21.
Il Brahman-Nirvana di Buddha
Tutto l’universo era un tempo indifferenziato. Fu poi distinto secondo il nome e la forma con le parole. Soltanto parziale è la sua apparizione: quando respira si chiama respiro, quando parla: voce, quando vede: occhio, quando ode: orecchio, quando pensa: mente. Ma queste sono soltanto determinazioni. Colui che lo venera in una singola apparizione non lo conosce veramente. Soltanto parzialmente infatti egli compare nelle sue singole manifestazioni. Bisogna venerarlo sotto forma di Atman: e allora tutte le varie manifestazioni si unificano.
Upanisad, Quarto Brahmana.
Il conoscitore dell’Atman conosce la sede suprema del Brahman. Fondato su di esso, l’intero universo rifulge, puro.
Upanisad, Secondo Khanda.
Non esiste alcun testo che riproduca con certezza le parole di Buddha, vissuto tra il 560 e il 480 a.C., quindi in pieno periodo assiale. Il documento in cui si possono ritrovare le più antiche tradizioni è il vasto e complesso canone Pali e specialmente il Dighanikaya in esso inserito. Sul pensiero di Buddha ci riferisce ampiamente Nagarjuna (II sec. d.C.) che raccoglie i motivi tipicamente speculativi del buddhismo, non ancora contaminati dalla logica dell’Occidente. Al canone Pali e a Nagarjuna1 si rifà la ricostruzione jaspersiana.
Il pensiero indiano considera il mondo come apparenza, come velo di Maya. La conoscenza che si esprime nella chiarificazione oggettiva delle cose e in quella razionale dei concetti non fa che rafforzare il velo che, coprendo l’essere autentico, lo custodisce da ogni possibile cattura. L’essere è irraggiungibile. La parola che lo nomina, nel tentativo di svelarlo, lo nasconde; sforzandosi di superare il silenzio lo annulla; il silenzio profanato dalla parola perde il suo senso. La filosofia buddhista si esprime per negare se stessa e instancabilmente si ripete in questo processo di autonegazione:
Il Buddha dice: la mia dottrina sta nel pensare il pensiero del non pensiero, nel parlare il linguaggio del non parlare, nell’esercitare la disciplina dell’indisciplina.2
Ma di fatto la dottrina ha luogo come dottrina insegnata oralmente, esercitata e professata. L’apparente nichilismo che la sottende e il naufragio in cui si compie le consegnano un senso che l’accomuna alla dottrina occidentale del lógos e a quella cinese del Tao.Si tratta del senso dell’essere che sfugge a ogni comprensione perché tutto comprende (Umgreifende). In questa intuizione si raccoglie il pensiero del periodo assiale dell’umanità.
L’essere è Brahman-Nirvana. Le due parole stanno in stretta connessione come da noi essere e nulla. Prima della tarda identificazione vedica col dio creatore (Brahman al maschile), Brahman, di genere neutro, è l’essere che trascende tutte le determinazioni o dharma che Jaspers così definisce:
Dharma è ciò che è, è cosa, proprietà, stato, contenuto, coscienza di contenuto, è oggetto, soggetto, ordine, formazione, legge e dottrina.3
Ogni dharma riposa nel Brahman, che dunque fa essere i dharma senza tuttavia identificarvisi. In quanto altro dal dharma, in quanto non-dharma il Brahman è Nirvana.
La parola Nirvana è formata dal prefisso “nis” che significa “da”, “via”, “fuori”, dalla radice “va” che significa “soffio” e dal suffisso del participio passivo “na”. Nirvana significa allora letteralmente: “Ciò che è via, che è fuori dai dharma, ciò che spegne ogni dharma col soffio”. Il Brahman-Nirvana è dunque la trascendenza immanente che possiede (Brahman) e a un tempo trascende (Nirvana) ogni dharma che estingue con un soffio.
L’essere, che come Brahman è in “tutto ciò che è”, in ogni dharma, come Nirvana non è alcuna delle cose che sono. La differenza ontologica tra essere ed ente, annunciatasi nel pensiero aurorale della terra della sera, è riprodotta dal pensiero buddhista nel rapporto a un tempo possessivo e distanziante che il Brahman-Nirvana realizza nei confronti di ogni dharma.
Come Brahman-Nirvana l’essere è il nulla di ente. A significarlo sono le parole sunjata (che significa “vuotezza”) e animmita (che significa “indeterminazione”). Per accedervi è necessario che la coscienza si stacchi dai dharma e dissolva i pensieri finiti a essi connessi. Ciò è possibile con l’esercizio ascetico della noluntas che non vuole alcun ente, perché la sua tensione è rivolta all’essere che tutto comprende ma insieme trascende.
L’etica buddhista, dettata dalla metafisica del Brahman-Nirvana, si presenta allora in netta antitesi con l’etica dell’Occidente, animata dalla volontà di potenza che mira al dominio degli enti da piegare al proprio volere. La cura o il rifiuto del mondo distingueranno così l’Occidente dall’Oriente, che il periodo assiale abbraccia, ancora indistinti, nell’abbandono del mondo per il fascino esercitato dall’essere che lo trascende.
L’apparenza che custodisce il mondo parmenideo e il velo di Maya che avvolge quello buddhista rivelano una profonda analogia, che solo un’originaria comprensione dell’essere come nullità ontica è in grado di spiegare. Questa comprensione non trova, per esprimersi, parole adeguate. Anassimandro ricorre alla negazione di ogni determinazione (ápeiron), Parmenide alla tautologica ripetizione dello stesso (l’essere è), Eraclito alla coincidenza degli opposti che annulla il differente nell’identico. Il linguaggio paradossale di quest’ultimo richiama quello di Buddha che, incomprensibile alla logica dell’identità e della contraddizione ontica, pensa il pensiero del non pensiero e parla il linguaggio del non parlare, perché la disciplina che regola il suo itinerario verso l’irraggiungibile non soggiace alle norme che presiedono il cammino diretto alle cose che si lasciano raggiungere e conquistare. La disciplina del suo itinerario, per questo cammino, è indisciplina. L’insufficienza del linguaggio, a parere di Jaspers, è dovuta al fatto che:
Quando io parlo intendo cogliere mediante segni (nimitta) un contenuto designato. Allo scopo è necessario raggiungere le differenze di designazione. Ma designazione e distinzione ci mantengono nell’errore, che consiste nell’aderire al diverso nella dimenticanza dell’identico. [...] I fanciulli e le persone comuni aderiscono ai dharma. Sebbene tutti i dharma non siano l’essere autentico, essi se ne fanno un’immagine. Dopo averli rappresentati si attaccano a una forma, a un nome. Il saggio (bodhisattva), invece, illuminato (bodhi) dall’essere (sattva), non apprende alcun dharma: “Egli ritrova i dharma in modo diverso da come sono stati trovati”.4
La differenza qui accennata tra la persona comune e il saggio è la stessa che il pensiero greco aveva colto tra i molti (oi polloí) che si attengono all’apparenza (dóxa) e i pochi che si prendono cura della verità (alétheia). A disposizione degli uni e degli altri è il mondo dispiegato degli enti (dharma) che appaiono. Ma mentre i primi colgono gli enti nell’isolamento del loro apparire (dóxa), senza scorgere il carattere apparente dell’apparenza, il velo che Maya stende su tutte le cose, i secondi li colgono in modo diverso: illuminati dall’essere (bodhisattva), essi scorgono i dharma come manifestazione del Brahman-Nirvana che li fa essere e li estingue con un soffio. Per questo non si attaccano agli enti, non ne fanno immagini e rappresentazioni, non li nominano con il linguaggio che, nel designare, distingue e divide. Alla parola preferiscono il silenzio, più consono a ciò che sfugge a ogni forma di possesso, persino a quello che sulla cosa può esercitare un nome.
In questa rinuncia al possesso, in questa non adesione, in questo sguardo proiettato sull’essere e non sull’ente, si esprime la distanza tra il mondo asiatico e l’Occidente che un’unica volontà di potenza renderà violentemente proteso al possesso del mondo. Il periodo assiale non conosce ancora questa differenza, perché là dove si esprime, in Grecia come in India, non manifesta un’attività costruttiva spiegata nel mondo, né una formazione mondana quale che sia. Non esprime una vita resa storicamente ricca e piena perché impegnata nel mondo dei fenomeni, né la volontà di conoscere che si spinge innanzi senza limiti, né la responsabilità che l’uomo assume immergendosi nella realtà storica.
La coscienza dell’eterno è così soverchiante da non consentire alla storia uno spazio significativo come sarà in seguito in Occidente. La storia dell’accadere ontico è regolata dall’ápeiron, dalla moîra, dal lógos, dal Brahman-Nirvana. “Il tempo è un fanciullo che gioca spostando i dadi: il regno di un fanciullo”,5 scrive Eraclito, e ancora: “Un mucchio di cose gettate a caso è il più bell’ordine che costituisce il mondo”.6 Allo stesso modo il mondo è abbandonato e lasciato qual è; il Buddha lo attraversa senza pensare ad alcuna riforma che valga per tutti. Come Parmenide, egli insegna a liberarsi del mondo, non a trasformarlo: “Come un amabile loto bianco non è mai macchiato dall’acqua, così io non sarò mai macchiato dal mondo”.7
Poi in Occidente l’interesse per il mondo diverrà soverchiante, l’ente prenderà il sopravvento sull’essere, i pérata sull’ápeiron, la storia decisa dall’uomo sull’imparzialità della moîra, la logica sul lógos, al dire di Eraclito: “unico saggio”.8 Allora si concluderà il periodo assiale. L’Occidente acquisterà il suo volto specifico. La sua distanza dall’Oriente, rimasto fedele alla rivelazione del periodo assiale, si farà sempre più radicale e il suo destino sempre più coerente al nichilismo sotteso all’oblio dell’essere e mascherato dalla volontà di potenza, la cui insaziabilità oggi minaccia di coinvolgere anche l’Oriente, precludendo così all’umanità intera la possibilità forse salvifica di quello che Jaspers chiama: “l’altro pensiero” (das andere Denken)”.9 Questa è la ragione, scrive Jaspers, per cui:
Tra Asia e Occidente resta una reciproca tensione, e come nei rapporti personali, nonostante l’amicizia, la confidenza, la benevolenza, si può talora avvertire una subitanea lontananza tra gli individui, come se io e l’altro sfuggissimo in direzioni opposte e fossimo separati dall’impossibilità di esser altro, senza però volerlo riconoscere, poiché non cessa mai di operare l’esigenza di riferirci assieme al centro dell’eternità che ci fa cercare incessantemente una migliore intesa reciproca, ebbene la stessa situazione si è verificata tra l’Asia e l’Occidente.10
1 Nagarjuna, Die mittlere Lehre des Nagarjuna [La dottrina media di Nagarjuna]; traduzione tedesca secondo la versione tibetana di M. Walleser, Heidelberg 1912.
2 Sutra delle quarantadue sezioni, citato da K. Jaspers, Die grossen Philosophen (1957); tr. it. I grandi filosofi, Longanesi, Milano 1973, p. 1225.
3 Ivi, p. 1219.
4 Ivi, pp. 1219-1220.
5 Eraclito, fr. B 52.
6 Id., fr. B 124.
7 K. Jaspers, I grandi filosofi, cit., p. 244.
8 Eraclito, fr. B 32.
9 K. Jaspers, Der philosophische Glaube angesichts der Offenbarung (1962); tr. it. La
fede filosofica di fronte alla rivelazione, Longanesi, Milano 1970, p. 564.
10 Id., I grandi filosofi, cit., p. 247.