educazione e di governo, della nascita delle classi criminali e del suo rapporto col pauperismo: in breve, egli tenta di creare la storia col metodo deduttivo e di procedere da principi psicologici a priori per scoprire le leggi che governano l’apparente caos della vita politica.
In molti hanno tentato, dopo Platone, di dedurre da un singolo principio filosofico tutti i fenomeni che successivamente l’esperienza verifica per noi. Fichte pensava di poter predire il piano del mondo a partire dall’idea di un tempo universale. Hegel sognava di aver trovato la chiave dei misteri della vita nello sviluppo della libertà e Krause nelle categorie dell’essere. Ma l’unica categoria scientifica sulla quale deve fondarsi la vera filosofia della storia è la piena conoscenza delle leggi della natura umana in tutti i suoi desideri, le sue aspirazioni, le sue capacità e le sue tendenze: e questa grande verità, di cui si può dire che Tucidide si fosse in una certa misura reso conto, fu Platone a offrircela per primo.
Ora, si peccherebbe di imprecisione nell’affermare, a proposito di questo filosofo, che la sua filosofia o la sua storia siano interamente e semplicemente a priori. On est de son siècle même quand on y proteste32, e così in lui troviamo continui riferimenti alle abitudini spartane, al sistema pitagorico, alle caratteristiche generali delle tirannidi greche e delle democrazie greche. Infatti, per quanto nelle sue riflessioni sul modo in cui si forma uno Stato ideale egli affermi che l’artista politico deve sì fissare il sole della verità astratta nel cielo della pura ragione ma talvolta si deve dedicare anche alla realizzazione di questi ideali sulla terra, tuttavia il carattere generale del metodo platonico, che è quello che più ci interessa, è essenzialmente deduttivo e a priori. Ed e-gli stesso, nella costruzione della sua Nubicuculia, certamente inizia con un κατθαρὸς πίναξ33, spazzando via tutta la storia e tutta l’esperienza; e fu essenzialmente in quanto teorico a priori che fu criticato da Aristotele, come vedremo in seguito.
Per esaminare più da vicino i particolari dell’effettivo schema delle rivoluzioni politiche elaborato da Platone, dobbiamo in primo luogo notare come la causa primaria della decadenza dello Stato ideale è il principio generale, comune ai mondi vegetale e animale nonché a quello della storia, per cui tutte le cose create sono destinate a decadere: principio che, per quanto espresso in termini di una mera astrazione metafisica, è forse scientifico nella sua essenza. Anche noi, infatti, dobbiamo ammettere che una continua redistribuzione di materia e movimento sono il risultato inevitabile della normale persistenza della forza, e che l’equilibrio perfetto è impossibile in politica come lo è certamente in fisica.
Le cause secondarie che guastano la perfezione della «città del sole» platonica vanno rinvenute nella decadenza intellettuale della razza dovuta a matrimoni sconsiderati e alla sopravvalutazione filistea dei risultati fisici rispetto alla cultura mentale; mentre la successione gerarchica di timocrazia e oligarchia, democrazia e tirannide è invece analizzata attentamente e le sue cause studiate in modo estremamente drammatico e psicologico, se non in quello sanzionato dall’attuale ordine della storia.
E davvero risulta evidente a prima vista che la successione platonica degli Stati rappresenta più una successione di idee nella mente filosofica che una successione storicamente verificatasi nel tempo.
Aristotele affronta il problema semplicemente riferendosi ai fatti. Se la teoria della decadenza periodica di tutte le cose create, egli afferma, è davvero scientifica, deve essere anche universale e valida per tutti gli altri Stati, oltre a quello ideale. Inoltre di solito uno Stato si trasforma nel suo contrario e non nella forma che lo segue: così lo Stato ideale non si trasforma in timocrazia mentre alla democrazia succede la democrazia più spesso che la tirannide. Inoltre Platone non dice quale forma di governo succederebbe alla tirannide. Secondo la teoria ciclica, dovrebbe trasformarsi nuovamente nello Stato ideale, ma di fatto a una tirannide succede un’altra tirannide, come a Sicione, o una democrazia, come a Siracusa, o un’aristocrazia, come a Cartagine. Anche l’esempio della Sicilia dimostra che un’oligarchia è spesso seguita da una tirannide, come a Leontini e a Gela. È inoltre assurdo affermare che l’avarizia sia il principale motivo della decadenza o la radice dell’oligarchia, quando in quasi tutte le vere oligarchie il battere moneta è proibito dalla legge. Infine la teoria platonica trascura le differenze tra le varie democrazie e la varie tirannidi.
Orbene, nessun brano è più importante di questo, tratto dalla Politica di Aristotele (V, 12), che segna un punto fondamentale nell’evoluzione della critica storica. Non c’è infatti altro elemento sul quale Aristotele insista altrettanto vivacemente come sulla concezione per cui ai dati conseguiti con il metodo a priori si dovrebbero aggiungere generalizzazioni basate sui fatti: un principio che sappiamo essere vero non soltanto per la politica deduttivo-speculativa ma anche per la fisica: i fenomeni residuali dei chimici non sono infatti una fonte preziosa per migliorare le loro teorie?
Il suo metodo è essenzialmente storico, per quanto assolutamente non empirico. Al contrario, si può dire che questo pensatore lungimirante, giustamente definito il maestro di color che sanno34, si sia reso chiaramente conto che il vero metodo non è né esclusivamente empirico né esclusivamente speculativo, ma piuttosto un’associazione dei due, in quel processo detto analisi o interpretazione dei fatti che è stato definito l’applicazione ai fatti di concezioni generali le quali possano identificare le più importanti caratteristiche del fenomeno e presentarle permanentemente nei loro veri rapporti. Egli fu inoltre il primo a mettere in evidenza – e anche ai giorni nostri non lo si apprezza a dovere – come la natura, ivi compresa l’evoluzione umana, non sia disseminata di episodi incoerenti come una cattiva tragedia, che incoerenza e anomalia sono impossibili nella morale come lo sono nel mondo fisico e che, laddove l’osservatore superficiale crede di vedere una rivoluzione, il filosofo critico discerne meramente la graduale e razionale evoluzione degli inevitabili risultati di determinati antecedenti.
E pur ammettendo la necessità di una base psicologica per la filosofia della storia, egli vi aggiunse l’importante verità che, per poter attribuire all’uomo la sua giusta posizione nell’universo, e con le facoltà naturali che gli sono proprie, occorre analizzarlo dal basso, nella progressione gerarchica dalle forme più basse di vita alle funzioni più elevate. L’importante massima secondo la quale per farci un’idea chiara di qualsiasi cosa dobbiamo «studiarla nella sua crescita sin dall’inizio» è formulata all’inizio della Politica, in cui troviamo anche le altre caratteristiche della moderna teoria evoluzionista, come la «differenziazione delle funzioni» e la «sopravvivenza del più adatto».
Non occorre sottolineare quale importanza ebbe questo passo per l’avanzamento del metodo della critica storica. Si potrebbe dire che esso fornì il giusto filo per guidare attraverso lo sconcertante labirinto dei fatti i passi delle persone interessate. La storia infatti (per usare termini con cui proprio Aristotele ci ha fatto familiarizzare) può essere considerata da due punti di vista essenzialmente diversi: o come un’opera d’arte il cui τέλος 35 o causa finale è esterno a essa; o come un organismo che contiene dentro di sé le regole del proprio sviluppo ed elabora la propria perfezione per il semplice fatto di essere ciò che è. Orbene, se adottiamo il primo punto di vista, che possiamo definire il punto di vista teologico, correremo di continuo il pericolo di cadere nella trappola di alcune conclusioni a priori: quel confine dal quale, è stato giustamente detto, nessun viaggiatore torna mai.
Il secondo è l’unica teoria scientifica, e fu Aristotele ad apprezzarla nella sua interezza: la sua applicazione del metodo scientifico alla storia e il suo impiego della teoria dell’evoluzione dell’umanità dimostrano che egli era consapevole che la filosofia della storia non è separata dai fatti della storia ma è in essi contenuta, e che la legge razionale dei fenomeni complessi della vita, come l’ideale nel mondo del pensiero, deve essere raggiunta attraverso i fatti e non loro imposta dall’alto – κατὰ πολλῶν non παρὰ πολλα 36.
Infine, nel valutare l’enorme debito che la scienza della critica storica ha con Aristotele, non possiamo trascurare il suo atteggiamento nei confronti delle due grandi difficoltà nella formazione di una filosofia della storia che ho citato poc’anzi. Mi riferisco all’asserzione di un’interferenza extra naturale con il normale sviluppo del mondo e all’incalcolabile influenza esercitata dal potere del libero arbitrio.
Orbene, per quel che riguarda la prima, possiamo dire che egli la trascurò completamente. Gli atti di provvidenza derivanti dall’immediato intervento di Dio nel mondo, che Erodoto considerava pietre miliari della storia, sarebbero stati per lui essenzialmente elementi di disturbo in quell’universale regno della legge il cui impero illimitato egli fu il primo grande pensatore dell’antichità a riconoscere esplicitamente.
Tenendosi alla larga dalla religione popolare come dalle concezioni più profonde di Erodoto e della scuola tragica, egli non immaginava più Dio come un essere dotato di belle membra e volto infido che vaga per boschi e radure, né vedeva in lui un giudice geloso che interferisce di continuo nella storia del mondo per punire i malvagi e intralciare i superbi. Dio era per lui l’incarnazione del puro intelletto, un essere la cui attività era la contemplazione della propria perfezione, che la filosofia potrebbe imitare ma al quale non si potrebbero mai rivolgere preghiere, di fronte alla cui saggezza sublimamente impertubabile che cosa erano mai i figli dell’uomo, i loro desideri o i loro peccati? Invece, per quel che riguarda l’altra difficoltà nella formazione di una filosofia della storia, il conflitto tra libero arbitrio e leggi generali, essa si affaccia al pensiero greco nella consueta forma teologica che sembra accompagnare la nascita di tutte le grandi idee.
Furono leggende come quelle di Edipo e Adrasto, che esemplificano la lotta dei singoli individui contro la forza travolgente di circostanze e necessità, a dare ai primi Greci quelle stesse lezioni che noi moderni traiamo, in modo un po’ meno artistico, dagli studi di statistica e dalle leggi della fisiologia.
In Aristotele, naturalmente, non c’è traccia di influenza sovrannaturale. Le Furie, che costringono le loro vittime prima al peccato e poi alla punizione, non sono più «divinità dai capelli di serpe e occhi e bocca di fiamma», ma quei pensieri malvagi che abitano l’anima impura. In questo come in altri punti arrivare ad Aristotele significa raggiungere la pura atmosfera del pensiero scientifico moderno.
Tuttavia, pur rifiutando il necessitarismo nudo e crudo e considerandolo essenzialmente una reductio ad absurdum della vita, egli era pienamente consapevole del fatto che la volontà non è una misteriosa e ultima unità di forza al di là della quale noi non possiamo andare e la cui caratteristica particolare è l’incoerenza, ma un certo atteggiamento creativo della mente che, sin dall’inizio, è continuamente influenzato da abitudini, educazione e circostanze; così assolutamente modificabile, in breve, che tanto i buoni quanto i cattivi sembrano perdere la facoltà del libero arbitrio: i primi perché sono moralmente incapaci di peccare e i secondi perché fisicamente non suscettibili di recupero.
Quanto all’influenza del clima e della temperatura sulla natura dell’uomo (una concezione sulla quale si insiste forse troppo ai giorni nostri, quando la «teoria della razza» sembra essere sufficiente a spiegare il carattere indù e la latitudine e la longitudine di un paese costituiscono la miglior guida alla sua morale37), Aristotele ne è completamente al corrente. Non alludo a problemi minori come le tendenze oligarchiche di un paese dedito all’allevamento dei cavalli e all’influenza democratica della vicinanza al mare (per quanto siano importanti ai fini della storia greca), ma piuttosto alle ampie considerazioni contenute nel settimo libro della sua Politica, laddove egli attribuisce la felice unione nel carattere greco di conquiste intellettuali e spirito di progresso al clima temperato di cui quella popolazione godeva, e mette in evidenza come il clima rigido del Nord ottenebra le facoltà mentali degli abitanti di quelle lande e li rende incapaci di organizzarsi socialmente o di estendere il loro dominio; mentre alla snervante caligine dei paesi orientali era dovuta quella mancanza di spirito e di coraggio che allora come adesso caratterizzava le popolazioni di quel quarto di globo.
Tucidide ha messo in evidenza i nessi esistenti tra rivoluzioni politiche e fertilità del suolo, ma fa anche un passo avanti e sottolinea le influenze psicologiche esercitate sul carattere di un popolo dai vari estremi del suo clima: in entrambi i casi, si tratta della prima manifestazione di una forma di critica storica davvero preziosa.
Per lo sviluppo della dialettica, come per Dio, gli intervalli di tempo non hanno importanza alcuna. Da Platone e Aristotele passiamo direttamente a Polibio.
Il modo migliore per illustrare il progresso del pensiero dal filosofo dell’Accademia allo storico dell’Arcadia è un confronto tra i metodi con i quali ciascuno di questi tre scrittori, che ho scelto perché li ritengo l’espressione più elevata del razionalismo della propria epoca, sono pervenuti al loro Stato ideale: infatti quest’ultima concezione può essere in certo qual modo considerata il principio più spirituale che essi discernevano nella storia.
Orbene, Platone creò il suo Stato ideale basandosi su princìpi a priori, Aristotele formò il suo analizzando le costituzioni esistenti e Polibio invece se lo ritrovò già realizzato nel mondo dei fatti. Aristotele criticò le speculazioni deduttive di Platone per mezzo di esempi induttivi negativi, mentre Polibio non prende nemmeno in considerazione la «città delle nuvole» della Repubblica. Egli la paragona a un atleta che non abbia mai corso sul «monte delle costituzioni», a una statua tanto bella da essere lontanissima dalle ordinarie condizioni umane e, quindi, dai canoni della critica.
Ai suoi occhi lo Stato romano, grazie alla mutua interazione di tre forze opposte38, aveva raggiunto in politica quell’equilibrio stabile che costituiva l’ideale di tutti gli scrittori teorici dell’antichità. E, in relazione a questo punto, converrà qui notare quanta verità è contenuta nell’accusa tanto spesso mossa agli antichi, secondo la quale essi non sapevano niente dell’idea di progresso: il significato di molte delle loro speculazioni ci rimarrà infatti oscuro se non cercheremo di comprendere prima quale fosse il loro scopo e poi perché fosse tale.
Ora, come tutte le generalizzazioni, questa affermazione è come minimo imprecisa. La preghiera della città ideale di Platone – ἐξ ἀγαθῶν αμεὶνους καὶ ἐξ ὠφελιμῶν ὠφελιμωτέρους ἀει τοὺς ἐκγόνους γίγνεσθαι 39 – potrebbe essere l’iscrizione sulla porta dell’ultimo Tempio all’Umanità eretto dai discepoli di Fourier e di Saint Simon, ma è certamente vero che i loro princìpi ideali erano l’ordine e la permanenza, non il progresso indefinito. Infatti, mettendo da parte i pregiudizi artistici che avrebbero portato i Greci a rifiutare questa idea del progresso illimitato, possiamo notare che la moderna concezione del progresso si basa in parte sul nuovo adorante entusiasmo per l’umanità e in parte sulle splendide speranze di miglioramento della civiltà che le scienze applicate ci hanno fatto balenare, due influenze dalle quali il pensiero greco antico sembra essere stato stranamente libero. I Greci, infatti, guastavano il perfetto umanesimo dei grandi uomini che adoravano imputando loro una natura divina e i relativi poteri sovrannaturali, mentre la loro scienza, eminentemente speculativa e spesso quasi mistica, mirava alla cultura e non all’utilità, a una spiritualità più alta e a una maggiore reverenza per la legge più che a migliori possibilità di locomozione o alla produzione a buon mercato di beni di consumo, cose queste che la scuola scientifica moderna non cessa mai di vantare. E infine, e forse principalmente, dobbiamo ricordare che «la piaga di tutti gli Stati greci», come l’ha definita uno dei loro scrittori, era la terribile precarietà della vita e della proprietà provocata dalle fazioni e rivoluzioni che non cessarono mai di sconvolgere la Grecia, in tutti i tempi, e che suscitavano uno spirito di fanatismo analogo a quello suscitato dalle religioni nel Medioevo europeo.
Queste considerazioni, quindi, ci permetteranno di comprendere come fu che i teorici politici greci, pur essendo riformatori radicali e senza scrupoli, una volta raggiunto il loro fine si opponessero alla benché minima innovazione con un’indignazione che non trova pari in quella dei moderni conservatori. Ogni miglioramento riconosciuto come tale in campi come i giochi dei bambini o la musica era da loro guardato con estrema apprensione, in quanto araldo del drapeau rouge40 della riforma. In secondo luogo, tali considerazioni ci mostreranno come fu che Polibio trovò il suo ideale a Roma e Aristotele, come Mr. Bright, nelle classi medie. Polibio, tuttavia, non si accontenta semplicemente di indicare il suo Stato ideale: egli si addentra notevolmente in quel problema delle leggi generali il cui esame costituisce l’elemento essenziale della filosofia della storia.
Egli comincia con l’accettare il principio generale secondo il quale tutte le cose sono destinate alla decadenza (che ho spiegato parlando di Platone) e «come il ferro produce la ruggine e il bosco nutre gli animali che lo distruggono, così ogni Stato contiene i semi della propria corruzione». Tuttavia egli non si accontenta di questo e procede affrontando le cause più immediate delle rivoluzioni, che a suo parere possono essere di due tipi, esterne o interne. Le prime, dipendendo dalla concomitanza sincronica di eventi al di fuori della sfera della valutazione scientifica, sono per loro natura imprevedibili; ma le seconde, per quanto assumano molte forme, sono sempre il risultato dell’enorme preponderanza di un elemento singolo a detrimento degli altri: alla base di ogni cambiamento politico c’è una legge razionale, secondo la quale la stabilità può risultare soltanto dall’equilibrio statico prodotto dall’interazione di forze contrastanti, perché più una costituzione è semplice più è precaria. Platone aveva già sottolineato come l’estrema libertà di una democrazia desse sempre luogo al dispotismo, ma Polibio analizza la legge e mette in evidenza i princìpi scientifici sui quali essa è basata.
La dottrina dell’instabilità delle costituzioni occupa un posto importante nella filosofia della storia. La sua particolare applicabilità alla politica dei nostri giorni è stata illustrata dall’ascesa del grande Napoleone, quando lo Stato francese aveva perduto le sue divisioni di casta e pregiudizio, aristocrazia terriera e interessi finanziari: istituzioni nelle quali il volgo vede soltanto barriere alla libertà ma che sono davvero le uniche difese possibili contro l’avvento di quel periodico Sirio della politica che è il τύραννος ἐκ προστατικῆς ῥίξσης 41.
C’è un principio che Tocqueville non si stanca mai di spiegare e che è stato sussunto da Mr. Herbert Spencer in quella legge generale comune a tutti i corpi organici detta dell’instabilità dell’omogeneo. Le varie manifestazioni di questa legge nelle normali e regolari rivoluzioni ed evoluzioni delle varie forme di governo sono esposte da Polibio con grande chiarezza42; nello spirito di Tucidide, egli afferma che la sua teoria è un κτῆμα ἐς ἀεὶ 43, non un semplice ἀγώνισμα ἐς τὸ παραχρῆμα 44, e che la sua conoscenza permetterà all’osservatore imparziale di scoprire in ogni tempo quale stadio della sua evoluzione costituzionale ogni singolo Stato abbia già raggiunto e quale forma assumerà successivamente, anche se probabilmente il momento esatto di tali cambiamenti potrà essere più o meno incerto.
Questo resoconto necessariamente incompleto delle leggi delle rivoluzioni politiche ipotizzate da Polibio è però forse sufficiente a mostrare quale sia la sua posizione nello sviluppo razionale dell’«idea» che ho definito filosofia della storia perché è l’elemento unificante della storia stessa. La si vede oscuramente, attraverso la lente della religione, nelle pagine di Erodoto, più metafisicamente che scientificamente in Tucidide; Platone cercò di raggiungerla con le ali della speculazione, di afferrarla con le avide mani di un’anima insofferente di quei metodi induttivi più lenti e più sicuri che Aristotele, nella sua critica tagliente del suo grande maestro, dimostrò essere più brillanti di qualsiasi vaga teoria, se la pietra di paragone della brillantezza è la verità.
Qual è, allora, la posizione di Polibio? Elaborò egli un metodo nuovo? Polibio fu uno dei molti che sono nati troppo tardi per poter essere originali. A Tucidide spetta l’onore di essere stato il primo, nella storia del pensiero greco, a discernere la calma suprema della legge e dell’ordine che sottostanno alle discontinue tempeste della vita, mentre Platone e Aristotele sono entrambi i rappresentanti di un nuovo, grande principio. Polibio ebbe invece il compito – e quanto lo nobilitò è dimostrato dai suoi scritti – di rendere più esplicite le idee che erano implicite nei suoi predecessori, di mostrare che avevano una più ampia applicabilità e forse un significato più profondo di quanto non fosse sembrato in precedenza, di esaminare con più precisione le leggi che essi avevano scoperto e, infine, di indicare con più chiarezza di quanto nessuno avesse mai fatto l’ambito della scienza e i mezzi che essa offriva per l’analisi del presente e la previsione del futuro. Il suo compito, quindi, fu quello di raccogliere quanto essi avevano lasciato per conferire ai loro princìpi una nuova vita grazie a una più ampia applicazione.
Polibio pone fine a questo grande diapason del pensiero greco. Quando riappare la filosofia della storia, come in quel trattatello di Plutarco su «Perché l’ira di Dio è differita», il pendolo del pensiero era tornato al punto dal quale era cominciato. La sua teoria fu presentata ai Romani avvolta nella cultura di Cicerone, ed essi l’accolsero come un panegirico filosofico del proprio Stato. Le sue ultime tracce nella letteratura latina si trovano nelle pagine di Tacito, secondo il quale un ordinamento stabile formato da questi elementi sarebbe una costituzione più facile da raccomandare che da realizzare, e assolutamente non duratura. Tuttavia Polibio non aveva visto il futuro con occhio incerto, e aveva profetizzato la nascita dell’impero dal potere totale dell’oclocrazia più di cinquant’anni prima che la casa Giulia festeggiasse la nascita di quel bambino che, venuto al mondo come campione del popolo, morì indossando la porpora regale.
Nessuna caratteristica della critica storica è più importante dei mezzi con i quali gli antichi pervennero alla filosofia della storia. Il principio dell’ereditarietà può essere esemplificato nella letteratura come nella vita organica: Aristotele, Platone e Polibio sono i diretti antenati di Fichte e Hegel, di Vico e Cousin, di Montesquieu e Tocqueville.
Poiché il mio scopo non è quello di elencare gli storici ma di mettere in evidenza quei grandi pensatori i cui metodi hanno incoraggiato la crescita dello spirito della critica storica, tralascio gli autori di annali e cronache che operarono tra Tucidide e Polibio. Tuttavia può forse servire a gettare nuova luce sulla vera natura di questo spirito se fornisco una qualche stima del carattere e dell’insorgenza dei molti fattori che influiscono negativamente sullo studio scientifico della storia e che provocano un divario così ampio tra questi due storici.
In primo luogo, tra dette cause, occorre menzionare la crescente influenza della retorica e della scuola isocratica, che sembra considerassero la storia un’arena per l’esibizione di pathos o paradossi e non lo studio scientifico delle sue leggi.
La nuova età è l’età dello stile. Quel medesimo spirito di attenzione esclusiva per la forma, che spesso indusse Euripide, come Swinburne, a preferire la musica al significato e la melodia alla moralità, che conferì alle tarde statue greche la loro raffinata effeminatezza, la loro grazia eccessiva, si fece sentire anche nella sfera della storia. Le regole stabilite per la composizione storica sono quelle relative al valore estetico delle digressioni, alla liceità dell’impiego di più di una metafora nella stessa frase e simili; gli storici sono valutati non per la loro capacità di giudicare le prove ma in base al greco che scrivono.
Debbo menzionare anche l’importante influenza esercitata sulla letteratura da Alessandro Magno; infatti, mentre i suoi viaggi incoraggiarono le ricerche geografiche, lo splendore stesso delle sue conquiste pare aver ricondotto la storia nella sfera romanzesca. La comparsa di tutti i grandi uomini, nel mondo, è invariabilmente seguita dalla nascita di quello spirito mitopoietico e di quella tendenza a cercare il meraviglioso che tanto fatale è per la vera critica storica. Un Alessandro, un Napoleone, un Francesco d’Assisi e un Maometto sono considerati al di fuori dei limiti della legge razionale proprio come, fino a non molto tempo fa, lo erano considerate le comete. Mentre la fondazione della città di Alessandria, nella quale il pensiero occidentale e orientale si incontrarono con risultati tanto strani per entrambi, orientò le tendenze critiche dello spirito greco verso problemi di grammatica, filologia e simili, l’atmosfera angusta e superficiale di quella città-università (come possiamo definirla) fu fatale allo sviluppo di quello spirito di ricerca indipendente e speculativo che produce nuovi metodi di indagine, uno dei quali è appunto la critica storica.
Gli alessandrini univano un grande amore per lo studio all’ignoranza dei veri princìpi di ricerca, l’entusiasmo per l’accumulazione di materiali a una straordinaria incapacità di usarli. Non tra le calde sabbie d’Egitto né dai sofisti ateniesi ma nel cuore stesso della Grecia nasce l’uomo di genio la cui influenza sull’evoluzione della filosofia della storia ho menzionato poco fa. Nato nell’aria pura e serena dei chiari altopiani d’Arcadia, di Polibio si potrebbe dire che abbia riprodotto, nella sua opera, la natura dei luoghi che gli dettero i natali. Di tutti gli storici, infatti – e non dico dell’antichità, ma di tutti i tempi – nessuno è più razionalista di lui, nessuno più libero da qualsivoglia fede in quelle «visioni e auspici, leggende mostruose, superstizioni striscianti e disumano desiderio di sovrannaturale (δεισιδαιμονίας ἀγεννοῦς καὶ τερατείας γυναικώδους 45 )46che egli è costretto ad annotare come tipiche di alcuni degli storici che l’avevano preceduto. Fortunato per la terra che gli dette i natali, non fu meno benedetto dalla sorte per i tempi straordinari in cui nacque. Infatti, rappresentando la supremazia spirituale dell’intelletto greco e legato da una cavalleresca amicizia al conquistatore del mondo dei suoi giorni, sembra portato dalla mano stessa del fato «a comprendere», come è stato detto, «più chiaramente degli stessi Romani la posizione storica di Roma» e a discernere con perspicacia maggiore di qualsiasi altro le due grandi risultanti della civiltà antica: l’impero materiale della città dei sette colli e la sovranità intellettuale dell’Ellade.
Prima dei suoi giorni, egli dice47, gli eventi del mondo erano disconnessi e separati, e le storie che si scrivevano erano quelle dei singoli paesi. Adesso, per la prima volta, l’impero universale dei Romani rendeva possibile una storia universale48. Era questo, quindi, l’augusto motivo del suo lavoro: ricostruire la crescita graduale della città italica dal giorno in cui la prima legione attraversò lo stretto di Messina e atterrò sulle fertili terre siciliane all’epoca in cui Corinto a est e Cartagine a ovest cedevano di fronte alle ondate irresistibili dell’impero e le aquile di Roma superavano sulle ali della vittoria universale Calpe e le colonne d’Ercole per raggiungere la Siria e il Nilo. Allo stesso tempo egli riconobbe che lo schema dell’impero di Roma era elaborato sotto l’egida della volontà di Dio49. Infatti, come dice in modo estremamente veritiero uno degli scribi del Medioevo, la τύχη 50 di Polibio è quella potenza che noi cristiani chiamiamo Dio; il secondo scopo, per così dire, della sua storia è quello di evidenziare le cause razionali e umane e naturali che hanno prodotto quel risultato, distinguendo, come diremmo noi, tra il governo diretto del mondo da parte di Dio e quello indiretto.
Con qualsiasi intervento diretto di Dio nella normale evoluzione umana e-gli non vuole avere niente a che fare; ancora meno con qualsiasi idea di caso inteso come fattore rilevante nei fenomeni vitali. Il caso e i miracoli, egli dice, sono semplicemente l’espressione della nostra ignoranza delle cause razionali. Quel razionalismo, che abbiamo riconosciuto come atteggiamento vago e incerto in Erodoto e che costituisce per Tucidide una forma mentale mai discussa o tantomeno spiegata, è analizzato da Polibio come lo strumento per eccellenza della ricerca storica.
Erodoto, pur credendo nel principio del sovrannaturale, era talvolta scettico. Tucidide semplicemente ignorava il sovrannaturale. Non lo discusse mai, ma lo eliminò spiegando la storia senza di esso. Polibio invece si cimenta radicalmente con il problema del sovrannaturale e ne spiega le origini, oltre al metodo per affrontarlo. Erodoto avrebbe creduto nel sogno di Scipione. Tucidide lo avrebbe ignorato interamente. Polibio lo spiega. Egli è il culmine del progresso razionale della dialettica. «Niente», egli dice, «rivela una mente sciocca più del tentativo di spiegare qualsiasi fenomeno facendo ricorso al caso o all’intervento sovrannaturale. La storia è una ricerca di cause razionali, e non c’è niente al mondo – neppure quei fenomeni che ci sembrano i più lontani dalla legge e improbabili – che non sia il risultato logico e inevitabile di determinati antecedenti razionali».
Alcune cose, naturalmente, debbono essere rifiutate a priori senza neppure entrare nell’argomento: «Per quel che riguarda determinati miracoli», egli dice51, «come quello di una certa statua di Artemide sulla quale la pioggia o la neve non cadono mai per quanto la statua sia collocata all’aperto, o quello per cui chi entra nel tempio di Dio in Arcadia perderebbe la propria ombra, davvero non ci si può aspettare che io discuta questi argomenti. Queste cose, infatti, non sono solo estremamente improbabili ma assolutamente impossibili».
«Per noi affrontare ragionevolmente un’assurdità riconosciuta come tale è un compito vano, come lo sarebbe raccogliere dell’acqua con un setaccio: significherebbe ammettere la possibilità del sovrannaturale, che è il vero punto della faccenda».
Polibio sentiva che ammettere la possibilità di un miracolo significava annientare la possibilità della storia: infatti, proprio come gli esperimenti scientifici e chimici sarebbero o impossibili o inutili se esposti alla possibilità di una continua interferenza da parte di alcuni organismi estranei, così le leggi e i princìpi che governano la storia, le cause dei fenomeni, l’evoluzione del progresso, in una parola tutta la scienza dei rapporti dell’uomo con il genere umano e con la natura rimarranno un libro chiuso per colui che ammetta la possibilità di interferenze extra naturali.
I racconti di miracoli vanno quindi respinti sulla base di motivi razionali a priori, ma nel caso di eventi che sappiamo essersi verificati lo storico scientifico non si fermerà finché non ne abbia scoperte le cause naturali: prendendo ad esempio il caso della straordinaria nascita dell’impero romano – la cosa più bella che Dio abbia mai fatto52, dice Polibio – vanno rinvenute nell’eccellenza della costituzione dei Romani (τῃ ἰδιότητι τῆς πολιτείας 53), nella saggezza dei loro consiglieri, nella loro splendida organizzazione militare e nella loro superstizione (τῃ δεισιδαιμονία ). Infatti Polibio, pur considerando la religione rivelata, naturalmente, come una verità oggettiva54, attribuiva grande importanza alla sua influenza morale soggettiva, arrivando, in un brano sull’argomento, addirittura a scusare l’introduzione nella storia di piccolissime quantità di sovrannaturale sulla base degli ottimi effetti che avrebbero suscitato nelle persone pie.
Ma forse non c’è un solo brano di tutta la storia antica e moderna che aliti un razionalismo così umano e stupendo come quello conservato in Vaticano – ricovero ben strano per lui! – nel quale egli affronta la terribile diminuzione di popolazione che colpiva la sua terra in quei giorni e che il pubblico ortodosso considerava generalmente il risultato di un giudizio divino, che inviava l’infertilità alle donne quale punizione per i peccati del loro popolo. Si trattava di una sventura senza precedenti nella storia del paese, e completamente imprevista da tutti i suoi scrittori politico-economici i quali, al contrario, avevano sempre messo in guardia contro il pericolo derivante da un eccesso di popolazione, che avrebbe condotto all’esaurimento delle risorse e all’ingovernabilità della popolazione stessa a causa delle sue dimensioni. Polibio, comunque, non vuole avere niente a che fare né con sacerdoti né con operatori di miracoli. Non va neppure in cerca di quel «sacro cuore della Grecia», quell’oracolo di Apollo a Delfi la cui ispirazione era stata ammessa persino da Tucidide e di fronte alla cui saggezza si era inchinato Socrate. Quanto sciocchi, egli dice, sarebbero quegli uomini che, in questo frangente, rivolgessero la loro preghiera a Dio. Dobbiamo cercare le cause razionali, e le cause debbono essere chiare, come pure la loro prevenzione. Dimostra poi come tutto ciò derivi da una diffusa riluttanza nei confronti del matrimonio e dell’idea di farsi carico di una famiglia numerosa, riluttanza dovuta al disinteresse e all’avarizia dei suoi contemporanei, e spiega sulla base di princìpi completamente razionali questo presunto giudizio divino.
Orbene, occorre rammentare che, per quanto il suo rifiuto dei miracoli in quanto violazione di leggi inviolabili sia interamente a priori – è infatti impossibile che un pensatore razionale discuta simili argomenti – tuttavia il suo rifiuto di un intervento sovrannaturale è completamente basato su un motivo scientifico, ovvero sulla necessità di cercare le cause naturali. Ed egli è molto logico nel mantenere la sua posizione relativamente a questi princìpi. Infatti, laddove è o difficile o impossibile attribuire una causa razionale ai fenomeni o scoprire le loro leggi, egli si piega con riluttanza ad ammettere alcune interferenze extra naturali che il suo metodo essenzialmente scientifico di affrontare l’argomento gli abbia logicamente imposto, approvando, ad esempio, le invocazioni della pioggia con l’espressa motivazione che le leggi della meteorologia non erano state ancora dimostrate. Naturalmente egli sarebbe stato il primo ad accogliere con favore le nostre moderne scoperte in merito. Il brano in questione è, sotto ogni punto di vista, il più interessante di tutta la sua opera, certamente non perché riveli una qualche disponibilità da parte sua ad accettare il sovrannaturale, ma perché esso dimostra quanto logico e razionale fosse essenzialmente il suo modo di argomentare, e quanto candida e bella la sua mente.
Avendo ora esaminato l’atteggiamento di Polibio nei confronti del sovrannaturale e le idee generali che presiedevano alle sue ricerche, procederò con l’esaminare il metodo da lui impiegato per indagare scientificamente i complessi fenomeni della vita. Infatti, come ho già detto nel corso di questo saggio, ciò che è importante in tutti i grandi scrittori non sono tanto i risultati cui essi arrivano ma i metodi che impiegano. Un’accresciuta conoscenza dei fatti può alterare qualsiasi conclusione, nella storia come nella scienza fisica, e i canoni della credibilità storica speculativa debbono essere tali da rispondere più a quell’atteggiamento mentale soggettivo che chiamiamo senso storico che a qualsiasi regola oggettiva preventivamente formulata. Un metodo scientifico, però, è un’acquisizione che rimane per sempre, e il vero se non addirittura il solo progresso della critica storica consiste nel perfezionamento degli strumenti di ricerca.
Orbene, per quanto riguarda la sua concezione della storia, ho già messo in evidenza come per lui essa fosse essenzialmente una ricerca di cause, un problema da risolvere e non un quadro da dipingere, uno studio scientifico di leggi e tendenze e non il semplice racconto romanzesco di incidenti stupefacenti e meravigliose avventure. Tucidide, all’inizio della sua grande opera, aveva suonato la prima nota della concezione scientifica della storia. «L’assenza, nelle mie pagine, di ogni elemento romanzesco», egli dice, «toglierà qualcosa al loro valore, temo, ma io ho scritto la mia opera non perché fosse il successo di un’ora fugace ma un punto fermo per tutti i tempi»55. Polibio segue con parole analoghe. Se, egli dice, noi eliminiamo dalla storia lo studio di cause, metodi e motivi (τὸ διὰ τί καὶ πῶς, καὶ τίνος χάριν ) e rifiutiamo di considerare quanto il risultato di qualsiasi cosa ne sia la conseguenza razionale, quel che rimane è soltanto ἀγώνισμα 56, non μάθημα 57, una prova di abilità oratoria che può dare piacere per un momento ma è completamente priva di qualsiasi valore scientifico per la spiegazione del futuro. Altrove egli dice che la «storia, derubata dell’esposizione delle sue cause e delle sue leggi, è cosa inutile, anche se può allettare uno stupido». E in tutta la sua storia questo punto è sottolineato ed esemplificato a ogni piè sospinto.
Fin qui per quel che riguarda la concezione della storia. Veniamo adesso al suo materiale. Per quanto concerne il carattere dei fenomeni che l’investigatore scientifico deve selezionare, Aristotele aveva elaborato la formula generale secondo la quale la natura dovrebbe essere studiata nelle sue manifestazioni normali. Polibio, fedele alla sua caratteristica per cui applicava esplicitamente i princìpi impliciti nelle opere di altri, segue la dottrina di Aristotele e sottolinea in modo particolare lo sviluppo razionale e indisturbato della costituzione romana, che gli offre particolari opportunità di scoprire le leggi del suo progresso. Le rivoluzioni politiche sono dovute a cause esterne o interne. Le prime sono semplici forze di disturbo, al di fuori della sfera dei calcoli scientifici. Sono le seconde a essere importanti per stabilire i princìpi e chiarire le sequenze dell’evoluzione razionale.
Si può quindi dire che egli abbia anticipato una delle più importanti verità dei moderni metodi scientifici: intendo dire quel principio per cui, proprio come lo studio della fisiologia dovrebbe precedere quello della patologia e per scoprire le leggi della malattia occorre conoscere i fenomeni che si verificano in un organismo sano, così per arrivare a tutte le grandi verità sociali e politiche occorre investigare quei casi in cui lo sviluppo è stato normale, razionale e indisturbato.
Il canone critico per cui più un popolo ha subito interfenze più difficile diventa generalizzare le leggi del suo progresso e analizzare distintamente le forze della sua civiltà è oggi generalmente accettato da coloro che tendono a trattare scientificamente tutta la storia: e mentre abbiamo visto che Aristotele lo anticipò in una formula generale, a Polibio spetta l’onore di essere stato il primo ad applicarlo esplicitamente alla sfera della storia.
Ho dimostrato come a questo grande storico scientifico interessasse essenzialmente la ricerca delle cause; fedele al suo spirito analitico, egli si domanda che cosa sia davvero una causa e in quale parte di ciò che precede una qualsiasi conseguenza essa vada ricercata. Per fare un esempio: quanto all’origine della guerra con Perseo, alcuni ne rinvenirono le cause nell’espulsione di Abrupolis da parte di Perseo, nella spedizione di quest’ultimo a Tebe, nella congiura contro Eumene e nella cattura degli ambasciatori in Beozia: di questi incidenti i primi due, sottolinea Polibio, furono semplicemente i pretesti e gli ultimi due semplicemente le occasioni della guerra. La guerra, invece, fu un compito che Perseo aveva ereditato dal padre, determinato a misurarsi con Roma.
Qui, come altrove, egli non elabora nessuna idea nuova. Tucidide aveva messo in evidenza la differenza tra cause vere e presunte, e la massima aristotelica sulle rivoluzioni oὑ περί μικρων , ἄλλ' εκ μικρῶν 58 traccia la distinzione tra causa e occasione con l’incisività di un epigramma. Ma l’indagine esplicita e razionale sulla differenza tra αἰτία, ἀρχή 59 e πρόφασις 60 toccò a Polibio. Tra i canoni della critica storica, nessuno ha maggior valore reale di quello cui si riferisce questa distinzione, e l’averlo trascurato ha riempito le nostre storie di spregevoli resoconti degli intrighi di cortigiani e re e di meschini complotti di palazzo: particolari interessanti, senza dubbio, per coloro che attribuirebbero la Riforma al bel visino di Anna Bolena, le guerra persiana all’influenza di un medico o a una lavata di capo da parte di Atossa o la Rivoluzione francese a Madame de Maintenon, ma di nessun valore per chi desideri un approccio scientifico alla storia.
Tuttavia il problema del metodo, cui sono sempre costretto a fare ritorno, non è ancora esaurito. C’è un altro aspetto da considerare, ed è proprio ciò che mi accingo a fare.
Una delle maggiori difficoltà che lo storico moderno si trova a dover affrontare è l’enorme complessità dei fatti che si presentano alla sua attenzione: naturalmente non si può prendere in considerazione neppure per un istante – se pure era stato avanzato seriamente – quel suggerimento di D’Alembert per cui, alla fine di ogni secolo, si dovrebbe fare una selezione di fatti, e bruciare il resto. Un problema, quando lo si semplifica, perde tutto il suo valore, e il mondo sarebbe molto più povero se la sibilla della storia bruciasse i suoi volumi. Inoltre, come ha sottolineato Gibbon, «un Montesquieu scoprirà anche nel fatto più insignificante connessioni che il volgo trascura».
Chi indaghi la storia scientificamente non potrà neppure isolare gli elementi particolari che desidera esaminare da cause di disturbo o estranee, come fanno i chimici sperimentali (per quanto talvolta, come nel caso dei manicomi o delle prigioni, egli sia in grado di osservare i fenomeni con un certo grado di isolamento). Così egli è costretto a fare ricorso al metodo deduttivo, a partire dalle leggi generali, oppure a impiegare il metodo dell’astrazione, che conferisce un isolamento fittizio a fenomeni che nell’esistenza reale non si presentano mai così isolati. E questo è esattamente quanto ha fatto Polibio, come del resto Tucidide. Infatti, come è stato giustamente notato, c’è nelle opere di questi due scrittori una certa unità plastica di tipi e motivi; tutto ciò che scrivono è permeato di una caratteristica specifica, l’unicità e la concentrazione dello scopo, cui possiamo contrapporre l’atteggiamento più omnicomprensivo non soltanto della natura moderna, ma anche di Erodoto. Tucidide, che vedeva la società influenzata unicamente da motivazioni politiche, non prendeva in esame forze di natura diversa, e di conseguenza i suoi risultati, come quelli della maggior parte degli economisti politici moderni, debbono essere di gran lunga modificati61 prima di collimare con quello che sappiamo essere lo stato delle cose. Analogamente, Polibio si occupa soltanto di quelle forze che tendevano a portare il mondo civilizzato sotto il dominio di Roma (IX, 1) e, nello spirito di Tucidide, sottolinea la mancanza di elementi pittoreschi e romanzeschi nelle sue pagine, dovuta al suo metodo astratto τὸ μονοείδὲς τῆν συντάξεως 62, facendo attenzione anche a dirci che il suo rifiuto di tutte le altre forze è essenzialmente deliberato, il risultato di una teoria preconcetta e non di una quasiasi disattenzione.
Orbene, quanto al valore generale del metodo astratto e alla liceità del suo impiego nella sfera della storia, forse questa non è l’occasione adatta per discuterli. È comunque degno di nota come Polibio non fosse pienamente cosciente del fatto, sul quale pure si sofferma particolarmente, che di solito è considerato l’obiezione più forte all’impiego del metodo astratto: intendo dire la concezione della società come organismo umano le cui parti sono indissolubilmente interconnesse, a tal punto che tutte sono influenzate quando una di loro è sollecitata in qualche modo. Questa concezione della natura organica della società compare per la prima volta in Platone e Aristotele, che la applicano alle città. Polibio, come sua abitudine, la dilata in caratteristica generale di tutta la storia. È un’idea di importanza estrema, specialmente per un uomo come Polibio, i cui pensieri sono continuamente volti alla unità essenziale della storia e all’impossibilità dell’isolamento.
Inoltre, per quel che riguarda il particolare metodo di investigare quel gruppo di fenomeni ottenuti con il metodo astratto, egli ci informa che non adotta né il metodo puramente deduttivo né quello puramente induttivo, ma un’unione dei due. In altre parole, egli adotta formalmente quel metodo di analisi sulla cui importanza mi sono già soffermato.
Inoltre, per quanto indubbiamente l’enorme semplicità degli elementi considerati sia il risultato dell’impiego del metodo astratto, anche entro il limite così ottenuto deve essere fatta una certa selezione, e una selezione implica una teoria. Questo perché i fatti della vita non possono essere tabulati con la stessa facilità dei colori degli uccelli e degli insetti. Orbene, Polibio sottolinea come occorra soffermarsi su quei fenomeni che possono servire come parádeigma63 o campioni e mostrare le tendenze di un’epoca chiaramente come «una singola goccia di una botte piena sarà sufficiente a rivelare la natura di tutto il contenuto». Questo riconoscimento dell’importanza dei singoli fatti, non in se stessi ma per lo spirito che essi rappresentano, è estremamente scientifico; noi sappiamo infatti che dal singolo osso o anche dente lo studioso di anatomia può ricreare tutto lo scheletro del cavallo primitivo e il botanico può illustrarci i caratteri della flora di un determinato distretto a partire da un unico esemplare.
Considerando la verità «la cosa più divina della natura», «l’occhio e la luce della storia, senza la quale essa sarebbe cieca», Polibio non si risparmia nell’acquisizione di materiale o nello studio delle scienze della politica e della guerra, che considerava essenziali per la formazione dello storico scientifico, e la sua fatica è documentata dai molti passi in cui egli critica altre autorità.
Di solito nella critica antica c’è qualcosa di lievemente condannabile: essa sembra ignorare completamente l’idea moderna del critico come interprete, come espositore della bellezza e dell’eccellenza dell’opera che sceglie. Niente può essere più capzioso o ingiusto, ad esempio, del metodo col quale Aristotele criticò, nelle sue opere etiche, lo Stato ideale di Platone, e i brani del Timeo citati da Polibio dimostrano come questo storico meritasse appieno il nome equivoco che gli era stato dato. Ma in Polibio c’è, io credo, poca di quella amarezza e grettezza di spirito che caratterizza la maggior parte degli altri scrittori, e una storia da lui raccontata incidentalmente a proposito dei suoi rapporti con uno degli storici da lui criticati rivela come fosse persona di grande cortesia e gusti raffinati, come si compete a chi abbia sempre vissuto tra uomini di illustri natali.
Adesso, per quel che riguarda il carattere dei canoni sulla base dei quali e-gli critica le opere di altri autori, nella maggior parte dei casi egli fa semplicemente riferimento alle proprie conoscenze geografiche e militari, dimostrando ad esempio l’impossibilità della marcia di Nabis da Sparta sulla semplice base della sua familiarità con i luoghi in questione; oppure l’incoerenza dei resoconti sulla battaglia di Isso e di quanto riferito da Eforo sulle battaglie di Leuctra e Mantinea. Di questi ultimi dice che, se qualcuno si prendesse la briga di misurare il terreno del sito della battaglia ed esaminasse poi le manovre descritte, si renderebbe conto di quanto tali resoconti siano imprecisi.
In altri casi egli fa riferimento a documenti pubblici, la cui importanza egli fu il primo a riconoscere; dimostrò ad esempio, sulla scorta di un documento conservato presso l’archivio pubblico di Rodi, quanto imprecisa fosse la descrizione della battaglia di Lade fornita da Zenone e Antistene. Oppure prende in esame la probabilità psicologica, respingendo ad esempio le storie scandalose che si raccontavano a proposito di Filippo di Macedonia, semplicemente sulla base della generale magnanimità del re e arguendo che un ragazzo beneducato e dalle conoscenze così rispettabili come Democare non avrebbe mai potuto essere colpevole delle malvagità che gli erano imputate.
Ma il bersaglio principale delle sua censura letteraria fu Timeo, che era stato così crudele nelle sue critiche al prossimo. Il primo rimprovero che gli muove, impugnando la sua precisione di storico, è quello di avere tratto la sua conoscenza della storia non dai rischiosi perigli di una vita d’azione ma dalla tranquilla indolenza di un’angusta vita da studioso. Non c’è altro brano in cui egli sia altrettanto veemente. «Una storia», egli dice, «scritta in biblioteca risulta inanimata e imprecisa come un dipinto copiato non da un animale vivo ma da uno imbalsamato».
C’è più differenza, dice in un altro passo, tra il racconto di un testimone oculare e quello di uno le cui conoscenze derivino dai libri di quanta non ce ne sia tra le scene della vita reale e i paesaggi fasulli degli scenari teatrali. Egli si addentra inoltre in una critica alquanto elaborata dei brani in cui ritiene che Timeo seguisse un metodo sbagliato e sovvertisse la verità, brani che varrebbe la pena di esaminare dettagliatamente.
Dalla consuetudine romana di uccidere un cavallo da guerra in un determinato giorno Timeo arguiva che quel popolo fosse di origine troiana. Polibio, d’altro canto, mette in evidenza come questa inferenza sia del tutto gratuita, perché i sacrifici equini sono istituzioni assai frequenti, comuni a tutte le tribù barbare. Qui Timeo, come spesso accade agli scrittori greci, arguisce da una consuetudine del presente un evento storico del passato. Polibio fa invece ricorso al metodo comparativo, dimostrando come quella data consuetudine costituisse un gradino comune nella civiltà di ogni popolo primitivo.
In un altro passo, egli dimostra come sia illogico lo scetticismo di Timeo riguardo all’esistenza del bue di Falaride semplicemente facendo riferimento alla statua del toro, ancora visibile a Cartagine: sottolinea come sarebbe impossibile, se non supponendo che appartenesse a Falaride, spiegare la presenza a Cartagine di un bue tanto particolare, con un’apertura tra le spalle. Ma una delle critiche più importanti che egli muove allo storico siciliano riguarda la questione dell’origine della colonia di Locri. Come voleva la tradizione, Aristotele aveva sostenuto che la colonia di Locri era stata fondata da alcuni partenidi o figli di schiavi, affermazione questa che pare aver suscitato l’indignazione di Timeo, il quale si dette molto da fare per confutarla. Lo fa sulla base dei motivi seguenti.
Prima di tutto, egli sottolinea come, nell’antichità, i Greci non avessero schiavi, per cui il coinvolgere gli schiavi in questa faccenda sarebbe un anacronismo; dichiara inoltre che gli erano state mostrate, nella città greca di Locri, certe antiche iscrizioni nelle quali i suoi rapporti con la città italica erano paragonati a quelli tra un genitore e un figlio, cosa questa peraltro corroborata anche dal fatto che i cittadini di entrambe le città godevano del diritto di cittadinanza anche nell’altra. Inoltre egli fa riferimento a varie questioni di improbabilità relative ai loro rapporti internazionali, sulle quali Polibio prende posizioni così diametralmente opposte che non lasciano spazio a eventuali discussioni. E in favore della propria posizione egli sottolinea altri due punti; primo, che usufruendo i Lacedemoni di licenze per andare a trovare le mogli, è improbabile che i Locresi non godessero dello stesso privilegio; secondo, che i Locresi d’Italia non sapevano niente della versione aristotelica e, al contrario, avevano leggi molto severe contro adulteri, schiavi fuggiti e simili. Ora si tratta, in massima parte, di questioni di probabilità, la quale è sempre un canone talmente soggettivo che ogni riferimento a essa raramente è conclusivo. Vorrei comunque notare, con riferimento a quelle iscrizioni che, se autentiche, avrebbero risolto la questione, che Polibio le considera una pura invenzione da parte di Timeo, il quale, egli osserva, non fornisce alcun particolare su di loro, mentre di solito è anche eccessivamente zelante nel citare, di qualsiasi fonte, capitolo e versetto. Un punto un po’ più interessante è quello in cui egli attacca Timeo perché aveva introdotto nella sua narrativa discorsi inventati: a questo proposito, Polibio sembra essere ben più avanti rispetto alle opinioni nutrite dai letterati non soltanto ai suoi tempi ma anche secoli dopo.
Erodoto aveva introdotto discorsi dichiaratamente drammatici e inventati. Tucidide afferma chiaramente che, laddove era incapace di scoprire che cosa i suoi personaggi avevano davvero detto, egli scrive ciò che probabilmente avevano detto. Sallustio allude, è vero, al fatto che il discorso da lui messo in bocca al tribuno Memmio è essenzialmente genuino, ma i discorsi pronunziati al senato in occasione della congiura di Catilina sono molto diversi dalle stesse orazioni riportate da Cicerone. Gli antichi Romani ritratti da Livio fanno a pezzi la logica con tutta l’abilità di un Ortensio o di uno Scevola. E anche più tardi, quando ai dibattiti del senato cominciarono a partecipare gli stenografi e a Roma cominciò a uscire un Daily News, scopriamo, grazie a un’iscrizione rinvenuta di recente a Lione, che uno dei discorsi più famosi di Tacito (quello in cui l’imperatore Claudio concede ai Galli la libertà) è completamente frutto della fantasia dell’autore.
D’altra parte, occorre tenere presente che questi discorsi non erano tendenziosi: erano considerati semplicemente un elemento drammatico che era lecito introdurre nella storia allo scopo di conferire più vita e realtà alla narrazione, e dovevano essere criticati non, come faremmo noi, chiedendosi come prima della diffusione della stenografia fosse possibile riportarli o come, in mancanza di documenti scritti, la tradizione potesse perpetuare resoconti orali così precisi, ma in base al criterio ben più importante della probabilità psicologica, con riferimento alle persone in bocca alle quali tali discorsi sono collocati. Rispondendo alle critiche moderne uno storico antico probabilmente direbbe che questi discorsi inventati erano in realtà più veritieri di quelli veri, proprio come Aristotele rivendicava per la poesia un grado di verità superiore a quello della storia. Si tratta di un problema molto interessante, perché dimostra quanto Polibio fosse avanti rispetto alla sua epoca.
Egli fu l’ultimo storico scientifico, e dai suoi scritti è possibile dedurre quali fossero, a suo parere, le caratteristiche dello storico ideale: e non poca luce sarà fatta sull’evoluzione della critica storica se cercheremo di raccogliere e analizzare quelle che in Polibio sono affermazioni più o meno sparse. Lo storico ideale deve essere contemporaneo agli eventi che descrive o, al massimo, essere nato una generazione dopo. Laddove è possibile, deve essere un testimone oculare di ciò di cui scrive; laddove questo è al di fuori delle sue possibilità, egli deve esaminare attentamente tutte le tradizioni e i racconti, senza essere disposto ad accettare il plausibile in cambio del vero. Egli non deve essere un topo di biblioteca, che viva alla larga dalle esperienze del mondo nell’isolamento artificiale di una città-università, ma un politico, un soldato e un viaggiatore, un uomo non soltanto di pensiero ma anche di azione, uno che sappia fare grandi cose oltre che scriverne, che possa essere nella sfera della storia quello che Byron ed Eschilo sono stati in quella della poesia, le chantre et le héros64 al tempo stesso.
Egli deve tenere presente che il caso è semplicemente un sinonimo della nostra ignoranza; che il regno della legge pervade l’ambito della storia proprio come quello della politica. Egli deve abituarsi a cercare, in ogni occasione, le cause razionali e naturali. E pur riconoscendo l’utilità pratica del sovrannaturale da un punto di vista educativo, egli non deve indulgere a questo gioco intellettuale al punto di ammettere la possibilità che siano violate leggi inviolabili o di argomentare in una sfera nella quale l’argomentazione sia esclusa a priori. Egli deve essere libero da ogni inclinazione verso amici o paesi; non deve considerare la storia una mera opportunità per scrivere in modo splendido o tragico; non deve falsificare la verità per amore di un paradosso o di un epigramma.
Pur riconoscendo l’importanza di fatti particolari come esempi di verità più elevate, egli deve avere una visione ampia e generale dell’umanità. Deve occuparsi di tutto il genere umano e di tutto il mondo, non di determinate tribù o paesi. Deve tenere in mente che il mondo è davvero un organismo in cui nessuna parte può essere spostata senza che ne siano influenzate anche le altre. Egli deve distinguere tra causa e occasione, tra l’influenza di leggi generali e particolari fantasie, e deve ricordare che la storia contiene le più grandi lezioni del mondo, e che il dovere dello storico è proprio quello di renderle manifeste, in modo tale da salvare le nazioni da quelle politiche poco sagge che conducono sempre al disonore e alla rovina e da insegnare ai singoli ad apprendere, grazie alla cultura intellettuale della storia, quelle verità che altrimenti dovrebbero imparare all’amara scuola dell’esperienza.
Orbene, per quanto riguarda la teoria della necessità che lo storico sia contemporaneo agli eventi che descrive, questa osservazione è indubbiamente vera, nella misura in cui lo storico è un semplice narratore. Ma per apprezzare l’armonia e la posizione razionale dei fatti di una grande epoca, per scoprire le sue leggi, le cause che l’hanno prodotta e gli effetti che essa genera, la scena, per poter essere compresa appieno, deve essere osservata da una certa altezza e da una certa distanza. Uno storico completamente contemporaneo come Lord Clarendon o Tucidide è, in realtà, parte della storia che egli critica; e nel caso di storici contemporanei come Fabio e Filisto, Polibio è costretto a riconoscere che sono fuorviati dal patriottismo e da altre considerazioni. Quanto a Polibio, a lui non si possono muovere accuse di questo genere. Egli, fra tutti gli uomini, è capace, come da un’alta torre, di discernere la tendenza complessiva del mondo antico, quel trionfo delle istituzioni romane e del pensiero greco che è l’ultimo messaggio del mondo antico e che, in un senso più spirituale, è divenuto il vangelo del nuovo.
Una cosa non vide, a dire il vero, o se la vide non le attribuì troppa importanza: come dall’Oriente si stessero diffondendo sul mondo, come si diffondono le onde, una serie di nuove religioni, dal giorno in cui la madre degli dèi di Pessinunte, una massa di pietra informe, fu portata nella città eterna dal più sacro dei suoi cittadini, a quello in cui la nave Castore e Polluce attraccò a Pozzuoli e San Paolo volse il suo sguardo verso Roma, dove lo attendevano il martirio e la vittoria. Polibio seppe prevedere, grazie alla sua conoscenza delle cause delle rivoluzioni e delle tendenze delle varie forme di governo, la nascita di quel pensiero democratico che, non appena ne fu sparso il seme con l’omicidio dei Gracchi e l’esilio di Mario, culminò, come culminano tutti i movimenti democratici, nella suprema autorità di un solo uomo, la signoria del mondo sotto il suo signore di diritto, Caio Giulio Cesare. Questo lo vide davvero in modo chiarissimo. Ma il volgersi del cuore di ogni uomo a Oriente, i primi bagliori di quella splendida aurora che sorse dalle colline della Galilea e inondò il mondo come fosse vino, rimasero nascosti ai suoi occhi.
Nella descrizione dello storico ideale ci sono molti punti che possiamo confrontare col quadro del filosofo ideale datoci da Platone. Essi sono entrambi «osservatori di ogni tempo e di ogni esistenza». Niente è spregevole ai loro occhi, perché ogni cosa ha un significato, ed essi camminano entrambi con augusta ragionevolezza, consapevoli delle opere di Dio ma senza per questo temere preti mendicanti o pellegrini capaci di operare miracoli. L’uno, infatti, si tiene in disparte dalle tempeste di grandine e nevischio del mondo, con gli occhi fissi su sommità distanti e illuminate dal sole, mentre l’altro agisce appassionatamente nel mondo, cercando continuamente di applicare le sue conoscenze a cose utili. Entrambi desiderano egualmente la verità, l’uno per la sua utilità, l’altro per la sua bellezza. Lo storico la considera il principio razionale di tutta la storia vera, e niente più. All’altro essa giunge come un entusiasmo mistico e omnipervasivo, «come il desiderio di un vino forte, un’ardente aspirazione, l’amore appassionato per ciò che è bello».
Tuttavia, per quanto nello storico ci manchino quelle qualità più elevate e più pratiche che soltanto il filosofo dell’Accademia, tra tutti gli uomini, possedeva, non dobbiamo rimanere ciechi davanti ai meriti di quel grande razionalista che pare aver anticipato le ultimissime affermazioni della scienza moderna. Né egli deve essere considerato semplicemente nell’angusta luce nella quale è valutato dalla maggior parte dei critici moderni, cioè semplicemente come l’esplicito campione del razionalismo, e niente più. Egli è infatti legato a un’altra idea, il cui corso è come quello del grande fiume della sua nativa Arcadia il quale, sgorgando da una qualche roccia arida e sbiancata dal sole, man mano che scorre acquisisce forza e bellezza, finché non raggiunge i campi di asfodelo di Olimpia e la luce e le risa delle acque ioniche.
In lui, infatti, possiamo distinguere i primi accenni di quel grande culto della città dei sette colli che indusse Virgilio a scrivere la sua epica e Livio a scrivere la sua storia, che trovò il suo massimo sostenitore in Dante, il quale sognava un impero in cui l’imperatore si prendesse cura dei corpi e il papa delle anime ed elaborò così quella concezione dell’impero spirituale di Dio e della fratellanza universale fra gli uomini che si amplia nell’enorme oceano del pensiero universale come il Peneo si dissolve nel mare.
Polibio è l’ultimo storico scientifico della Grecia. L’autore che sembra completare convenientemente questo cammino di pensiero scrisse soltanto biografie. Non mi soffermerò qui sull’impiego, da parte di Plutarco, del metodo induttivo, attestato dai suoi costanti richiami a iscrizioni e statue, edifici e documenti pubblici e simili, perché esso non implica nessuna novità. È il suo atteggiamento nei confronti dei miracoli che desidero trattare.
Plutarco è abbastanza filosofo per vedere che i miracoli, nel senso di una violazione delle leggi della natura, sono impossibili. È assurdo, egli dice, immaginare che la statua di un santo possa parlare e che un oggetto inanimato che non possiede organi vocali possa essere in grado di emettere un suono articolato. D’altra parte, egli protesta che la scienza, spiegando le cause naturali delle cose, ha spazzato via il loro significato trascendente. «Quando le lacrime sulla guancia della statua di un certo santo sono state attribuite all’umidità che determinate temperature producono sul legno e sul marmo, non ne consegue certamente che esse non fossero un segno di dolore o di lutto collocatovi da Dio». Quando Lampone vide nel prodigio dell’ariete con un solo corno l’auspicio del ruolo supremo di Pericle, e quando Anassagora dimostrò che quello sviluppo anormale era la conseguenza razionale di una particolare conformazione del cranio dell’animale, il visionario e l’uomo di scienza avevano entrambi ragione: al secondo spettava indagare su come si fosse verificato il prodigio e al primo rivelare perché si fosse verificato e che cosa esso facesse presagire. La progressione del pensiero è esemplificata in tutti i particolari. Erodoto aveva una vaghissima percezione dell’impossibilità di una violazione della natura. Tucidide ignorò il sovrannaturale. Polibio lo razionalizzò. Plutarco lo riporta sulle sue vette mistiche, pur fondandolo sulla legge. In breve, Plutarco capì che la scienza riporta tutto il sovrannaturale al naturale ma che, in realtà, tutto il naturale è sovrannaturale. Per lui, come per molti nostri contemporanei, la religione era quell’atteggiamento trascendente della mente che, contemplando un mondo basato sulla legge inviolabile, trova conforto e cerca di adorare Dio non nella violazione ma nel compimento della natura.
Può sembrare un paradosso citare, in relazione al sacerdote di Cheronea, un razionalista puro come Mr. Herbert Spencer; tuttavia quando leggiamo che l’ultimo messaggio della scienza moderna è quello per cui «quando l’equazione della vita è stata ridotta ai minimi termini i simboli sono sempre simboli», semplici segni, cioè, di quella realtà ignota sottostante a ogni materia e a ogni spirito, possiamo renderci conto di come pur attraverso tanti secoli il pensiero chiami il pensiero e di come Plutarco ricopra una posizione più importante di quella solitamente attribuitagli nell’evoluzione dell’intelletto greco.
Sembra davvero che l’importanza nella storia della civiltà greca non solo di Plutarco ma anche della terra che gli diede i natali sia stata trascurata daicritici moderni. Certo, per noi la nuda roccia alla quale il Partenone fa dacorona e che si trova tra Colono e le colline color violetto dell’Attica saràsempre il luogo più sacro in terra greca: e poi verrà Delfi, e poi i campidell’Eurota, dove visse quella nobile gente che rappresentò nel pensiero elle-nico la reazione della legge del dovere contro la legge della bellezza, l’oppo-sizione della condotta alla cultura. Eppure, quando ci si trova sulla σχιστὴ ὀδός 65 del Citerone e si guarda verso la grande pianura doppia della Beozia, ci si impone prepotentemente l’enorme importanza della divisione dell’Ellade. A nord sono Orcomeno e la casa del tesoro di Minosse, sede di quei principi mercanti della Fenicia che portarono in Grecia la conoscenza delle lettere e l’arte della lavorazione dell’oro. Ai nostri piedi c’è Tebe, dove tuttora indugiano le terribili leggende della tragedia greca, città natale di Pindaro, nutrice di Epaminonda e della Lega Sacra.
E dalla pianura dove «Marte amava danzare» si erge la sede delle Muse, l’Elicona, sui cui rivi argentei cantavano Corinna ed Esiodo. Mentre lontano, sotto l’egida bianca di quelle montagne ammantate di neve, si trovano Cheronea e la pianura, dove con vana cavalleria, i Greci cercarono di fermare il Macedone prima e Roma poi; Cheronea, dove nell’estate di San Martino della civiltà greca Plutarco emerse dal desolato squallore di una religione morente come il secondo fieno spunta quando i mietitori pensano di aver falciato tutto il campo. La filosofia greca cominciò e finì con lo scetticismo: la prima e l’ultima parola della storia greca fu «fede».
Splendida anche nella sua morte, come i tramonti invernali, la religione greca finì nell’orrore della notte. Sopraggiunse l’oscurità cimmerica, e quando le scuole di Atene furono chiuse e le statue di Atena abbattute, lo spirito greco passò dagli dèi e dalla storia del suo paese alle sottigliezze nel definire la dottrina della Trinità e ai tentativi mistici di armonizzare Platone con Cristo e di riconciliare il Getsemani e il discorso della montagna con la prigione ateniese e le discussioni nel bosco di Colono. Lo spirito greco dormì per quasi mille anni. Quando si risvegliò esso aveva, come Anteo, tratto forza dalla terra in cui era rimasto e, come Apollo, non aveva perduto niente della sua divinità nel corso della sua lunga schiavitù.
Nella storia del pensiero romano non troviamo traccia alcuna di quelle caratteristiche dell’illuminismo greco che ho indicato quali indispensabili alla nascita della critica storica. Quel conservatorismo e quel rispetto per le tradizioni, che tanto fecero amare ai Romani i riti e le formule di legge e che emergono dalla loro politica come dalla loro religione, furono fatali alla nascita di ogni spirito di rivolta contro l’autorità, la cui importanza come fattore di progresso intellettuale abbiamo già visto.
Le tavole imbiancate dei pontefici conservarono accuratamente le registrazioni delle eclissi e degli altri fenomeni atmosferici, ed essi si impadronirono ben presto di quella che chiamiamo l’arte di verificare i dati; ma non nacque spontaneamente una scienza fisica che suggerisse con le sue analogie di legge e ordine un nuovo metodo di ricerca, né sgorgò naturalmente uno spirito filosofico interrogativo che unificasse tutti i fenomeni e tutta la conoscenza. Proprio quando tutta la marea delle superstizioni orientali si stava abbattendo sul cuore del Campidoglio, il senato bandì i filosofi greci da Roma. E dei tre sistemi che alla lunga avrebbero messo le loro radici in città, quelli di Zenone e di Epicuro furono usati semplicemente come regola per mettere ordine nella vita, mentre lo scetticismo dogmatico di Carneade, con i suoi stessi princìpi, annientò la possibilità di argomentare e incoraggiò una perfetta indifferenza alla ricerca.
Né i Romani ebbero mai la fortuna, come i Greci, di dover affrontare l’incubo di un sistema dogmatico di leggende e miti le cui immoralità e assurdità avrebbero potuto suscitare uno scoppio rivoluzionario di critica scettica. La religione dei Romani era come cristallizzata in uno stadio primitivo della sua evoluzione, isolata dal progresso. I loro dèi rimanevano semplici astrazioni di virtù banali o personificazioni poco interessanti delle cose utili della vita. Le vecchie credenze primitive rimasero sempre, è vero, come istituzioni di Stato, grazie alle enormi possibilità da esse offerte di imbrogliare in politica, ma sia la gente comune che le classi colte le rifiutarono ben presto come sistema spirituale, per il fondato motivo che erano estremamente ottuse. La prima si rifugiò nel sensualismo mistico dell’adorazione di Iside, le seconde nelle regole di vita stoiche. I Romani classificavano meticolosamente i loro dèi per ordine di precedenza, analizzavano le loro genealogie nel laborioso spirito dell’araldica moderna, li circondavano di riti complicati come le loro leggi, ma non arrivarono mai a credere in loro. Così non furono minimamente scossi quando i filosofi annunziarono che Minerva era ormai solo un ricordo. Non era mai stata molto di più. Né protestarono quando Lucrezio osò dire, di Cerere e Bacco, che erano soltanto il grano dei campi e il frutto delle vigne. Essi, infatti, non avevano mai pianto la figlia di Demetra sui campi di asfodelo della Sicilia, né avevano attraversato le radure del Citerone coperti di pelli di cerbiatto e armati di lancia.
Questa breve descrizione del pensiero romano servirà a prepararci alla quasi totale mancanza di critica storica scientifica che discerneremo nella loro letteratura; essa ha inoltre offerto ulteriori prove delle condizioni necessarie alla nascita di questo spirito e delle modalità di pensiero che riflette e nelle quali lo si può sempre rinvenire. L’origine della composizione storica romana era legata al collegio pontificio degli avvocati ecclesiastici, ed essa mantenne lo spirito acritico che caratterizzava la loro produzione. Possedette, sin dall’inizio, una voluminosa raccolta di materiale storico che però produsse soltanto antiquari e non storici. È tanto difficile usare i fatti e tanto facile accumularli.
Stanco dell’ottusa monotonia degli annali pontifici, che andavano ben poco oltre l’incremento e la diminuzione delle derrate alimentari e le eclissi di sole, Catone scrisse di sua mano una storia per istruire il proprio figliolo, e la intitolò Origines, e prima di lui alcune famiglie aristocratiche avevano scritto storie in greco, con lo stesso spirito con il quale nella Germania del diciottesimo secolo si usava, come lingua letteraria, il francese. Ma il primo storico romano nel vero senso della parola è Sallustio. Tra le stravaganti apologie di questo autore da parte dei francesi (come De Closset) e la visione del Dr. Mommsen, che lo considera semplicemente uno scrittore di libelli politici, è forse difficile raggiungere la via media di una valutazione obiettiva. Gli va comunque attribuito il merito di essere uno storico puramente razionalista, forse l’unico nella letteratura latina. Cicerone aveva molti dei requisiti dello storico scientifico e aveva un’altissima opinione (come in tutte le cose) delle proprie capacità. Per quel che riguarda le antiche leggende, tuttavia, egli è piuttosto insoddisfacente, perché è dotato di troppo buon senso per credervi e troppo patriottico per rifiutarle. E questa è anche la posizione di Livio, che rivendica per le antiche leggende romane un certo omaggio acritico da parte del mondo che a Roma era soggetto. La sua opinione in proposito è che non valga la pena di esaminare la verità di queste storie.
Nelle sue mani la storia di Roma si dipana davanti ai nostri occhi come una fastosa tappezzeria, in cui a una vittoria succede un’altra vittoria, dove il trionfo avanza sulle ali del trionfo e la stirpe degli eroi sembra non avere mai fine. Soltanto quando esaminiamo la tela e vediamo i mezzi esigui con i quali è prodotto questo effetto ci rendiamo conto che, come la maggior parte degli scrittori pittoreschi, Livio è un critico indifferente. Per quel che riguarda la sua posizione nei confronti della storia di Roma antica egli è consapevole quanto lo siamo noi della sua natura mitica e poco solida. Egli non decide, ad esempio, se gli Orazi fossero albani o romani; chi fu il primo dittatore; quanti tribuni ci fossero. Il suo metodo, di solito, è semplicemente quello di citare tutte le fonti e, talvolta, decidere in favore della più probabile, per quanto generalmente egli non decida affatto. Non fa ricorso ai canoni della critica storica per scoprire se le donne romane interrogarono la madre di Coriolano di loro iniziativa o per suggerimento del senato; se Remo fu ucciso per aver oltrepassato il muro di suo fratello o perché litigarono sugli uccelli; se gli ambasciatori trovarono Cincinnato intento ad arare un campo o semplicemente a sistemare una siepe. Livio sospende il giudizio su questi fatti e, quando lo interrogano in proposito, tace. Se deve scegliere tra due storici, opta per il più vicino ai fatti che egli descrive. Ma egli non è un critico, soltanto uno scrittore coscienzioso. Soffermarsi sulle sue capacità critiche è una pura perdita di tempo, perché esse non esistono.
Nel caso di Tacito, l’immaginazione ha preso il posto della storia. Nelle sue pagine rivive il passato, ma non attraverso una laboriosa critica: semmai grazie a una sua particolare sensibilità drammatica e psicologica.
Egli non crede nella filosofia della storia. Non riesce a decidere a che cosa credere, in fatto di governo del mondo da parte di Dio. Non c’è alcun metodo, né in lui né nella letteratura latina in generale.
Le nazioni possono non avere una missione, ma certamente hanno una funzione. E la funzione dell’Italia antica non fu semplicemente quella di darci quanto c’è di statico nelle nostre istituzioni e di razionale nella nostra legge, ma di fondere in un credo elementare le aspirazioni degli ariani e dei semiti. L’Italia non fu un pioniere del progresso intellettuale né un caposaldo nell’evoluzione del pensiero. La civetta della dea della saggezza volò su tutto il paese e non trovò un solo luogo ove fermarsi. La colomba, l’uccello di Cristo, volò diritta su Roma, ed ebbe inizio il nuovo regno. I pittori italiani primitivi amavano rappresentare i soldati che facevano la guardia al sepolcro di Cristo in costume medioevale e questo fatto, in realtà il risultato dello schietto anacronismo di tutta l’arte vera, può servirci da allegoria. Fu infatti vano il tentativo, messo in atto dal Medioevo, di fare la guardia allo spirito sepolto del progresso. Quando sorse l’alba dello spirito greco, il sepolcro era vuoto e il sudario messo da una parte. L’umanità era risuscitata dai morti.
Lo studio del greco, è stato detto giustamente, implica la nascita di critica, confronto e ricerca. All’inizio di quell’educazione dei moderni da parte degli antichi che chiamiamo Rinascimento, furono le parole di Aristotele a indurre Colombo a far rotta sul nuovo mondo, mentre un frammento dell’astronomia pitagorica indirizzò le riflessioni di Copernico sulla strada che avrebbe rivoluzionato la posizione del nostro pianeta nell’universo. Ci si avvide infatti che il solo significato del progresso era un ritorno alle modalità del pensiero greco. Furono cancellati gli inni monacali che avevano oscurato le pagine dei manoscritti greci, furono disvelate al mondo le meraviglie di un nuovo metodo e, dal mare malinconico del medioevalismo, si levò lo spirito libero dell’uomo, in tutto lo splendore di una lieta adolescenza, quando le facoltà fisiche sembrano accelerate da una nuova vitalità, quando l’occhio vede molto più chiaramente del solito e la mente comprende quanto fino a quel momento le era rimasto celato. Per annunziare l’incipiente sedicesimo secolo una piccola tipografia veneziana dette alle stampe tutti i grandi autori dell’antichità, ciascuno dei quali recava sul frontespizio la dicitura 'ʹΑλδος ὁ Μανόουτιος Ρωμαίος καὶ Φιλέλλην 66, parole che possono servire a ricordarci con quale meravigliosa prescienza Polibio vide il destino del mondo quando previde la sovranità materiale delle istituzioni romane e l’impero intellettuale della Grecia, da lui stesso esemplificato.
Lo studio dello spirito della critica storica non è stato un’inutile indagine su modalità e forme di pensiero ormai antiquate e di nessun conto. L’unico spirito completamente lontano da noi è quello medioevale; lo spirito greco è essenzialmente moderno. L’introduzione del metodo della ricerca comparativa, che ha costretto la storia a rivelare i suoi segreti, in certo qual modo ci appartiene. E sono nostri anche una conoscenza più scientifica della filologia e il metodo della sopravvivenza. Né gli antichi sapevano alcunché della dottrina della media risultante o delle istanze cruciali, metodi che si sono entrambi dimostrati importantissimi nella critica moderna, l’una perché aggiunge una prova fondamentale agli elementi statici della storia, esemplificando l’influenza dell’ambiente fisico sulla vita dell’uomo, l’altra perché, come nel caso del cranio di Moulin Quignon, serve a creare tutta una nuova scienza, quella dell’archeologia preistorica, e ci riporta in un’epoca, l’età della pietra, in cui l’uomo era coevo dei mammut e dei rinoceronti lanuti. A parte questo, tuttavia, non abbiamo aggiunto alla scienza della critica storica nessun canone o metodo nuovo: sopra il deserto di un migliaio di anni, lo spirito greco e quello moderno si danno la mano.
Nella gara che i fanciulli greci correvano con le fiaccole in mano, dal campo della morte del Ceramico al tempio della dea della saggezza, era premiato non soltanto chi tagliava per primo il traguardo ma anche chi per primo partiva con la torcia accesa. Nella Lampadoforia della civiltà e del libero pensiero, non dimentichiamo di rendere debito onore a coloro che per primi accesero la sacra fiamma, quel crescente splendore che illumina i nostri passi verso il lontano evento divino della conquista della verità perfetta.
1 Lo spirito di un’epoca non nasce e non muore in un giorno preciso.
2 Signore degli uomini.
3Una natura nobile e buona.
44 Senso intuitivo di discriminazione.
55 Con l’ingegno.
66 Con l’istruzione.
77 Io non credo a una sola parola di tutto ciò.
88 A fare la prostituta.
99 Una furibonda battaglia di randelli.
1010 Essendo ancora un mortale.
1111 Un dio introdotto artificialmente sul palcoscenico.
1212 Avendo circuito la popolazione per ottenerne il favore.
1313 Solo all’arte si chieda dell’arte, e solo al passato del passato.
1414 In italiano nel testo (N.d.T.).
1515 Le leggi di Platone; il Prometeo incatenato di Eschilo.
1616 Prospero.
1717 In parte con lo stesso spirito, nelle sue Leggi Platone considera la posizione di Ilio tra i fiumi della pianura una prova del fatto che questa città fu costruita non molto tempo dopo il diluvio.
1818 Plutarco sottolinea come i Greci possiedano un’unica prova del fatto che Atene abbia davvero goduto della sua leggendaria potenza e che non siano tutte «favole o futili chiacchiere», ovvero i suoi edifici pubblici e sacri. È un esempio di quell’importanza eccessiva attribuita alle rovine contro la quale Tucidide vuole metterci in guardia.
1919 Città.
2020 Rifugio privato.
2121 Coscia.
2222 Omero.
2323 Anticamente la vendita fittizia del matrimonio romano, per coemptionem, era naturalmente una vendita effettiva.
2424 Il buono e il bello.
2525 Per natura adatto a una comunità ordinata.
2626 Uguaglianza tra chi governa e chi è governato.
2727 Città-stato.
2828 Sulle forme di governo.
2929 Nessun pesce grande è cattivo.
3030 Andiamo ad Atene.
3131 Come è evidente nel caso del calore e delle sue leggi.
3232 Si appartiene alla propria epoca anche quando si combatte contro di essa.
3333 Tabula rasa.
3434 In italiano nel testo (N.d.T.).
3535 Fine o scopo.
3636 A partire dalla molteplicità dell’esperienza.
3737 Cousin s’inganna notevolmente a questo proposito. Affermare, come fece lui, «Datemi la latitudine e la longitudine di un paese, i suoi fiumi e le sue montagne, e io ne dedurrò la razza», è una lampante esagerazione.
3838 Si fa qui riferimento agli elementi monarchici, aristocratici e democratici della costituzione romana.
39 Che i figli degli uomini buoni siano sempre più buoni dei loro padri, e i figli dei cittadini utili siano sempre più utili dei loro padri.
40 Bandiera rossa.
41 Signore di famiglia aristocratica.
42Polibio, VI, 9.
43 Acquisizione duratura.
44Premio per l’immediato presente.
45 Polibio, XII, 24.
46 Meschini timori superstiziosi e quell’interesse per il meraviglioso che sono caratteristici delle donne.
47 Polibio, I, 4; VIII, 4, in particolare; e davvero passim.
48 Egli ammette una sola eccezione.
49 Polibio, VIII, 4.
50 Caso.
51 Polibio, XVI, 12.
52 Polibio, VIII, 4.
53 La natura unica della loro forma di governo.
54 Polibio ricorda Gibbon sotto molti punti di vista. Come lui, ritiene che tutte le religioni siano egualmente false per il filosofo, egualmente vere per l’uomo volgare ed egualmente utili per lo statista.
55 Cfr. Polibio XII, 25.
56 Un esercizio arido.
57 Una significativa attività mentale.
58 Non su questioni banali, ma derivanti da questioni banali.
59 Causa, inizio.
60 Causa presunta.
61Mi riferisco in particolare alla sua veemente denuncia della completa decadenza morale della società greca durante la guerra del Peloponneso, denuncia che, da quel che ci rimane della letteratura ateniese, sappiamo essere completamente eccessiva. O forse degli uomini egli prendeva in considerazione soltanto gli atti politici: e in politica, anche chi è personalmente rispettabile e raffinato, non ha alcuno scrupolo a fare qualsiasi cosa per il suo partito.
62Uniformità di struttura.
63Esempio.
64 Il bardo e l’eroe.
65 La strada divisa.
66 Aldo Manuzio, romano e amante della Grecia.