33.

La sublimazione di intelletto e volontà nella determinazione teologica dell’essere

Con il cristianesimo, la domanda che chiede che cosa sia l’ente sembra nel frattempo aver trovato una risposta definitiva ed essere stata accantonata in quanto domanda. [...] La rivelazione biblica, che secondo la sua stessa indicazione poggia su una ispirazione divina, insegna che l’ente è stato creato da un Dio creatore personale e da lui viene retto e governato. Con la verità rivelata, proclamata dalla dottrina della Chiesa come assolutamente vincolante, la domanda che chiede che cosa sia l’ente è diventata superflua. L’essere dell’ente consiste nel suo essere creato da Dio (omne ens est ens creatum). [...] Coloro che trattano in questo modo di ciò che l’ente nel suo insieme è sono “teologi”. La loro “filosofia” è tale solo di nome, perché una “filosofia cristiana” è ancora più assurda di un cerchio quadrato. [...] A ben guardare, però, la doctrina christiana non vuole trasmettere un sapere sull’ente, su ciò che esso è, ma la sua verità è senz’altro verità di salvezza. Si tratta di assicurare la salvezza dell’anima individuale immortale. Tutte le conoscenze sono riferite all’ordine della salvezza e stanno al servizio dell’assicurazione e della promozione della salvezza.

M. HEIDEGGER, Nietzsche (1961), pp. 643-644.

La volontà vuole l’esistenza di Dio, l’intelletto la promuove con l’impiego del proprio ordine categoriale. Ciò che si ottiene è un Dio condizionato dall’incondizionatezza del volere, e perciò scrive Heidegger:

Di fronte a questo Dio l’uomo non può pregare né offrire sacrifici. Di fronte al Dio come Causa sui, come nella filosofia suona il nome di Dio, l’uomo non può cadere in ginocchio riverente e nemmeno può cantare e danzare. Il pensiero senza Dio, che sacrifica il Dio della filosofia, cioè il Dio come Causa sui (Gott als Causa sui), è forse più vicino al Dio divino (göttlichen Gott).1

La destituzione del Dio dei filosofi sottintende la dedestituzione dell’intellettualità che l’ha promosso in sostituzione dell’essere caduto in oblio. Si tratta del Dio che l’intelletto pone come termine a cui ancorarsi, e che la ricerca concepisce come suo concetto e pone come garanzia di quell’impianto logico-ontologico costruito per ordinare il mondo e ivi assicurarsi. Tale è il noéseos nóesis di Aristotele, l’Ipsum esse di Tommaso, il Dio garante di ogni verità di Cartesio, il Causa sui di Spinoza, l’Ideale della ragion pura di Kant. La storia di questo Dio segue la vicenda dell’imporsi della ragione e della volontà che la promuove, nel tentativo di assicurare l’ente e di sottrarlo all’incertezza in cui la contingenza e la precarietà sua propria lo mantengono.

Nella dimostrazione dell’esistenza di Dio troviamo impiegati dalla metafisica occidentale i due principi fondamentali che regolano l’ente e il pensiero che lo riguarda. Si tratta del principio di non contraddizione e del principio di causalità. Il mondo, dice la prova, offre lo spettacolo della coesistenza del positivo e del negativo. Infatti, il divenire, il trapassare dall’essere al non-essere (ex motus), l’imperfezione, la mancanza di ciò che per essenza dovrebbe competere (ex possibili), l’incompiutezza del rimando causale (ex causa efficiente), il differente graduarsi dell’identico nell’ordine del più e del meno (ex gradibus), il conseguimento e l’accadimento di finalità non progettate (ex gubernatione rerum) sono altrettanti esempi della suddetta coesistenza, per cui assolutizzare il mondo significherebbe affermare l’esistenza del contraddittorio, l’assoluta equipollenza di positivo e negativo.

Dalla contraddizione si esce col rimando causale che, depotenziando il mondo del suo carattere assoluto, lo riconduce a un Ente che, escludendo da sé il negativo, assesta l’assoluto in termini incontraddittori. In questo quadro la precarietà del mondo, la sua contingenza è spiegata dal fatto che all’ente mondano l’essere non compete per sé, ma per altro, e precisamente per dono dell’Ente supremo che lo possiede a titolo proprio e che per questo è Causa sui.

La prova dell’esistenza di Dio, in cui si raccoglie il senso di tutta la speculazione medioevale e metafisica in genere, è senz’altro l’esempio più interessante che meglio di ogni altro mostra il grado d’oblio in cui è caduto l’essere in occasione dell’imporsi della ragione e della volontà. Il principio di non contraddizione, che sta alla base della dimostrazione, è un principio di natura esclusivamente ontica, perché afferma l’identità di un ente con se stesso e la sua differenza dalla totalità dell’altro (A è A e non è non A). Detto principio si prende così poca cura dell’essere da tollerare tranquillamente la possibilità della sua nullificazione.

La formulazione aristotelica e poi tomista del principio dice infatti che “È impossibile che la stessa cosa sia e a un tempo non sia (“tautò eînai kaì mè eînai”, che Tommaso d’Aquino traduce con “idem simul esse et non esse”),2 dove ciò che si esclude è la contemporanea (simul, tautò) predicazione di essere e non-essere, mentre si accetta tranquillamente che l’essere non sia o che il non-essere sia. Si esclude cioè che questa esistenza sia a un tempo (simul, tautò) affermata e negata, ma non si ha nulla da eccepire se viene soltanto negata.3

Stante la sua portata ontica e il suo impiego per erigere una struttura incondizionata di affermazioni sicure, il principio di non contraddizione appare a Heidegger come la molla che muove non tanto la filosofia, quanto la scienza nella sua sete di dominio incondizionato delle cose:

Il principio di non contraddizione, con la sua pretesa a una validità incondizionata è la passione della scienza moderna, il pungolo segreto che la fa avanzare.4

Ancora più puntuale è in proposito la riflessione di Jaspers che, nel sottolineare la natura ontica del principio, osserva che:

Il principio di non contraddizione, per il fatto di presiedere l’alternativa è o non è, si applica alle realtà finite, ma non all’essere che non si lascia porre in una simile alternativa [...]. Per questo Cusano si servì della contraddizione in modo inverso, per raggiungere direttamente nel suo pensare trascendentivo la divinità come coincidenza degli opposti: Dio è e non è.5

Al principio di non contraddizione si collega, nella prova della dimostrazione dell’esistenza di Dio, il principio di causalità che, in ossequio alla normatività del principio che comanda di evitare le contraddizioni, ipotizza una causa (Dio) senza la quale il mondo cadrebbe in contraddizione. Dio, quindi, è evocato per dare coerenza all’assetto logico con cui l’uomo ha organizzato l’ambito finito degli enti, è evocato in ossequio a questo assetto, che prevede nella causa la ragion d’essere di un ente.

Se non che la causalità non è il modo in cui l’essere si rivela, ma, come s’è visto a più riprese, è un’ipotesi matematica, un’anticipazione mentale, una categoria dell’intelletto che vale nell’ambito del finito, ossia in quell’orizzonte di enti che l’intelletto umano, nel tentativo di assicurarsene il possesso, ordina in schemi consequenziali e logici. Non è quindi Dio a garantire il mondo, ma l’intelletto umano che, applicando a Dio la categoria causale da lui stesso escogitata, garantisce a se stesso la terra in cui dimora.

Stabilito a livello assiomatico che un ente è, solo se è individuabile la causa che lo fa essere, la logica dell’intelletto non va alla ricerca del perché e del come, in presenza della causa, l’ente è, ma si limita a pretendere che l’ente, per essere, abbia una causa. Quando questa è individuata, l’ente è sottratto alla precarietà che lo caratterizza in quanto libero evento dell’essere, ed è garantito, quanto al suo essere, dalla logica dell’intelletto e dalla volontà che questa logica ha voluto.

A questo punto Dio non è il principio esplicativo del mondo, ma ciò che il principio di causalità postula per soddisfare la propria struttura consequenziale. Dio, cioè, non fonda il principio di causalità, ma ne è piuttosto una conseguenza, essendo il principio di causalità guidato dalla logica dell’intelletto che la volontà mette in atto per garantirsi il mondo. Da questo punto di vista, le polemiche medioevali sul primato dell’intelletto o della volontà perdono di significato. L’uno e l’altra infatti sono al servizio dell’uomo che, partendo dall’incondizionatezza del proprio volere, assolutizza il proprio pensare e considera struttura dell’essere ciò che è semplicemente struttura del proprio modo epocale di considerare l’essere.

La tracotanza dell’uomo, già significata dall’hýbris di Anassimandro, raggiunge una delle sue espressioni più alte proprio nell’epoca medioevale, che, con Tommaso d’Aquino, riconosce la subordinazione dell’intelletto umano (mensuratus, nonmensurans),6a quello divino (mensurans, non mensuratus), solo dopo aver determinato quest’ultimo con le categorie del proprio intelletto finito. Consapevole di questa situazione Jaspers afferma che:

Se Dio è ragione, Dio è la mia ragione: la ragione umana promossa dall’umano desiderare che ha bisogno dell’Ente supremo, ottimo, purissimo.7

E questo perché, osserva altrove Jaspers:

Se Dio è incondizionato, non lo si può dimostrare, perché dimostrare l’incondizionato è condizionarlo alle strutture della conoscenza umana, è subordinarlo a quest’ultima. Un’incondizionatezza determinabile è, come tale, solo espressione di predominio, fanatismo, ferocia, follia.8

Questa serie di affermazioni si spiegano non appena si considera che la causalità è una categoria di quella che Jaspers chiama “coscienza in generale (Bewusstsein überhaupt)”, ovvero quell’intellettualità intersoggettiva che si arresta a ciò che è valido per ogni intelletto (das Gleiche für jeden Verstand), il quale si attiene a quell’assetto logico-formale ipotizzato in vista di un’interpretazione univoca del mondo.9 Il suo impiego s’è rivelato massimamente utile in quell’ambito che la scienza, fin dal suo nascere, ha fatto proprio, ordinandolo con le metodologie ritenute idonee per una rigorosa interpretazione del mondo.

Estendere l’impiego del principio di causalità oltre il mondo significa da un lato ridurre la totalità a onticità, perché solo tra gli enti opera il principio in questione; dall’altro pretendere l’universale validità delle conclusioni raggiunte nei termini in cui sono state raggiunte, come appunto prevede la scienza in quel suo procedere metodico e consequenziale che solo il rigore del principio di causalità è in grado di garantire.

Totalità ontica e universale validità sono appunto le forme in cui la teologia medioevale si presenta quando deduce il mondo da Dio con un procedimento in nulla dissimile da quello matematico, e quando presenta le sue conclusioni nella forma tipicamente scientifica dell’universale validità, a cui il concetto di “cattolicità (Katholizität)” in ultima analisi si riconduce. Scrive a questo proposito Jaspers:

Le prove di Dio non esigono in Tommaso altro pensiero che quello compiuto dall’intelletto in generale. In questo modo egli non perviene alla trascendenza, ma solo a un ente oggettivo [...] mentre della trascendenza non posso avere una scienza pari a quella delle cose del mondo, non posso ridurla a un mio possesso conoscitivo come accade per qualsiasi altra cosa. È un errore cogliere Dio oggettivandolo, allo stesso modo in cui si coglie la realtà sensibile, così come è erroneo dimostrarlo nella forma di un pensiero matematicamente e logicamente necessitante.10

Ma che cosa nasconde questa logica necessitante e la validità universale a cui pretende? Perché sotto la fede tanto conclamata si cela, mascherato da questa, il rigore dell’intelletto, che, dice Jaspers: “con le sue categorie occulta la trascendenza entro la speculazione matematica”?11 Perché quell’ancorarsi all’oggettività dell’ente e alla rappresentazione categoriale che la produce? Da che cosa ci si vuol difendere con la rigorosità del sistema e con la richiesta incessante del fondamento? Che cosa si vuol tutelare col rigore del discorso incontraddittorio?

A queste domande non c’è che una risposta: si vuole la sussistenza dell’ente e la sua disponibilità. Ciò è possibile solo se l’ente viene sottratto alla precarietà in cui l’essere lo mantiene, e viene affidato all’uomo che ne dispone secondo ragione. Nella lontananza dall’essere, la ragione umana tutela l’ente con la logica, in grado di conferire alla totalità un’armonia, che non è più l’armonia nascosta del lógos di cui parlava Eraclito, ma l’armonia manifesta alla soggettività che con la sua logica l’ha costruita, per sfuggire l’incertezza tragica propria di chi non destina, ma è destinato da ciò che, pur annunciandosi, nella sua totalità non si rivela.

Non a caso, osserva Jaspers, con la logica aristotelica, che compone il cosmo secondo ragione, si conclude la tragedia greca, e con l’intellettualismo teologico, che dimostra l’esistenza di Dio e indica la via della salvezza, si pacifica la coscienza tragica significata dal peccato originale che precede ogni colpa individuale e volontaria. Infatti, scrive Jaspers:

La redenzione cristiana si oppone alla coscienza tragica. La possibilità che ha il singolo di salvarsi distrugge il senso tragico di una rovina senza scampo. Ecco perché non esiste una vera e propria tragedia cristiana, dato che nel dramma cristiano il mistero della redenzione costituisce la base e l’atmosfera dell’azione e la coscienza tragica è risolta a priori dalla certezza di venir perfezionati e salvati dalla grazia. [...] Tutte le esperienze fondamentali dell’uomo, una volta cristiane, non sono più tragiche. Il peccato si trasforma in felix culpa, che ha reso possibile la redenzione. Il tradimento di Giuda favorisce la morte salvifica di Cristo, questa causa di eterna felicità per tutti i credenti. Se Cristo è il più profondo simbolo del fallimento nel mondo, lo è in senso tutt’altro che tragico, poiché il suo fallimento è una luce, una vittoria, un’attuazione.12

A questo punto la determinazione teologica dell’essere, operata dalla metafisica medioevale, appare in tutto il suo significato mondano. Il metafisico medioevale va alla ricerca di Dio per trovare la ragione capace di garantire il mondo, suo soggiorno, dalla possibilità di non-essere. Il Dio che trova è ovviamente il dio della terra che, come recita il Vangelo di Luca: “Tutti questi regni ti darà, se inginocchiato tu lo adorerai”.13 Inginocchiandosi, l’uomo assicura la propria potenza e così, scrive Heidegger:

Anche da questo punto di vista, come da diversi altri, ma ogni volta deliberatamente, l’uomo prende posto nel bel mezzo dell’ente, senza per questo essere l’ente più elevato.14

1 M. Heidegger, Identität und Differenz (1957); tr. it. Identità e differenza, Parte II: “La concezione onto-teo-logica della metafisica”, in “Teoresi”, 1967, p. 234.

2 Aristotele, Dell’espressione, 19 a, 23-27.

3 Su questa contraddizione ha particolarmente insistito E. Severino, Ritornare a Parmenide (1964), in Essenza del nichilismo (1972), Adelphi, Milano 1982, p. 38.

4 M. Heidegger, Der Satz vom Grund (1957); tr. it. Il principio di ragione, Adelphi, Milano 1991, Lezione III, p. 40.

5 K. Jaspers, Die grossen Philosophen (1957); tr. it. I grandi filosofi, Longanesi, Milano 1973, p. 823.

6 Tommaso d’Aquino, Quæstiones disputatæ. Quæstio I: De veritate (1256-1259), Marietti, Torino 1959, questione I, articolo 2. Recita il testo tomista: “Sic ergo intellectus divinus est mensurans non mensuratus; res autem naturalis, mensurans et mensurata; sed intellectus noster est mensuratus, non mensurans quidem res naturales, sed artificiales tantum”.

7 K. Jaspers, Der philosophische Glaube angesichts der Offenbarung (1962); tr. it. La fede filosofica di fronte alla rivelazione, Longanesi, Milano 1970, p. 581.

8 Id., Einführung in die Philosophie (1953); tr. it. Introduzione alla filosofia, Longanesi, Milano 1959, p. 94.

9 Id., Von der Wahrheit, Piper, München 1947, pp. 64-70.

10 Id., I grandi filosofi, cit., pp. 830, 835.

11 Id., La fede filosofica di fronte alla rivelazione, cit., p. 524.

12 Si veda a questo proposito la sezione: “Das tragische Wissen” in K. Jaspers, Von der Wahrheit, cit., pp. 915-959; tr. it. Del tragico, il Saggiatore, Milano 1959, pp. 18-19, e anche Il linguaggio. Sul tragico, Guida, Napoli 1993, pp. 184-185.

13 Luca, Vangelo, 4, 5-7. Recita il testo evangelico: “Dopo averlo sollevato su un monte altissimo, il diavolo gli mostrò in un attimo tutti i regni della terra e gli disse: ‘Io ti darò tutta questa potenza e la loro gloria, perché è stata data a me e io la do a chi voglio. Se dunque tu ti prostrerai davanti a me, tutto sarà tuo’”.

14 M. Heidegger, Platons Lehre von der Wahrheit (1931-1932, 1942); tr. it. La dottrina platonica della verità, in Segnavia, Adelphi, Milano 1987, p. 190.

Il tramonto dell'Occidente. Nella lettura di Heidegger e Jaspers
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