32.

Agostino di Tagaste e la determinazione volontaristica dell’essere

Se la metafisica è la verità sull’ente nel suo insieme e parla perciò dell’essere dell’ente – da quale interpretazione dell’ente nel suo insieme ha origine il pensare per valori? Rispondiamo: dalla determinazione dell’ente nel suo insieme mediante il carattere fondamentale della volontà.

M. HEIDEGGER, Nietzsche (1936-1946, 1961), p. 616.

La dissoluzione dell’essere nell’intellettualità del pensiero ha risolto l’essere nella presenza oggettiva, ossia nella semplice presenza a un soggetto conoscente, nella forma oggettiva di un intelletto. Ma l’oggetto è anche proiezione, nel senso del proiettarsi o progettarsi di un soggetto, per cui l’essere viene sì risolto nelle forme dell’intellettualità, ma questa non può fare a meno di rinviare alla soggettività che l’ha generata, e che ora, per quanto mascherata, non può non scoprirsi in quel fattore tensionale che sta alla base di ogni proiezione. La stessa intenzionalità gnoseologica, che regola la teoria tomista della conoscenza, è carica di quel “tendere in” che ha nella dimensione volontaristica il suo fondamento originario.

Il distinguersi e il precisarsi della volontà nel pensiero occidentale prende avvio dalla riflessione greca sul Bene (tò Agathón), sia pure in quei termini di incertezza e ambiguità precedentemente sottolineati,1 e dalla mediazione cristiana che, diffondendo nel mondo antico i concetti di creazione, grazia e carità, offre un vasto campo d’esperienza in cui la volontà emerge all’inizio (creazione) e al termine (salvezza) di tutta la vicenda ontologica.

La sintesi delle due fonti è realizzata dalla filosofia di Agostino di Tagaste, che offre una vasta fenomenologia della volontà come rapporto alla noesi e come rapporto di volontà e noesi all’essere. Essere, noesi e volontà esprimono infatti per Agostino il mistero trinitario, quindi il vertice ontologico e, in corrispondenza, l’anima a esso protesa. Scrive in proposito Agostino:

Immagine della Trinità sono queste tre cose: essere, sapere, volere. Io infatti sono, so e voglio: sono sciente e volente, so di essere e volere, voglio essere e sapere. Come in queste tre cose la vita sia inscindibile, e sia unica la vita, unica la mente, unica l’essenza, e quanto inscindibile sia la distinzione che pure esiste, veda chi può.2

Sulla scorta della rivelazione, la speculazione di Agostino si volge al Padre come principio dell’essere e quindi come essere principale. Dal Padre è noeticamente principiato il Figlio o Lógos, da cui procede in una comunione amorosa lo Spirito o divino amore. Dal De Trinitate3 di Agostino prenderà le mosse tutta quella tradizione speculativa che approfondirà il senso dell’essere nella direzione dell’amore e della volontà. Ulteriori conferme di questa direzione si hanno nella definizione agostiniana della beatitudine come amore fruitivo e nella concezione del filosofare come possesso amoroso:

Tutti si arrendono dinanzi a quei filosofi che non considerano felice l’uomo che ripone la sua gioia nel corpo o nell’anima, ma in Dio, e non al modo in cui l’anima gode del corpo o di se stessa, o come l’amico gode dell’amico, ma come l’occhio gode della luce (frui Deo sicut luce oculos). [...] Ora basti ricordare che secondo Platone filosofare è amare Dio la cui natura è incorporea. Di conseguenza colui che cerca la sapienza, cioè il filosofo, sarà beato solo quando comincerà a godere di Dio (unde vult philosophum amatorem Dei, ut, quoniam philosophia ad beatum vitam tendit, fruens Deo sit beatus qui Deum amaverit).4

Noesi e volontà sono dunque in Agostino in un mutuo relazionarsi e condizionarsi; ma la modalità del loro condizionarsi rivela che la noesi attua un possesso conoscitivo ordinato a compiersi in un possesso (fruitio) dell’ente, senza il quale l’intero processo noetico perde rilevanza. La volontà sollecita la noesi e la suppone, intenzionandola in ogni sua direzione. L’essere si profila così come volontà d’essere, e in questa accezione giungerà, al termine dell’epoca medioevale, a determinare il senso del veritativo.

È questo il momento in cui la volontà esce dall’ombra che su di essa proiettava l’intellettualismo tomista, per radicalizzarsi rispetto alla noesi, per ridurre quest’ultima a suo momento strumentale, e porre se stessa come principio unico ed esclusivo. Si dissolve e si perde l’armonico articolarsi in cui Agostino aveva saputo mantenere noesi e volontà, e, dalla rottura dell’equilibrio, il pensiero intellettuale appare finalmente nella vera motivazione che l’aveva promosso: il bisogno di ordinare il mondo per dominarlo.

La distinzione, così ricorrente nei trattati medioevali di logica, tra la semplice apprensione (simplex apprehensio) e il giudizio, che implica l’assenso della persona, è la via lungo la quale la volontà non riesce più a mascherare la propria invasione nel cuore stesso della noesi, ossia nel giudizio dove si decide della verità. L’assenso, che domina il processo noetico e ne decide l’esito, dipende infatti dalla volontà che, installandosi al centro della noesi, traduce il momento veritativo: da manifestazione dell’essere a processo operativo della persona o, come in seguito si dirà, del soggetto. A questo proposito Duns Scoto è chiarissimo:

Nell’atto volontario, l’intelletto dipende dalla volontà, giacché la volontà se ne serve come strumento e lo asserve alle esigenze dell’azione. Non la bontà dell’oggetto causa necessariamente l’assenso della volontà, ma la volontà sceglie liberamente il bene, e liberamente opta per il bene maggiore.5

In questo modo, come il processo razionale con la sua elaborazione formale aveva assorbito l’essere, così la volontà, nell’indipendenza assoluta del suo volere, assorbe il processo razionale e lo riduce a suo strumento. Ciò è particolarmente evidente in Ockham, per il quale esiste un’identità assoluta tra intelletto e volontà, per cui verità e decisione volitiva vengono a compenetrarsi, al punto che nessuna distinzione è ormai possibile neppure in Dio. Scrive in proposito Ockham:

Dico che intendendo per volontà ciò che è denominato da questo nome o concetto, ossia il principio produttivo dell’atto della volizione e dell’intellezione, la volontà non è più nobile dell’intelletto, come l’intelletto non è più nobile della volontà, perché sono completamente la stessa cosa. Ma intendendo l’uno o l’altra per ciò che è denotato dalla loro definizione nominale, così si può concedere che la volontà è più nobile dell’intelletto, perché l’atto di amare, che è significato dalla volontà, è più nobile dell’atto del conoscere che è significato dall’intelletto.6

Il primato della volontà viene ribadito anche da Cartesio, per il quale l’ambito della verità è determinato dall’arbitrio divino, per cui tutta la verità resta decisa dalla volontà che, a questo punto, assurge a principio assoluto della noesi, in cui la precedente speculazione medioevale già aveva raccolto il senso dell’essere. Scrive infatti Cartesio:

Mi sembra poi che non vi sia cosa che debba dirsi impossibile per Dio. Infatti, tutto quello che è vero e buono dipende dalla sua onnipotenza (cum enim omnis ratio veri et boni ad eius onnipotentia dependeat).7

La volontà viene così introdotta nella metafisica medioevale perché, nella dimenticanza dell’essere, si sente l’intrinseca precarietà dell’ente e la si vuole superare. Il primo tentativo avviene nella direzione intellettualistica. Si riconduce l’ente alla ratio entis e quindi lo si ordina nel sistema, onde dominarlo con i principi del sistema stesso, quali il principio di non contraddizione che garantisce l’entità dell’ente, e il principio di causalità che garantisce le condizioni prime e seconde della sua esistenza.

Ma l’ordine intellettuale assicura solo un possesso conoscitivo, non un possesso reale. La contemplatio non è ancora fruitio boni. Il desiderio di pervenirvi non trova altra via che quella dell’impiego della volontà. Questa non rifiuta lo schema intellettuale, al contrario lo mantiene, ma nella forma strumentale del mezzo utile a orientarsi nella comprensione dell’ente in vista del suo raggiungimento. Il “comprendere” è in funzione del “prendere”, il concipere del capere. In una parola, ciò a cui si mira è il possesso dell’ente garantito quanto al suo essere. Nella determinazione intellettualistica e volontaristica dell’essere, in cui si è espressa la metafisica medioevale, è già in vista il concludersi della metafisica stessa nella posizione nietzscheana della volontà di potenza.

La precarietà del mondo, la sua contingenza, prima ancora di significare il punto di partenza per la dimostrazione cosmologica dell’esistenza di Dio, esprimono l’angoscia dell’uomo medioevale di fronte alla possibilità della totale nullificazione. L’insistervi è un denunciare l’angoscia; la direzione “teologica” dell’insistenza è l’indicazione del supremo tentativo ideato per superarla. La volontà, come volontà di superare radicalmente ogni problematicità circa l’essere dell’ente, non lascia nulla fuori dal suo raggio d’azione, neppure Dio.

Di fronte al pericolo estremo rappresentato dal nulla si evoca l’Ente supremo a tutela dell’essere. La volontà che vuole Dio, vuole che Dio trattenga l’ente dal niente, così come dal niente l’ha tratto per concederlo come soggiorno all’uomo. Solo chi ha creato dal nulla può trattenere dal nulla. Per questo nel Medioevo teologia e filosofia camminano appaiate, anche il loro accordo è voluto come ulteriore elemento di sicurezza. E questo perché, scrive Heidegger:

Se l’essere dell’ente consiste nel suo essere creato da Dio (omne ens est ens creatum), e se la conoscenza umana vuole esperire la verità sull’ente, l’unica via affidabile che le rimane è quella di raccogliere e salvaguardare zelantemente la dottrina della rivelazione e la sua tradizione a opera dei dottori della Chiesa. La verità autentica viene trasmessa solo per mezzo della doctrina e dei doctores. La verità ha il carattere essenziale della “dottrina”. Il mondo medioevale e la sua storia si basano su questa doctrina. La sola forma adeguata nella quale la conoscenza come doctrina può essere enunciata in modo completo è la summa, la raccolta di scritti dottrinali in cui viene ordinato l’insieme del contenuto dottrinale tramandato e le diverse opinioni dottrinali vengono esaminate, impiegate o respinte in relazione alla loro concordanza con la dottrina ecclesiastica.8

Quando con l’età moderna lo sviluppo della scienza e della tecnica consegnerà all’uomo gli strumenti che in apparenza renderanno meno precaria la disponibilità dell’ente, si assisterà a una progressiva separazione della teologia dalla filosofia e a un progressivo assentarsi in quest’ultima della presenza di Dio, finché con Nietzsche se ne proclamerà la morte.9 Ciò sarà possibile perché finalmente si sarà individuato, nella volontà che vuole, la vera matrice che, a garanzia del mondo, ha voluto anche Dio.

1 Cfr. il capitolo 29: “Il noeticismo greco e l’individuarsi della volontà nello spazio cristiano”.

2 Agostino di Tagaste, Confessiones (401); tr. it. Confessioni, Fondazione Lorenzo Valla, Mondadori, Milano 1992-1997, Libro XIII, capitolo XI, § 12. Recita il testo latino: “Dico autem hæc tria: esse, nosse, velle. Sum enim et scio et volo: sum sciens et volens, et scio esse me et velle, et volo esse et scire. In his igitur tribus quam sit inseparabilis vita et una vita et una mens et una essentia, quam denique inseparabilis distinctio et tamen distinctio, videat qui potest”.

3 Id., De Trinitate (410); tr. it. La trinità, Biblioteca Agostiniana, Firenze 1981.

4 Id., De civitate Dei (413-426); tr. it. La città di Dio, Rusconi, Milano 1984, Libro VIII, § 9, p. 394.

5 G. Duns Scoto, Opus Oxoniense (1297-1300), a cura della Commissione Scolastica, Città del Vaticano 1950, vol. I, d. 1, q. 4, n. 16.

6 G. Ockham, Quæstiones in secundum, tertium et quartum librum Sententiarum (1318), in Opera philosophica, St. Bonaventure, New York 1974-1978, Libro II, questione 24 P; tr. it. antologica in A. Coccia (a cura di), Ockham. Filosofia, teologia, politica, Andò Editori, Palermo 1966, p. 139.

7 R. Descartes, Lettera ad Antoine Arnaud del 29 luglio 1648, in Opere filosofiche, Utet, Torino 1994, vol. II, p. 709.

8 M. Heidegger, Nietzsche (1936-1946, 1961); tr. it. Nietzsche, Adelphi, Milano 1994,

p. 644.

9 F. Nietzsche, Die fröhliche Wissenschaft (1882); tr. it. La gaia scienza, in Opere, Adelphi, Milano 1965, vol. V, 2, § 125, pp. 129-130.

Il tramonto dell'Occidente. Nella lettura di Heidegger e Jaspers
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