Introduzione

Il pericolo verso cui finora sempre più chiaramente l’Europa è sospinta consiste presumibilmente nel fatto che innanzitutto il suo pensiero, che un tempo era la sua grandezza, resti indietro rispetto al corso essenziale del destino mondiale. Nessuna metafisica, sia essa idealistica, materialistica o cristiana, può per la sua essenza, e tanto meno solo con gli sforzi che mette in atto nel tentativo di svilupparsi, ri-prendere ancora il destino; ciò significa che non può, col suo pensiero, raggiungere e raccogliere ciò che, in un senso pieno dell’essere, ora è.

M. HEIDEGGER, Lettera sull’“umanismo” (1946), pp. 293-294.

Il tramonto dell’Occidente è il compiersi di un senso racchiuso nella parola che dice: terra della sera, occasum, ultimo bagliore di quella luce che, sorta nell’aurora del mattino, ha signoreggiato il giorno. La parola esprime un destino a cui non ci si può sottrarre. Il sole non si può fermare. Il tramonto è inevitabile. L’Occidente è la terra destinata a ospitare questo tramonto. Ma qual è il senso custodito dalla parola? Tramontare è l’inevitabile declinare della luce o è l’inconsapevole sottrarsi della terra alla luce? Cogliere il senso di questa domanda è decidersi per un’attesa o per una scelta.

Il luogo della decisione è la filosofia, ovvero quell’episodio occidentale che, sorto in Grecia nel periodo assiale dell’umanità,1 si è propagato in tutta la terra della sera per custodirne fedelmente gli eventi. Il destino dell’Occidente coinvolge quindi nel suo tramonto anche la filosofia. Come può allora la filosofia cogliere il senso di untramonto che la include? È essa episodio dell’Occidente, o il volto occidentale che ha espresso non le è essenziale?

La filosofia, come ci ricorda Aristotele,2 è nata dalla meraviglia dell’uomo che oggi va altrove a cercare le proprie risposte. Scienza e fede offrono ripari sicuri all’inquietudine del domandare che via via si estingue. Oggi a minacciare il pensiero non è l’inconcludenza che accompagna l’infinita problematicità della domanda, ma la sua assenza.

Nel senso indicato da queste considerazioni abbiamo scelto Jaspers e Heidegger come testimoni del tramonto e come isolati indagatori del suo senso. Isolati dal senso comune che li ha compresi nell’“esistenzialismo”, uno dei tanti “-ismi” oggi in voga, e quasi dimentichi l’uno dell’altro a motivo della distanza dei rispettivi sentieri, che pure, secondo l’immagine heideggeriana, conducono tutti nel cuore del bosco dove la luce traspare nascondendosi.

Il loro errare nel bosco (Holzwege), che accoglie e custodisce il senso di quei sentieri, non conosce direzione, conosce però i passi compiuti che hanno condotto a quel punto in cui si trova o si è arrestato il loro avanzare. Da loro non si devono attendere risposte, ma indicazioni lungo la via (Wegmarken) del pensiero che, se non vuole smarrire se stesso, deve ritrovare la dimora da cui è partito. In questa ricerca è il loro inconcluso procedere.

Accompagnarli lungo il sentiero significa ripercorrere la storia del pensiero occidentale, da loro intesa come storia del nichilismo, in cui l’uomo, smarrito il senso dell’essere, si è raccolto tra gli enti per stabilirvi, salda, la propria dimora. L’Occidente è la terra che ha ospitato l’oblio dell’essere, ovvero lo smarrimento del suo senso; il nichilismo ne è quindi la sorte, il tramonto, il suo destino. Prender coscienza dell’oblio dell’essere significa veder crollare quanto è stato costruito nella sua dimenticanza: Dio e mondo. Ciò che si determina è, come dice Heidegger commentando Hölderlin: “il tempo della povertà estrema (dürftige Zeit)” caratterizzato da una duplice mancanza: “che più non son gli dèi fuggiti né ancor sono i venienti”.3 Il richiamo di Hölderlin si fa delirio nella sentenza di Nietzsche:

Dio è morto. Noi l’abbiamo ucciso! Noi siamo i suoi assassini! Ma come potemmo farlo? Come potemmo bere il mare? Chi ci diede la spugna per cancellare l’intero orizzonte? Che facemmo sciogliendo la terra dal suo sole? Dove va essa ora? Dove andiamo noi lontano da ogni sole? Non continuiamo a precipitare e indietro e dai lati e in avanti? C’è ancora un alto e un basso? Non andiamo forse errando in un infinito nulla?4

Dopo i trionfi illuministici della ragione, e più tardi, dopo quelli positivistici della scienza, il senso del nulla era apparso prima nella poetica romantica, e poi nella speculazione di fine secolo.5 Si trattava di un senso vago che andava via via ancorandosi al senso della metafisica occidentale, che, in maniera più o meno evidente, aveva lasciato la propria orma in ogni evento della cultura e della civiltà europea. Nietzsche è il primo a cogliere con decisione l’anima nichilistica della metafisica. Le meditazioni su Nietzsche di Heidegger6 e di Jaspers7 hanno evidenziato col massimo rigore l’essenza metafisica del nichilismo e le sue profonde tracce in tutti gli aspetti dell’anima occidentale.

Metafisica è una parola che ancora conserva il ricordo originario di quella phýsis a cui si rivolsero coloro che cominciarono a filosofare. Perì phýseos si intitolano le opere dei primi filosofi che si volsero a ciò che per sé si manifesta e manifestandosi si impone. L’Occidente tradusse il termine con natura e le affidò il senso che l’impianto logico-metafisico successivo consentiva dopo la separazione operata tra natura e Dio. Heidegger legge la parola phýsis come:

Ciò che sboccia da se stesso (come ad esempio lo sbocciare di una rosa), cioè il dispiegarsi aprendosi e in tale dispiegamento fare apparizione, il tenersi in questa apparizione e dimorarvi; in breve: il dominare che sbocciando perdura.8

Jaspers vede questi caratteri nel periéchon di Anassimandro, che abbracciando circoscrive, comprendendo contiene. Se l’Occidente vuol rendere questo significato nella sua lingua non può ricorrere ad alcuna delle parole classiche ormai compromesse nel loro senso; si richiede una parola nuova come Umgreifende che vuol dire: “Ciò che circoscrivendo (um) comprende (greifend) e comprendendo (perí) contiene (échon)”. Periecontologico sarà il sentiero da seguire per rintracciare le orme perdute dell’essere.9

La dimenticanza dell’essere ha determinato la dominazione dell’ente. L’ente è grazie all’essere, ma, là dove l’essere è obliato, si rende necessaria la ricerca di un Ente supremo (das Seindeste) in grado di garantire la dominazione dell’ente sul nulla. Nasce l’Entissimo (Dio) che fonda la totalità degli enti (mondo). Il dualismo metafisico si ripercuote nel sapere che si fa scientifico e religioso e la filosofia incomincia a smarrire la sua identità in concomitanza allo smarrimento del senso dell’essere.

Scienza e religione trasmettono alla filosofia la loro logica, che è logica della risposta, ottenuta affidandosi alle sequenze causali che conducono dalla premessa alla conclusione. Il principio di causalità diventa il principio esplicativo per eccellenza. Pensare diventa dimostrare, ovvero ottenere conclusioni da premesse ipoteticamente poste o fideisticamente credute.

Queste premesse sono assunte incondizionatamente e non interrogate nella loro assiomaticità. Il timore del processo all’infinito interrompe violentemente il pensiero, che non esita ad assumere per evidente ciò che è solo ovvio o semplicemente richiesto dalla necessità di placare l’inquietudine teoretica connessa al problema. Con la spiegazione causale ci si proietta nel dominio del mondo e si assicura la salvezza dell’anima.

Il sillogismo, nella cura della forma e del procedimento, trascura le esigenze di quel pensiero che custodisce se stesso nella narrazione mitica, nel circolo vizioso, nella coincidenza di quei termini che, per la logica causale, sono contraddittori. La tautologia, che conserva nell’ineffabilità il segreto dell’essere, diventa figura logico-discorsiva da evitare perché non dice niente, nel senso proprio di nulla dell’ente, in cui si è raccolta tutta la tensione conoscitiva dell’uomo.

La risposta ha il sopravvento sulla domanda, anzi la frantuma, sino a diventare risposta di ciò che non è stato domandato. Come prontuario di risposte nascono la metafisica, la fisica, la logica, l’etica e il sistema che ha più cura della sua interna coerenza di quanto non ne abbia per la domanda che l’ha sollecitato. Le domande si raccolgono nella retorica che le custodisce nella loro insignificanza o le perfeziona in funzione del sistema approntato senza di loro. Sorge la filosofia da imparare e la schola che insegna i contenuti, disancorati dal loro fondamento, ma logicamente connessi in armonica coerenza.

Il sopravvento della risposta sulla domanda e il conseguente smarrirsi della filosofia nella scienza e nella religione non è casuale, ma denuncia un carattere di fondo dell’uomo occidentale che, incapace di soggiornare nella sospensione e nell’incertezza che caratterizzano l’attesa, affretta i tempi della sicurezza in cui poter esercitare tranquillamente il proprio dominio. La disponibilità delle cose lo assicura, la loro utilizzabilità lo garantisce. Il senso del tempo moderno è quindi antico. Solo la modalità del dominio è mutata, non la direzione della via che, dall’insicurezza interiore, ha condotto l’uomo al rassicurante dominio sulle cose.

In Occidente il pensiero è stato asservito al bisogno di sicurezza e le vie del pensiero che sono state tentate hanno ubbidito a questa esigenza. Il Dio cristiano che garantisce il soggiorno dell’uomo nel mondo, e la tecnica scientifica che ne programma i tempi e le modalità, disponendo le cose al servizio dell’uomo, rispondono alla stessa esigenza: acquietare. Custode della quiete è l’assenza di pensiero. Il richiamo dell’esistenzialismo all’inquietudine (Unruhe) è dunque richiamo al pensiero. In questo senso l’esistenzialismo è la continuazione di quell’unico antichissimo cammino che si chiama filosofia.

Il compito che Jaspers e Heidegger si propongono è quello di ritrovare il sentiero della filosofia, al di là di quella programmata ed etichettata che vive solo nelle università, vittima anch’essa di quella programmazione moderna che non risparmia neppure la cultura, assegnata ai professionisti del pensiero.

Riscoprire il sentiero significa liberarlo di quanto si è sovrapposto fino a nasconderlo e a farlo smarrire. In questa luce va visto l’impegno polemico di Jaspers e Heidegger nei confronti della metafisica classica e di quanto, a essa connesso, ha contribuito allo smarrimento di quel linguaggio originario che custodiva il senso del domandare umano, troppo presto sopraffatto dalle risposte inadeguate che il tempo, vissuto con apprensione, di volta in volta forniva.

Per questo compito manca il linguaggio. Quello offerto dall’Occidente è inadeguato, perché del linguaggio originario ne è il travisamento o, se si preferisce, il tramonto.10 Il tramonto tuttavia conserva, nel suo attenuarsi, la luce dell’alba. Sarà allora possibile, attraverso la metafisica che tramonta, risalire al domandare che l’ha generata, per ripensarla di nuovo nella sua purezza non ancora contaminata dalle risposte che si sono via via sovrapposte.

La periecontologia di Jaspers e l’ontologia di Heidegger esprimono questo tentativo. La loro incompiutezza ne denuncia la veracità. Non si tratta infatti di affrontare una nuova strada, ma di liberare l’antica, custodendo con la massima cura le orme che ancora vi si trovassero impresse. Filosofare allora non è imparare una dottrina, ma eseguire un compito: il compito del pensiero.

Pensare, per la filosofia, non significa trovare i principi e le cause capaci di assicurare le conseguenze, ma scoprire il senso di ciò che via via si manifesta. Siccome anche l’Occidente si è manifestato nelle forme e nei modi che ci sono familiari, occorrerà reperire una filosofia dell’Occidente da intendersi come comprensione del senso di ciò che è accaduto e del perché è accaduto nelle modalità che ci sono note.

Secondo questa impostazione, la filosofia espressa dall’Occidente non sarà il soggetto da seguire, ma l’oggetto da indagare per scoprire il senso del suo evento, contenuto nei tratti fondamentali della nostra cultura. Questi non saranno interpretati nella loro inseità o nelle loro reciproche connessioni, ma nella loro fondamentale dipendenza dalla filosofia, intesa questa volta come pensiero del tempo.

A questo proposito non è necessario distinguere una filosofia prima che pensa il senso e una filosofia seconda che si limita a esprimere il tempo, perché in ogni tempo il senso è custodito dalla cura o dalla dimenticanza della sua verità. Cura e dimenticanza determinano i “vari” tempi e le modalità culturali che li caratterizzano. Ogni tempo, infatti, è epoca dell’essere come evento della sua manifestazione. Questa è presente sia nel tempo che ne lascia essere la rivelazione, sia nel tempo che la custodisce nella sospensione. Questo tempo traduce la propria epoca in epoché.

L’Occidente è il tempo dell’epoché dell’essere, il tempo in cui l’uomo ha vissuto, s’è costruito e ha costruito nella sospensione (epoché) della rivelazione dell’essere. Dal punto di vista umano questa sospensione si chiama oblio dell’essere. La radicalità di quest’oblio è da rintracciarsi nella stessa instaurazione del punto di vista umano, e quindi di ogni antropologia. L’uomo, infatti, giunge al centro di ogni discorso solo quando dal centro ha spodestato l’essere, per porre se stesso come misura di tutte le cose.

A questo punto l’esistenzialismo di Jaspers e di Heidegger non sono l’ultimo modo, o addirittura l’ultima moda, di fare umanismo, perché ciò equivarrebbe a proseguire la via battuta dall’Occidente, che qui invece si vorrebbe ripercorsa a ritroso, per rintracciare, alla luce dell’essere, la vera misura dell’uomo, che una cultura bimillenaria ha impropriamente ingigantito. La finitezza dell’uomo non è compiacenza pessimistica di gusto decadente, ma spazio per l’essere e per il suo manifestarsi.

Proprio perché accaduta nell’oblio dell’essere, la filosofia che si è sviluppata in Occidente è, nel suo profondo, antropologia, non nel senso che a far filosofia è l’uomo o che la filosofia si occupa soprattutto dell’uomo, ma nel senso che l’uomo, invece di ascoltare l’essere, ha ideato l’essere, ovvero l’ha pensato a sua misura, scambiando l’immagine, così riportata, col volto dell’essere.

Il tramonto dell’Occidente è il tramonto di questa ideazione, in cui l’uomo ha fissato la sua dimora senza trovarvi la felicità. Il fondamento eudemonologico, che sta alla base di ogni vivere umano, non è stato soddisfatto dalla ragione ideatrice. Contro di essa si sono levati marxismo e psicoanalisi, a cui spetta il merito indiscusso di aver individuato l’essenza di questa fondamentale insoddisfazione nello stato di alienazione in cui l’uomo si trova a essere. Per condurre l’uomo a se stesso, essi sostituirono alla ragione ideatrice la fabrilità e l’analisi dell’inconscio. All’homo faber e all’homo nesciens il compito di sanare l’homo sapiens.

I due tentativi, pur contraddicendo quell’ordine sapienzale che aveva presieduto alla costruzione dell’uomo occidentale, dovevano rivelarsi inadeguati, perché appartengono alla stessa logica antropologica che volevano combattere. Se l’uomo è lontano da sé (alienato) perché ha smarrito la sua corretta posizione nei confronti dell’essere, non sarà possibile ricondurre l’uomo a se stesso trascurando questo smarrito rapporto e cercando soluzioni all’interno dell’uomo, nel mutamento dei rapporti sociologici o psicologici. In entrambi i casi, infatti, la rivoluzione che si attua, intra homines o in interiore homine, non fa che confermare la logica antropologica dell’Occidente che, smarrito il senso dell’essere, non è in grado di concepire alienazione più grande di quella che si registra fra gli uomini o nell’uomo.

Se l’essere è la terra che ospita l’uomo, non c’è rivoluzione che, nella dimenticanza dell’essere, possa riconsegnare all’uomo la sua terra. L’esistenzialismo di Jaspers e di Heidegger consiste proprio nella cura della terra, nel suo rinvenimento. Il sentiero aperto muove così dall’essenza dell’alienazione occidentale per scoprire la terra perduta. Nel tragitto l’uomo erra. Dall’errare nasce l’errore, come smarrimento tra i sentieri che “disviano”, che conducono cioè fuori dalla via dove l’errare diventa “ab-errante”.

Tra le vie aberranti del nostro tempo figurano la scienza e la tecnica non per ciò che dicono, ma per il valore che affidano a ciò che dicono e per il modo con cui il loro dire viene accolto e vissuto dall’uomo occidentale.11 Alla scienza e alla tecnica oggi si chiede ciò che un tempo si chiedeva a un dio: la prosperità della terra, la buona salute, la prole, il prolungamento della vita, persino la pace dell’anima, mediante la disponibilità delle cose che acquietano e rasserenano.

L’osservazione non vuole riproporre la preghiera in luogo della ricerca, ma vuole evidenziare la similarità delle due figure che, nella reciproca e talvolta polemica opposizione, dimenticano la sostanziale identità che le accomuna. Preghiera e ricerca si fondono entrambe sulla manipolazione dell’essere, in vista di un rassicurante vantaggio per l’uomo. La preghiera affida l’essere a quella che Platone chiama tecnica divina (theîa téchne), e la ricerca scientifica a quella umana (anthropíne téchne).12 È cambiato il soggetto, ma non l’impiego tecnico dell’essere e la finalità antropologica che l’ha promosso.

In Occidente l’uomo ha curato solo se stesso, e anche il Dio che ha pensato, l’ha pensato al proprio servizio. Se questo è il volto che l’Occidente ha saputo dare a Dio, la morte di Dio proclamata da Nietzsche è la morte di una modalità con cui l’uomo ha pensato l’essere a proprio servizio, modalità oggi sostituita da quella espressa dalla scienza e dalla tecnica inutilmente dimentiche di Dio. Che vale, infatti, dimenticare ciò che non è stato pensato nella sua verità? L’opposizione positivista tra scienza e religione, presente ancora oggi in qualche atteggiamento confuso fra la tracotanza e l’ammonizione, non ha motivo d’essere, perché si fonda sull’incomprensione dell’identità di ciò che solo un radicale fraintendimento fa concepire come diverso.

Alla base di tutte le iniziative dell’uomo occidentale c’è infatti il tentativo palese o nascosto di dominare l’essere, di signoreggiarlo. Il tentativo è sostenuto dalla passione adamitica che spinge l’uomo a essere come Dio:

Allora il serpente disse alla donna: “No, voi non morirete; anzi il Signore sa che qualora mangiaste questo frutto, si aprirebbero gli occhi vostri e diventereste come Dio, acquistando la conoscenza del bene e del male”.13

La storia dell’Occidente è la storia che ospita e testimonia la sequenza ininterrotta di questi tentativi. L’umanità occidentale oggi possiede quelle prerogative che un tempo erano pensate come proprie di Dio. L’apparato tecnico di cui dispone, ci ricorda infatti Jaspers, le consente di determinare la fine del mondo.14 Nell’attesa essa determina il proprio presente e il proprio futuro secondo quelle modalità che le consentono di essere provvidenza a se stessa.

Possedere le prerogative di Dio non è più un tentativo stroncato sul nascere. L’utopia, forse per la prima volta, non è più miraggio. L’uomo dispone di mezzi sempre più adeguati per dominare le forze del mondo e progettare la sua felicità. Ogni insuccesso che si registra in questa direzione non è più pensato come impossibilità metafisica, ma come errore fisico, come qualcosa quindi che si può correggere e ovviare. Quando il cammino della scienza e della tecnica non incontrano più limiti insuperabili, la scienza e la tecnica assumono una tonalità metafisica, il cui carattere assoluto non è dato dall’insieme delle conquiste, ma dalla convinzione che nulla può arrestare la conquista.15

L’onnipotenza che l’uomo aveva attribuito a Dio nei tempi della sua radicale impotenza, oggi la rivendica per sé, decidendo di gestire in proprio il processo creativo che la sua impotenza aveva affidato a Dio. Così comportandosi, l’uomo occidentale si rivela perfettamente coerente con le premesse metafisiche che aveva posto. La scienza non usurpa il luogo della metafisica, è la metafisica che lascia essere se stessa come scienza.

Se il Dio della metafisica è quell’Ente supremo che, disponendo dell’essere come di una sua proprietà, decide di fare essere o non essere tutte le cose, non si capisce come oggi l’uomo occidentale, divenuto il grande demiurgo di questo processo, possa rinunciare a pensarsi come Dio, nella forma tanto semplice della sua dimenticanza.

Stando così le cose, la religione non può pensare di risorgere memorando il Dio della metafisica o richiamando la sua onnipotenza a un uomo, quello occidentale, che la sta programmando. Ritornare sulle orme della metafisica, sulle orme, cioè, di quella concezione che affida a un Ente, per supremo che sia, la produzione dell’essere e del nulla, equivale a proseguire a passi rapidi sulla strada aperta dalla scienza.

La metafisica dell’Ente supremo non è superata, come vorrebbe gran parte del linguaggio tipico dei filosofi della scienza, ma è continuata proprio dalla scienza, che ha fatto dell’uomo l’Ente supremo, onnipotente sulla totalità degli enti. La scienza è quindi la conseguenza diretta della metafisica. Le due figure, lungi dal contrapporsi, si appartengono. Entrambe sono nate sul terreno desolato dell’oblio dell’essere, la cui dimenticanza ha consentito la nascita di quell’Ente supremo capace di far essere o non essere tutte le cose. Il suo nome è tò Agathón (colui che è atto a fare).16 La sua dimora, dice Platone, è al di sopra dell’essere: “Tò Agathón supera l’essere in dignità e potenza”.17 La superiorità di tò Agathón, il suo valore (Bonum) consiste nell’essere causa di tutto ciò che è.

L’introduzione del rapporto causale caratterizza così, fin dalle sue origini, il pensiero occidentale. La metafisica che lo esprime non pensa più l’essere come lo stesso presentarsi degli enti, come il loro accadere e il loro manifestarsi nell’accadimento, ma pensa l’essere come un ente, l’Ente supremo, il cui valore consiste nel causare gli enti, che “sono” finché l’azione causante li mantiene e li conserva.

Il seguito della metafisica non si sottrarrà al giogo dell’ipotesi causale, ma si limiterà a discutere il carattere di necessità (emanazionismo plotinico) o di libertà (creazionismo tomista) atto a regolare l’indiscusso rapporto di causazione degli enti da parte di un Ente supremo. Questa ipotesi causale, nel suo affermarsi, dopo aver ospitato la religione e la sua definizione creazionistica, ospiterà la scienza e il suo programma creativo. L’obiezione volta a mostrare la differenza che intercorre fra creazione divina (ex nihilo) e costruzione umana (ex re) qui non ha rilievo, perché alla base di entrambe c’è l’identica concezione secondo la quale un ente, sia Dio o uomo, può decidere dell’essere e del non-essere di tutti gli enti.

Questa possibilità, pensata indifferentemente dalla religione e dalla scienza, è stata tematizzata dalla metafisica fin dai tempi di Platone.18 Il suo superamento potrà quindi avvenire solo col superamento della metafisica e quindi della civiltà occidentale che essa ha animato. In questo tentativo si trovano impegnate le speculazioni di Jaspers e di Heidegger.

Che cosa ci si deve attendere dal superamento della metafisica? Alla domanda oggi non si può rispondere, così come non poteva rispondere Platone a chi gli avesse chiesto che cosa sarebbe nato dalla sua Politeía. Il nostro tempo, afflitto dalla duplice mancanza: “Che più non son gli dèi fuggiti, né ancor sono i venienti”, è tempo di “povertà estrema (dürftige Zeit)”, ma proprio questa povertà è decisiva per le sorti dell’uomo.

Figlio di povertà (penía) è l’amore (éros) e, come ci ricorda Platone, di povertà si nutre, a differenza della scienza (sophía), la filosofia (philo-sophía).19 Ricondotta alla povertà, sua essenza originaria, la filosofia, naufragando come dottrina, può risorgere come domanda che attende la risposta dall’essere, come una grazia.20

Nella povertà la filosofia si incontra con la fede, non certo con la fede che sa, o che presumendo di sapere diventa istituzione sulla terra, ma con la fede che pensa se stessa come un avere a che fare con chi ha concesso la grazia e che per grazia si può concedere. Lungo il sentiero della povertà, in cui l’essere non è dominato, ma è pensato come gratificante, si incontra la poesia che ne custodisce il linguaggio originario, deformato dalla chiacchiera assordante di chi si trova a comunicare nell’assenza del pensiero.

Custodire il linguaggio non significa allora parlare, come se la parola fosse una proprietà dell’uomo, ma significa ascoltare chi può parlare perché dispone del linguaggio. Ascoltando il linguaggio dell’essere può accadere di udire la voce del sacro, perché, scrive Heidegger:

Il sacro, che solo è lo spazio essenziale della divinità, che sola a sua volta concede la dimensione per gli dèi e per Dio, giunge ad apparire solo se prima, dopo lunga preparazione, l’essere stesso viene a diradarsi ed è esperito nella sua verità.21

È inutile illudersi. Solo mutando il proprio atteggiamento, da dominatore in ascoltatore dell’essere, l’uomo può riscoprire religione e senso. Il sentiero indicato attende viandanti. Ma la luce che il tramonto concede consente ancora di scorgere la via? La domanda si riferisce alla possibilità ermeneutica dell’uomo contemporaneo. Ermeneutica qui non significa metodo interpretativo, ma, come vuole Heidegger, capacità di una lingua di accogliere il senso del linguaggio originario, così come si accoglie un annuncio:

L’espressione “ermeneutico” deriva dal verbo greco hermeneúein. Questo si collega col sostantivo hermeneús, sostantivo che si può connettere col nome del dio Ermês, in un gioco di pensiero che è più vincolante del rigore della scienza. Ermes è il messaggero degli dèi. Egli reca il messaggio del destino: hermeneúein è quell’esporre che reca un annuncio, in quanto in grado di ascoltare un messaggio.22

L’Occidente ha affidato alle proprie lingue i significati espressi dalla propria cultura, animata da quella metafisica che è al tramonto. Ora possiamo noi crepuscolari intendere il linguaggio dei pensatori aurorali? C’è sufficiente luce per scorgere il senso contenuto in quel linguaggio? Oppure dove parlano le lingue dell’Occidente, quel linguaggio tace trattenendosi e custodendosi in sé? Come si può comunicare con gli antichi e più in generale con gli uomini? Tradurre le loro parole non è tra-durle nel significato proprio di ricondurle alle nostre, sì da perderne il senso in esse contenuto? Se il linguaggio è affidato alla violenza, con cui ogni cultura carica di senso le proprie parole, come si può pensare di tradurre secondo verità, creando così la possibilità di una corretta comunicazione che non sia un dialogare tra sordi?

Queste domande possono nascere solo là dove l’essere non è pensato come gratificante, quindi solo nella cultura espressa dalla metafisica dell’Occidente, che, nella sua riduzione dell’essere a mera funzione strumentale, ha inteso anche il linguaggio come semplice strumento fonetico a disposizione dell’uomo, che se ne serve per esprimere le proprie sensazioni, ovvero il proprio modo di sentire il reale.

In questo contesto ogni linguaggio è semplice idía phrónesis, esprime cioè un pensiero privato, chiuso nell’autosufficienza della propria posizione (idiótes), incapace di superare il dualismo tra l’io e il tu e, più originariamente, il dualismo tra il segno, in cui la parola consiste, e la cosa stessa significata. A questo punto lamentare l’incomunicabilità tra gli uomini e cercare rimedi è chiacchiera vana, se si rimane all’interno della cultura occidentale che pensa il linguaggio come proprietà dell’uomo, come strumento a sua disposizione.

Per superare l’incomunicabilità ed evitare che ogni comunicazione assuma il semplice aspetto di trasmissione di pensieri privati è necessario ridurre quella tracotanza (hýbris) che fa dell’uomo, e non dell’essere, il protagonista del linguaggio. La grazia che l’essere concede è quella del suo annuncio (lógos). Infatti, scrive Heidegger:

È segreta gratitudine l’eco della benevolenza dell’essere che è possibile apprezzare nella gratuità con cui l’essere, nel pensiero, si è trasmesso all’uomo, affinché questi, nel riferimento all’essere, assuma la custodia dell’essere.23

Se la grazia che l’essere concede è quella del suo annuncio che trova nel lógos la sua espressione, gli uomini potranno comunicare solo dopo essersi ritrovati in questo annuncio. Solo così potranno “trovarsi d’accordo” e “parlare in modo uguale (homo-logheîn)”. L’homologheîn è il superamento dell’idía phrónesis perché si piega alla misura del lógos, invece di piegare il lógos alla propria privata (idiótes) misura.24

Piegarsi a tale misura è ciò che consente di con-filosofare (synphilosopheîn), non nel senso di “raggiungere un accordo” o peggio, di “trovarsi già d’accordo”, ma nel senso di “trovarsi insieme” (“syn”, “con”, “mit”) ad ascoltare l’essere che ci rende partecipi (mit-teilt) del suo annuncio. Proprio perché si trovano nell’ascolto della stessa parola, gli uomini possono parlare tra loro.

Questa comunicazione (Mitteilung), che Jaspers pone come senso ultimo della sua filosofia, è a un tempo la via che consente a Heidegger di accedere alla filosofia aurorale pur provenendo dal tramonto. Non c’è infatti incomunicabilità per chi pensa il linguaggio come ascolto della voce dell’essere e l’essere come ciò che circoscrive (umgreift) l’uomo. Dal canto suo l’uomo ha la possibilità di parlare in quanto, appartenendo al dire originario dell’essere, è in grado di cor-rispondervi, di ridire la sua parola. E questo perché, scrive ripetutamente Heidegger:

La risposta (Ant-wort) del pensiero è l’origine della parola (Wort) umana, quella parola che, sola, fa sorgere il linguaggio come dizione della parola nei vocaboli.25
La parola (Wort) è risposta (Ant-wort) all’essere. Il linguaggio (Sprache) è un cor-rispondere (Ent-sprechen) all’essere.26

All’interno di questa parola originaria, in cui gli uomini convengono nella forma dell’homologheîn, nasce il dialogheîn, ovvero quella comunicazione dialogica che, sollecitando il “tu”, impedisce alla propria parola di porsi come assoluta. Così chiarita la struttura dialogica del pensiero sarà possibile iniziare il dialogo con la tradizione nella forma espressa dal syn-philosopheîn, dal pensare insieme “lo stesso (das Selbe)” che dà unità e senso alla storia della filosofia.

1 Cfr. Parte III: “Il linguaggio del periodo assiale”.

2 Aristotele, Metafisica, Libro I, § 2, 982 b, 12-21. Recita il testo aristotelico: “Gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia (thaumázein). [...] Ora chi prova un senso di meraviglia, riconosce di non sapere. [...] Ne segue che se gli uomini hanno filosofato per liberarsi dall’ignoranza, è evidente che ricercano il conoscere al fine di sapere e non per conseguire qualche utilità pratica”.

3 M. Heidegger, Erläuterungen zu Hölderlin Dichtung (1944); tr. it. La poesia di Hölderlin, Adelphi, Milano 1988, p. 57. La poesia di F. Hölderlin commentata da Heidegger è Brot und Wein (1801); tr. it. Pane e vino, in Le liriche, Adelphi, Milano 1977, p. 112.

4 F. Nietzsche, Die fröhliche Wissenschaft (1882); tr. it. La gaia scienza, in Opere, Adelphi, Milano 1965, vol. V, 2, § 125, p. 129.

5 Si veda a questo proposito il saggio di F. Volpi, Il nichilismo, Laterza, Bari 1996.

6 M. Heidegger, Nietzsche (1936-1946, 1961); tr. it. Nietzsche, Adelphi, Milano 1994.

7 K. Jaspers, Nietzsche. Einführung in das Verständnis seines Philosophierens (1936); tr. it. Nietzsche. Introduzione alla comprensione del suo filosofare, Mursia, Milano 1996.

8 M. Heidegger, Einführung in die Metaphysik (1935-1953); tr. it. Introduzione alla metafisica, Mursia, Milano 1968, p. 25. Recita il testo tedesco: “Was sagt nun das Wort physis? Es sagt das von sich aus Aufgehende (z.B. das Aufgehen einer Rose), das sich eröffnende Entfalten, das in solcher Entfaltung in die Erscheinung-Treten und in ihr sich Halten und Verbleiben, kurz, das aufgehend-verweilende Walten”. Per un commento a questa lettura di Heidegger si veda il capitolo 10: “L’essere come phýsis”.

9 K. Jaspers, Von der Wahrheit, Piper, München 1947, pp. 159-160. Si veda a questo proposito il capitolo 34: “Necessità del naufragio di ogni ontologia. Ontologia e periecontologia”.

10 Questo tema è sviluppato nel Libro III: “Oltre l’Occidente”.

11 Si veda in proposito U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica (1999), Feltrinelli, Milano 2002.

12 Platone, Sofista, 205 e. Recita il testo platonico: “Quelle cose che si dicono essere per natura sono prodotte dalla tecnica divina, mentre quelle che sono costituite ad opera degli uomini sono prodotte dalla tecnica umana. Pertanto, secondo questo ragionamento ci sono due generi di tecnica produttiva (poietikè téchne): quella umana e quella divina”.

13 Genesi, 3, 4.

14 K. Jaspers, Die Atombombe und die Zukunft des Menschen (1958); tr. it. La bomba atomica e il destino dell’uomo, il Saggiatore, Milano 1960.

15 Si veda in proposito U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, cit., capitolo 54: “Il totalitarismo della tecnica e l’implosione del senso”.

16 M. Heidegger, Platons Lehre von der Wahrheit (1931-1932, 1942); tr. it. La dottrina platonica della verità, in Segnavia, Adelphi, Milano 1987, p. 182. Recita il teso heideggeriano: “Tò Agathón significa in greco ciò che è atto (taugt) a qualcosa e che rende atto (tauglich) a qualcosa”.

17 Platone, Repubblica, Libro VI, 509 b. Recita il testo greco: “Ouk ousías óntos toû agathoû, all’éti epékeina tês ousías presbeíai kaì dynámei hyperéchontos”.

18 Si veda a questo proposito il saggio fondamentale di E. Severino, La terra e l’essenza dell’uomo (1967), in Essenza del nichilismo (1972), Adelphi, Milano 1982.

19 Platone, Simposio, 204 b: “Perciò è necessario che Eros sia filo-sofo, e in quanto filosofo, che sia intermedio tra la sapienza e l’ignoranza. E causa di questo è la sua nascita; infatti ha il padre sapiente, pieno di risorse (Póros) e la madre non sapiente e priva di risorse (Penía)”.

20 M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, cit., p. 210. Qui Heidegger, dopo aver distinto il pensiero come calcolo (Denken als Rechnen) che ha caratterizzato la storia del pensiero occidentale, dal pensiero come ringraziamento (Denken als Danken), conclude dicendo: “Saper domandare significa attendere, anche tutta una vita”.

21 Id., Brief über den “Humanismus” (1946); tr. it. Lettera sull’“umanismo”, in Segnavia, cit., p. 291.

22 Id., Aus einem Gespräch von der Sprache zwischen einem Japaner und einem Fragenden (1953-1954); tr. it. Da un colloquio nell’ascolto del linguaggio, in In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano 1973, pp. 104-105.

23 Id., Nachwort zuWas ist Metaphysik?” (1943); tr. it. Poscritto a “Che cos’è metafisica?”, in Segnavia, cit., p. 264.

24 Sulla figura dell’homologheîn si veda il capitolo 11: “Il pensiero come lógos”.

25 M. Heidegger, Poscritto a “Che cos’è metafisica?”, cit., p. 264.

26 Id., Was ist dasdie Philosophie?, Günter Neske, Pfullingen 1956, p. 30.

Il tramonto dell'Occidente. Nella lettura di Heidegger e Jaspers
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